di Andrea Plebani
Gli eventi dell’11 settembre hanno segnato profondamente gli equilibri del Ventunesimo secolo, proiettando la minaccia jihadista – o meglio, la rivisitazione moderna del jihad armato – al centro dell’agenda politica internazionale. In questo contesto, al-Qaida è emersa come il centro nevralgico e la portabandiera di una galassia di realtà e movimenti uniti da una comune aspirazione: risvegliare e liberare la comunità islamica attraverso il richiamo al jihad armato, considerato l’unico strumento capace di vendicare i torti subiti e di porre le basi per una nuova età dell’oro. Un jihad con la spada che – contrariamente alla visione tradizionale – era chiamato a unire la dimensione difensiva a quella offensiva in una battaglia per la sopravvivenza dell’islam da condursi tanto all’interno (nei confronti dei regimi alla guida del mondo islamico accusati di apostasia) quanto all’esterno (gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali) del dar al-Islam. Con gli attacchi del settembre 2001 il movimento fondato da Osama bin Laden era rapidamente divenuto nell’immaginario collettivo una sorta di Spectre capace di colpire il cuore stesso dell’Occidente e di minacciare con i suoi tentacoli l’intero assetto internazionale. La storia ha poi dimostrato come tale immagine non corrispondesse alla realtà e che al-Qaida, al di là di una serie di attacchi spettacolari condotti più all’interno del mondo islamico che sul suolo occidentale, fosse ben lungi dal rappresentare le istanze dell’intera galassia jihadista. Una galassia che, contrariamente alla percezione generale, ha da sempre presentato un fortissimo grado di differenziazione interna, sia dal punto di vista dottrinale che a livello strategico e operativo. La stessa leadership qaidista ne era ben consapevole e, sin dal principio, aveva evitato di puntare all’egemonia sul complesso universo jihadista, preferendo porsi al centro di una rete relazionale capace di garantirle la posizione di primus inter pares. In questo modo al-Qaida è riuscita a massimizzare la propria influenza, giovandosi del sostegno di un numero crescente di affiliati regionali, che ne hanno portato avanti le istanze nel momento in cui il suo nucleo dirigente non poteva più assolvere pienamente ai propri compiti. È in questo contesto che nacquero al-Qaida nella Penisola Arabica (Aqap), al-Qaida nel Maghreb islamico (Aqim) e quella che per lungo tempo è stata la sezione qaidista di maggior successo: al-Qaida in Iraq (Aqi). Proprio dalle ceneri di Aqi– il cui fondatore, Abu Musab al-Zarqawi, aveva causato non pochi problemi alla dirigenza di al-Qaida – è emerso prepotentemente il sedicente Stato islamico (Is) guidato da Abu Bakr al-Baghdadi. Il nuovo ‘califfo’, dopo essere asceso al ‘trono’ nel giugno 2014 – ha assunto il nome di Ibrahim e ha cambiato la denominazione del suo stesso movimento. Una scelta, quella di abbandonare il nome di ‘Stato islamico dell’Iraq e della Siria’ (Isis) a favore del più semplice ‘Stato islamico’ (Is), che sottendeva la volontà di diventare un punto di riferimento per l’intera umma (come dichiarato apertamente al momento della sua proclamazione), ma anche di sfidare apertamente la leadership di al-Qaida per la supremazia sulla galassia jihadista. Una sfida lanciata attraverso la formazione di uno stato posto nel cuore del mondo arabo (obiettivo che lo stesso Ayman al-Zawahiri, attuale leader di al-Qaida, aveva dichiarato come un passaggio imprescindibile per la vittoria del fronte jihadista), ma anche attraverso l’appello all’intera comunità islamica (e soprattutto a coloro che in gergo vengono definiti would-be-jihadists) a compiere una nuova hijra. Anche se questa volta la nuova egira non doveva portare da Mecca a Yathrib-Medina, ma dai quattro angoli del globo alle aree controllate dal sedicente Stato islamico. Una chiamata rivolta allo stesso ‘bacino di utenza’ che per anni è stato feudo esclusivo di al-Qaida e che ora pare rispondere molto più favorevolmente al richiamo del nuovo ‘califfo’ che a quello del successore di Osama bin Laden, anche in virtù di un uso dei media, della violenza indiscriminata e del terrore che ha spinto alcuni analisti a considerare la stessa franchise qaidista come meno estrema di quella della controparte battente il nero vessillo di Is.
Tuttavia la competizione per la supremazia della galassia jihadista non si riduce a questi due attori. L’arco di instabilità che dal Maghreb si estende sino al Levante e alla Mesopotamia ha rappresentato l’humus ideale per la nascita di nuove formazioni che, pur condividendo una comune matrice jihadista, presentano caratteristiche, obiettivi e modalità operative parzialmente differenti rispetto a quelle a cui siamo stati avvezzi sino a ora. Un esempio a tal proposito è quello costituito dalle sezioni (distinte) libica e tunisina di Ansar al-Sharia, che presentano un’impostazione che unisce richiami al jihad (armato e non), appelli alla giustizia sociale e azioni a favore degli strati più deboli della comunità a un afflato rivoluzionario volto ad alterare hic et nunc la situazione dei suoi paesi di riferimento.
Alla luce di tale complessità diventa ancora più necessario avviare uno sforzo interpretativo in grado di distinguere le diverse anime dell’universo jihadista, onde evitare di ricorrere a banalizzazioni che non possono che contribuire a estremizzare ancor più il fenomeno. D’altronde, se è vero che tutti i gatti sembrano grigi al buio, è anche vero che accendere la luce è possibile e sempre più necessario. Per comprendere il nemico che si ha di fronte, ma anche per valutare chi può essere parte della soluzione e non solo parte del problema.