La funzione testimoniale dell’immagine
Ground Zero
Nell’archivio delle immagini cui sarà consegnata la memoria del 21° sec., una posizione di assoluto rilievo spetta sicuramente alla sequenza dell’attentato terroristico alle Twin Towers del World Trade Center avvenuto l’11 settembre 2001 e trasmesso in diretta a uno sterminato pubblico di telespettatori che lo recepì come uno spettacolo devastante ed enigmatico. Le risposte emotive suscitate da quelle immagini furono certamente le più disparate: dall’incredulità all’angoscia, dall’orrore all’esultanza. E tuttavia è impossibile, anche se ci sgomenta e ci ripugna, rifiutare la loro inerenza a un’intrinseca ‘qualità estetica’ (molti, come si racconta, le interpretarono sulle prime come immagini di un film catastrofista), cosicché quelle risposte, pur restando incomparabili, devono considerarsi nondimeno dipendenti da un fattore unificante: la potente estetizzazione di quello che veniva mostrato e l’impossibilità di sottrarsene distogliendo lo sguardo o ricorrendo all’ingenuo accertamento della propria distanza dal luogo del disastro.
Fu subito chiaro, infatti, che quel ‘luogo’ coincideva con la sua latitudine mediale e spettacolare e che il compito di elaborare – o di rimuovere – ciò che veniva visto non avrebbe smesso di incombere su chiunque se ne fosse sentito, in un modo o nell’altro, spettatore coinvolto. Non solo perché il coinvolgimento spettatoriale aveva assunto dimensioni straordinarie (altri casi di diretta televisiva, dopo tutto, avevano già interessato un pubblico planetario), ma anche e soprattutto perché la sua intensità qualitativa restava indecidibile. Oggettivamente intrise di esteticità, quelle immagini si sottraevano a ogni possibile risoluzione nell’apprezzamento estetico solo perché bisognava determinarsi a considerarle reali. Ma fino a che punto, d’altra parte, le si sarebbe potute dissociare dall’esecuzione di un’aberrante e criminale ‘messa in scena’?
Devastante ed enigmatica: tale fu la natura spettacolare di quel trauma visivo profondamente estetizzato. Esso risultava sconvolgente nella stessa misura in cui opponeva resistenza al conferimento di un senso tollerabile (ecco una definizione dell’orrore: dovremo tornarci ripetutamente). O meglio: quello spettacolo traumatico tratteneva lo spettatore nell’impossibilità di decidere se esso potesse avere un senso da elaborare o se non si dovesse piuttosto neutralizzarne l’impatto (che tuttavia era già avvenuto, aveva già inciso una traccia) ricorrendo a strategie collaudate, dalla rimozione pura e semplice all’ansia di un illusorio controllo retroattivo (attestato dall’ossessiva reiterazione cui quelle immagini furono sottoposte), fino all’imputazione dell’atto terroristico a un nemico esterno e alla decisione di muovergli guerra, in conformità con l’azione di coloro che, rispondendo all’attentato con manifestazioni pubbliche di esultanza, autenticavano in modo inconsapevole e parimenti irresponsabile l’interpretazione militare dell’evento e la sua conversione in figure giuridiche eccezionali quali la ‘guerra preventiva’ e il Patriot act.
Non è questa la sede per interrogarsi di nuovo sulle motivazioni dell’attentato terroristico, sulla congruenza della risposta militare di chi ne fu vittima e sulle conseguenze globali (tuttora vistosamente attive) che ne derivarono. Qui bisognerà piuttosto riflettere sulla forma spettacolare attraverso cui fu recepito, sul suo innegabile pathos estetico e sulle numerose domande che quest’ultimo pone alla nostra percezione delle immagini mediali quando queste provvedono a mescolare gli aspetti sensazionali della comunicazione con i suoi valori documentali.
Si tratta, infatti, di domande che bisogna considerare ancora in larga parte inevase nonostante i numerosi e spesso penetranti studi che sono stati dedicati al problema, tra i molti: Baudrillard (2002), Carbone (2007), Dinoi (2008), Sontag (2003), Žižek (2002). È certo, in ogni caso, che la forma spettacolare e il pathos estetico dell’attentato alle Twin Towers, proprio in quanto intenzionalmente e accuratamente progettati per raggiungere un punto limite, sono anche tali da costituirsi come uno spartiacque, un Ground Zero a partire dal quale si impone un ripensamento critico del nesso che si istituisce tra la qualità estetica e i valori testimoniali dell’immagine.
Reality show: documentazione dei fatti e messa in scena
Le domande poste dall’attentato dell’11 settembre 2001 al World Trade Center di New York sono numerose, a cominciare da quella, ineludibile, che riporta perentoriamente in primo piano la questione del rapporto tra ‘testimonianza dei fatti’ e ‘messa in scena’. Nata con la comparsa dei sistemi di riproduzione meccanica delle immagini (fotografia e cinema), questa domanda si presenta, infatti, in modo nuovo dopo l’introduzione delle tecnologie elettroniche e digitali cui è accessibile il più ampio e profondo rimaneggiamento del ‘dato oggettivo’ (basti solo pensare all’uso, oggi assai diffuso, di programmi come Photoshop che consentono a chiunque di intervenire sugli archivi computerizzati nei quali sempre più massicciamente delocalizziamo le nostre memorie personali).
Questo tema non può essere adeguatamente affrontato senza aver prima sgombrato il campo dall’opinione che mette in contrapposizione il valore testimoniale delle immagini prodotte tecnicamente (l’istantanea fotografica, il film documentario) e la loro manipolazione estetica (la fotografia d’arte, il film di finzione). L’opposizione non regge per molti buoni motivi che, del resto, furono fin dall’inizio chiari ai teorici del cinema e dei media audiovisivi. È evidente, infatti, che nessuna registrazione fotografica di eventi reali è completamente esente da operazioni di selezione e ritaglio delle porzioni di realtà considerate significative, e che il tasso di arbitrio si innalza vistosamente quando dalla ripresa fissa si passa alla pratica del montaggio. Per contro, la fotografia d’arte e il cinema di finzione conservano una dipendenza insuperabile dalla realtà esterna, che spesso fa irruzione nello spazio della messa in scena (cfr. a tale proposito Carboni 2007) lasciandovi tracce della sua imprevedibile contingenza.
Si tratta di questioni ben note, sulle quali non è il caso di soffermarsi analiticamente. Se ne può trarre tuttavia una prima tesi. L’aspetto documentario e l’aspetto finzionale delle immagini prodotte tecnicamente stabiliscono, in via di principio, peculiari forme di intreccio di cui si tratta di stabilire, caso per caso, le proporzioni e le finalità più o meno esplicite. È certo, anzi, che una delle risorse creative più ragguardevoli del cinema moderno è da vedere proprio nella possibilità di rinegoziare (cfr. Casetti 2005) le modalità del rapporto tra aspetto documentale e aspetto finzionale dell’immagine, inventando nuove figure del loro intreccio, che resta in ogni caso costitutivo (torneremo su questo punto, proponendo alcuni esempi, nel paragrafo Due testimonianze intermediali sulla ‘guerra preventiva’).
Questa tesi può essere proiettata in modo chiarificante sulle forme discorsive fondamentali di cui ci serviamo per organizzare e comunicare l’esperienza ricorrendo a ordinamenti di tipo narrativo. Nel terzo volume (Le temps raconté, 1985) di un’opera filosofica di grande rilievo, Temps et récit (1983-1985; trad. it. Tempo e racconto, 3° vol., Il tempo raccontato, 1988), Paul Ricœur ha mostrato che tra il racconto storico, il cui compito è la ricostruzione veritiera dei fatti, e la finzione narrativa, le cui costruzioni sono invece sollevate da un tale impegno veritativo, si stabilisce un incrocio necessario. Se, infatti, lo storiografo non può fare a meno di utilizzare forme di configurazione testuale che provengono dal racconto di finzione, anche il narratore fallirebbe nel suo intento se la sua opera non arrivasse a produrre una ridescrizione del «mondo dell’agire e del patire».
Ricœur, tuttavia, si spinge oltre nell’elaborazione di questo tema, toccando un punto su cui dovremo soffermarci più avanti, ma che fin d’ora deve essere enunciato. «A differenza del romanzo – egli scrive – le costruzioni dello storico mirano a essere ricostruzioni del passato. Attraverso il documento e la prova documentaria, lo storico è sottoposto a ciò che un giorno fu. Ha un debito nei confronti del passato, un debito di riconoscenza nei confronti dei morti, che fa di lui un debitore insolvente. Si pone il problema di esprimere concettualmente ciò che, sotto il nome di debito, non è ancora altro che un sentimento» (Le temps raconté, 1985; trad. it. 1988, p. 214).
Ora, un modo di «esprimere concettualmente» questo debito di testimonianza consiste proprio nell’accordare il giusto peso all’autonoma componente costruttiva presente nella ri-costruzione storiografica: senza un intervento delle forme della poiesis narrativa, infatti, la verità storica non riuscirebbe a conformarsi alle esigenze di una memoria autenticamente condivisa (una memoria che appare bisognosa di racconti), e il debito stesso non soltanto non verrebbe onorato ma risulterebbe prescritto.
Ricœur nota efficacemente che il debito di testimonianza nei confronti delle vittime «fa del maestro in intrighi [di chi, cioè, padroneggia l’arte del narrare] un servitore della memoria degli uomini del passato» (trad. it. 1988, p. 239). Ma il rapporto tra i due termini può essere rovesciato e l’incrocio tra storia e finzione può e, anzi, deve essere percorso nei due sensi. Il romanzo moderno, del resto, lo ha fatto con risultati di rilievo (e si può qui ricordare il recente Gomorra, 2006, di Roberto Saviano), ma forse è stato proprio il cinema a perlustrare l’incrocio in modo più efficace e approfondito non solo in forza dell’inalienabile dipendenza dalla realtà esterna iscritta nel suo dispositivo di base (insidiata, tuttavia, dalle nuove tecniche dell’immagine), ma anche in forza della sua peculiare capacità di assumere l’intersezione tra finzione e testimonianza come l’oggetto stesso del racconto (cfr. Montani 2007 e i due paragrafi finali di questo saggio).
Questa discussione ci permette di tornare alle immagini dell’attentato alle Twin Towers con un importante chiarimento. Il fatto che in quelle immagini la realtà del documento e la spettacolarità della messa in scena risultassero intrecciate insieme non è, di per sé, una ragione sufficiente per spiegarne il carattere devastante ed enigmatico. Che andrà piuttosto colto nell’indistinzione confusiva dei due piani. Quella stessa totale indistinzione che caratterizza intenzionalmente il reality show e che proietta i suoi potenti effetti di derealizzazione su molte forme della comunicazione audiovisiva, a cominciare proprio da quelle che collocano lo spettatore «davanti al dolore degli altri» (cfr. a tale proposito Sontag 2003 e Bal 2008).
Lo spettacolo del dolore, la posizione dello spettatore e la responsabilità dell’arte
Bisogna soffermarsi più analiticamente, a questo punto della trattazione, sulla condizione dello spettatore al fine di comprenderne meglio sia le modalità sia gli aspetti problematici. Si tratta in particolare di gettare luce, districandone i nodi confusivi, sulla componente estetica indissociabile dall’evento spettacolare che stiamo interrogando.
In un testo di ampio respiro teorico, il sociologo Luc Boltanski (1993) ha affrontato la questione specifica dello spettacolo della sofferenza sottoponendo a un’indagine penetrante le modalità con le quali chi vi assiste ne viene toccato e le risposte pubbliche che questo coinvolgimento emotivo deve poter assumere se vuol essere elaborato e condiviso. Secondo l’indagine di Boltanski queste risposte si conformano a tre schemi essenziali, che l’autore definisce topiche – la topica della denuncia, quella del sentimento e quella estetica –, ciascuna delle quali è riferita a un orizzonte politico, vale a dire alla conversione della posizione spettatoriale in una disposizione all’attività, prima tra tutte quella del discorso pubblico.
Dell’ampia argomentazione di Boltanski bisognerà evidenziare in particolare il movimento che la conduce a considerare la topica estetica come sostanzialmente immune dai rischi connessi con le altre due e, quindi, come la sola che si lasci davvero integrare in un’autentica «politica della pietà». Il punto da sottolineare, qui, è che il coinvolgimento emotivo può svilupparsi in discorso condividibile solo grazie a un rilevante intervento riflessivo: soltanto a condizione, cioè, di coordinare esplicitamente «ciò che è stato visto e il modo in cui lo spettatore ne è stato personalmente toccato» (Boltanski 1993; trad. it. 2000, p. XVI).
Boltanski indaga accuratamente lo spazio di questo distanziamento riflessivo «in cui un’emozione può svilupparsi in discorso» (p. 180), riscontrandovi numerose modulazioni volte a graduarne il carattere autenticamente pubblico. Una politica della pietà, per es., si distingue da una politica della compassione in quanto quest’ultima appare subordinata, più o meno consapevolmente, a interessi di carattere particolaristico. Nella compassione, cioè, la distanza spettatoriale si assottiglia fin quasi a scomparire, a svantaggio della componente riflessiva su cui si è richiamata l’attenzione, e che Boltanski, molto opportunamente, riferisce alla presenza di un ‘terzo’ o, per meglio dire, a un’istanza di ‘terzeità’ necessariamente iscritta nel movimento che tiene insieme «ciò che è stato visto e il modo in cui lo spettatore ne è stato personalmente toccato». Sia la topica della denuncia sia quella del sentimento, tuttavia, non vanno esenti da critiche: «La pietà può manifestarsi sotto forma di indignazione. L’emozione si distacca, allora, dall’infelice per puntare nella direzione di un persecutore che viene accusato. Può anche liberarsi nella commozione che ignora il persecutore e si allontana altrettanto dall’infelice ma per far valere la presenza di un benefattore. Queste due strade possono venir chiuse dalla critica: l’indignazione non è altro che una persecuzione nascosta; la commozione nient’altro che un godimento egoistico di cui non si era a conoscenza» (p. 180).
È sullo sfondo di queste critiche che si fa valere la terza strada, quella estetica, che Boltanski riconduce al classico tema del sublime: «Una terza possibilità si costruisce sulla critica delle prime due. Essa consiste nel non considerare la sofferenza dell’infelice né come ingiusta (per indignarsene), né come commovente (per intenerirsi), bensì come sublime. […] Trattenendo l’emozione che monta in lui per liberarsi come indignazione o come intenerimento, rifiutando le maschere della denuncia e del sentimento, questo terzo spettatore affronta la verità e la guarda in faccia. Cosa vede? L’orrore» (pp. 180-81).
Sulla questione del sublime dovremo tornare più approfonditamente tra poco. Per il momento ci interessa sottolineare, con Boltanski, il fatto che nella topica estetica lo sdoppiamento riflessivo dello spettatore si fa compiutamente tematico raccogliendosi nella figura di un «mostratore dotato della capacità di far vedere la sofferenza per ciò che essa ha di sublime» (p. 182). Questa figura, davvero essenziale, non fa che esplicitare la responsabilità etica dell’arte legandola alla testimonianza dell’orrore. Nelle parole di Boltanski: «La presentazione dell’infelice, che è orribile, è la sola cosa che renda possibile la comunicazione di questo impresentabile dal quale lo spettatore è sopraffatto e che non è altro che l’orrore che giace in lui e definisce la sua condizione» (p. 182).
Se si ammette che queste ultime parole definiscono in modo appropriato ciò che le immagini dell’attentato alle Twin Towers trattengono nella condizione dell’inelaborato evidenziando la necessità che un terzo mostri l’orrore che la loro flagranza non basta a testimoniare, bisognerà concluderne che la testimonianza dell’orrore può – e forse deve – passare attraverso una mediazione estetica adeguatamente ‘messa in opera’. Ciò, del resto, fu presto avvertito dai molti artisti (cineasti e narratori in particolare) che si sono cimentati nel compito di elaborare il trauma visivo dell’11 settembre. Tuttavia, prima di esaminarne qualche esempio significativo, si tratta ora di domandarsi a quali condizioni le arti potrebbero mantenersi all’altezza di questo compito, e a quale interpretazione dell’estetica esse dovrebbero far riferimento in modo da onorare il debito di testimonianza.
La presentazione dell’irrappresentabile
Come bisogna intendere l’affermazione di Boltanski secondo cui l’artista-testimone avrebbe il compito, e la capacità, di mostrare l’irrappresentabilità dell’orrore rendendo, con questo, autentica testimonianza del suo carattere estremo? Non si tratta forse di una tesi aporetica? In un certo senso è così. Ma è anche vero che su questa aporia – o, più precisamente, su questo paradosso – l’estetica moderna ha a lungo lavorato, giungendo a conclusioni che si possono sintetizzare nel concetto, originariamente kantiano, di esemplarità dell’arte. Si tratterà ora di chiarire questo concetto, di differenziarlo in almeno due modelli essenziali per controllarne poi la tenuta alla luce delle trasformazioni che l’esperienza estetica ha registrato dopo la comparsa delle immagini producibili tecnicamente.
In che senso l’opera d’arte sarebbe ‘esemplare’? Di che cosa ci fornirebbe un esempio eminente? La risposta dell’estetica moderna, lungo la linea inaugurata da Immanuel Kant, è almeno duplice.
Da un lato, infatti, l’opera d’arte mostra esemplarmente il lavoro di ridescrizione del mondo operato dall’immaginazione produttiva. La sua capacità, cioè, di estendere la nostra esperienza sensibile in modo che essa fornisca alla ragione l’«occasione di pensare molto» e all’intelletto materia per nuovi concetti. Sotto questo profilo, il piacere che ricaviamo dalle opere d’arte coincide con il sentimento di una percezione delle cose che si riorganizza e si dà nuove regole. L’autonomia dell’arte, questa opzione teorica così gelosamente difesa dall’estetica moderna, deve essere pertanto intesa in primo luogo nell’accezione letterale del termine: l’opera è ‘autonoma’ perché ci mette sotto gli occhi il lavoro grazie a cui l’immaginazione sperimenta o addirittura arrischia nuove regole per ridescrivere le cose. Fare autenticamente esperienza di un’opera d’arte, dunque, comporta l’apertura di nuove prospettive sul mondo reale. Ciò significa, e il punto è d’importanza capitale, che l’autonomia dell’arte, lungi dal risolversi nella delimitazione di un’area chiusa e autoriferita (torneremo su questo tema nei paragrafi Autonomia o autoreferenzialità? e Caduta e rigenerazione dell’esemplarità dell’arte), è piuttosto una delle condizioni del rinnovamento dell’esperienza.
D’altro lato, però, l’opera esibisce esemplarmente anche il limite dell’immaginazione, la sua insuperabile finitezza. Più precisamente, essa mostra l’attitudine delle immagini a poter solo alludere in modo indiretto e negativo a ciò che per il suo carattere eccezionale travalica ogni possibile rappresentazione adeguata. È, quest’ultimo, il tema del sublime che abbiamo incontrato nella specifica modulazione che ne presenta Boltanski quando riferisce l’eccezionalità dell’irrappresentabile all’esperienza dell’orrore e ai modi della sua possibile comunicabilità.
Questo secondo concetto di esemplarità, alquanto complesso e non privo di tensioni interne, richiede un’analisi più attenta. In particolare, si tratta di comprendere meglio il suo carattere negativo (l’inadeguatezza dell’immaginazione) e la sua facoltà di rovesciarsi in un potere di esibizione indiretta.
Kant lo ha chiarito nella Kritik der Urteilskraft (1790) con questa efficace formulazione: «Il sublime vero e proprio non può essere contenuto in alcuna forma sensibile, ma riguarda solo le idee della ragione, le quali, sebbene non sia possibile alcuna esibizione adeguata ad esse, sono risvegliate ed evocate nell’animo proprio da questa inadeguatezza, che può essere esibita sensibilmente» (trad. it. Critica della facoltà di giudizio, 1999, p. 81, corsivo mio).
Da questo passo di Kant possiamo ricavare due conclusioni piuttosto diverse. La prima è che la nostra esperienza del senso eccede l’ordine di ciò che può avere un’adeguata rappresentazione sensibile. Come, per es., l’idea dell’infinitamente grande, di fronte alla quale l’immaginazione, che è finita, non può che collassare. Ma questo scacco dell’immaginazione, questa sua incapacità di unificare sensibilmente ciò che, pure, pensiamo come un tutto è occasione, secondo Kant, di un sentimento di autostima che ci mantiene in contatto con quanto di spirituale e trascendente innerva la nostra natura di enti finiti.
La seconda conclusione è che ciò che l’immaginazione può mostrare, ciò che essa può ‘mettere in presenza’ è precisamente il suo collasso e il suo limite. Con il che la sua inadeguatezza si converte, come si è già detto, in un peculiare potere di esibizione negativa che lascia apparire, sullo sfondo del rappresentato, anche qualcosa che denuncia la sua insuperabile disparatezza nei confronti del rappresentabile. Bisognerà aggiungere (andando ben oltre la lettera del testo kantiano) che il sentimento estetico, qui, perde ogni colorazione euforica e si conforma, piuttosto, a una tonalità etica che lo assimila a quella schietta assunzione del dolore che, dopo Sigmund Freud, conosciamo come «elaborazione del lutto».
L’esemplarità dell’opera d’arte riguarda dunque sia la riorganizzazione e la ridescrizione del mondo sensibile, sia la presentazione dell’irrappresentabile. Nel primo caso si tratta di un’esemplarità che rientra nel classico paradigma della rappresentazione, cui attribuisce tuttavia il tratto decisivo della costruttività (impensabile nell’interpretazione mimetica antica). Nel secondo, si dovrà dire piuttosto che il paradigma di riferimento è quello della paradossale ‘messa in presenza’ di qualcosa che resta dell’ordine dell’irrappresentabile (torneremo su questo punto nel paragrafo Caduta e rigenerazione dell’esemplarità dell’arte). L’arte moderna e contemporanea ha giocato con entrambi i paradigmi, manifestando tuttavia una peculiare inclinazione per il secondo (e basterà qui pensare alla pittura non figurativa). Si tratta ora di interrogare ulteriormente l’ambito problematico di un’estetica dell’irrappresentabile, per vedere se e a quali condizioni il rifiuto – iconoclasta, si potrebbe dire– del primo paradigma possa anche aspirare a farsi esempio di quel debito di testimonianza che il discorso fin qui svolto ha posto in evidenza. In altri termini: è sufficiente fare appello alla familiarità dell’immaginazione con il dominio del negativo e dell’indiretto per trovare una risposta soddisfacente all’esigenza etica fatta valere dalle vittime dell’orrore e da una politica dell’immagine testimoniale; o non si dovrà piuttosto riconoscere che in quest’ultimo caso è necessario rimettere in gioco, sia pure criticamente, un qualche criterio di adeguatezza rappresentativa o, per dirla in modo più schietto, di veridicità referenziale?
La questione, come si vede, riattualizza – e non è un caso – la secolare contesa tra legittimità e proibizione delle immagini. Ed è molto significativo, per fare un solo esempio, che essa si sia riproposta, di recente, nell’aspra polemica sorta tra Georges Didi-Huberman (2003), un filosofo delle immagini che ha difeso la testimoniabilità dell’orrore dei campi di sterminio sottoponendo a un appassionato e illuminante commento un piccolo corpus di fotografie «strappate all’inferno di Auschwitz» (4 per la precisione, due delle quali pressoché illeggibili), e Claude Lanzmann, il cineasta che con più radicalità e intransigenza ha deciso, e argomentato, l’obbligo etico di escludere dal suo film Shoah (1985) l’utilizzo di qualsiasi documento visivo dello sterminio, limitandosi a registrare esclusivamente i discorsi dei sopravvissuti (non senza provvedere, tuttavia, ove necessario, a ‘metterli in scena’: ma su questo punto, che è già stato toccato, torneremo subito e, più ampiamente, in sede conclusiva).
Estetica e anestetica: da Ground Zero ad Abū Ghraib
Si è già denunciata (v. supra Reality show: documentazione dei fatti e messa in scena) l’indifendibilità teorica della contrapposizione tra il valore testimoniale delle immagini prodotte tecnicamente (l’istantanea fotografica, il film documentario) e la loro manipolazione estetica (la fotografia d’arte, il film di finzione). L’alternativa che è stata proposta consiste nell’indirizzare l’attenzione critica sull’incrocio tra gli aspetti riproduttivi e gli aspetti autonomamente costruttivi che, in via di principio, caratterizza la natura dei testi audiovisivi (e di molti altri discorsi). Dobbiamo a questo punto riprendere in considerazione questa tesi, da considerare come acquisita, per riesaminarla alla luce di quanto è emerso nella discussione sull’esemplarità dell’arte.
Andrà anzitutto osservato che ciò che è stato provvisoriamente definito come «manipolazione estetica» delle immagini prodotte tecnicamente non corrisponde affatto a una classe omogenea di operazioni. Si dovrà anzi aggiungere che i processi di estetizzazione dell’esperienza delle immagini mediali operano in modo intensivo e deliberato in una direzione che confligge a tal punto con entrambi i paradigmi dell’esemplarità appena esposti da incoraggiare la tesi secondo cui il loro orientamento prevalente è quello di un generale e pervasivo disciplinamento an-estetico dello sguardo e, più in generale, della sensibilità. Ciò significa che l’estetizzazione della politica, di cui parlava il filosofo Walter Benjamin nel 1936 a proposito dell’arte di regime e dei rituali di massa del totalitarismo, designa oggi un fenomeno incomparabilmente più diffuso e capillare che si è per di più rovesciato nel suo opposto presentandosi come un generale indebolimento della capacità di far lavorare l’immaginazione. Le immagini mediali, in altri termini, non solo non ci danno niente da pensare ma arrivano ad anestetizzare parti crescenti della nostra sensibilità. Proprio per questo motivo, del resto, lo spettacolo del dolore e dell’orrore può esserci continuamente somministrato dai mass media senza produrre risposte anche solo minimamente proporzionate.
Ci si deve ora chiedere, da un lato, se a questo processo di anestetizzazione non cooperi anche una specifica componente ‘artistica’ e, dall’altro, in che senso dovrebbe trasformarsi oggi l’esemplarità dell’arte per poterlo efficacemente contrastare.
La prima delle due questioni – indubbiamente la più imbarazzante – può essere adeguatamente illuminata da un esempio che ci mantiene in contatto con l’evento dell’11 settembre 2001. In un saggio recente lo storico dell’arte Stephen F. Eisenman (2007) ha persuasivamente sostenuto la seguente tesi: se le raccapriccianti fotografie che mostrano le violenze perpetrate tra il 2003 e il 2004 da alcuni militari statunitensi nel carcere di Abū Ghraib non hanno prodotto gli effetti di indignazione e di attiva protesta civile che sarebbe stato lecito attendersi dalla loro diffusione ciò è accaduto non solo o non tanto per motivazioni di carattere politico, quanto per ragioni intimamente formali. A motivare questo inquietante fenomeno anestetico – Eisenman lo definisce «Abu Ghraib effect» –, capace di indebolire la testimonialità, sebbene rigorosamente documentata, di quelle immagini di tortura e abbrutimento e di provocare «a kind of moral blindness» (p. 9), sarebbe, infatti, la circostanza che la loro configurazione compositiva si conforma a una lunga e prestigiosa tradizione figurativa. Più precisamente, in quelle immagini fotografiche si manifesterebbe, in modo evidente benché sostanzialmente inintenzionale, la riproposizione di una «formula del pathos» (il concetto di Pathosformel, cui l’autore fa riferimento, si deve agli innovativi studi condotti da Aby Warburg all’inizio del secolo scorso sulla sopravvivenza – Nachleben – delle immagini) che, già attestata in età ellenistica e poi risorgente in diversi momenti della storia dell’arte occidentale, raccoglie in alcune configurazioni caratteristiche la connessione perversa tra la punizione dei vinti, l’assoggettamento sessuale e la postura estatica delle vittime nella quale si esprimerebbe una sanzione di legittimità nei confronti del potere politico rappresentato da chi infligge la tortura. È proprio in forza di questo inconsapevole Nachleben, in altri termini, che la mediazione estetica effettuata da quelle immagini non solo non ha lavorato a favore della testimonianza, ma è stata tale da mettere la sordina alle «topiche del sentimento», deprimendo significativamente il tenore dell’indignazione civile e la stessa gravità delle sanzioni comminate ai responsabili (Eisenman riporta, su questo punto, una documentazione ineccepibile).
L’analisi di Eisenman ci fornisce almeno tre importanti indicazioni. La prima è che le immagini prodotte tecnicamente devono portarci a distinguere tra documento e testimonianza. Ciò significa che la pregnanza delle singole immagini, sprovvista di un’adeguata contestualizzazione, non è sufficiente a liberarne il valore testimoniale. Una tesi, quest’ultima, cui perviene per altre vie anche Susan Sontag (2003) nella sua bella analisi delle immagini fotografiche del dolore. La seconda è che a inibire la forza testimoniale del documento può essere proprio la componente estetica, o più propriamente artistica, che è intrinseca, o può esserlo (è il caso delle foto di Abū Ghraib ma anche delle sequenze dell’attentato dell’11 settembre), alla pregnanza espressiva delle immagini. La terza è che da quella pregnanza, in ultima analisi anestetica, bisogna dunque uscire: mettendola in questione e riorganizzandola opportunamente. Ciò significa che la strada maestra per la restituzione di autentici valori testimoniali alle immagini prodotte tecnicamente deve passare attraverso il duplice lavoro della decostruzione critica e della riqualificazione semantica.
Eisenman affronta quest’ultimo aspetto mostrando come, almeno dal 18° sec., la formula del pathos, il cui Nachleben avrebbe prodotto, in modo inconsapevole ma cogente, l’«effetto Abū Ghraib», fu efficacemente combattuta da artisti come William Hogarth e Francisco Goya, Ben Shahn e Pablo Picasso. Ma è più decisivo, ai nostri fini, osservare come questa istanza critica si sia fatta valere, in modo ampio e significativo, nella produzione di altri testi audiovisivi che hanno assunto come oggetto non solo i fatti – l’attentato alle Twin Towers, le torture di Abū Ghraib – ma proprio la loro rappresentazione. Così, numerosi cineasti (da Michael Moore a Spike Lee fino agli 11 cineasti di 11 diversi Paesi autori del film collettivo intitolato alla data dell’evento, per citarne solo alcuni) hanno lavorato sulle immagini dell’attentato terroristico alle Torri del World Trade Center, e almeno due importanti film-documento sono stati realizzati (uno, Ghosts of Abu Ghraib, 2007, da Rory Kennedy, l’altro, Stand-ard operating procedure, 2008, da Errol Morris) sull’episodio documentato dalle fotografie di Abū Ghraib (cfr. Mitchell 2008).
Torneremo in sede di conclusione su altri due film particolarmente notevoli tra quelli che sono stati dedicati alle conseguenze militari dell’attentato dell’11 settembre. Qui è importante mettere in chiaro questa conclusione, ancora provvisoria, ma decisiva. Quando nelle battute iniziali si è parlato di un «archivio delle immagini cui sarà consegnata la memoria del 21° sec.» i concetti di ‘archivio’ e di ‘memoria’ erano usati in modo ancora del tutto indeterminato. Ora possiamo dire che quell’archivio è tutt’altro che un mero repertorio di immagini autosufficienti. E che si tratta piuttosto di uno spazio di elaborazione memoriale, fluido, instabile, soggetto a continue riorganizzazioni («mirare alla perpetuazione della memoria», scrive Sontag, «significa, inevitabilmente assumersi il compito di rinnovare continuamente, e di creare, una memoria», 2003; trad. it. 20062, p. 84), uno spazio nel quale accanto alla ricerca storiografica e in peculiare sinergia con essa può agire l’esemplarità dell’arte. Più precisamente: si può dire che proprio questa sinergia descrive, attualmente, l’ambito in cui sembra ancora possibile recuperare il concetto di esemplarità – per tanti aspetti, come vedremo nelle pagine seguenti, rimesso radicalmente in questione dalle arti contemporanee – pensandolo in un quadro testimoniale.
Autonomia o autoreferenzialità?
Che l’arte moderna, almeno dalle avanguardie storiche in poi, abbia perduto – o intenzionalmente contestato – la sua capacità di presentarsi come un’esemplare esperienza del senso (nella duplice accezione evidenziata nel paragrafo La presentazione dell’irrappresentabile) è stato osservato da un gran numero di autori, i quali ne hanno dato valutazioni diverse. L’intero sforzo di ridefinizione dell’arte su basi descrittive e scientifiche profuso da parte della filosofia analitica e delle stesse scienze cognitive, per es., si comprende soltanto sullo sfondo di questa perdita di esemplarità che, del resto, viene intuitivamente avvertita da ciascuno.
In un saggio significativamente intitolato L’art à l’état gazeux (2003), Yves Michaud ha sottoposto questo tema a un perspicuo inquadramento teorico e storiografico che ha il merito di fornire un’interpretazione unitaria e persuasiva di molti fenomeni riferibili alla stretta attualità. Lo seguiremo qui per poi trarne uno sviluppo autonomo relativamente alla questione, che Michaud non tocca, di una possibile riqualificazione testimoniale dell’esemplarità dell’arte.
Michaud restringe il campo d’indagine alle sole arti figurative (ma questa restrizione è significativamente comune anche agli altri orientamenti disciplinari sopra menzionati) evidenziando due tratti emergenti e correlati che egli considera, a ragione, come il fenomeno più vistoso degli ultimi quindici/venti anni: da un lato, la proliferazione e la dispersione dell’esperienza del bello negli oggetti d’uso, nella moda, nella pubblicità e così via, dall’altro, la scomparsa delle opere in senso estetico moderno – intese cioè come oggetti esemplarmente destinati a una fruizione raccolta – e la loro sostituzione con giochi relazionali, eventi, performances, installazioni. All’estetizzazione capillare della vita quotidiana, dunque, fa riscontro il diffuso fenomeno di una generale trasformazione procedurale dell’opera d’arte.
Ciò significa che se una qualità estetica di bassa intensità tende oggi a colorare la totalità delle esperienze comuni, l’arte è diventata a tal punto indiscernibile dalla vita che, per essere riconosciuta come tale, non può più avvalersi di tratti distintivi sensibili direttamente percepiti, dovendo ricorrere a diversi criteri di legittimazione il cui fondamento – essenzialmente pragmatico – consiste in regole procedurali stabilite dal «mondo dell’arte» e valide solo in quell’ambito (è, quest’ultimo, un punto di forza delle estetiche analitiche, cui si deve il concetto di artworld, ma anche la loro più evidente dipendenza dall’autoreferenzialità del marketing artistico globale).
Michaud fa notare che questo processo di decostruzione dell’identità oggettiva dell’opera (cioè delle sue qualità sensibili immanenti), inaugurato all’inizio del secolo scorso dai ready-mades di Marcel Duchamp, si sarebbe radicalizzato in un artista come Andy Warhol a cominciare dalle famose scatole di spugnette detersive – i Brillo boxes esposti nel 1964 – che, per quanto fossero costruite dall’autore, risultavano del tutto indiscernibili da quelle che si potevano acquistare al supermercato.
Si tratta di fatti ben noti di cui qui bisognerà in particolare sottolineare, con Michaud, questa rilevante conseguenza: mettendo definitivamente in crisi l’idea che il valore estetico sia qualcosa di apprezzabile direttamente nell’opera, il gesto di Duchamp e, in modo ancor più radicale, quello di Warhol contribuivano, certamente, a indebolire o cancellare i confini tra arte e vita quotidiana (interpretando in modo ironico un programma utopico caratteristico dell’avanguardia storica), ma giungevano anche a ridefinire il concetto di autonomia dell’arte in termini rigorosamente autoreferenziali: infatti, se gli oggetti d’arte si distinguono ancora dalle cose comuni, ciò è dovuto esclusivamente al fatto che una serie di stipulazioni pragmatiche decide della loro collocazione nel mondo dell’arte e del loro stesso valore.
La crisi della pittura in senso tradizionale e la sua sostituzione con il dispositivo procedurale dell’installazione, tipico degli sviluppi più recenti dell’arte contemporanea rafforza ulteriormente questa situazione. L’installazione si definisce, infatti, soprattutto per il suo carattere multimediale e interattivo. Ciò significa che l’immagine tende a uscire dal paradigma della rappresentazione per assumere quello della presentazione (abbiamo già toccato questo tema in precedenza, nel paragrafo Estetica e anestetica). Solo che quest’ultima acquisisce ora la forma di un vero e proprio ambiente, che alla ‘buona distanza’ e allo sguardo concentrato della fruizione estetica tradizionale sostituisce l’immersione in una certa atmosfera più o meno definita. Per essere attivato, inoltre, l’ambiente multimediale sostitutivo dell’immagine richiede allo spettatore diverse forme di cooperazione, più o meno rigidamente programmate, assumendo un tipico carattere relazionale o interattivo. La fruizione di questi artefatti, infine, postula l’osservanza di precise istruzioni che ne indirizzano la comprensione e l’apprezzamento. In nessun altro modo, per es., riusciremmo a distinguere un’installazione artistica da una pubblicitaria se non fossimo addestrati ad accettare queste istruzioni, le quali muovono da una sanzione performativa preliminare che ci avverte che abbiamo a che fare con un’opera d’arte.
Ma quali bisogni sarebbero soddisfatti dalla trasformazione ‘procedurale’ dell’arte? Michaud ne indica tre. In primo luogo questo modo d’essere dell’arte ha soppiantato le forme classiche del piacere estetico (il piacere intellettuale legato al riflettere, al comprendere, al produrre nuove regole di giudizio) sostituendole con il puro e semplice edonismo, cui si lega il sensazionalismo, lo stato estetico della mera eccitazione. Il secondo bisogno sottolineato da Michaud è quello del nuovo. E qui il referente fondamentale è la moda (costretta per sopravvivere a ‘rinnovarsi’ in ogni stagione). Infine, e questo è il terzo aspetto, l’arte allo stato gassoso si inserisce nella generale dispersione dell’unità dell’esperienza (dei suoi contenuti e dei modi in cui li elaboriamo) costellandola di vissuti singolari e rapsodici, immersi nell’atmosfera in qualche misura unificante secondo la quale il senso è dappertutto perché «everything goes».
Di questi tre aspetti si dovrà qui sottolineare il comune orientamento anestetico, nella prospettiva di quell’abbassamento della soglia elaborativa della sensibilità che è già stato individuato e discusso nel paragrafo precedente. L’autonomia dell’opera – che era ancora orgogliosamente rivendicata dal modernismo, in contrasto con il dilagare del kitsch – sembra ormai totalmente risolta nell’autoreferenzialità del mondo dell’arte e dei suoi rituali disciplinati in primo luogo dalle direttive del mercato. La continuità dell’arte con la vita quotidiana e con la dimensione politica, d’altra parte, si è dissolta, o meglio, vaporizzata nello stato gassoso dell’estetizzazione diffusa, di cui si deve ribadire, ancora una volta, la natura essenzialmente anestetica. È questo il quadro, in verità scoraggiante, sul cui sfondo va reinterpretata la questione dell’esemplarità.
Caduta e rigenerazione dell’esemplarità dell’arte
Come dobbiamo pensare la testimonianza dell’orrore e il debito di giustizia e di memoria nei confronti delle vittime se la mediazione estetica sembra sbarrata dalle aporie in cui è incappata l’arte contemporanea nel corso del processo che l’ha portata a disperdere la sua esemplarità? Bisogna riproporre la questione dall’interno dell’estetica, piegandola risolutamente in direzione di un’etica della forma testimoniale incentrata su una diversa declinazione del concetto di esemplarità dell’opera, come accade nella Ästhetische Theorie (pubblicata postuma nel 1970) di Theodor W. Adorno; oppure bisogna seguire una strada diversa e rinunciare al concetto di opera sostituendolo con un’assunzione critica delle modalità ‘procedurali’ dell’esperienza estetica – multimedialità, interattività, instabilità –, di cui andranno colte, al di là degli aspetti deteriori appena discussi, le possibili opportunità etiche e politiche, riprendendo e aggiornando la tesi di Benjamin che negli anni Trenta contrapponeva la politicizzazione dell’arte all’estetizzazione della politica?
La risposta è nelle cose stesse, perché il pur magistrale sforzo filosofico di Adorno appare integralmente tributario nei confronti delle opere che sono in grado di esibirne l’adeguatezza teorica, e quelle opere – dalla poesia di Charles Baudelaire fino al teatro di Samuel Beckett – appartengono, senza eccezioni, a un’epoca che si è irreversibilmente conclusa. Con l’aggravante dell’esplicita ostilità dimostrata da Adorno nei confronti di ogni possibile interpretazione emancipativa delle risorse espressive presenti nella producibilità tecnica dell’immagine (fotografia, cinema, televisione), considerata un mero strumento dell’industria culturale (in singolare contrasto con la profonda sensibilità dimostrata da Beckett per il cinema e la radiofonia).
Ma qual è il concetto di esemplarità testimoniale che si fa valere nell’estetica di Adorno? Si tratta, per dirlo in modo sintetico, di una radicalizzazione dell’esemplarità negativa e ‘presentativa’, che abbiamo già discusso in precedenza (v. La presentazione dell’irrappresentabile) riconducendola nell’area del sublime. L’opera d’arte capace di resistere all’inesorabile assorbimento nel dispositivo livellante dell’industria culturale dovrà chiudersi ermeticamente nella sua autonomia come una «monade» e, al tempo stesso, dovrà far apparire questa sua condizione di estraneità presentandola, grazie alla forma, come il modo stesso (lo stato d’eccezione, si potrebbe dire) della sua inerenza al più ampio contesto dei «fatti sociali». La cui apparente e rassicurante coesione – «everything goes» – verrà in tal modo turbata dall’esibizione della loro autentica e inconciliata verità (l’insensatezza che erode il senso, la disumanizzazione che abita l’uomo) che l’opera non ‘rappresenta’ perché, piuttosto, ne è una testimonianza incarnata. L’esemplarità, come si vede, assume qui modalità che ricordano la concezione cristiana dell’incarnazione e il paradigma non-rappresentativo dell’icona (cfr. Di Giacomo 2008; Mondzain 2002): il divenire immagine dell’infigurabile non è dell’ordine della rappresentazione ma è una modalità dell’esser-presente, immune da ogni deriva idolatrica dell’immaginario e da ogni uso strumentale, anestetico o meramente edonistico, delle immagini. Precisamente quella deriva e quegli usi che Adorno fu incline a proiettare sull’intera cultura dell’immagine producibile tecnicamente.
Questo concetto di esemplarità testimoniale è notevole. Ma, di là della sua insuperabile dipendenza dalla comparsa di nuove opere in grado di attestarne la vitalità (e Adorno sapeva benissimo che nulla avrebbe potuto garantirla), ci si deve chiedere se esso è adeguato alle condizioni manifestative integralmente mediali degli eventi su cui qui ci stiamo interrogando e su cui si interrogano gli artisti più sensibili alle trasformazioni in atto. La risposta non può che essere negativa, non tanto in ragione dello ‘stato gassoso’ dell’arte contemporanea, che possiamo tranquillamente archiviare, con Adorno, nel numero delle manifestazioni aggiornate dell’industria culturale (che oggi ha assunto la dimensione esplicita del marketing), quanto perché il concetto stesso di una esemplarità testimoniale sembra destinato ad assumere, in ambiente mediale, un’interpretazione assai difforme da quella adorniana, pur condividendone, ma secondo un’accezione del tutto diversa, l’impegno etico. È una diversa ‘etica della forma’, in definitiva, quella cui dovremo dedicare le nostre ultime considerazioni: un’etica sostanzialmente estranea all’estetica dell’opera d’arte intesa in senso moderno (che con Adorno si chiude, pur se magistralmente), e nondimeno capace di coniugare esemplarmente il debito di testimonianza con quell’insieme di saperi tecnici che hanno da sempre accompagnato il fare artistico, la poiesis non bisognosa di (grandi) opere.
Etica e politica dell’immagine testimoniale
Vorrei ripercorrere i passi principali che sono stati fatti fin qui. L’evento mediatico dell’11 settembre 2001 ha riproposto con un’urgenza e una drammaticità eccezionali il problema del nostro rapporto con le immagini prodotte tecnicamente alle quali va riconosciuta, insieme alla capacità di agire potentemente sul piano delle emozioni e degli affetti, anche quella di operare in modo confusivo sul piano della sicura attestazione della verità dei fatti. La forza spettacolare dell’immagine, di cui quell’evento offre un esempio limite, può lasciarci, alla lettera, senza parole collocandoci in uno stato di soggezione che impedisce ogni elaborazione attiva. L’immagine inelaborata diventa in tal modo occasione di comportamenti acritici (la paura, la domanda di sicurezza, la risposta violenta) o immunizzanti (la rimozione, l’anestetizzazione). In ogni caso essa produce effetti di derealizzazione. Se le immagini dell’attentato alle Twin Towers restassero iscritte nella nostra memoria (quella interna o quella esteriorizzata nei dispositivi tecnici di archiviazione) senza ulteriori elaborazioni esse non attesterebbero null’altro che la loro violenza traumatica, devastante ed enigmatica.
Nel caso specifico, ciò che richiede di essere elaborato è l’indistinzione confusiva di messa in scena e fattualità. È proprio questa confusione, infatti, che ci tiene in scacco di fronte al sentimento di un debito di testimonianza che la realtà di quelle immagini sollecita. Ma per venire in chiaro della confusione bisogna preliminarmente deporre la convinzione che l’accertamento della verità debba avvalersi di una depurazione del fatto dal modo spettacolare della sua manifestazione. Al contrario, è proprio l’intreccio di questi due vettori semantici a dover essere esplicitato e condotto su un piano di maggiore perspicuità. Un tale intreccio, infatti, non solo definisce un tratto costitutivo delle immagini riprodotte tecnicamente – che non sono mai soltanto documentarie e non sono mai soltanto costruite ad arte – ma si proietta anche sui discorsi (quello storico e quello finzionale) di cui ci serviamo al fine di organizzare e comunicare l’esperienza ricorrendo a ordinamenti di tipo narrativo. Anche quei discorsi sono tenuti, infatti, a intrecciare accuratamente la fattualità del documento e il carattere costruttivo della sua presentazione.
Sorge a questo punto la questione del trattamento cui vanno sottoposte le risposte emotive degli spettatori dell’evento traumatico. Seguendo Boltanski, si è potuto vedere come la loro elaborazione discorsiva (ciò che le rende condividibili, ciò che le rende politiche) si conformi a tre «topiche» essenziali, quella del sentimento, quella della denuncia e quella estetica, di cui solo l’ultima, grazie a un decisivo incremento di riflessività, si presenta come tendenzialmente immune dalle critiche cui possono e debbono essere sottoposte le prime due. Dal punto di vista dell’elaborazione del sentire, dunque, la via estetica appare come quella più intimamente permeata di testimonialità proprio perché essa comporta l’azione di un terzo – l’artista inteso come ‘mostratore’ – che si assume l’arduo compito di restituire l’orrore nella sua irrappresentabilità. Ciò offre una perspicua interpretazione del concetto di responsabilità dell’arte.
Il compito paradossale di presentare l’irrappresentabile definisce uno degli aspetti essenziali dell’esemplarità che l’estetica moderna ha attribuito all’opera d’arte. Si tratta del tema del sublime che, assunto già da Kant in una prospettiva che evidenzia l’intimo legame tra etica ed estetica, ha largamente fecondato le arti moderne e contemporanee. Il problema, a questo punto, consiste nell’interrogarsi sulla sopravvivenza dell’esemplarità nell’ambito delle trasformazioni cui è andata incontro l’esperienza estetica; trasformazioni inevitabili nel momento in cui ha dovuto necessariamente confrontarsi con l’universo delle immagini prodotte tecnicamente.
Il fenomeno saliente dell’estetizzazione diffusa, strettamente legato alle immagini mediali, infatti, evidenzia il lavoro di potenti dispositivi ‘desublimanti’, spesso connessi con un utilizzo anestetizzante e normalizzante di forme e figurazioni che traggono la loro autorità da una lunghissima tradizione. Ciò deve condurci a diffidare dell’idea che l’immagine possa onorare le sue valenze testimoniali facendo pesare soltanto la sua pregnanza espressiva. La quale, come si è potuto vedere seguendo la notevole analisi dedicata da Eisenman alle fotografie di Abū Ghraib, può muoversi in una direzione esattamente opposta.
Per altri versi, il fenomeno dell’estetizzazione diffusa ha avuto effetti rilevanti sulla costituzione di un ‘mondo dell’arte’, nel cui ambito si assiste, seguendo Michaud, a una decisiva nebulizzazione, parallela a una dispersione procedurale e autoreferenziale dell’‘opera’. Questo insieme di trasformazioni sembra indebolire in modo significativo, o addirittura vanificare, la tesi relativa alla vocazione testimoniale dell’arte. Né sembra sufficiente a contrastare questa deriva la più politica tra le estetiche filosofiche della modernità, quella di Adorno, che al concetto di opera è legata in modo insuperabile e inoltre appare sorda a ogni sollecitazione proveniente dall’universo mediale.
Ciò non deve condurci alla conclusione che il paradigma estetico della modernità non è più in grado di rendere conto dell’esemplarità testimoniale dell’arte. Si tratta, piuttosto, di ripensare i processi della mediazione estetica alla luce del notevolissimo lavoro di decostruzione critica e riqualificazione semantica dell’immagine che oggi sembra trovare il più ampio ed efficace dispiegamento soprattutto in ambito cinematografico. Solo marginalmente interessato alla grande arte, infatti, il cinema ha sempre saputo interpretare con esiti ‘poietici’ particolarmente felici l’ibridazione di reale e finzionale che è alla base dell’immagine prodotta tecnicamente.
Vorrei suggerire, in conclusione, che la caratteristica di gran lunga più significativa con cui si presenta oggi questa ibridazione consiste nel mettere al lavoro l’intreccio costitutivo dell’immagine ripensandolo come un dialogo intermediale. In altri termini: in contrasto, da un lato con l’idea di una presa diretta dell’immagine riprodotta sul mondo dei fatti (idea già insidiata dalla circostanza che questo mondo ha spesso un alto o altissimo tasso di mediatizzazione) e, dall’altro, con la tesi postmodernista secondo cui il mondo reale sarebbe ormai stato totalmente soppiantato da quello ‘virtuale’, la mediazione testimoniale del cinema trae la sua forza dal presupposto secondo cui solo muovendo da un confronto attivo tra le immagini si possa rendere giustizia all’alterità irriducibile del mondo reale e alla testimonianza dei fatti, mediatici e non, che vi accadono. Se è vero, insomma, che il mondo è saturo di immagini, allora il tratto elaborativo della visione, ciò che ne riqualifica la capacità di dire il vero, non dovrà vertere sul rapporto immagine-mondo, bensì sul rapporto tra le immagini, ma solo in quanto – e il punto è decisivo – in questa differenza e in questo dialogo ne va anche, ed essenzialmente, del riferimento al mondo. L’immagine cinematografica, detto altrimenti, sembra particolarmente idonea a mettere al lavoro la riflessività che è richiesta dalla mediazione estetica senza cadere nella trappola dell’autoriferimento che affligge l’arte contemporanea.
Due testimonianze intermediali sulla ‘guerra preventiva’
Si è già fatto un esempio dello spazio intermediale perlustrato dalla cinematografia contemporanea accennando ai film dedicati all’11 settembre e alle fotografie di Abū Ghraib. Qui si dovrà aggiungere che in questo spazio sembrano profilarsi due diverse direttrici: nella prima la testimonianza discende direttamente dal montaggio; nella seconda essa si presenta come forma narrativa innestata sull’elaborazione di un materiale intermediale.
Nella prima direttrice il lavoro del cineasta coincide con la funzione, apparentemente modesta ma di importanza etico-politica capitale, del montatore intermediale: di chi mette responsabilmente e creativamente in rapporto le tecniche dell’immagine e della visione al fine di riorganizzare la loro capacità di dire il vero e di elaborare il sentimento del debito di testimonianza. L’ampia famiglia di film riconducibili a questa prima direttrice non fa altro che interpretare in modo nuovo e più adeguato il vecchio concetto di cinema documentario, sottraendolo all’idea secondo cui il documento parlerebbe da solo e facendo valere, piuttosto, la concezione, che è stata precedentemente enunciata, di un archivio audiovisivo mobile, provvisorio e sempre riorganizzabile.
Il testo esemplare, da questo punto di vista, è Histoire(s) du cinéma (1988-1998) di Jean-Luc Godard, un oggetto audiovisivo (impossibile definirlo un’opera) aperto e di grande complessità in cui si intrecciano numerosi fili di cui almeno uno fa riferimento al debito testimoniale per eccellenza della visione contemporanea: i campi di sterminio. Dopo Auschwitz, ci dicono le Histoire(s), nessuna immagine potrebbe essere sollevata dal debito storico di testimonianza che il cinema ha contratto con i campi. Ma se questo debito deve comparire nell’archivio, se deve presentarsi come un principio dell’archiviazione (una arché dell’archivio), ciò significa che spetta al cineasta il compito – spesso ai limiti dell’eseguibile, forse persino fatalmente votato all’esibizione del suo fallimento – di indicare le modalità di questa sensibilità etica dell’immagine: il suo essere riguardata dall’orrore anche là dove ne sembrerebbe più lontana e disparata.
Questo geniale e inquietante straniamento non è fatto solo per spiazzare lo spettatore delle Histoire(s) ma anche per indirizzare lo sguardo sul rapporto – che è spesso invisibile, che molte volte siamo tenuti a istituire a dispetto di ogni verosimiglianza – tra il debito storico di testimonianza del cinema (un debito inevaso, secondo Godard) e le storie che il cinema ha raccontato. Godard stesso ha aperto e ‘immaginato’ incomparabilmente questo spazio narrativo memore del debito in moltissimi suoi film, forse in tutti. Ma non ha fatto solo questo: a partire dall’operazione di rimemorazione intermediale delle Histoire(s) è possibile interpretare con uno sguardo nuovo moltissimi film di fiction, costruire un corpus (un archivio aperto e mobile) di film narrativi sicuramente tra i più importanti del cinema moderno e di quello contemporaneo.
E siamo così alla seconda direttrice intermediale. Il ventaglio che si apre qui è larghissimo e non è questa la sede per tentarne un qualsiasi ordinamento. Concluderò dunque con una rapida analisi di due film recenti – Redacted (2007) di Brian De Palma, e In the valley of Elah (2007) di Paul Haggis, – che interpretano in modo particolarmente felice il tema conclusivo di questo articolo, riportandoci anche, in modo indiretto, alle sue battute iniziali: entrambi sono infatti dedicati a episodi accaduti nel corso della ‘guerra preventiva’ contro l’Irāq con cui gli Stati Uniti risposero all’attentato dell’11 settembre.
Redacted è un film intermediale da cima a fondo. Vi si ricostruisce l’episodio reale dello stupro di un’adolescente irachena, poi massacrata insieme alla sua famiglia, perpetrato nel 2006 da un gruppo di militari statunitensi in ῾Irāq. Ma la ricostruzione adottata da De Palma consiste nel mettere in scena (si tratta dunque di un film di fiction) non i fatti bensì le loro iscrizioni mediali: documenti audiovisivi effettivamente reperibili in rete in diversi formati ma resi indisponibili per motivi di censura (si tratta, infatti, di materiali redacted, variamente rimaneggiati e ‘archiviati’ nel senso negativo del termine).
De Palma fa dunque una scelta estrema, ma anche strutturalmente semplice. Redacted rinuncia completamente al livello diegetico, al racconto diretto dei fatti e delle azioni, per utilizzare solo le tracce mediali cui l’evento terribile è già consegnato ma non ancora ‘archiviato’ nel senso dell’archivio storico, dotato di una arché. Ciò significa che il materiale del film è precisamente la condizione impersonale del riprendere e dell’essere ripresi, che sembra chiudersi come un involucro mediale senza lacerazioni apparenti sull’intero mondo dell’agire e del patire.
Le iscrizioni con cui lavora Redacted sono numerose. C’è innanzitutto il materiale accreditabile alla videocamera del soldato Salazar, un militare che dopo la ferma è deciso a diventare filmmaker. Questa formulazione – ‘accreditabile alla videocamera’ – è appropriata non solo perché Salazar usa talvolta lo strumento per riprendere sé stesso (per es., in uno specchio, all’inizio del film, a sua volta ripreso da un’altra videocamera, impugnata dal soldato McCoy), ma anche perché è proprio grazie a questa impersonalità della videocamera che verremo a conoscenza del sequestro di Salazar a opera del gruppo di insorti che successivamente consegnerà a un video scaricato in YouTube le immagini della sua atroce esecuzione. Inoltre – ulteriore livello di impersonalità – la videocamera di Salazar sarà ancora usata, dopo la sua morte, dai due principali responsabili dell’eccidio, i soldati Rush e Vegas, per filmare un loro colloquio. E sarà ancora uno strumento ottico a raggi infrarossi, montato sul casco di Salazar, a registrare le scene del massacro, che per lui hanno senso e valore esclusivamente in quanto materiale da riprendere e salvare in memoria: una posizione, questa, che ci viene presentata come simmetrica a quella del soldato McCoy, che si allontana angosciato dalla scena dell’orrore, ma non riesce a impedirla né a opporvisi realmente.
Al dialogo delle iscrizioni mediali partecipano poi, ‘in ordine di comparizione’: il piano del ‘documento’ attribuito al reportage di una troupe francese che con il suo indulgere in immagini ricercate ma dozzinali (controluce, tagli accurati, voce fuori campo) e in citazioni visive e musicali abusate rappresenta il livello ufficiale e connivente, convenzionale e banalmente estetizzante del confronto intermediale; il piano della comunicazione pubblica, assunto dalle diverse televisioni embedded: due locali, una internazionale (una di queste registrerà casualmente, nel corso di un controllo a un posto di blocco, le immagini della famiglia destinata al massacro); i colloqui in webcam tra soldati e familiari; le riprese delle telecamere di sorveglianza identificabili dal numero e dalle coordinate temporali (data e ora) e quelle delle telecamere che registrano un colloquio di assistenza psichiatrica a Salazar oltre agli interrogatori condotti da una approssimativa commissione di inchiesta; tre video in YouTube, rispettivamente: del gruppo che ha giustiziato Salazar, di una antimilitarista americana, di un anonimo che, deformando la voce, denuncia esplicitamente il massacro; infine il materiale ripreso da una videocamera durante i festeggiamenti in un bar per il ritorno in patria di McCoy, quando qualcuno gli chiede di raccontare che cosa è successo e il film si concede l’unica infrazione al regime del montaggio impersonale introducendo una celebre aria musicale (E lucean le stelle) destinata ad accompagnare le immagini fuori dall’‘involucro mediale’ per ritrovare, se è possibile, il mondo reale. Ma anche questa ‘uscita’ non può che essere configurata, a sua volta, nella forma dell’iscrizione: il film si chiude, infatti, su alcune fotografie autentiche di quel massacro. O meglio, si chiude sulle fotografie che solo adesso, in exitu, possono caricarsi di colpo di verità testimoniale ed entrare nell’archivio grazie all’autenticazione (una tra le molte possibili: bisogna ripeterlo) che la finzione del film avrà saputo prendere in carico.
L’originalità del film di De Palma è dunque da vedere nel gesto estremo che consiste nell’assumere davvero questo involucro mediale come l’orizzonte esclusivo della referenza – come se davvero non ci fossero più i fatti ma solo le loro iscrizioni – per giungere alla fine a lacerarlo dall’interno.
È dall’impersonalità del gioco intermediale, dunque, che scaturisce la testimonianza, la quale non può essere accreditata a nessuna delle dramatis personae. Questo punto, che è il punto di forza di Redacted, quello che rende giustificabili anche le sue smagliature (la discutibile inserzione dell’aria pucciniana nel finale), emerge con più chiarezza proprio grazie alla somiglianza ma anche al contrasto con il film di Paul Haggis, in cui si racconta la storia di un’assunzione della responsabilità di testimoniare. Ma si tratta di un’assunzione indiretta e, per così dire, delegata che ha l’effetto di conferire al concetto di testimonianza e di archivio ulteriori notevoli significati.
In the valley of Elah presenta un doppio inizio. Il primo ha carattere mediale. Il film si apre, infatti, con una sequenza indecifrabile: spezzoni di una ripresa, forse effettuata clandestinamente con un videotelefono, che il soldato Mike, di stanza in ῾Irāq, ha fatto pervenire al padre Hank, un veterano della guerra del Vietnam, come a volergli consegnare il documento di «qualcosa di terribile» (sono queste le parole che Mike utilizzerà in una reticente telefonata con il padre), che resta tuttavia incomprensibile per la pessima qualità tecnica delle riprese e la concitazione legata alla drammaticità dell’evento (una voce fuori campo intima ripetutamente a Mike di tornare sul blindato da cui è evidentemente sceso per registrare qualcosa).
Il secondo inizio, di carattere pienamente narrativo, ci informa che Mike, rientrato negli Stati Uniti, risulta irreperibile e che il padre si è messo alla sua ricerca, preoccupato per le informazioni lacunose che ha ottenuto dal Comando del campo in cui il ragazzo avrebbe dovuto trovarsi e per gli altri documenti visivi che gli sono pervenuti in uno stato di leggibilità non differente dal primo: tra questi una fotografia in campo lungo in cui si distingue qualcosa di indefinito (un corpo? una carcassa?) su una strada sterrata. Una sequenza apparentemente anodina segna l’inizio dell’inchiesta di Hank, che parte da casa nella speranza che il figlio abbia semplicemente consumato qualche birra in più, magari con una ragazza: mentre si avvicina in auto al campo militare, egli nota un soldato inesperto che sta issando la bandiera statunitense capovolta. Hank lo ferma, rimette la bandiera nel verso giusto e spiega alla sprovveduta recluta che quel gesto ha un significato: «Richiesta internazionale di soccorso. Significa che siamo nei casini e che qualcuno deve venirci a salvare il culo perché non ce la facciamo da soli». È una sequenza che, non diversamente dalla foto e dagli spezzoni videoregistrati inviati da Mike al padre, assumerà tutto il suo senso solo nel finale del film, quando vedremo Hank che, nel rientrare a casa a conclusione della sua inchiesta, incontra di nuovo quello stesso soldato, che ora sta eseguendo l’alzabandiera in modo corretto, lo ferma e provvede lui stesso a far salire in cima all’asta una bandiera rovesciata assicurandone il cavo alla base del palo con un robusto sigillo di nastro adesivo. Si tratta di un rovesciamento di cui il film avrà già, a quel punto, compiutamente configurato la necessità. Vediamo come.
Hank è dunque partito per ritrovare il figlio Mike di cui non si hanno notizie. Ci vorrà poco a scoprire che Mike è stato assassinato in modo atroce: fatto a pezzi e bruciato. Ma l’inchiesta di Hank, che mira ad accertare la verità di quell’omicidio, procede in parallelo su due direttrici che sembrano orientarsi su vie divergenti: da un lato i documenti ufficiali e le testimonianze dei commilitoni e di chi ha incontrato Mike nelle ore prima della morte, dall’altro la progressiva, anche se parziale, messa in chiaro dei documenti visivi che Mike ha voluto inviare al padre dall’Irāq e che Hank non si è fatto scrupolo di affidare a un esperto che, dietro congruo compenso, è disposto anche a operazioni di decrittazione illecita.
È nel movimento che conduce all’incrocio tra queste due linee che il film impegna il suo sforzo configurativo più profondo e imprevedibile. Hank ha, infatti, iniziato la sua inchiesta credendo di dover ottenere giustizia per un raccapricciante omicidio e invece dovrà via via venire a capo di una situazione diversa: dovrà scoprire che ciò di cui sta assumendosi la responsabilità è una delega che il figlio gli ha affidato attraverso i materiali audiovisivi inviati, la richiesta di portare a compimento qualcosa che lui non ha saputo fare, pur avendo avuto, per un attimo, la determinazione di lasciarne un documento – non ancora una testimonianza – nella foto che ha scattato. Quella foto, infatti, documenta l’atto terribile che Mike ha commesso – travolgere un bambino iracheno con il suo blindato come se fosse un cane randagio, come se dovesse essere giudicato indistinguibile da un cane randagio – e che lo ha precipitato nella più completa abiezione facendo di lui un torturatore che si è andato a cercare la più orribile e insensata delle morti in una rissa da lui stesso provocata.
Hank, che pensava di dover scoprire l’assassino del figlio, ha dunque dovuto scoprirne l’abiezione, che gli verrà descritta da uno dei commilitoni di Mike come la conseguenza più normale e diffusa dell’orrore della guerra. Ma, al tempo stesso, i documenti audiovisivi lasciati dal figlio produrranno un effetto del tutto imprevisto sul senso del suo lutto, perché con quell’appello disperato rivolto al padre – molti spezzoni sono accompagnati da una sorta di supplica angosciosa: «Papà…» – Mike gli chiede precisamente di portare a compimento la testimonianza di cui ha messo insieme i materiali ma di cui non ha saputo accreditare la funzione. Gli chiede, insomma, di testimoniare per lui, di far essere una testimonianza quella che è solo un’iscrizione illeggibile: la fotografia del bambino travolto.
In the valley of Elah è senza dubbio un film al tempo stesso molto più tradizionale e molto più complesso di Redacted. E tuttavia la direttrice intermediale è altrettanto essenziale alla sua configurazione complessiva: non è solo un ‘materiale’ del film, inerisce intimamente alla sua peculiare struttura drammaturgica. Il cui esito finale – restituire a un’immagine fotografica illeggibile tutta la sua forza testimoniale – coinciderebbe pienamente con quello di Redacted se non ci fosse questa importante differenza: che qui la forza è al tempo stesso nella fotografia, nel gesto di chi l’ha scattata, e nelle conseguenze catastrofiche che il film gli accredita. Una forza pari a quella del gesto di Davide che nella valle di Elah (come sentiamo raccontare da Hank a un bambino che porta quello stesso nome) con mano ferma – o forse con mano tremante: o meglio con mano ferma e tremante – colpisce il gigante guerriero e rovescia le sorti di un intero popolo. Il film configura splendidamente questo rovesciamento nella bandiera capovolta che Hank, il veterano del Vietnam, assicura all’asta con il nastro adesivo. Il padre ha dunque compreso, e noi con lui. Ma è decisivo che il film ci abbia presentato l’immagine mancante – Mike che scende dal blindato e scatta la foto – come una costruzione immaginaria del padre (è lui a ‘mettere in scena’ il figlio che scatta la foto) la cui legittimità non sta nella sua corrispondenza ai fatti (che resta indicibile), ma nella risoluzione con cui Hank interpreta secondo giustizia il senso autentico dell’appello del figlio: issare la bandiera americana rovesciata. «Secondo giustizia» qui significa questo: che la testimonianza non rappresenta in nessun modo un’assoluzione del figlio, ma è il riconoscimento e la sanzione dell’ordine rovesciato delle cose. E nulla potrebbe essere redento da quella testimonianza, che è soltanto dovuta, se l’immagine stessa, pur nella sua indeterminatezza, non si caricasse di colpo del valore messianico che Walter Benjamin attribuiva alle «immagini dialettiche», quelle che in un attimo saturo di tensione possono riemergere dal passato (ecco una diversa declinazione del Nachleben warburghiano) e riscrivere la storia degli oppressi, riorganizzarne l’archivio.
Il film realizzato da Haggis ha, tuttavia, ancora qualcos’altro da dirci nella dedica posta a conclusione dei titoli di coda, che suona così: «A tutti i bambini». Nell’ordine rovesciato delle cose al quale è approdato il film compare dunque un ultimo rovesciamento il cui oggetto è la latitudine del debito: che non riguarda soltanto il bambino iracheno ucciso e gli innocenti massacrati dalle guerre, ma anche, con lo sguardo rivolto al futuro, tutti i bambini. Ciò significa che la dedica di In the valley of Elah non è tanto una dichiarazione conclusiva quanto un interrogativo, una domanda aperta – che il film ci rivolge e ci segnala come un compito etico – su quale sia il mondo che noi adulti stiamo preparando per i nostri figli, quale l’archivio di immagini testimoniali che consegneremo loro.
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