Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Prima del 1789 nessuno pensa che possa scoppiare una rivoluzione, anche se alcuni intellettuali esprimono forti preoccupazioni sulle condizioni del popolo. La storia settecentesca dellaFrancia non va vista come un preludio alla rivoluzione; solo a posteriori il sommarsi di diversi fattori può apparire come la spiegazione di un evento che non è comunque né previsto, né programmato, né tantomeno inevitabile.
La Francia e l’Europa
Agli inizi del Settecento la Francia occupa un posto di primo piano sulla scena europea. Con i suoi 22 milioni di abitanti, che salgono a 29 alla fine del secolo, un esercito permanente tra i più forti e cospicui in Europa e un apparato burocratico altrettanto imponente, la monarchia assoluta di Luigi XIV è una grande potenza. Alla morte del Re Sole, avvenuta nel 1715, le aspirazioni egemoniche appaiono già ridimensionate dagli esiti della guerra di successione spagnola che sancisce l’ascesa dell’Inghilterra a grande potenza commerciale e marittima. Nel corso del secolo altre guerre vedono la Francia sempre presente sul palcoscenico degli avvenimenti internazionali, ma senza grandi risultati: la guerra antispagnola del 1717-1720, la guerra di successione polacca (1733-1738), che le frutta nel 1766 l’annessione della Lorena, e la guerra di successione austriaca (1740-1748).
La guerra dei Sette anni (1756-1763) poi, rovesciando le precedenti alleanze, vede la Francia al fianco dell’Austria e dellaRussia contro l’Inghilterra e la Prussia, e le costa la quasi totale perdita delle colonie americane; infine l’intervento a favore della guerra d’indipendenza delle colonie inglesi d’America (1776-1783) non fa che peggiorare le condizioni delle sue finanze.
Anche il modello politico assolutistico viene sempre più incalzato dal confronto con il sistema politico inglese e con la libertà che grazie al ruolo del Parlamento sembra caratterizzarlo, fino a quando la rivoluzione americana non fa crollare questo mito.
La Francia esercita tuttavia una forte attrazione culturale. Il francese è ormai diventato la lingua della diplomazia e delle élite nobiliari e borghesi europee; l’influenza francese si afferma nella letteratura, nel gusto e nella moda, provocando una vera e propria gallomania – a stento contrastata dall’anglomania – contro la quale dagli anni Settanta si manifestano i primi segni di reazione nazionale degli altri Paesi.
La questione fiscale e le riforme impossibili
La situazione interna alla Francia, nonostante l’immagine trionfante della monarchia assoluta, non è molto diversa da quella di altri Paesi; malgrado l’accentramento, infatti, l’amministrazione è tutt’altro che omogenea e forti differenze giuridiche, amministrative e linguistiche sussistono tra le varie province.
Inoltre la venalità delle cariche giudiziarie centrali e periferiche e le differenze territoriali rendono incerta l’amministrazione della giustizia; mentre i detentori delle cariche, in particolare i membri dei parlamenti, costituiscono un fermo baluardo contro l’assolutismo.
Nelle campagne l’attività dei coltivatori è gravata da prelievi feudali, dalla decimaecclesiastica, dalle imposte dirette e indirette del fisco regio. Ma le consistenti spese militari provocate dalla politica di potenza gravano per più della metà sul bilancio dello Stato, sempre alla ricerca di nuove risorse. Il tentativo dello scozzese John Law di risolvere il problema del debito pubblico attraverso l’emissione di carta moneta e di azioni della Compagnia dei Mari del Sud (1716-1720) si conclude con una colossale bancarotta.
La Francia del XVIII secolo non è però un Paese immobile, sull’orlo del precipizio rivoluzionario. Il primo ministro cardinale Fleury e il controllore generale delle finanze Philibert Orry riescono fra gli anni Trenta e Quaranta a riordinare le finanze statali. La necessità di riforme amministrative produce una grande opera di conoscenza e rappresentazione cartografica del territorio, di espansione della rete stradale, di potenziamento delle scuole del genio per la formazione degli ingegneri. Le città portuali e le città mercantili dell’interno, inoltre, sono fortemente integrate nelle reti del capitalismo commerciale europeo e città manifatturiere come Lione sono in piena espansione, mentre poco muta nelle campagne, dove risiede più dell’80 percento della popolazione.
La storia settecentesca della Francia può essere vista come una continua successione di guerre e insieme come una continua successione di tentativi falliti di riforme fiscali che cozzano contro l’opposizione del clero, dei parlamenti e della nobiltà: il progetto di una decima regia del maresciallo Vauban (1705), il ventesimo introdotto nel 1749 dal controllore delle finanze Machault su tutti i redditi e senza distinzioni tra gli ordini, i progetti di catastazione generale di Bertin e Turgot tra gli anni Sessanta e Settanta, il nuovo ventesimo di Joly de Fleury nel 1781, l’imposta fondiaria proposta da Calonne nel 1786, la sovvenzione territoriale di Loménie de Brienne nel 1787. Solo l’abate Terray, controllore delle finanze dalla fine del 1769, riesce a ridurre temporaneamente il deficit, ma con misure che provocano un malcontento generale, come la sospensione del pagamento dei creditori dello Stato, nuove imposte indirette e la riduzione delle spese di corte.
I tentativi di liberalizzazione del commercio dei grani sollevano agitazioni popolari alla fine degli anni Sessanta e alla metà degli anni Settanta, quando l’esperimento di Turgot coincide con un cattivo raccolto; così la guerra delle farine del 1775 e la caduta diTurgot nel 1776 segnano la fine di ogni progetto globale di innovazione economica. Il mutamento della congiuntura economica, che vede seguire al periodo di espansione una fase di ristagno e una serie di cattive annate agricole, non favorisce riforme sostanziali. Nel 1776-1781 il nuovo ministro Jacques Necker cerca di riparare ai bisogni finanziari attraverso una riduzione delle spese, colpendo pensioni e benefici di corte, ma è costretto anche ad ampliare ulteriormente il debito pubblico senza riuscire a colmare il deficit dello Stato, nonostante l’ottimistico rendiconto pubblicato nel 1781. Il ministro Calonne tenta infine diaggirare la resistenza dei parlamenti alle riforme fiscali, facendo convocare nel 1787 un organo straordinario, l’assemblea dei notabili. Fallito anche questo tentativo, è il ministro Loménie de Brienne a dover affrontare lo scontro aperto con iparlamenti che chiedono la convocazione degli Stati generali. Ma sulla crisi politica nel 1788-1789 si innesta una nuova e violenta crisi economica.
Parlamenti e opinione pubblica
La reggenza di Filippo II d’Orléans e del duca di Borbone, durante la minore età di Luigi XV, si appoggia sul sostegno della grande aristocrazia e deiparlamenti, ai quali restituisce il diritto di rimostranza.
Nella prima metà del secolo i parlamenti esercitano ripetutamente il diritto di rimostranza non soltanto in materia fiscale, ma anche in materia di religione, prendendo posizione contro il centralismo papale. Nel 1730 il parlamento di Parigi assume quindi le difese dei giansenisti contro la dichiarazione regia del 1730 che proclama legge dello Stato la bolla papale di condanna Unigenitus (1711) e nel 1746 si oppone all’ordine dato al clero dall’arcivescovo di Parigi di rifiutare l’estrema unzione a chi non abbia attestati scritti di confessione con un sacerdote non sospetto di giansenismo (“biglietti di confessione”). Attraverso questi episodi prende forma la teoria dei parlamenti come rappresentanti della nazione e garanti dell’ordine costituzionale, ispirata alle teorie di Montesquieu.
Dagli anni Sessanta, però, il conflitto tra corona e parlamenti assume forme croniche. Sono iparlamenti a capeggiare la campagna contro i Gesuiti, ottenendone l’espulsione nel 1764. Ma sono sempre i parlamenti a schierarsi contro ogni riforma dell’apparato giudiziario, segnato da gravi episodi di intolleranza religiosa: la condanna a morte del protestante Jean Calas, accusato di aver ucciso il figlio per impedirgli di rinnegare la sua religione (1762); la decapitazione e il rogo del cavaliere De La Barre (1766), colpevole di atti di empietà e di letture giudicate blasfeme, come ilDictionnaire philosophique di Voltaire. E proprio Voltaire fa di questi due casi il centro di una durissima campagna d’opinione contro l’intolleranza. Nel 1776 è ancora il parlamento di Parigi a condannare al rogo l’opuscolo dello scrittore Pierre François Boncerf contro i diritti feudali.
D’altra parte, i parlamenti assurgono a difensori della libertà contro l’arbitrio regio. Il contrasto con le autonomie provinciali in materia fiscale esplode nel conflitto tra gli Stati provinciali di Bretagna e il rappresentante regio duca di Aiguillon che spinge Luigi XV al “discorso della flagellazione” (3 marzo 1766), in cui riafferma solennemente la teoria della monarchia di diritto divino. È allora che il parlamento di Parigi mette sotto processo il duca di Aiguillon (1770), entrando in aperto conflitto con il Consiglio del re.
Alla resistenza del parlamento di Parigi, il cancelliere Maupeou reagisce con il cosiddetto “colpo di Stato” che esilia i membri del parlamento e affida la sua giurisdizione – che ricopre circa un terzo della Francia – a sei Consigli superiori di nomina regia; sopprime inoltre la venalità delle cariche e limita il diritto di rimostranza (1771). Ma Luigi XVI, salito al trono nel 1774, ripristina tutti i parlamenti e i tentativi di riforma dell’amministrazione provinciale di Turgot e di Necker si arenano anch’essi contro una durissima opposizione parlamentare.
Le battaglie dei parlamenti riprese e amplificate dalla stampa, la diffusione degli scritti dei philosophes, il moltiplicarsi delle accademie e delle società di cultura costituiscono i canali di formazione di un’opinione pubblica che esercita sempre più spesso e in maniera sempre più esplicita il suo diritto di critica.
L’accresciuta consapevolezza dei problemi del Paese e la desacralizzazione del potere regio che ne derivano giocano una parte di primo piano nella crisi finale dell’ancien régime in Francia.