La Fondazione Giorgio Cini
Irretito, all’inizio del Novecento, Rilke da Venezia, dalle sue «cose indicibili» e, insieme, tentante di dirle liricamente. E tra le sue liriche Mattino veneziano(1): la città si desta sul far del giorno confortata dalla rinnovata visione dei propri «opali»; e «sorride al suo gioiello», all’isola di S. Giorgio Maggiore. Mirabile gemma in effetti questa, incastonata nel bacino di S. Marco, traente la sua denominazione dall’intitolazione della basilica palladiana — e la specificazione di «Maggiore» vale a distinguere da altri S. Giorgio compresenti a Venezia (dei Greci, degli Schiavoni) e in laguna (in Alga) — che contrassegna quella che era anticamente «l’isola dei cipressi». Qui orti, vigneti, una salina, un mulino e, sin dal X secolo, un convento benedettino. Una presenza donde s’avvia, lungo i secoli, un’armoniosa e, insieme, imponente crescita architettonica che — attorno a due chiostri — prolunga i propri svolgimenti; e nel Seicento culmina la bellezza anche degli interni, allorché Longhena introduce lo scalone a due rampe, ristruttura la biblioteca. Ragguardevole il patrimonio librario del monastero, ma — dopo il saccheggio iniziato ancora nel 1797 — pressoché disperso già nel 1806, nell’anno della soppressione napoleonica. Non più in mano benedettina, a questo punto, la «nobile e delitiosa isoletta» — così nel Forestiero illuminato [...] (Venetia 1794), una guida agevolante una visita in tempi brevi di Venezia stampata pure, nel 1806, in francese — di circa «un miglio di circuito». Ma quale, a partire dal 1806, la sua destinazione? Qualcosa ne dicono anche le guide ottocentesche e primonovecentesche la cui stampa e ristampa s’infittisce a mano a mano s’accentua il turisticizzarsi di Venezia. Per dir del gioiello, ancorché di questo sia privilegiata la descrizione dettagliata della basilica la cui visita non è omissibile, necessita un cenno, sia pur rapidissimo e reticente, a quel che vi capita. È portofranco; adiacente al convento un apposito «stabilimento», progettato dall’architetto Giuseppe Mezzani; è «l’emporeo delle nazionali mercatanzie», s’assicura nel 1838; «la dogana di transito [...] vien costituita dal grandioso chiostro già di s. Giorgio maggiore, architettato da Palladio», precisa la Nuova guida di Venezia (Venezia 1847) di Giannantonio Moschini. Estesa, nel 1829, la franchigia a tutta Venezia e poi, nel 1849, limitata a S. Giorgio, è, comunque, come dogana che l’isola funziona. E restituita nel 1851 la franchigia a tutta Venezia, ecco che — informa una guida del 1856 — l’isola viene «occupata dal militare e munita di artiglieria». Così nell’ultima fase della dominazione austriaca, dunque; né, coll’avvento del Regno d’Italia, s’apporta «alcun mutamento», precisa una guida del 1867. «Ora tutta l’isola [riscontra una successiva guida del 1899], in seguito ad una convenzione colla Camera di commercio, è a disposizione assoluta della Direzione d’artiglieria e del genio». Di conseguenza, «per visitare il monastero, sede del Comando dell’Artiglieria», occorre «chiederne il permesso all’autorità militare», si premura di avvisare Giulio Lorenzetti, nell’edizione del 1926 della sua fortunata — e meritatamente — Guida, più volte ristampata e aggiornata.
Certo: ridestandosi, la Venezia mattutina sorride contemplando la sua gemma da piazza S. Marco, dalla riva degli Schiavoni. Ma se procedesse a una qualche verifica, a un qualche controllo smetterebbe di sorridere. Opacizzato il gioiello, imbruttito, involgarito, deturpato, sconciato. Silenti nel frattempo le guide. Ma s’è nel frattempo trapassati dall’accecamento di logge, dal frazionamento, con muri divisori, degli interni all’incontrollato accampamento di magazzini, caserme, baracche, depositi, tettoie. L’isola «muore», constata, finalmente esplicito, Feliciano Bianchi in Isole veneziane (Bergamo 1942). Alla chiesa — «gioiello d’arte» nell’isola già gioiello — provvedono due soli frati che «vivono in condizioni umilianti e miserrime», in un «alloggio» che farebbe «inorridire» un qualsiasi «funzionario del nostro Ufficio d’Igiene». E, per il resto, «un aspetto indecoroso» di fatiscenza, di sconnessione, di rabberciamento provvisorio, d’accumulo di merci e rottami, di sgretolamento, d’inarrestato depauperamento, di desolato abbandono. Indicativo che a risollevare l’isola Bianchi escluda — implicitamente — l’apporto dei militari, l’uso militare. Un ripiego, disastroso negli effetti, i «cantieri del Genio Lagunare» e «le officine della Direzione d’Artiglieria». Pel «rinascere» — pensa Bianchi e non da solo: in lui riecheggiano opinioni che stanno affiorando ancor timidamente nell’incombere della guerra; quella sangiorgina è questione affrontabile solo col ritorno della pace o, quanto meno, nell’ipotesi d’un dopoguerra stabilizzato — vi ci vorrebbe «un bel centro alberghiero»; magari, approfittando dei «cinque ettari circa di aree disponibili», per metterci su un’attività che abbia a che fare colla «pesca motorizzata», pensare a ripopolarla con «marinai e pescatori», farla rientrare in un grandioso rilancio ittiologico che punti non solo sulla «pesca mediterranea», ma pure s’allarghi a quella «atlantica». E, naturalmente, il «primo provvedimento» dovrebbe consistere nel reinsediamento dei Benedettini cui restituire «almeno una gran parte del chiostro».
Per carità: l’autore appena citato non è una personalità incisiva; è un illustratore, uno dei tanti e non dei più significativi, dell’isolario lagunare. Se lo riesumiamo è perché testimone d’un’avvilente situazione — esito d’un uso improprio e d’un malo uso — per la quale auspica un riscatto seguito da una qualche operosità. È evidente: il degrado va arrestato; occorre il restauro; necessita il ripristino: ma sin qui il che fare per S. Giorgio. E poi? Imprescindibile problema quello dei contenuti, del che fare a S. Giorgio, nell’isola salvata. È coll’esigenza di por rimedio alla rovina e quella, concomitante, d’un programma d’attuare nell’isola riscattata che Venezia arriva alla metà del XX secolo. E tutt’altro che marcia trionfale, per la città, il successivo cinquantennio. Paurosi il decremento demografico, il contrarsi delle attività, la perdita — vien da dire — di pezzi: dismissioni dell’Arsenale; chiusura del Mulino Stucky; trasferimento a Mestre del «Gazzettino»; trasferimento in terraferma delle Assicurazioni Generali. Questo tanto per ricordare i segni più vistosi d’un arretramento, cui è riconducibile anche — tanto per dire — il declassamento della presenza bancaria: a Mestre le direzioni, le sedi centrali e a Venezia — eccezion fatta per la Cassa di Risparmio — agenzie, al più filiali. Quanto meno, allora, un segnale propulsivo, una nota in positivo, una vicenda in controtendenza, un punto di forza recuperato la rivitalizzazione, la risemantizzazione dell’isola sangiorgina. Un’autentica rinascita quella iniziata nel 1951, «mercé» — come sottolinea la ristampa del 1956 della Guida di Lorenzetti — la Fondazione Giorgio Cini fermissimamente voluta da Vittorio Cini(2) e da lui intitolata alla memoria dell’unico suo figlio maschio tragicamente perito, appena trentenne, a Cannes, in un incidente aereo, il 31 agosto 1949. Un dolore immenso questa perdita, da rimanerne schiantato, da inchiodare il padre ormai in là cogli anni se non nella più tetra disperazione, nella più rassegnata, ancorché cristianamente fidente, attesa della morte. E, invece, come rasserenata la sofferenza nella determinazione volitiva a un fattivo gesto d’amore in ricordo della stroncata giovinezza del figlio amatissimo, come arginata e inalveata la pena di sopravvivergli nella tensione d’un grande impegno realizzatore, nell’isola di S. Giorgio — in temporanea concessione statale —, d’una presenza che, nel riattivare l’isola sia anche stimolante ai fini del rilancio di Venezia stessa. Ma in quale direzione? A costo di sconfessare quale «errore colossale» il proprio antecedente adoperarsi per la realizzazione del discusso ponte automobilistico translagunare — un vulnus raddoppiato all’insularità già violata da quello ferroviario —, la Venezia che ora Vittorio Cini ha in mente è quella dell’isola intellettuale, dirigenziale, elaborativa, propositiva, progettuale e così distinta rispetto a una terraferma direttamente produttiva.
Comunque sia, nella misura in cui — in una città come Venezia dai delicatissimi equilibri, dal vulnerabilissimo tessuto, sempre minacciata da mille insidie, sempre sotto tiro, sempre esposta al pericolo — la salvaguardia, la conservazione, la manutenzione sono sempre all’ordine del giorno e in termini di cruccio quotidiano e in termini di costante finalità, che la Fondazione Giorgio Cini, istituita il 20 aprile e legalmente riconosciuta con decreto presidenziale del 12 luglio 1951, abbia, nel suo costituirsi, per scopo prioritario proprio il restauro conservativo d’un’isola appartenente al demanio dello Stato, non è di poco conto e di scarso significato per la città tutta. Compiuti nel 1956 (ma ulteriori interventi riparatori saranno necessari dopo l’alluvione del 1966) i lavori sotto la direzione dell’ingegner Ferdinando Forlati e in base a un piano di generale sistemazione e risistemazione approntato dall’architetto Luigi Vietti — donde i nuovi edifici, donde, a sud, la verde suggestione del parco, il sorgere in questo, su progetto, oltre che di Vietti, dell’architetto Angelo Scattolin, tra allori e cipressi, del Teatro Verde, coi suoi 1.700 posti per gli spettacoli all’aperto —, ecco che la risultanza immediatamente percepibile è quella della «resurrezione di un complesso monumentale che ha pochi eguali anche in Italia». Così Guido Piovene — in quell’«inventario delle cose italiane» che, redatto nel 1953-1956 per la RAI, viene poi edito col titolo di Viaggio in Italia (Milano 1957) —, quando le sovrastrutture sono state demolite, sono stati rimossi gli orrori, sono state eliminate le brutture, si sono ripristinate le linee, recuperate le architetture, ricomposti gli ambienti, restituito alla biblioteca longheniana l’arredo originario andato disperso. Dov’era, com’era, insomma questa già adibita — è proprio il caso di ricordarlo — a deposito d’armi, già ingombra di rastrelliere, e colle seicentesche tele nel soffitto e nelle lunette sempre più deteriorate dalle infiltrazioni d’acqua piovana. E, quindi, ridotata delle sue monumentali librerie. Questo per dire dell’accuratezza nella ricostituzione degli ambienti colla scorta delle stampe d’epoca testimonianti com’erano sin nei dettagli. E, nel fervore ricostruttivo, la messa in moto del funzionamento della Fondazione colla costituzione dei suoi centri.
Primo a veder la luce, nel 1952, il Centro marinaro, insediato nella parte nord;orientale dell’isola: incorporando il preesistente Istituto Scilla accogliente gli orfani della gente di mare, provvede — all’uopo disponendo d’aule, laboratori, cantieri, impianti, imbarcazioni — alla formazione, appunto, marinara d’un nutrito numero d’alunni interni ed esterni. L’anno dopo, nel 1953, nasce il secondo Centro, quello di arti e mestieri: affidato alla gestione dei Salesiani, sistemato nell’ala più antica del monastero e dotato, a sua volta, delle necessarie attrezzature, s’impegna nell’istruzione professionale — nella tipografia, nella falegnameria, nella sartoria, nella meccanica — d’un numero del pari consistente d’allievi, esterni e interni anche questi. Così sino agli anni Settanta del secolo XX. Pensati i due Centri all’inizio degli anni Cinquanta, ideati avendo in mente le esigenze di allora, il mercato del lavoro di allora, le richieste di specializzazione di allora, il sistema scolastico di allora, ecco che, proprio per questo, sono stati costretti al ridimensionamento. Ridotto, drasticamente, il personale in mare dai procedimenti automatici di navigazione. Scalzata la professionalità della composizione tipografica dalla terremotante innovazione tecnologica. E, nel contempo, meno tentanti e la vita di mare e le occupazioni artigianali subordinate. Ma, laddove l’istituto professionale di Stato per le attività marinare continua — e per il futuro ne è prevedibile la fusione coll’istituto nautico «Sebastiano Venier» — a formare motoristi, radaristi, telegrafisti di bordo, meccanici navali, elettromeccanici, disegnatori navali, padroni marittimi, il Centro arti e mestieri s’è, invece, ritirato. La stessa introduzione della scuola dell’obbligo, della media unica ha svuotato quelle che un tempo erano le scuole d’avviamento. E il Centro arti e mestieri ne ha risentito. Sono rimasti i Salesiani nell’isola sangiorgina; ma la loro presenza non è più impegnata nell’avviamento professionale.
Quel che, comunque, connota precipuamente la Fondazione, sino a diventarne sinonimo, è il suo terzo Centro, quello di cultura e civiltà; nato nel 1954, nel suo ambito si situano il rientro, nel 1957, dei Benedettini e la stessa intermittente attività del Teatro Verde, il cui utilizzo estivo, dopo una prolungata interruzione, è ultimamente ripreso grazie a un’apposita convenzione colla Biennale. Insediato nel rinato splendore del complesso conventuale, beneficiante dello scalone, della biblioteca, del palladiano refettorio o Cenacolo, della sala del Consiglio, della sala del Soffitto, del salone degli Arazzi o ex noviziato, come immesso in una continuata sequenza di sin soggiogante suggestione ambientale, come alonato dalla bellezza agli occhi di chi lo visita, è forse questa — la bellezza — il suo contrassegno più perentorio, più impressionante. Epperò non è che questo Centro sia sorto per autoesibirsi nella cornice, per risolversi in questa, per delegare al contenitore i contenuti, al limite per essere contenitore senza contenuti. In ogni caso è un rischio siffatta eccezionale impaginazione: può essere intimidente, scoraggiante perché troppo esigente; se le iniziative son modeste, si rimpiccioliscono vieppiù; può suscitare attese eccessive e quindi illudere e poi deludere. Un azzardo, insomma, per tal verso una sede del genere. Impegna a un qualche contenuto che, in qualche modo, non se ne discosti troppo all’ingiù, che cerchi di rimanere a un certo livello, a una certa altezza. Non può pretendere la benevola indulgenza destinata a istituzioni dimessamente ambientate. Rispetto ad altri istituti culturali cittadini dovrebbe avere una marcia in più, una visibilità di più vasta portata, di maggior rilevanza. Salvo «la parentesi», il sussulto, «della Biennale» — lo riscontra Piovene nel Viaggio in Italia — «la vita culturale di Venezia non è brillante». Auspicabilmente, sperabilmente, «forse» la Fondazione Cini «contribuirà a rianimare questa vita culturale languente». Ancora in fase aurorale il Centro di cultura e civiltà quando vi capita lo scrittore vicentino. E poco più d’una decina d’anni dopo arriva, nel 1967, un altro scrittore, Alberto Arbasino, in veste d’inviato per conto de «Il Giorno». Quale l’impressione che ne ricava? «A San Giorgio ecco il mito umanistico dell’Isola di Alti Studi: guida di ricerche avanzate, pilota di perfezionamenti sempre più rarefatti ed esclusivi», con autori anticipanti ai confrères, in una sorta di compendiosa anteprima, il saggio che stan scrivendo o che si propongono di scrivere, con aggirarsi di intellettuali statunitensi, di «studenti inglesi», d’«insegnanti scandinavi». E, nel contempo, in atto «il sogno d’un inventario grandioso di un passato glorioso», la «raccolta totale» di questo. In poche righe colti i due tratti essenziali del Centro: gli incontri internazionali; la costituzione d’un’imponente documentazione. Sottinteso un pizzico d’ironia: non è detto che il confluir da ogni dove sia sempre garanzia di lievitazione mentale; e l’inventariamento il più possibile completo d’un «passato», quello di Venezia ovviamente, è lì lì per sconfinare nella borgesiana carta dell’Impero. Ma la Fondazione, il suo Centro di cultura e civiltà, non è che si situino in qualche irraggiungibile altopiano nel quale vivere separati e sottratti alle contingenze. Sono in un’isola a portata di mano, con fermata per i vaporetti. Sono a Venezia. «Dopo tutto», conclude Arbasino, questa «vive specialmente per la cultura. È quasi il suo massimo affare. Ma le sue istituzioni dovrebbero funzionare tutte come la fondazione Cini [...], macchina ormai talmente vasta da esercitare una funzione pubblica sempre più importante»(3).
Istituzione veneziana, dunque, la Fondazione e stabilmente funzionante a mo’ di macchina attivata. Un attivarsi ideativo e attuativo in due direzioni, un impegnarsi realizzativo su due fronti: quello della costituzione di sedi permanenti di studio, per lo studio dotate di specifica strumentazione e con propria possibilità d’espressione; quello convegnistico, seminariale, congressuale, espositivo, delle mostre, insomma, dei cicli di conferenze, dei corsi, delle musiche, dei concerti, degli spettacoli. Due direttive di marcia, vien da dire, a impostare le quali e ad attuarle fondamentale, improntante è il ruolo di Vittore Branca. Lo studio a S. Giorgio, si può anche semplificare, e le manifestazioni di S. Giorgio, col loro calendario ora fitto ora rallentato, leggibile anche a mo’ di occasioni d’appuntamento per un pubblico veneziano e non solo veneziano. E segnalabile, tra le tante manifestazioni, quella del settembrino Corso di alta cultura: per una quindicina di giorni, all’insegna d’un tema-problema, un quotidiano succedersi di conferenze-lezioni aperte al pubblico e destinate ai corsisti-borsisti che poi ne discutono in apposite riunioni seminariali. È ormai, questa del Corso nella prima metà di settembre, una tradizione collaudata, sin un’abitudine che, a partire dal 1959, puntualmente si rinnova ogni anno. «Barocco europeo e barocco veneziano»: questo il titolo del primo Corso apertosi con una lezione introduttiva di Luciano Anceschi ovviamente sull’idea del barocco. «Città eterne», questo l’argomento del 41° Corso introdotto da una lezione di Brian Stock, dell’Università di Toronto, su s. Agostino e, ovviamente, le città eterne. Nel 1999 il 41° Corso. E seguirà, nel settembre del 2000, il 42°... E dopo ogni corso — all’incirca un paio d’anni dopo — la stampa dei relativi interventi trasformati in altrettanti saggi, la pubblicazione, serbando il titolo del Corso, dei cosiddetti «Atti». Messi assieme i volumi finora usciti esitano in una collana di saggistica.
Numeroso, ogni anno, il pubblico a questi Corsi. Tant’è che, in genere, le lezioni-conferenze si tengono nel capiente salone — il cosiddetto Cenacolo — dal monumentale ingresso, con volta a botte, con sulla parete di fondo lo Sposalizio della Vergine di Tintoretto. Comprensibile l’uditorio esiga un oratore non banale, all’altezza dell’ambiente. Lo s’annota per esemplificare quel che s’è dianzi osservato: che la sede ha il suo peso, che è impegnativa, avvalorante se è il caso, sin impietosamente ostile se non lo è, nel senso — è chiaro — che accentua l’eventuale insignificanza delle parole. A ogni modo, anche questo è riscontrabile lungo i decenni, s’è formata una sorta d’utenza — veneziana e non solo veneziana — che di proposito si reca a S. Giorgio, che nell’isola viene volentieri, che a S. Giorgio s’è affezionata, che è sensibile agli appuntamenti dalla Fondazione proposti. E viene per il Corso di settembre, e viene per altre occasioni. Queste non mancano, talvolta abbondano. Un particolare richiamo l’esercitano le mostre, per lo meno talune. Lo spazio per esporre c’è. E, naturalmente, ogni mostra è forte del relativo catalogo. Sono troppe per dir di tutte e anche per selezionare tra tutte. Basti la menzione di alcune tra le più recenti: quella di Mondrian del 1990, quella di Moore del 1995, quella delle icone russe del 1996, quella, del 1997, sulla Venezia che, capitale, ancor si dice pittoricamente per poi, non più capitale, esser detta, sempre pittoricamente. Risalendo poi un po’ all’indietro ecco, nel 1982, la mostra di Canaletto, ecco, nel 1989, la mostra di Hogarth e, se si fa un balzo all’indietro, ecco, nel 1978, quella piranesiana, ecco, nel 1976, quella sulla xilografia cinquecentesca. Come, per i congressi, arrivano le personalità insigni, così per le mostre arrivano le opere d’arte. E se nelle mostre è la figurazione — disegni, stampe, statue, dipinti, scenografie, progetti architettonici — a far da padrona, nei convegni, nei congressi, negli incontri quel che campeggia è un argomento affrontato di petto e tangenzialmente in un dibattito a più voci, nel confronto di più competenze. Tanti i congressi, tanti i convegni e tutti seguiti dalla stampa degli «Atti». E sin troppi a volerli solo nominare. In questa sede ci si limita a segnalare, tra gli ultimi, quello su «Puèkin europeo» dell’ottobre del 1998 realizzato assieme all’Accademia dei Lincei. Questo per dire che altri collaborano colla Fondazione e che la Fondazione collabora con altri. Il che vale — e l’esempio questa volta è proprio ultimissimo — anche per il corso di formazione per insegnanti svoltosi, in collaborazione coll’I.R.R.S.A.E. (Istituto Regionale per la Ricerca, la Sperimentazione e l’Aggiornamento Educativi) del Veneto, in due tempi — nel marzo del 1999 e nel febbraio del 2000 —, sul tema «L’orologio cosmico e il tempo dell’uomo».
Ricettiva la Fondazione d’un allargato ventaglio d’argomenti e, insieme, propositiva del dialogo sugli argomenti più che impositiva d’una propria visione. Cattolico il fondatore Vittorio Cini e in stretto rapporto con papi quali Giovanni XXIII e Paolo VI; cattolico il giurista Francesco Carnelutti nelle sue affabili ed edificanti conversazioni sangiorgine; improntata dallo spiritualismo cattolico, tra le grandi opere a carattere enciclopedico dalla Fondazione promosse — le altre sono l’Enciclopedia universale dell’arte in 15 volumi, l’Enciclopedia dello spettacolo in 11 volumi, Le civiltà dell’Oriente, in 4 volumi —, l’Enciclopedia filosofica in 6 volumi. Cattolico, altresì, Vittore Branca, suo segretario generale dal 1953 al 1988, suo presidente nel 1995-1996. Epperò non centrale di propaganda la Fondazione. Quello dello schieramento non è il suo tratto, il suo modo d’essere. Vale piuttosto la convocazione di più saperi alla volta di più comprensivi intendimenti. Semmai, dalla sommatoria dei convegni e dei corsi, risulta quasi una sorta di continuato dialogo a più voci. È forse la fiducia nel dialogo quel che sottende la sangiorgina promozione di convegni sui temi più disparati. Epperò va anche aggiunto che — tra i tanti argomenti a S. Giorgio discussi — concomitante persiste un solo argomento privilegiato, a mo’ di costante, a mo’ di tema fisso: Venezia, la sua storia, la sua civiltà, la sua peculiarità, la sua singolarità e, pure, se si vuole, il suo anacronismo. Permanente sede per lo studio della civiltà veneziana il Centro di cultura e civiltà della Fondazione. Nasce — lo si è detto — nel 1954. E nella primavera del 1954 inizia il primo degli undici cicli primaverili di conferenze alla civiltà veneziana dedicati, dai suoi primi baluginî alla caduta della Serenissima per poi proseguire sino all’«età romantica» e, oltre, sino a «Venezia nell’unità d’Italia»; undici cicli e altrettanti volumi. E successivamente la riedizione, con integrazioni, a cura di Vittore Branca, col titolo complessivo di Storia della civiltà veneziana (Firenze 1979), scandita in 3 tomi: Dalle origini al secolo di Marco Polo; Autunno del Medioevo e Rinascimento; Dall’età barocca all’Italia contemporanea. A premessa qualche pagina introduttiva di Fernand Braudel: Amar Venezia per capirla. Ecco il titolo voluto dallo storico francese per questa sua introduzione: vale per lui, vale per contrassegnare l’opera che presenta, vale anche — se si volesse riandare alla genesi prima di questa stessa Storia, all’animus motivante gli incontri sangiorgini che l’hanno abbozzata — per quella in più volumi che seguirà ed è ora in via di ultimazione.
Ma quale la struttura della Fondazione in quanto «centro di cultura e civiltà» tradotto in «scuola di san Giorgio per lo studio della civiltà veneziana»? Una strutturazione che vien da definire tematica, via via sagomata da istituti a un tema appunto destinati. Ora sono sette. Qui — in ordine di nascita — un rapido cenno a ognuno. Dal 1954 è attivo l’Istituto di storia dell’arte: ragguardevole la sua dotazione di libri e periodici; eccezionale la fototeca dedicata principalmente alla figurazione veneta con estensione a quella italiana che, risultato di sistematica raccolta e, pure, di campagne fotografiche, è ricca ora di 730.000 fotografie. Di queste circa 330.000 sono classificate, montate su schedoni collocati con criterio topografico; e agevolata la consultazione — se l’artista è veneto — dall’avviata schedatura nominativa. Naturalmente è da questo Istituto che partono le manifestazioni espositive o su di lui ricadono organizzativamente. Sua espressione, dal 1957, il periodico «Saggi e Memorie di Storia dell’Arte», ora giunto oltre il numero 20. E all’Istituto, dal 1991, fa capo la redazione del periodico «Arte Veneta». S’aggiunge, dal 1955, l’Istituto per la storia della società e dello stato Veneziano: ha una biblioteca; vanta una notevole raccolta di periodici e riviste a carattere storico italiani e stranieri; ha costituito una microfilmoteca radunante, appunto, microfilmati, documenti, cronache, relazioni, corrispondenze diplomatiche di diretto o indiretto interesse veneto esistenti, fuori Venezia, in Italia e all’estero. Col che, in virtù della microfilmoteca, l’Istituto offre una documentazione complementare rispetto a quella custodita all’Archivio di Stato, l’Archivio dei Frari. In questo — tanto per esemplificare — gli originali dei dispacci dei rappresentanti veneti nelle capitali estere, rispetto a Venezia si capisce. In quella, nella microfilmoteca, le bobine — inscatolate e collocate, topograficamente in base all’archivio o biblioteca di provenienza, in apposite cassettiere — coi microfilm dei dispacci dei rappresentanti esteri a Venezia, quindi dei nunzi pontifici, degli ambasciatori francesi, cesarei, estensi, medicei, sabaudi e via elencando. Naturalmente — tra i convegni e gli incontri di studio indetti dalla Fondazione — compete all’Istituto timbrare quelli di più diretta attinenza storica, da quello del 1957 sulla decadenza economica di Venezia nel Seicento a quello del 1971 sul Mediterraneo alla luce della battaglia di Lepanto, sino a quello del 1997 su Venezia e l’Austria. Dal 1959 l’Istituto s’esprime con un periodico, «Studi Veneziani»: 18 i numeri della prima serie; oltre 40 quelli della nuova serie, iniziata nel 1977.
Terzo a costituirsi, nel 1956, l’Istituto di lettere musica e teatro — questa l’intitolazione originaria poi modificata in quella attuale di Istituto per le lettere, il teatro e il melodramma —, anche questo con biblioteca specializzata sul versante letterario, linguistico, dialettologico, teatrale. Notevolissimo suo strumento di lavoro la fototeca di scenografia del teatro in musica. Sua importante acquisizione il fondo Rolandi, ossia la raccolta — la più completa in assoluto tra le private — di libretti per musica a suo tempo costituita da, appunto, Ulderico Rolandi, del cui catalogo è in corso la pubblicazione. Ha, tra i fondi conservati, pure quello radunante documenti, foto, manoscritti e abiti di scena relativi a Eleonora Duse. In via di costituzione — tramite lo spoglio sistematico di dizionari, glossari, testi, proverbi — un archivio lessicale veneto donde puntare alla volta d’un grande, esaustivo vocabolario veneziano. E in vista d’un monumentale atlante linguistico della terminologia marinara (nel senso più lato, quindi anche ittionomica, fitonomica) nell’area mediterranea i 14 volumi finora usciti del «Bollettino», appunto, «dell’atlante linguistico mediterraneo». Di pertinenza dell’Istituto, a partire dal 1972, i convegni sul melodramma. E sua competenza, altresì, quelli all’insegna della «linea veneta», dedicati, di volta in volta, o a un autore veneto novecentesco — Buzzati, ad esempio, Noventa, Parise, Berto — o ad autori, come Pound, come Hemingway, come James, segnati, per un verso o per più versi, dall’esperienza di Venezia. Quarto nel veder la luce, nel 1958, l’Istituto «Venezia e l’Oriente», subito proiettato alla volta delle civiltà orientali, asiatiche, dell’Iran, dell’India, della Cina, del Giappone. Donde un ragguardevole settore buddologico, donde, nella sezione delle fonti cinesi, i rari microfilmati della Biblioteca nazionale di Pechino; donde, a render consistente il settore indologico, l’acquisita donazione, del 1971, dell’intera biblioteca di Alain Daniélou. E alla prima impostazione tutta orientalistica ed estremo orientalistica, s’è aggiunta, nel 1963, l’attenzione — indispensabile per non dimenticare Venezia — al mondo bizantino, all’Europa orientale. E promossa dall’Istituto la collana «Orientalia Venetiana». Operante, dal 1970, all’interno della Fondazione l’Istituto interculturale di studi musicali comparati a promozione e diffusione — in collegamento col berlinese Istituto internazionale per la musica comparata — delle musiche non occidentali, africane, orientali. Fondato, ancora nel 1947, da Antonio Fanna l’Istituto italiano Antonio Vivaldi nel 1978 è incorporato con tutto il materiale nel frattempo raccolto nella Fondazione. Dispone – microfilmate o fotografate o in copia fotostatica — di tutte le composizioni vivaldiane manoscritte (autografe o no che siano) e/o a stampa. S’aggiungono una nastroteca e una discoteca comprensive e della documentazione sonora e delle registrazioni discografiche dei concerti con esecuzioni di Vivaldi. Promotore dell’edizione critica delle opere di Antonio Vivaldi, della collana «Drammaturgia musicale veneta», della collana «Quaderni vivaldiani», del periodico «Informazioni e Studi Vivaldiani», l’Istituto, dal 1990, organizza pure il premio internazionale del disco Antonio Vivaldi destinato a esecuzioni di musica italiana antica. E, infine, ultimo a nascere — da una costola dell’Istituto di lettere —, nel 1985, l’Istituto per la musica, attivo nel promuovere edizioni critiche — a lui fa capo quella nazionale d’Andrea Gabrieli —, nella pubblicazione di saggi musicologici, di ricerche attinenti alla storia della musica con un’attenzione spaziante dalla polifonia cinquecentesca e dal Settecento musicale veneziano alla musica del Novecento. E, nell’ambito di questa, la documentazione offerta dai fondi Ottorino Respighi, Nino Rota, Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero, Camillo Togni; e annoverabile in detto ambito pure la sinergia in atto colle attività dell’Archivio Luigi Nono.
Questa in breve l’intelaiatura dei sette istituti in attività. A titolo informativo va anche precisato che, il 14 luglio 1997, s’è costituita, per congiunta iniziativa della Fondazione Cini e della Cassa di Risparmio di Venezia, la Fondazione Scuola di San Giorgio coll’obiettivo di formare — tramite corsi e seminari destinati a laureandi e neolaureati e predisponendo nell’area ex scuola meccanica cinque laboratori: di restauro del libro; di restauro virtuale; di produzione di edizioni «critico-pratiche»; di restauro acustico e di rilievo acustico architettonico; di arte e archeologia bizantina e dell’Oriente medievale — competenze specializzate. Col che s’è giunti ad affacciarci sul secolo XXI, accompagnati dalle musiche dell’Accademia musicale di S. Giorgio, inserita, dal 1999 — è del 30 giugno il suo concerto inaugurale —, nel quadro delle strutture permanenti della Fondazione. Un futuro da affrontare con alle spalle un cinquantennio di vita. E lungo questo presidenti della Fondazione Nino Barbantini, Angelo Spanio, Bruno Visentini, Vittore Branca, Feliciano Benvenuti. E lungo questo in Fondazione con incarichi direttivi gli storici dell’arte Giuseppe Fiocco e Rodolfo Pallucchini, lo storico del diritto Giampiero Bognetti, il goldonista Giuseppe Ortolani, lo storico della lingua italiana Gianfranco Folena, il bizantinista Agostino Pertusi, il letterato Piero Nardi, lo storico dell’età moderna Gaetano Cozzi, cui molto la Fondazione deve, e non solo per il contributo decisivo da egli fornito al disegno complessivo di questa Storia di Venezia. Segretario generale della Fondazione dal 1988 al 2001 Renzo Zorzi, cui è poi subentrato Pasquale Gagliardi. Ultimo presidente della stessa è Giovanni Bazoli. E, per chiudere coll’oggi, attualmente attivamente presenti: Vittore Branca, presidente del comitato direttivo di questa Storia da lui soprattutto voluta; lo storico dell’arte Alessandro Bettagno; l’italianista e poeta Fernando Bandini; il musicologo Giovanni Morelli; il sinologo Lionello Lanciotti; lo slavista Sante Graciotti; l’autore di questo profilo(4).
4. Ovviamente sintetico questo. Per una più ampia informazione si rinvia a: Gino Damerini, L’Isola e il Cenobio di San Giorgio Maggiore, Venezia 1969; Venezia 1951-1971. Venti anni di attività della fondazione Giorgio Cini, Venezia s.a. [ma 1971]. E puntuale resoconto dal 1956 al 1974 i 45 numeri del «Notiziario di San Giorgio». E ripresa l’informazione su di sé della Fondazione, nel 1999, con la «Lettera da San Giorgio», di cui è prevedibile l’uscita semestrale.