La fisica nel Settecento: teorie e sperimentazioni
Il proposito di ricostruire un quadro complessivo della fisica nell’Italia settecentesca è reso difficile dal carattere policentrico della cultura scientifica del tempo, dovuto alla frammentazione politica della penisola e alla conseguente formazione di tradizioni molto diverse tra loro. Nel primo Settecento, quando è ancora forte l’effetto intimidatorio della condanna inflittagli nel 1633 dall’Inquisizione per aver difeso la cosmologia eliocentrica copernicana, Galileo Galilei viene ricordato più come il fondatore della nuova fisica quantitativa che come astronomo. La sua presenza nella cultura scientifica settecentesca è garantita da due edizioni delle sue opere, quella di Firenze del 1718 e quella di Padova del 1744 che, a differenza della precedente, conteneva anche il condannato Dialogo sui massimi sistemi. Il suo metodo sperimentale è adottato nei più avanzati centri di ricerca, anche se in molti collegi e università la teoria aristotelica delle qualità è ancora insegnata dopo la metà del secolo.
Già nei primi decenni, tuttavia, le teorie, i sistemi di filosofia naturale (termine ancora prevalente su quello di fisica) più discussi sono soprattutto quelli di René Descartes (1596-1650), di Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) e di Isaac Newton (1642-1727), il cui processo di assimilazione, con cui coincide la storia della fisica nell’Italia settecentesca, si verificò in un primo tempo attraverso manuali provenienti dall’estero. Per la filosofia e la scienza di Descartes ricordiamo il Traité de physique (1671) di Jacques Rohault e le Institutiones philosophicae (1695) di Edmond Pourchot. Le opere di divulgazione della scienza newtoniana circolanti in Italia sono quelle di Willem Jacob ’s Gravesande (1688-1742) e di Pieter van Musschenbroek (1692-1761), esponenti del cosiddetto newtonianesimo olandese, caratterizzato dal disinteresse per le implicazioni metafisiche e teologiche e dal rilievo dato agli esperimenti e agli strumenti. I Physices elementa mathematica (1720-1721) del primo e gli Elementa physica (1734) del secondo ebbero grande fortuna in Italia come nel resto dell’Europa continentale; opere ricche di illustrazioni di strumenti che potevano essere costruiti da artigiani locali, oppure ordinati in Olanda presso gli autori stessi dei manuali. Si deve probabilmente soprattutto alla fortuna di questa forma di newtonianesimo la trasformazione del concetto e del significato del termine fisica, della stessa denominazione degli insegnamenti universitari, dei relativi metodi didattici e di ricerca, e perfino dei luoghi in cui si svolgevano e del pubblico cui si rivolgevano.
Nei centri italiani più importanti (Bologna, Napoli, Padova, Torino, Firenze, Pavia) furono istituite cattedre e costruiti gabinetti, teatri o musei di fisica sperimentale e operarono figure di studiosi e sperimentatori di primissimo piano, da Giovanni Poleni a Giambattista Beccaria, Felice Fontana e Alessandro Volta. Per la precocità delle riforme che portarono alla creazione del pubblico Istituto delle scienze e delle arti e all’avvio di un processo di istituzionalizzazione della scienza moderna, in primo luogo della fisica sperimentale, Bologna fu punto di riferimento paradigmatico per le altre realtà, comprese quelle, come Torino e Pavia, che nell’ultimo quarto del Settecento le subentreranno nel ruolo di avanguardia.
Nel corso del Settecento il significato del termine fisica cambiò, come cambiarono quelli delle due parti in cui secondo la tradizione aristotelica la disciplina si divideva, generale e particolare. La fisica particolare (o speciale) trattava separatamente, ma con lo stesso metodo, parti diverse della natura (i cieli, i corpi inorganici, le piante, gli animali e l’uomo). A questa concezione si mantennero fedeli i cartesiani. Rohault, nel suo Traité de physique, la definisce «la scienza che ci insegna le ragioni e le cause di tutti gli effetti prodotti dalla Natura» (1671, p. 17). La matematizzazione, aspetto fondamentale della fisica moderna, fu a lungo ostacolata dal fatto che tradizionalmente la matematica era associata alla pratica, dando luogo alle matematiche «miste» o «applicate» (astronomia, ottica, statica, idraulica, arte della navigazione, topografia ecc.), discipline ritenute dominio di meccanici e ingegneri, non dei filosofi naturali. Le resistenze, da parte di qualche università, a inserire la fisica fondata sulla matematizzazione e sull’esperimento dimostrativo, non tra le matematiche applicate, ma nel campo ancora identificato con quello della filosofia naturale, sussisteranno ben oltre l’inizio del 19° secolo. Per contro, già negli ultimi decenni del Settecento si riscontrano situazioni in cui al parziale mantenimento della vecchia terminologia corrispondevano contenuti nuovi.
Nell’Istituto delle scienze di Bologna, dove fin dal 1715 si tenevano corsi di fisica sperimentale, si arrivò nel 1776 alla decisione di distinguere tra la parte della fisica collegata alla geometria e quella che richiedeva complessi esperimenti, tra gli studi di meccanica razionale e quelli che portavano la fisica a mescolarsi con chimica e fisiologia. Si istituirono così due corsi, uno di fisica generale e uno di fisica sperimentale, affidati rispettivamente a Sebastiano Canterzani (1734-1818) e a Laura Bassi. Nel 1788 i due corsi furono unificati e trasformati in un corso biennale di fisica, in cui le lezioni del primo anno vertevano sulla fisica «generale» e quelle del secondo sulla fisica «particolare». Introducendo le lezioni del secondo anno, Canterzani puntualizzava il diverso ruolo degli esperimenti nelle due branche della fisica. Mentre la «fisica particolare […] non può fare un passo senza appoggiarsi agli esperimenti», non è così per quella generale che, «considerando principalmente le leggi […] che osserviamo avere in natura i corpi, stabilito che sia coll’esperimento un fatto, che ne mostri una proprietà fondamentale, e per così dire regolatrice del moto, tutto il resto si conchiude mediante la teoria». Al contrario, «la fisica particolare è tutta sperimentale, e le teorie non sono ordinariamente che ipotetiche» (S. Canterzani, Lezioni di fisica, Biblioteca universitaria di Bologna, ms. 4172, 2 b, cit. in Cavazza 1993, p. 162).
Il «ramo» di fisica particolare trattato per primo in quell’anno, cioè la luce, permise a Canterzani di esemplificare efficacemente i principi epistemologici e metodologici adottati. Egli annunciò agli studenti l’intenzione di esporre le principali teorie sulla natura della luce, quella corpuscolare dei newtoniani e quella ondulatoria di Leonhard Euler (1707-1783), senza tuttavia porre il problema «di decidere quale di esse sia la vera e la più probabile». Le rimanenti lezioni del secondo anno furono dedicate in parte all’elettricità, in parte «alle arie che generalmente si chiamano fisse […] ramo della fisica, che al giorno d’oggi è l’oggetto principale delle ricerche de’ più celebrati Fisici, e indagatori della Natura» (S. Canterzani, Lezioni di fisica, cit., p. 162).
In effetti, come si vedrà, l’ottica, l’elettricità e le «arie», cioè i gas, furono i settori di ricerca più frequentati dagli scienziati attivi nel Settecento a Bologna. Le pagine con cui Canterzani inaugurava i suoi corsi di fisica generale e particolare, improntate, oltre che a Newton, a Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783), erano il punto d’arrivo di un percorso iniziato nei primi decenni del secolo. Esse confermano l’indirizzo che a Bologna, come in altre università e accademie italiane ed europee, era stato scelto da chi intendeva lasciarsi alle spalle non solo l’approccio epistemologico e metodologico aristotelico-scolastico, ma anche quello aprioristico dei cartesiani. L’adozione del metodo matematico-sperimentale di Newton, nell’accezione diffusa nel continente da alcuni suoi seguaci inglesi e soprattutto dai newtoniani olandesi, portò a restringere il dominio della filosofia naturale, ormai fondata su «princìpi matematici» e sul sistematico uso di esperimenti dimostrativi (Heilbron 1982; trad. it. 1984, p. 21). Gli stessi termini filosofia naturale e filosofo naturale, usati in Inghilterra fin quasi alla metà dell’Ottocento, furono presto sostituiti nell’Europa continentale e quindi anche in Italia da quelli di fisica e fisico.
Fin verso la metà del 18° sec. il confronto tra le diverse tradizioni, cartesiana, leibniziana, newtoniana, avvenne prevalentemente su un piano metafisico, anche se la dimostrazione sperimentale era considerata decisiva per la conferma delle tesi filosofiche. Le differenti concezioni della forza, per es., che diedero luogo a un’accesa controversia, rinviavano a inconciliabili spiegazioni della natura di Dio e del suo rapporto con il mondo, oltre che a diverse visioni cosmologiche. Dibattiti di questo genere coinvolsero in Italia numerosi e qualificati intellettuali cattolici, cosiddetti illuminati, da Celestino Galiani (1681-1753) e Ludovico Antonio Muratori (1652-1750), a Jacopo Riccati (1676-1754) e Ruggero Giuseppe Boscovich, che legarono indagini sperimentali e analisi matematica all’impegno per il rinnovamento della Chiesa e del suo rapporto con la società e la scienza. I successi conseguiti durante il pontificato di Benedetto XIV (1740-1758), in primis la cauta ammissione del newtonianesimo da parte della Chiesa, s’interruppero negli anni Sessanta anche come reazione alla prevalenza di posizioni radicali e materialiste nel movimento illuminista, soprattutto quello francese.
Fu centrale il ruolo di Francesco Algarotti (1712-1764) nella diffusione dell’interesse per la fisica e soprattutto per l’ottica di Newton anche presso un pubblico di dilettanti, ignari di matematica ma affascinati dagli esperimenti di scomposizione e ricomposizione della luce bianca in raggi di diversa rifrangibilità e colore esposti nell’Optiks (1704). Nel 1728 il sedicenne Algarotti riuscì a ripeterli pubblicamente nell’Istituto delle scienze di Bologna, attirando l’attenzione della Royal society di Londra e segnando un importante punto in favore della teoria newtoniana della luce, messa in discussione da Giovanni Rizzetti nel De luminis affectionibus (1727). Pochi anni dopo, nel 1737, Algarotti pubblicò il suo famoso Newtonianismo per le dame, un’esposizione della fisica, dell’ottica e dell’astronomia newtoniane, in sei dialoghi tra un «filosofo» e una giovane marchesa, che ebbe molte riedizioni e traduzioni nelle principali lingue europee. Caso unico tra i testi di divulgazione newtoniana, l’opera fu inserita nell’Indice dei libri proibiti (1739), formalmente per indecenza morale. In realtà, si è ipotizzato che la condanna colpisse le idee di cui il newtonianesimo era portatore: l’eliocentrismo copernicano, parte integrante della cosmologia newtoniana, oppure l’ideologia massonica leggibile in controluce.
Di particolare rilievo nella ricezione di Newton fu la contrapposizione tra quella metafisica e materialista di Antonio Conti, che vedeva nella gravitazione universale la manifestazione della «forza-materia» intrinseca alla natura, e quella «più empiristica» di Galiani che, da lettore attento delle opere di John Locke oltre che di quelle di Newton, vedeva nelle teorie scientifiche e nella teologia naturale di quest’ultimo
i presupposti per smuovere il cristianesimo da sterili certezze apologetiche, aprendolo al razionalismo scientifico, alle ardite tematiche del deismo, a nuovi temi politici (Ferrone 1982, p. 671).
Quando ne ebbe l’occasione, l’autorevole prelato celestino operò per favorire l’istituzionalizzazione della nuova fisica. Diventato nel 1731 cappellano maggiore del Regno di Napoli, con il potere di sovraintendere ai «regi studi», fondò nel 1732 l’Accademia delle scienze e delle lettere ed elaborò una riforma dell’Università, approvata dal nuovo re Carlo III di Borbone e applicata tra il 1734 e il 1735. L’insegnamento di fisica fu diviso tra due cattedre, una di fisica generale e l’altra di fisica sperimentale. Quest’ultima fu assegnata al celestino Giuseppe Orlandi, che si affrettò a comunicare al cappellano maggiore l’intenzione di far intendere come «la vera maniera di filosofare non sia altro che per mezzo dell’esperienza», donde la necessità di sostituire agli obsoleti metodi scolastici l’osservazione del libro della natura e lo studio «dei caratteri colli quali egli viene scritto che sono l’osservazione, le sperienze e la Geometria» (cit. in Schettino, in Dalla filosofia naturale alla fisica, 1998, p. 369). La matrice galileiana di queste parole non esclude l’adozione del metodo newtoniano: erano molti, a cominciare da Giambattista Vico, coloro che a Napoli come altrove in Italia sostenevano la continuità tra lo sperimentalismo galileiano e quello «degli Inglesi».
A Padova e in altre città del Veneto il confronto tra i sistemi di metafisica, fisica e cosmologia di Descartes, Newton e Leibniz fu particolarmente acceso. La figura più rilevante fu quella di Giovanni Poleni, il cui dialogo giovanile De vorticibus coelestibus (1712) suscitò contrastanti reazioni e ancor oggi è da alcuni letto come uno scritto cartesiano, da altri come una difesa di Newton (Soppelsa 1989, pp. 33-45). La seconda, più complessa, vicenda in cui Poleni svolse un ruolo cruciale riguarda i più tardi dibattiti sulla forza viva tra Newton e Leibniz e tra i rispettivi sostenitori. Al centro della discussione vi erano sia questioni metafisico-filosofiche, sia dimostrazioni sperimentali, compiute con strumenti appositamente costruiti. Alle prime fasi della polemica presero parte, tra gli altri, Conti (in dialogo con Galiani) e Jacob Hermann (professore di matematica a Padova), ma l’intervento più rilevante fu quello di Poleni, che in un testo di idraulica, De castellis (1718), partendo dall’esigenza di valutare la forza delle acque prementi contro i lati convergenti delle chiuse, si era chiesto quale rapporto esistesse tra «le velocità dei moti dei corpi e le forze vive corrispondenti alle medesime velocità» (cit. in Soppelsa 1989, p. 134). A tal fine Poleni «istituiva un tentamen che rimarrà famoso nella letteratura scientifica del Settecento» (p. 134), e che fu da lui illustrato in diversi scritti e, in particolare, nel discorso con cui nel dicembre 1740 inaugurò nell’università di Padova il nuovo «teatro di filosofia sperimentale». L’esperimento, che per ragioni di spazio non è possibile descrivere qui, era, secondo Poleni, «cruciale», in quanto confermava la teoria dell’urto elastico da lui stesso elaborata e gli permetteva di universalizzare il comportamento delle forze vive nella direzione leibniziana (pp. 134-35). Il tentamen ebbe vasta risonanza e suscitò molte confutazioni, ma anche la clamorosa conferma di un autorevole newtoniano come ’s Gravesande, che nel suo Essai d’une nouvelle théorie du choc des corps (1722) dichiarò di aderire alla teoria della forza viva di Leibniz. Seguirono molti interventi critici, anche dello stesso Newton. In Italia non mancarono prese di posizione contrarie di cartesiani e newtoniani, anche perché la polemica venne a intersecarsi con quella antinewtoniana sulla natura della luce di Rizzetti.
Poleni trovò appoggio in Riccati, che l’aiutò a dotare le sue tesi di una più solida fondazione matematica e lo incoraggiò ad argomentarle ulteriormente in una lettera a Conti (1728). La discussione andò avanti per decenni e trovò un palcoscenico nei «Commentarii» dell’Istituto bolognese delle scienze, per impulso dell’attivissimo segretario, il filosofo, matematico e letterato Francesco Maria Zanotti (1692-1777). Già nella sezione Mechanica del primo volume (1731) apparvero tre «opuscoli», rispettivamente di Rizzetti, critico sia verso Newton sia verso Leibniz, di Riccati, di orientamento leibniziano, e dello stesso Zanotti, di taglio cartesiano. Nei volumi successivi, fino al sesto (1767), comparvero ulteriori saggi, dello stesso segretario, di Eraclito Manfredi, Eustachio Zanotti, Vincenzo Riccati e altri. Di particolare rilievo l’opuscolo De viribus vivis (1745) di Boscovich, che offre un’accurata rassegna storica della questione, approda a una soluzione simile a quella proposta da d’Alembert nel Traité de dynamique (1743) e nega la necessità di ricorrere alle forze vive.
Nel 1745, nel secondo tomo dei «Commentarii» dell’Istituto, sotto il titolo De vi corporum viva, Zanotti espose le posizioni di diversi studiosi, dal matematico leibniziano Johann Bernoulli (1667-1748) a Poleni, ai bolognesi Eustachio Zanotti (1712-1782) e Domenico G. Galeazzi (1686-1775), a due napoletani, Pietro di Martino (1707-1746), promotore a Napoli di un contro-esperimento mirante a falsificare il tentamen poleniano, e Faustina Pignatelli, principessa di Colubrano. Qualche anno dopo, nel Della forza de’ corpi che chiamano viva (1752), una nuova discussione sul tema sarà riproposta da Zanotti nella forma di un dialogo italiano a più voci, che ben illustrava il carattere della scienza settecentesca, non più occupazione riservata ad accademici e chierici, ma oggetto di curiosità da parte di dilettanti, uomini e donne, in genere appartenenti a strati sociali benestanti, se non privilegiati. Un personaggio come Zanotti, esponente autorevole dell’accademia e insieme mondano frequentatore di salotti, incarnava alla perfezione l’ideale di scienza sociabile auspicato dal suo prediletto allievo Algarotti. Lo spazio dato dall’Istituto bolognese a voci provenienti da varie regioni d’Italia e d’Europa, come anche la capacità, grazie al suo segretario (e poi presidente), di rivolgersi a un pubblico più vasto, provano il ruolo di catalizzatore di energie e di conoscenze svolto per larga parte del Settecento da questa istituzione.
In Italia la prima proposta di un profondo rinnovamento dei curricula e dei programmi universitari che prevedeva l’introduzione di un insegnamento di fisica sperimentale risale all’inizio del 18° secolo. Nel 1709 Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730) presentò al Senato bolognese un progetto di modernizzazione dell’antico Studio cittadino, intitolato Parallelo dello stato moderno dell’Università di Bologna con l’altre di là de’ monti. La sua proposta legava fisica e chimica, anticipando gli sviluppi delle due discipline. Marsili confidava che grazie alle «due letture di fisica e di chimica esperimentale», l’Università di Bologna sarebbe risorta, «in concorrenza delle straniere» (Anatomie accademiche III, 1993, p. 469). Questo progetto non fu accolto dalle autorità bolognesi a causa della opposizione dei collegi dottorali, ma negli anni seguenti Marsili riuscì comunque a far approvare dal Senato e dal papa la creazione di una struttura dedicata alla ricerca e all’insegnamento sperimentali, distinta dall’Università, ma a essa complementare. A tal fine il nuovo Istituto delle scienze e delle arti fu dotato di laboratori di fisica e di chimica, di un museo di storia naturale e di un osservatorio astronomico. Le Costituzioni dell’Istituto delle scienze, emanate il 12 dicembre 1711, prescrivevano che l’attività didattica fosse affidata a cinque professori (un astronomo, un matematico, un fisico sperimentale, un «istorico della natura», uno «spargirico», cioè un esperto di chimica farmaceutica), che ogni giovedì, giorno di chiusura dell’Università, erano tenuti a svolgere esercitazioni sperimentali per gli studenti (Cavazza 1990, pp. 218-19).
Il corso di fisica sperimentale, a differenza di altri che dovettero attendere l’allestimento dei rispettivi musei o laboratori, iniziò pochi mesi dopo l’inaugurazione dell’Istituto, avvenuta nel marzo 1714. Il professore era Iacopo Bartolomeo Beccari (1682-1766), buon conoscitore di Newton e futuro fellow della Royal society, che tenne l’insegnamento fino al 1734, quando passò a quello di chimica. I programmi dei suoi corsi si succedevano secondo un percorso organico: esercitazioni sui termometri, esperimenti su rarefazione e condensazione dell’aria e su natura ed equilibrio dei fluidi (1714-17); spiegazione del funzionamento della pompa pneumatica (l’Istituto ne possedeva al tempo due) e relativa dimostrazione di esperimenti (1717-19); esperienze sul magnetismo (1719-20); dimostrazione sperimentale degli elementi della dottrina sulle forze e il moto dei corpi (1720-21). Mancano i programmi degli anni successivi, ma dagli elenchi delle macchine fatte costruire dal «meccanico» dell’Istituto, Francesco Vittuari, si può ipotizzare che negli anni Venti i corsi di Beccari riguardassero esperienze sui pendoli e sulla caduta dei gravi nel vuoto o nell’aria. L’interesse per questi temi nasceva dai dibattiti sulla forza viva, riaccesi dall’intervento di ’s Gravesande in favore della tesi leibniziana. Il suo Essai d’une nouvelle théorie du choc des corps era presente fin dall’anno di pubblicazione (1722) nella biblioteca dell’Istituto, come del resto i due volumi del suo manuale Physices elementa (1720-1721; Cavazza, in Dalla filosofia naturale alla fisica, 1998, pp. 323-24). Gli argomenti trattati nei corsi di fisica sperimentale di Beccari collegavano alcuni temi propri della tradizione sperimentale galileiana e boyleana a esperimenti settecenteschi sulla natura e la conservazione della forza. Da questi programmi e da altri documenti si evince che negli anni Venti la camera di fisica dell’Istituto aveva già una discreta dotazione di strumenti e macchine, tutti costruiti da Vittuari o da artefici locali.
Secondo la divisione dei compiti stabilita nelle Costituzioni del 1711, nei loro «esercizii» i professori dell’Istituto dovevano limitarsi all’ostensione degli esperimenti, evitando di inserirli in un quadro teorico. Questo spettava ai professori dell’Archiginnasio. Tale divisione di compiti era il risultato del compromesso politico tra i collegi dottorali e il Senato, che aveva reso possibile la creazione della nuova istituzione. Specie nel primo periodo, quando i programmi e i metodi in uso nell’università erano ancora fedeli al modello aristotelico-scolastico, si determinò una situazione quasi schizofrenica. La sinergia tra le due istituzioni migliorò dopo la riorganizzazione dei programmi universitari (1737). Furono istituite nuove cattedre, tra cui, nella facoltà medica, quella di chimica, assegnata a Beccari. Tra le materie filosofiche, scompariva la filosofia naturale, sostituita dalla fisica, divisa in fisica generale e fisica particolare, termini antichi riempiti tuttavia di nuovi significati, come si desume dai nomi dei primi due lettori ai quali la lettura di fisica particolare fu assegnata. Il primo fu Francesco Maria Zanotti, al tempo segretario dell’Istituto, convinto cartesiano, ma anche promotore, fin dagli anni Venti, della verifica sperimentale dei principi ottici newtoniani. A lui subentrò, nel 1738, il medico Giuseppe Veratti, che proprio in quell’anno aveva sposato la celebre dottoressa Laura Bassi, che condivideva con lui l’adesione al metodo e ai principi di Newton.
Nella riforma del 1737, un inedito rilievo era dato alla meccanica, diventata materia di corso triennale, mentre tra le discipline matematiche la geometria analitica prevedeva l’insegnamento di algoritmi ed equazioni, calcolo integrale e differenziale. La preesistente cattedra di idrometria fu trasformata in un corso triennale che comprendeva lo studio dell’idrostatica, delle acque correnti e dei canali artificiali. Questa articolazione delle cattedre matematiche non era del tutto nuova per Bologna, perché qui già all’inizio del secolo alcuni giovani soci dell’Accademia degli Inquieti, in contatto con altri pionieri, italiani, tedeschi e svizzeri, e con lo stesso Leibniz, si erano dedicati allo studio prima della geometria analitica cartesiana, poi del calcolo infinitesimale e integrale. Nel 1707 Gabriele Manfredi pubblicò un’opera sulle equazioni differenziali di primo grado, e nel 1709 il Senato istituì la prima cattedra di geometria analitica, assegnata a Vittorio Francesco Stancari; quindi, dopo la sua scomparsa nello stesso anno, a Manfredi (Cavazza 1990, pp. 66-70). Il superamento, da parte degli Inquieti, della geometria sintetica classica (che in molti galileiani ostacolò la comprensione dei moderni ‘sistemi’) favorì negli anni seguenti un’assimilazione abbastanza precoce della fisica newtoniana (Baldini 1980, p. 475).
La riforma del 1737 accoglieva le proposte di docenti autorevoli e aggiornati, come Manfredi per le cattedre matematiche e Zanotti per quelle filosofiche, e migliorava la collaborazione con l’Istituto che, come si è detto, fin dal 1715 funzionava come una specie di laboratorio esterno dell’Università (Cavazza, in Dalla filosofia naturale alla fisica, 1998, p. 322). Proprio perché l’Università e l’Istituto rappresentavano due facce di una stessa realtà (i docenti e gli studenti erano gli stessi), si può affermare che Bologna fu il primo centro italiano ad adeguare le proprie strutture didattiche all’insegnamento della moderna fisica sperimentale. Inoltre, il sistema instaurato a Bologna, grazie alla sua robusta costituzione istituzionale, fu in grado di durare, con qualche aggiustamento, fino all’avvento dei governi napoleonici, quando fornirà sede, docenti e strutture all’università riformata secondo il modello di quella di Pavia (Cavazza 2008, p. 353). Nel 1802 l’insegnamento della fisica sarà inquadrato nella facoltà fisico-matematica subentrata alla precedente facoltà filosofica, e articolato in generale e sperimentale. Di fatto sarà applicato all’Università il modello scientifico-didattico messo a punto nei decenni precedenti nell’Istituto, che saldava la meccanica, già di esclusiva pertinenza matematica, a ricerche in campi fenomenici (la luce, l’elettricità, il magnetismo, le nuove «arie»; cfr. Cavazza, in Dalla filosofia naturale alla fisica, 1998, pp. 333-34).
Il progetto marsiliano di concentrare nel cinquecentesco palazzo Poggi due accademie, una di scienze e una di belle arti, una biblioteca ‘specialistica’, un osservatorio astronomico, un museo di storia naturale, un gabinetto di fisica, un laboratorio di chimica, un’officina per la costruzione di strumenti, un museo di arte militare e uno di antiquaria, era il frutto, oltre che della tradizione galileiana, di quella baconiana (Cavazza 2008, p. 320). L’Istituto bolognese era un prodotto della necessità di concentrare ricerca teorica, sperimentazione e trasmissione scientifica e tecnologica in un unico luogo, finanziato e controllato dallo Stato. Nella progettazione del complesso bolognese fu presa a modello l’Académie des sciences di Parigi, che del resto, dopo la riforma colbertiana del 1699, era ispirata ai principi baconiani e li realizzava con maggiore fedeltà della Royal society. L’Istituto bolognese era spesso paragonato dai contemporanei alla «Casa di Salomone» descritta nella Nuova Atlantide di Francis Bacon. Un giudizio enfatico, ma non ingiustificato, se si pensa alle idee ispiratrici del progetto marsiliano: l’utilità sociale della scienza, il suo carattere sperimentale, la collaborazione tra i saperi ‘alti’ dell’università e quelli ‘bassi’ di artigiani, artefici e meccanici, la pubblicizzazione delle ricerche e degli esperimenti.
Quest’ultimo aspetto è molto importante. L’attività dell’Istituto delle scienze diventò nota in Italia e all’estero grazie alla pubblicazione dei sette tomi in dieci volumi dei De Bononiensi scientiarum et artium instituto atque academia commentarii, iniziata tra mille difficoltà nel 1731 e conclusa nel 1791 con il 10° volume. Soprattutto nei decenni centrali del secolo, l’Istituto fu un punto di riferimento importante per fisici, matematici e chimici operanti altrove, in Veneto e Trentino, nel Regno di Napoli, a Torino, a Firenze. Fu questo il periodo di maggiore vivacità, autorevolezza e capacità attrattiva del centro bolognese. La crisi degli anni Venti-Trenta fu superata soprattutto grazie agli interventi finanziari e organizzativi promossi dal cardinale Prospero Lambertini, prima come arcivescovo di Bologna (1731-1740), poi come papa (1740-1758). Al fine di incrementare la produzione scientifica dell’Istituto e la sua utilità sociale, Benedetto XIV vi introdusse nuove discipline (anatomia, chirurgia e ostetricia) e istituì la nuova classe degli accademici benedettini, che ricevevano una modesta pensione subordinata alla frequentazione assidua delle sedute e alla presentazione di almeno una dissertazione originale l’anno. Tra gli interventi sovrani del pontefice va ricordata anche l’aggregazione «straordinaria» all’Accademia, nel 1755, di illustri studiosi stranieri, tutti francesi, a esclusione di van Musschenbroek: François Bossier de Sauvages, Charles Marie de La Condamine, d’Alembert, che si aggiunsero a Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, Gabrielle-Émilie du Châtelet e Jean-Antoine Nollet, nominati rispettivamente nel 1733, nel 1746 e nel 1748.
Rispetto alla ricerca fisica, l’intervento di maggior peso di Benedetto XIV fu l’autorizzazione all’acquisto in Olanda di un aggiornato apparato di macchine, scelte in un catalogo dell’artefice Jan van Musschenbroek, lo stesso che aveva costruito quelle illustrate nel manuale di ’s Gravesande.
Tra gli strumenti giunti a Bologna nel 1743, i più importanti erano una nuova e migliorata pompa pneumatica, una macchina elettrica, diversi congegni per lo studio delle forze e delle percussioni e altri per esperimenti di idrostatica e idrodinamica; termometri; prismi e specchi per gli esperimenti sulla scomposizione della luce e sui colori. L’arrivo degli strumenti olandesi entusiasmò soprattutto i newtoniani dell’Istituto, che identificavano la fisica sperimentale con la filosofia naturale tout-court, rifiutavano ogni fondazione metafisica ed escludevano che principi e leggi naturali potessero essere conosciuti per via razionale e matematica. Queste posizioni non erano condivise da Zanotti, che espresse il suo dissenso nel momento stesso in cui, come segretario dell’Istituto, annunciava nei «Commentarii» l’acquisizione dell’apparato di macchine (t. 2, parte I, 1745, p. 30). Egli prendeva le distanze dai più giovani accademici, come Veratti, per i quali il problema principale era proprio la mancanza di laboratori nell’Università e l’inadeguatezza dei corsi sperimentali dell’Istituto. La positiva influenza che la disponibilità di un qualificato apparato strumentale, insieme con gli incentivi su base meritocratica voluti da papa Lambertini, ebbe sul rilancio della produttività scientifica degli accademici, si può misurare dalla frequenza dell’uscita dei volumi dei «Commentarii», ben sette tra il 1745 e il 1767. Mancò invece una ricaduta positiva sull’attrattività dell’insegnamento della fisica sperimentale nell’Istituto. Le ragioni risalgono al compromesso tra prerogative dell’Università ed esigenze di modernizzazione sancito dalle Costituzioni del 1711. Un corso di due ore settimanali e per di più limitato alla dimostrazione di esperimenti avulsi da riferimenti teorici non poteva soddisfare le esigenze di studenti e dilettanti curiosi. L’analisi più lucida dell’inadeguatezza di questa situazione la dobbiamo a Laura Bassi, che in una lettera del 1755 così spiega la ragione per cui sei anni prima, nel 1749, aveva deciso di aprire una scuola domestica di fisica sperimentale, dotata di un attrezzatissimo apparato strumentale, che aveva incontrato un grande favore:
E pure la Fisica Sperimentale è divenuta a giorni nostri una scienza cotanto utile e necessaria e noi che siamo stati i primi in Italia a riceverla e coltivarla allorché si aprì l’Instituto, ora dobbiamo vedere con nostro rossore ed anche con discapito della nostra Università che nell’altre tutte più che qui s’insegni con quel metodo e con quella estensione che si ricerca al profitto della gioventù, dandone interi corsi annui in più luoghi; la qual cosa non potendosi nell’Instituto eseguire per le poche lezioni che ivi si fanno secondo il regolamento stabilito nel medesimo, mi mossi a pensar d’impiegare la mia se ben pochissima abilità nel servire al pubblico in questi studi (cit. in Cavazza 2008, p. 347).
Solo nel 1776 i senatori preposti al governo dell’Istituto intervennero, istituendo due distinti corsi completi di fisica generale e fisica particolare, nel dibattito che, a Bologna e in Europa, divideva i fisici in matematici e sperimentatori, cioè tra quanti riducevano la fisica alla meccanica razionale, e quanti privilegiavano esperienze a tutto campo, per approfondire, nelle direzioni indicate da Newton, la conoscenza di nuovi fenomeni e la ricerca di principi unificanti.
L’amara diagnosi di Bassi coglieva nel segno anche nell’evidenziare la perdita degli antichi primati. A metà del Settecento diversi centri universitari italiani avevano istituito corsi di fisica sperimentale più completi di quelli dell’Istituto e si erano dotati di aggiornati apparati strumentali. Nell’Università di Padova la prima cattedra di fisica sperimentale fu istituita nel 1738-39 e affidata a Poleni, che probabilmente aveva già trattato temi attinenti alla materia nei corsi di fisica che teneva dal 1715. Nel 1740 fu inaugurato, all’interno del palazzo del Bo, un «Teatro di Fisica Sperimentale», contenente un grande numero di strumenti costruiti e acquistati nei decenni precedenti dallo stesso Poleni. Era il primo laboratorio di fisica sito all’interno di un’università italiana e fu considerato uno dei più ricchi d’Europa (Salandin, Pancino 1987).
Nell’Università di Torino lo studio sperimentale della fisica comincia a essere possibile con la riforma del 1721 che, oltre a istituire un corso di fisica, avvia la costruzione di un laboratorio che arricchirà sempre più la sua dotazione di macchine. L’impulso maggiore a questi studi venne però dalla fondazione nel 1738 delle Reali scuole teoriche e pratiche d’artiglieria e di fortificazioni, con sede nell’Arsenale. Nello stesso anno giunse a Torino J.-A. Nollet (1700-1770), professore di fisica a Parigi, costruttore di strumenti e autore di fortunati manuali di fisica, per impartire al giovane duca Vittorio Amedeo lezioni di cui anche gli allievi delle Reali scuole poterono giovarsi. In sei mesi di permanenza Nollet vendette anche numerosi strumenti, che in parte arricchirono il Gabinetto universitario. I cultori torinesi di fisica si resero comunque conto della «necessità di svincolarsi dall’Università» per stabilire un dialogo con gli ambienti militari, dove la fisica sperimentale poteva esprimere nuove potenzialità «legandosi alla chimica, alla metallurgia e alle applicazioni tecnologiche» (Ciardi, in Dalla filosofia naturale alla fisica, 1998, p. 227). Nei decenni seguenti, sulla base della protezione e del controllo sovrani, si crearono a Torino e nel Regno di Sardegna le condizioni per il potenziamento delle istituzioni pubbliche dedicate alla ricerca scientifica e alla formazione del personale militare e tecnico-amministrativo dello Stato: oltre all’Università e a diverse scuole tecniche e militari, l’Accademia reale delle scienze, istituita nel 1783. Tra i molti e importanti studiosi di fisica attivi a Torino e nelle province sabaude è soprattutto da ricordare Giambattista Beccaria (1716-1781), professore di fisica dal 1748, che divulgò in Italia le idee di Benjamin Franklin (1706-1790) sull’elettricità, ordinandole in un quadro teorico rigorosamente newtoniano nell’opera Dell’elettricismo artificiale e naturale (1753). Beccaria intrecciò un’assidua collaborazione con l’Istituto di Bologna, dove soggiornò per alcuni mesi nel 1755, e in particolare con Bassi e Veratti. Qui pubblicò nel 1758 l’Elettricismo atmosferico, in forma di lettere al presidente dell’Istituto Beccari (Cavazza 2009). Dopo di lui sulla cattedra torinese di fisica salirono Gianfrancesco Cigna, Giuseppe A. Eandi e Anton Maria Vassalli, tutti suoi allievi. Gli ultimi due pubblicarono un manuale di fisica (1793) in cui prendevano posizione in favore dell’elettricità animale scoperta da Galvani (Ciardi, in Dalla filosofia naturale alla fisica, 1998, pp. 295-344).
Il riferimento alla fortuna in Piemonte della teoria dell’elettricità animale, fondata sulla dimostrazione sperimentale dell’esistenza di un fluido neuroelettrico che mette in moto il meccanismo della contrazione muscolare, rimanda alla controversia tra Galvani e Volta, che coinvolse la comunità scientifica italiana, con forti ripercussioni anche in Inghilterra. Volta, professore di fisica sperimentale all’Università di Pavia dal 1778, dopo numerose ripetizioni degli esperimenti di Galvani, concluse che «le contrazioni erano dovute all’elettricità estrinseca messa in moto dai metalli e non al meccanismo neuromuscolare immaginato da Galvani» (M. Bresadola, L’elettricità contesa: Galvani, Volta e le origini dell’elettrofisiologia moderna, in Neuroscienze controverse, a cura di M. Piccolino, 2008, p. 81). La controversia Galvani-Volta «contribuì in modo determinante a far emergere novità straordinarie, come l’esperimento galvaniano del contatto tra nervo e nervo (esperienza capitale nella storia della fisiologia) e l’invenzione della pila da parte di Volta» (p. 81), grazie alle quali la ricerca italiana tornò a livelli di eccellenza europea, rivelando le diverse tradizioni di due importanti centri, Pavia, rilanciata dalla riforma asburgica (1771-1773), e Bologna, dove i risultati originali raggiunti da Galvani costituirono il traguardo finale di una linea di ricerca sperimentale sviluppata nel secolo (o poco meno) di vita della cattedra di fisica (e di quella di chimica) dell’Istituto delle scienze. Un peculiare aspetto di questa tradizione è il fatto, di natura sociale e culturale, che tutti i professori che si succedettero sulle cattedre di fisica e di chimica, nell’Università e nell’Istituto, a eccezione di Bassi e Canterzani, erano laureati in medicina e medici di professione. Ciò spiega la prevalente tendenza a indirizzare le indagini su temi connessi con la fisiologia animale, in particolare sugli effetti, dannosi o terapeutici, dei nuovi «fluidi», magnetismo ed elettricità, e delle nuove «arie», l’anidride carbonica (aria fissa), l’idrogeno (aria infiammabile), l’ossido d’azoto (aria nitrosa), l’ossigeno (aria deflogisticata).
Una certa risonanza internazionale (più negativa che positiva, in verità) ebbe alla fine degli anni Quaranta il libro di Giuseppe Veratti, Osservazioni fisico-mediche intorno alla Elettricità (1748), che pretendeva di dimostrare sperimentalmente l’efficacia terapeutica delle scariche elettriche in alcuni stati morbosi. Grazie all’abate Nollet, giunto a Bologna nel 1749 per verificare personalmente l’efficacia di tali cure, le accademie di Parigi e di Londra furono informate sulle esperienze bolognesi. A dispetto delle espressioni di stima per la serietà di Veratti, Nollet era scettico sull’efficacia delle cure e critico sulle garanzie di rigore dei metodi usati da lui e da altri medici «elettricisti» italiani. Veratti continuerà tuttavia a praticare la «medicina elettrica» negli anni seguenti (Bertucci 2007, pp. 151-68). Soprattutto continuerà a studiare i fenomeni elettrici, artificiali e naturali, in collaborazione sia con la moglie Laura Bassi (con la quale condivideva l’obiettivo newtoniano di dimostrare l’analogia delle diverse forze agenti in natura, dall’elettricità al magnetismo, con la forza attrattiva), sia con altri medici-fisici bolognesi impegnati negli studi sugli effetti dell’elettricità sugli organismi e in particolare sul loro sistema nervoso, come Beccari, Tommaso Laghi (1709-1764) e Galeazzi, maestro e suocero di Galvani.
Un altro aspetto molto importante, fin dalla fondazione dell’Istituto, è quello dell’obiettivo dell’utilità pubblica della scienza, vivo fino alla sua cessazione, se pur declinato diversamente nel corso del secolo: in termini baconiani e colbertiani da Marsili, secondo gli ideali del cattolicesimo illuminato da Benedetto XIV, e secondo quelli del riformismo illuminista negli anni Settanta. L’ideale dell’uso pubblico delle scoperte derivanti dalle scienze fisiche e in particolare dei benefici prodotti dalla loro alleanza con le scienze mediche non era certo esclusivo dell’Istituto bolognese, anzi si può dire che dagli anni Quaranta in poi era condiviso da tutta la comunità scientifica italiana. L’espressione più matura di questo modello fu probabilmente la realizzazione dell’«Imperiale e reale museo di fisica e storia naturale», sorto a Firenze nel 1775, grazie all’appoggio politico e finanziario del granduca Pietro Leopoldo di Lorena, sulla base di un grandioso progetto elaborato da Felice Fontana. Il suo «sogno baconiano» di costruire una moderna «Casa delle Scienze» incontrò molte difficoltà, ma s’impose comunque «all’attenzione dell’età dei Lumi». Il Regio Museo doveva avere una «duplice funzione di raccolta e di ricerca», nonché funzioni didattiche relative a diverse discipline, il cui insegnamento poteva avvalersi degli strumenti scientifici, delle raccolte naturalistiche e dei modelli anatomici in cera (Contardi 2002, pp. XI-XII). Se si pensa che Fontana, trentino di nascita, si era formato a Bologna, in particolare alla scuola di Veratti e Bassi, non è arbitrario assumere che il suo «sogno baconiano» sia nato qui, nelle camere di palazzo Poggi, sede dell’Istituto delle scienze, realizzazione del più antico «sogno baconiano» di Marsili.
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