La fisica nel Novecento
Gli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento sono stati straordinari per quanto riguarda le nuove acquisizioni sperimentali della fisica: scoperta dei raggi X (1895), della radioattività naturale (1896), dell’elettrone (1897); misure dello spettro della radiazione di corpo nero ottenute usando come sorgente un corpo cavo isotermo, riconoscimento che le particelle emesse da metalli incandescenti o illuminati con radiazione elettromagnetica di lunghezza d’onda opportuna sono elettroni. Queste scoperte avviarono un processo di profonda revisione nella concezione della struttura della materia: progressivamente, oggetti dell’indagine fisica diventarono entità discrete non osservabili, nell’accezione comune del termine. Gli atomi si trasformarono da ipotesi euristica in oggetto di studio sperimentale e teorico diretto. Questo processo si svolse principalmente sulla spinta della scoperta di quelli che sarebbero apparsi, a posteriori, frammenti di atomi (elettroni, particelle α, cioè nuclei di elio) o loro radiazioni (raggi γ). I nuovi risultati sperimentali relativi alla radiazione di corpo nero condussero Max K.E.L. Planck (1858-1947) all’introduzione della costante della natura h (1900), dando così inizio al lungo processo che portò alla meccanica quantistica (1925-26).
Nel 1905, Albert Einstein (1879-1955) pubblicò tre lavori che avrebbero avuto un influsso duraturo, dedicati rispettivamente ai quanti di luce (chiamati poi fotoni a partire dal 1926), al moto browniano, alla relatività speciale. Il lavoro sul moto browniano fu usato, qualche anno dopo (1908), da Jean-Baptiste Perrin (1870-1942) per interpretare le sue misure sperimentali, definendo e determinando il cosiddetto numero di Avogadro. Il lavoro sui quanti di luce proponeva, come ipotesi euristica, una descrizione corpuscolare della luce in apparente contrasto con la descrizione ondulatoria di James C. Maxwell (1831-1879). Gli sforzi successivi di Einstein, tesi ad ancorare questa ipotesi alla formula planckiana della radiazione di corpo nero (considerata come corroborata dall’esperimento), lo condussero, tra l’altro, all’introduzione (1916-17) del concetto di transizione stimolata tra uno stato eccitato e lo stato fondamentale di un atomo o di una molecola, concetto che sarebbe poi stato alla base della realizzazione del maser (1953) e del laser (1960). Il lavoro sulla relatività speciale costituì, da un lato, il superamento della meccanica di Isaac Newton e, dall’altro, la base di partenza per la teoria della relatività generale che è, in realtà, una nuova teoria della gravitazione in cui le sorgenti del campo gravitazionale (le masse) determinano una deformazione dello spazio-tempo della relatività speciale.
Le punte alte della produzione italiana dell’ultimo Ottocento si cimentavano con argomenti di frontiera (Giuliani 1996, pp. 114-21). Ciononostante, le scoperte sperimentali e le innovazioni concettuali del decennio 1895-1905 colsero la piccola comunità dei fisici italiani non adeguatamente attrezzata. Nel 1900 i fisici operanti nelle università erano 71; i programmi di insegnamento dell’università, uniti agli scarsi finanziamenti, non favorivano il ricambio generazionale e l’adeguamento ai rapidi mutamenti della disciplina.
Non mancarono tuttavia ricerche originali, come, per es., quelle sugli effetti magneto-ottici. Nel 1898 Damiano Macaluso (1845-1932) e Orso Mario Corbino, sperimentando su vapori di metalli alcalini, scoprirono che l’effetto Faraday assume caratteristiche particolari quando la lunghezza d’onda della luce si approssima a quella delle righe di assorbimento degli atomi costituenti il vapore: l’effetto Macaluso-Corbino è ancora oggi oggetto di studio sperimentale e teorico. Corbino studiò l’effetto Hall in dischi di bismuto (che oggi sappiamo essere un semimetallo), in cui era mantenuta una simmetria circolare: l’originaria corrente radiale, prodotta da una differenza di potenziale applicata tra il centro e la periferia del disco, era parzialmente trasformata in corrente circolare dal campo magnetico applicato perpendicolarmente al disco. Questo filone di ricerca s’intrecciò con quello di fisica matematica rappresentato da Vito Volterra, configurandosi quindi come una vera e propria tradizione di ricerca.
Domenico Pacini (1878-1934) svolse, tra il 1907 e il 1911, una serie di misure sulla radiazione penetrante. Egli verificò che l’intensità delle radiazioni naturali diminuisce passando dalla superficie ad alcuni metri sott’acqua, dimostrando così che almeno una parte di queste radiazioni non proviene dalla crosta terrestre; tuttavia, le ricerche di Pacini non potevano escludere un’origine atmosferica della radiazione penetrante. Un anno dopo, Victor F. Hess (1883-1964) studiò la radiazione proveniente dall’alto mediante misure effettuate con un pallone aerostatico: queste ricerche gli valsero, nel 1936, il premio Nobel per la fisica. Il passaggio terminologico da radiazione penetrante a radiazione proveniente dall’alto sintetizza il salto concettuale tra i lavori di Pacini e quelli di Hess (il termine raggi cosmici fu introdotto da Robert A. Millikan e G. Harvey Cameron nel 1926).
Nel 1909 il premio Nobel per la fisica fu attribuito congiuntamente a Guglielmo Marconi e a Karl F. Braun (1850-1918) come riconoscimento del loro contributo allo sviluppo della telegrafia senza fili.
Nel 1913, Antonino Lo Surdo (1880-1949), studiando l’effetto Doppler di alcune righe spettrali emesse dall’idrogeno, osservò una configurazione delle righe diversa da quella tipica dell’effetto Doppler. Successivamente, avendo visto il lavoro pubblicato da Johannes Stark (1874-1957) su «Nature», in cui si dimostrava che una simile scomposizione delle righe è dovuta a un forte campo elettrico cui sono sottoposti gli atomi emittenti, Lo Surdo riconobbe che anche l’anomala scomposizione delle righe da lui osservata era dovuta a un campo elettrico. Mentre la scoperta di Lo Surdo fu casuale, quella di Stark fu il risultato di una ricerca tesa a scoprire eventuali effetti del campo elettrico sulle righe emesse dall’atomo di idrogeno all’interno della nascente fisica dei quanti. Nel 1919, Stark ricevette il premio Nobel per la fisica per la sua scoperta dell’effetto Doppler nei raggi canale e la scomposizione delle righe spettrali in campi elettrici.
Laureatasi a Pisa sotto la direzione di Raffaele Occhialini, Rita Brunetti (1890-1942) diventò ricercatrice presso l’Istituto di fisica di Arcetri (presso Firenze), allora diretto da Antonio Garbasso (1871-1933). Qui entrò in contatto con alcuni giovani fisici: Enrico Persico (1900-1969), Enrico Fermi, Franco Rasetti (1901-2001), Bruno Rossi e Gilberto Bernardini (1906-1995). Nella seconda metà degli anni Trenta, la Brunetti, allora a Pavia, ottenne i finanziamenti per installare un acceleratore di Cockcroft-Walton che sarebbe stato il secondo acceleratore italiano dopo quello entrato in funzione all’Istituto superiore di sanità di Roma nel 1938. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale e la morte della Brunetti determinarono il fallimento dell’iniziativa: l’acceleratore entrò in funzione solo nel 1956 (dopo l’8 settembre 1943 era stato sotterrato per sottrarlo alle truppe tedesche), senza dare alcun contributo alla ricerca.
La fine della Prima guerra mondiale lasciò in eredità, oltre ai milioni di vittime e alle distruzioni materiali, la consapevolezza dell’importanza delle applicazioni della scienza – anche per scopi militari – e la presa di coscienza della sempre maggiore compenetrazione tra scienza e società. In Italia, il dibattito intorno alla necessità di rilanciare la ricerca scientifica si accese già durante il conflitto, anche attraverso le riunioni della Società italiana per il progresso delle scienze (SIPS). Questo dibattito influì sulla decisione di istituire, nel 1923, il Consiglio nazionale delle ricerche (CNR).
Chiamato, sotto la sapiente regia di Corbino, sulla prima cattedra di fisica teorica istituita in Italia (Roma, 1927), Fermi raccolse intorno a sé un gruppo di giovani fisici, tra i quali Rasetti, Emilio Gino Segrè, Bruno Pontecorvo, Edoardo Amaldi, Ettore Majorana. Nel 1926, indipendentemente da Paul A.M. Dirac, Fermi formulò la statistica per le particelle che obbediscono al principio di esclusione di Pauli, che verrà poi chiamata di Fermi-Dirac; successivamente, si comprese che tale statistica si applica a tutte le particelle (dette fermioni) aventi spin semintero. Nel 1927 sviluppò, indipendentemente da Llewellyn H. Thomas, il modello statistico degli atomi con molti elettroni, detto poi di Thomas-Fermi. Nel 1934 propose una teoria del decadimento β basata su una nuova forma di interazione, l’interazione debole, caratterizzata da una costante universale detta poi di Fermi. Nello stesso anno, dopo la scoperta dei coniugi Frédéric e Irène Joliot-Curie riguardante la produzione di elementi radioattivi artificiali mediante bombardamento con particelle α, Fermi iniziò a bombardare sistematicamente gli elementi della tavola periodica con neutroni prodotti da una sorgente di radon-berillio. Bombardando uranio, Fermi e i suoi collaboratori pensarono di aver prodotto elementi transuranici: in realtà, come sarebbe stato dimostrato nel 1938 da Otto Hahn, Fritz Strassmann, Lise Meitner e Otto Frisch, essi avevano provocato la fissione del nucleo di uranio. Successivamente, Fermi si accorse che l’interposizione di un blocco di paraffina avente uno spessore di alcuni centimetri tra la sorgente e il bersaglio di argento aumentava, invece di diminuire, la radioattività dell’argento: la scoperta dell’efficacia dei neutroni ‘lenti’ fu di importanza cruciale per i successivi sviluppi riguardanti la fissione nucleare, come poi riconosciuto anche dalla motivazione con cui gli fu attribuito il premio Nobel per la fisica nel 1938.
In Italia, lo studio sistematico dei raggi cosmici fu iniziato ad Arcetri nel 1930 da Rossi, circondato da un gruppo di fisici di poco più giovani: Bernardini, Giuseppe Occhialini e Daria Bocciarelli (1910-2007). Rossi inventò il circuito a coincidenze, poi ampiamente usato nella fisica dei raggi cosmici. Questo circuito permetteva la rivelazione e l’identificazione di eventi rari sullo sfondo di numerosi impulsi registrati dai singoli contatori. Nello stesso anno pubblicò un lavoro in cui si prevedeva una asimmetria azimutale nell’intensità dei raggi cosmici, qualora fossero costituiti da particelle cariche: tale asimmetria, dovuta al campo magnetico terrestre, avrebbe permesso anche di individuare la carica prevalente delle particelle. Il primo tentativo di evidenziare tale effetto, compiuto a Firenze, diede esito negativo. Nel 1933, dopo ritardi dovuti alla difficoltà di reperire i fondi necessari, Rossi riuscì a realizzare una spedizione in Eritrea (si prevedeva che l’effetto fosse maggiore a basse latitudini) e a dimostrare che l’effetto esisteva e che la carica dei raggi cosmici era prevalentemente positiva. Tuttavia, tale dimostrazione era stata precedentemente ottenuta da Thomas H. Johnson e, indipendentemente, da Luis Álvarez e Arthur H. Compton. Comunque, in Eritrea, Rossi scoprì sciami molto estesi di corpuscoli. Egli aveva già osservato in precedenza la produzione di particelle secondarie dovuta all’interazione dei raggi cosmici molli (di bassa energia) con un sottile strato di piombo; con la stessa serie di esperimenti aveva anche individuato una componente dura (di alta energia) in grado di attraversare uno strato di piombo spesso un metro (Russo 2000, pp. 129-51). Nel 1941, Rossi (allora già negli Stati Uniti) e David B. Hall, in un lavoro dedicato allo studio del decadimento dei mesotroni (oggi chiamati muoni) contenuti nei raggi cosmici, presentarono la prima misura sperimentale della cosiddetta dilatazione del tempo riguardante particelle instabili.
Nel 1931, Occhialini, esperto nell’uso dei contatori Geiger connessi in coincidenza, si trasferì a Cambridge per lavorare con Patrick M.S. Blackett (1897-1974), che ben conosceva le tecniche della camera a nebbia. Il risultato della collaborazione fu la camera a nebbia controllata da contatori Geiger in coincidenza, con la quale fu possibile osservare la produzione di coppie elettrone-positrone immediatamente dopo la comparsa del breve lavoro di Carl Anderson che annunciava l’osservazione di una traccia nella camera a nebbia dovuta a una carica positiva avente piccola massa (positrone). In realtà, la prima fotografia pubblicata fu quella di Blackett e Occhialini. Subito dopo, Blackett, Occhialini e James Chadwick osservarono la produzione di coppie elettrone-positrone da parte di raggi γ. Rientrato in Italia nel 1934, Occhialini accettò, nel 1937, l’invito di Gleb Wataghin (1899-1986) di raggiungerlo presso l’Università di San Paolo in Brasile, dove egli conobbe, tra gli altri, Giulio Lattes (1924-2005). Più avanti, Occhialini e Lattes si sarebbero ritrovati insieme a Bristol.
I primi tre decenni del Novecento videro la permanenza, in Italia, della tradizione ottocentesca secondo la quale la fisica è una disciplina sperimentale in cui alla teoria è riservata una funzione ancillare che non richiede una formazione e un profilo professionale distinto. Come diceva Corbino, i fisici erano costretti a essere teorici di se stessi. Fermi ebbe il grande merito di avere stimolato l’interesse per la fisica teorica e favorito la sua pratica tra molti dei suoi giovani allievi.
La prima tesi di laurea di fisica teorica fu quella di Giovanni Gentile Jr (1906-1942), conseguita a Pisa nel 1927. A Gentile era stata assegnata una tesi sperimentale sull’effetto Stark-Lo Surdo. Il trasferimento a Bari di Giovanni Polvani (1892-1970), che stava seguendo la sua tesi, indusse Gentile a distaccarsi dal primitivo tema assegnatogli per passare da solo a una rielaborazione della memoria schrödingeriana. Assistente di Corbino a Roma (1927), Gentile trascorse periodi di studio a Berlino e Lipsia e nel 1932 fu a Pisa come professore incaricato di fisica teorica. Vincitore del concorso nel 1937 per una cattedra di fisica teorica, fu chiamato a Milano. Il suo contributo di maggior rilievo è costituito dalla formulazione di statistiche intermedie tra quella di Bose-Einstein e quella di Fermi-Dirac.
La figura di Majorana ha ricevuto grande attenzione da parte della storiografia recente, stimolata anche dall’alone di mistero che circonda la sua scomparsa. Tra i suoi maggiori contributi sono quello dedicato al rovesciamento del momento magnetico di un atomo con momento angolare J=1/2, dovuto a una rapida variazione del campo magnetico applicato (risultati poi ripresi e generalizzati da Ismor I. Rabi e Felix Bloch per qualunque J); il lavoro sulle forze nucleari in cui, diversamente da Werner K. Heisenberg, Majorana considera solo le forze di scambio dovute alle coordinate spaziali; il lavoro sulla teoria relativistica delle particelle con spin arbitrario (sostanzialmente ignorato dalla letteratura contemporanea e posteriore) e quello sulla teoria simmetrica degli elettroni e dei positroni. In quest’ultimo lavoro, Majorana sviluppò una teoria in cui, come egli stesso scrisse,
il significato delle equazioni di Dirac ne risulta alquanto modificato e non vi è più luogo a parlare di stati di energia negativa; né a presumere per ogni altro tipo di particelle, particolarmente neutre, l’esistenza di “antiparticelle” corrispondenti ai “vuoti” di energia negativa (Teoria simmetrica dell’elettrone e del positrone, «Nuovo Cimento», 1937, 5, p. 171).
L’antineutrone è una particella distinta dal neutrone; invece, la questione è ancora aperta per quanto riguarda i neutrini.
Persico, amico di Fermi, si laureò a Roma nel 1921 con una tesi sperimentale sull’effetto Hall (relatore Corbino). Partecipò al primo concorso di fisica teorica indetto in Italia (1926), in cui risultò vincitore Fermi; Persico fu il secondo della terna, Aldo Pontremoli (1896-1928) il terzo. Come professore ordinario, Persico fu prima a Firenze (1927-1930), poi a Torino (1930-1947), infine, dopo un soggiorno in Canada, a Roma (1950-1969). Il suo libro Fondamenti della meccanica atomica (1936) fu il primo manuale italiano di meccanica quantistica, e venne tradotto in inglese nel 1950.
Pontecorvo, laureatosi nel 1933 a Roma con Rasetti, era andato nel 1936 a Parigi a lavorare nel laboratorio dei coniugi Joliot-Curie; la promulgazione delle leggi razziali del 1938 lo costrinse a rimanere in Francia e quindi a rifugiarsi prima in Spagna, poi negli Stati Uni-ti e infine in Canada. Nel 1948 ottenne la cittadinanza britannica e si trasferì in Gran Bretagna, dove, per qualche tempo, lavorò ai progetti nucleari britannici sulle bombe nucleari. Nel 1950, entrò clandestinamente in Unione Sovietica, dove lavorò e visse sino alla morte. Della sua ricca e complessa attività di ricerca, è ben nota quella riguardanti i neutrini, la possibilità di una loro osservazione sperimentale e l’ipotesi delle oscillazioni dei neutrini, oggi sperimentalmente confermata.
Quasi coetaneo di Pontecorvo, Gian Carlo Wick (1909-1992) si laureò a Torino nel 1930. Dopo un soggiorno di studio a Gottinga e Lipsia (durante il quale frequentò assiduamente Heisenberg), nel 1932 diventò assistente di Fermi a Roma, e nel 1937 vinse il concorso per la cattedra di fisica teorica insieme a Gentile e a Giulio Racah (1909-1965). Come professore di fisica teorica, fu prima a Palermo, poi a Padova e infine, nel 1940, a Roma, sulla cattedra che era stata di Fermi. Nel 1946 raggiunse Fermi negli Stati Uniti, dove rimase sino alla pensione. I suoi contributi più significativi riguardano la teoria quantistica dei campi.
Racah si laureò nel 1930 a Pisa, relatore Persico. All’inizio degli anni Trenta si trasferì a Roma presso il gruppo di Fermi; nel 1932 diventò professore incaricato a Firenze; nel 1937 fu chiamato alla cattedra di fisica teorica a Pisa e nel 1939 emigrò in Palestina, allora mandato britannico. Qui, grazie anche al sostegno di Fermi e Pauli, gli fu assegnata una cattedra di fisica teorica all’Università ebraica di Gerusalemme. I suoi lavori più significativi riguardano la teoria degli spettri atomici complessi.
Ugo Fano (1912-2001) si laureò a Torino nel 1934 con una tesi seguita da Persico; fu a Roma nel gruppo di Fermi sino al 1937, poi per due anni a Lipsia, da Heisenberg; nel 1939 emigrò negli Stati Uniti. I suoi contributi principali riguardano la fisica degli atomi e delle molecole.
Piero Caldirola (1914-1984) si laureò a Pavia nel 1937 con una tesi sperimentale sulla diffusione dell’idrogeno nel palladio. L’anno successivo fu a Roma da Fermi con una borsa di studio del collegio Ghislieri, di cui era stato alunno, poi a Padova da Wick; nel 1939 rientrò a Pavia come assistente ordinario. Nel 1947 fu chiamato come professore straordinario a Pavia; nel 1949 si trasferì a Milano. Come molti teorici, si interessò di argomenti molto diversi, tra cui la teoria quantistica dei sistemi dissipativi; svolse anche un importante ruolo nella promozione di nuove linee di ricerca, particolarmente nel campo della fisica della materia.
Le leggi razziali del 1938 si abbatterono anche sulla piccola comunità dei fisici italiani: dovettero emigrare Fano, Fermi, Pontecorvo, Racah, Rasetti, Rossi, Segrè e Wick. Nello stesso anno, scomparve misteriosamente Majorana. I percorsi individuali di questi fisici furono segnati dalle vicende di quegli anni: mentre Fermi, Segrè e Rossi parteciparono al progetto Manhattan per la produzione della bomba a fissione nucleare, Rasetti rifiutò di aderirvi, abbandonando poi anche la ricerca fisica. Erano trascorsi solo poco più di due decenni da quando, nel 1922, Fermi commentando la relazione E=mc2 scriveva:
Si dirà con ragione che non appare possibile che, almeno in un prossimo avvenire, si trovi il modo di mettere in libertà queste spaventose quantità di energia, cosa del resto che non si può che augurarsi, perché l’esplosione di una così spaventosa quantità di energia avrebbe come primo effetto di ridurre in pezzi il fisico che avesse la disgrazia di trovar il modo di produrla (Le masse nella teoria della relatività, in Id., Note e memorie, 1° vol., 1961, p. 34).
Fu possibile. Con una variante: ad andare in pezzi non fu il fisico ma centinaia di migliaia di giapponesi.
Le emigrazioni della fine degli anni Trenta privarono il nostro Paese dell’apporto di valenti scienziati; d’altra parte, i nostri migranti della scienza trovarono fuori dei patri confini opportunità di lavoro e strutture di ricerca che non avevano alcun equivalente in Italia e che permisero loro il raggiungimento di risultati di grande rilievo. È sufficiente ricordare, a questo proposito, la realizzazione della prima reazione a catena controllata nel primo reattore nucleare da parte di Fermi e di Leo Szilard (Chicago, 1942), e la scoperta dell’antiprotone da parte di Segrè e Owen Chamberlain (1955), mediante l’uso del bevatrone di Berkeley.
Nel secondo dopoguerra il contesto internazionale della ricerca appariva profondamente mutato: la sconfitta del nazismo e del fascismo e le devastazioni belliche in Europa avevano favorito lo spostamento dell’egemonia economica e scientifica al di là dell’Atlantico; lo sforzo sostenuto dagli Stati Uniti per la produzione della bomba a fissione nucleare e la messa a punto dei sistemi radar avevano mostrato l’efficacia della ricerca basata sulla concentrazione di risorse umane e materiali e sull’intreccio programmato tra ricerca di base, ricerca applicata e tecnologia finalizzato a obiettivi prestabiliti.
La suddivisione del mondo in due blocchi e la guerra fredda rilanciarono la corsa agli armamenti. L’interesse dei governi per la scienza e per le applicazioni militari e civili della tecnologia assunse carattere permanente, con conseguenti crescenti impegni economici dei rispettivi Paesi; gli scienziati vedevano aumentare considerevolmente il loro numero e acquisivano progressivamente coscienza dell’accelerazione del processo di integrazione della scienza nella società, della crescita della loro influenza su alcuni processi decisionali, dell’aumento delle loro responsabilità, anche di natura etica. I problemi che l’Italia dovette affrontare per quanto concerne lo sviluppo scientifico e tecnologico furono complessi, e vennero resi più ardui dalle difficoltà derivanti dalla devastazione bellica, dalla debolezza complessiva delle strutture scientifiche, dalla diffusa incapacità di cogliere le novità emergenti nel rapporto tra formazione, ricerca, tecnologia e sviluppo.
Dopo la Liberazione, iniziò il lavoro di ricostruzione degli istituti distrutti, del recupero degli strumenti di laboratorio – talvolta nascosti per impedirne il furto da parte delle truppe tedesche in ritirata –, dell’acquisizione di nuove attrezzature, anche attingendo ai residuati bellici delle truppe alleate.
Per quanto concerne la ricerca, i punti di riferimento erano i filoni della fisica nucleare e dei raggi cosmici, eredità culturale di Fermi e Rossi. I fisici, che per contingenze oggettive o scelte personali, erano orientati verso quella che sarà poi chiamata fisica della materia, non trovando riferimenti culturali o organizzativi nel periodo prebellico, furono costretti a rivolgersi all’estero e a operare in un contesto sostanzialmente indifferente nei confronti di una fisica dall’immagine ancora incerta, sia per quanto concerne gli aspetti fondamentali, sia per i possibili sviluppi applicativi (negli Strai Uniti la fisica dello stato solido ebbe un riconoscimento ufficiale nel 1949, due anni dopo la scoperta del transistor, con la costituzione di una specifica divisione della Società americana di fisica).
Il quadro istituzionale in cui si è sviluppato questo settore di ricerca in Italia vide Amaldi svolgere un ruolo fondamentale. Erede del gruppo di Fermi, egli si adoperò sin dall’immediato dopoguerra per ritessere le fila della ricerca sulla fisica dei raggi cosmici e del nucleo. Nel 1951 riuscì a far istituire l’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN) come struttura di coordinamento di tre centri del CNR, ponendo così le basi per un finanziamento diretto da parte dello Stato delle ricerche sulla fisica del nucleo e delle particelle elementari, che si concretizzò, attraverso tappe intermedie, con la completa autonomia dell’ente (1971). Queste scelte crearono una situazione di squilibrio nell’organizzazione e nel finanziamento della ricerca fisica in Italia, ancora oggi non completamente superato. Amaldi svolse un ruolo di primo piano nella costituzione del CERN (Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire) e fu tra i promotori dell’ESRO (European Space Research Organization, dal 1975 ESA, European Space Agency).
Alla caduta del fascismo, Oreste Piccioni (1915-2002) e il più giovane Marcello Conversi (1917-1988) stavano effettuando a Roma misure sulla vita media dei mesotroni, scoperti, come detto, verso la fine degli anni Trenta. Si riteneva allora che i mesotroni coincidessero con la particella ipotizzata da Hideki Yukawa nel 1935 nel ruolo di quanto di scambio nelle interazioni nucleari a corto raggio. Secondo questa ipotesi, i mesotroni negativi avrebbero dovuto essere rapidamente assorbiti dai nuclei. Conversi e Piccioni dimostrarono invece che essi, come i mesotroni positivi, sfuggivano alla cattura dei nuclei di carbonio e decadevano emettendo elettroni: i mesotroni non erano quindi le particelle ipotizzate da Yukawa. Questa scoperta aprì la strada all’identificazione di una nuova classe di particelle: i leptoni (elettrone, muone, leptone tau, neutrini e le relative antiparticelle), sensibili solo alle interazioni elettromagnetica, debole e gravitazionale, ma non all’interazione forte. Nel 1946, Piccioni emigrò negli Stati Uniti, prima al MIT (Massachusetts Institute of Technology), dove collaborò con Rossi, poi a Brookhaven (cosmotrone), a Berkeley (bevatrone) e infine all’Università di San Diego (California). Egli ideò un apparato per il riconoscimento degli antiprotoni di elevata quantità di moto. Questo sistema fu usato da Segrè e Chamberlain per la scoperta dell’antiprotone, che valse loro l’attribuzione del premio Nobel per la fisica nel 1959. Nel 1956, Piccioni contribuì alla scoperta dell’antineutrone e, nel 1957, pubblicò un importante articolo con Abraham Pais sulla rigenerazione dei kaoni (mesoni K), poi verificata sperimentalmente dallo stesso Piccioni.
Nel 1944, grazie all’interessamento di Blackett, Occhialini, allora ancora in Brasile, ottenne di poter entrare in Gran Bretagna, ma, diversamente da quanto progettato, gli fu impedito, in quanto italiano, di partecipare a qualsiasi programma scientifico avente scopi militari. Occhialini si aggregò allora a un piccolo gruppo di ricerca di Bristol diretto da Cecil F. Powell (1903-1969), che studiava reazioni nucleari con la tecnica delle emulsioni fotografiche. Lavorò alla produzione di nuove emulsioni, più ricche in bromuro di argento, e mise a punto, con Constance Ch. Dilworth e Ron Paine, un metodo per il loro trattamento. Successivamente, si unì al gruppo Lattes: il programma era quello di studiare lo spettro dei neutroni contenuti nei raggi cosmici. Il risultato di questa collaborazione fu la scoperta del mesone π (pione) – la particella di Yukawa – che decade producendo il mesotrone (muone). Le lastre da cui dedussero l’esistenza del pione furono personalmente esposte da Occhialini sul Pic de Midi de Bigorre (Francia); altre lastre significative furono esposte da Lattes sul Chacaltaya (Bolivia). Blackett ottenne il premio Nobel per la fisica nel 1948 e nella sua Nobel lecture rese ampio riconoscimento al contributo di Occhialini, usando per quattro volte la frase «Occhialini ed io». Nel 1950 il premio Nobel fu invece attribuito a Powell, che nella sua Nobel lecture non citò Occhialini, il cui nome compare solo in una nota all’interno delle citazioni degli articoli comuni.
I primi acceleratori furono costruiti negli anni Trenta con lo scopo di bombardare bersagli fissi: tra questi ricordiamo quello di 0,7 MeV con cui John D. Cockcroft ed Ernest Th.S. Walton realizzarono la prima reazione nucleare prodotta con un acceleratore (1932). Nel 2000 esistevano circa 15.000 acceleratori dei quali solo 110 dedicati alle ricerche di fisica nucleare e subnucleare e 70 sincrotroni utilizzati come sorgenti di radiazione elettromagnetica emessa dalle particelle accelerate: gli altri erano usati per scopi applicativi, tra i quali impianto di ioni e trattamento di superfici (7000), radioterapia (5000), produzione di radioisotopi per applicazioni mediche (200) e terapie con adroni (20).
Nell’immediato dopoguerra, si assisté a una proliferazione di acceleratori in vari centri di ricerca in competizione tra loro; in seguito, si diffuse la consapevolezza che l’esigenza di raggiungere sempre maggiori energie avrebbe richiesto la collaborazione non solo tra gruppi di ricercatori, ma tra diversi governi. Questa fu la strada intrapresa in Europa con la costituzione del CERN (1954). Nel clima della guerra fredda, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica procedettero invece ciascuno per conto proprio. La scelta più lungimirante fu quella europea: infatti nel 1992, dopo dieci anni di lavoro e una spesa di due miliardi di dollari, gli Stati Uniti abbandonarono il progetto del SSC (Superconducting Super Collider), che avrebbe dovuto raggiungere energie superiori di oltre tre volte di quelle dell’LHC (Large Hadron Collider) del CERN.
L’Italia fu, all’inizio, abbastanza virtuosa: mentre contribuiva attivamente alla realizzazione del CERN, a Frascati veniva progettato (1953-54) e realizzato (1959) un elettrosincrotrone di 1100 MeV: era allora presidente dell’INFN Bernardini, e Giorgio Salvini (n. 1920) fu nominato direttore del progetto. Bernardini e Salvini reclutarono un gruppo di giovani fisici e ingegneri; Persico sovrintendeva la parte teorica del progetto. L’INFN assicurava procedure snelle per l’allocazione e l’uso dei fondi, nonché la selezione del personale di ricerca da associare al progetto. Queste caratteristiche furono di importanza cruciale per la realizzazione di AdA (Anello di Accumulazione): un anno dopo l’entrata in funzione del sincrotrone, Bruno Touschek (1921-1978), uno dei pochi fisici immigrati nel nostro Paese, propose la realizzazione di un anello di accumulazione in cui far circolare in senso opposto e collidere fasci di elettroni e positroni. Nel caso dell’AdA, gli elettroni e i positroni erano prodotti e accelerati nel sincrotrone. Ben presto furono progettati e realizzati collider di elettroni e positroni in Francia, Unione Sovietica e Stati Uniti. Peraltro, già nel gennaio del 1961, fu proposta a Frascati la costruzione di ADONE (‘grande AdA’), un collider di elettroni a positroni con una energia di 1500 MeV per fascio, che entrò in funzione nel 1969.
Nel 1974, Burton Richter a Stanford e Samuel Ting a Brookhaven scoprirono una particella, allora chiamata ψ da Richter e J da Ting e successivamente denominata J/ψ, avente una massa corrispondente a un’energia di 3096 MeV, quindi di poco superiore all’energia massima disponibile in ADONE. Neppure al CERN, dove la nuova particella era abbondantemente prodotta nelle regioni di intersezione dei due anelli di accumulazione di protoni, la notarono (i rivelatori in uso non erano adatti allo scopo). Ai due scopritori di J/ψ, che successivamente si rivelò essere uno stato legato quark-antiquark, fu attribuito il premio Nobel per la fisica nel 1976. Questa vicenda mostra come la scoperta di nuove particelle, quando non suggerita da teorie o alimentata da ipotesi ma dovuta all’energia disponibile negli acceleratori, sia un evento in cui la casualità gioca un ruolo decisivo (in questo caso rappresentata dalla quantità di energia disponibile).
Macchine acceleratrici di bassa energia furono realizzate negli anni Sessanta a Milano e Padova (Legnaro). A Milano, la realizzazione di un ciclotrone da 45 MeV fu, per circa due terzi, finanziato da imprese private, mentre il rimanente terzo fu reso disponibile da enti pubblici (Comune di Milano, ministero della Pubblica istruzione, CNR); l’università mise a disposizione gli edifici, mentre l’INFN fornì parte del personale. Amaldi e Bernardini, ritenendo che l’impegno italiano sugli acceleratori fosse adeguatamente assicurato dal centro di Frascati e dalla partecipazione italiana al CERN, avevano espresso dubbi sull’opportunità dell’iniziativa. La realizzazione di un acceleratore Van de Graaf di 5,5 MeV a Legnaro fu patrocinata dall’università di Padova ed ebbe, come promotore, Antonio Rostagni (1903-1988).
Negli anni Ottanta, fu costruito a Milano un ciclotrone che impiegava magneti superconduttori e che a metà degli anni Novanta fu trasferito nel laboratorio INFN di Catania; il centro di Legnaro fu assorbito dall’INFN nel 1968. Infine, nel 1982, iniziarono i lavori di costruzione dei laboratori INFN del Gran Sasso, propugnati da Antonino Zichichi (n. 1929). Entrati in funzione nel 1989, sono dedicati allo studio, tra l’altro, della fisica dei neutrini e della materia oscura. Il laboratorio del Gran Sasso appartiene a una schiera di dieci laboratori sotterranei (Canada, Europa, Giappone e Stati Uniti) dedicati allo studio di fenomeni che richiedono (idealmente) l’assenza di radiazione cosmica.
La partecipazione italiana al CERN raggiunse i suoi risultati più importanti nel 1983, con la scoperta dei bosoni W e Z da parte del gruppo denominato UA1 e coordinato da Carlo Rubbia (n. 1934). I bosoni W e Z erano previsti dalla teoria dell’interazione elettrodebole formulata indipendentemente negli anni Sessanta da Sheldon L. Glashow (n. 1932), Abdus Salam (1926-1996) e Steven Weinberg (n. 1933). Nel 1976, David B. Cline, Peter McIntyre, Fred Mills e Rubbia proposero la trasformazione dell’SPS (Super Proton Synchrotron) del CERN o del Tevatron del Fermilab (Chicago) in un collider di protoni e antiprotoni. La proposta fu raccolta dal CERN e portò alla realizzazione del collider, che entrò in funzione nel 1981 e fu caratterizzato dalle innovazioni tecnologiche sviluppate da Simon van der Meer (1925-2011). Alla ricerca dei bosoni previsti dalla teoria si dedicarono due gruppi di ricerca che si alternavano nell’uso della macchina: il già citato gruppo UA1 e il gruppo UA2, coordinato da Peter Jenni. I due gruppi si distinguevano per il rivelatore usato: più generico e ad ampio spettro quello di UA1, più specifico quello di UA2. Le prime evidenze dei bosoni W furono raccolte da UA1 e furono poi confermate da UA2; successivamente si scoprì il bosone Z. Il premio Nobel per la fisica del 1984 fu attribuito a Rubbia e a van der Meer.
La scelta dei grandi acceleratori concentrò la ricerca fisica sperimentale delle particelle elementari in poche sedi. Non sorprende quindi il fatto che, anche negli anni successivi, il contributo italiano si sia concretizzato attraverso la partecipazione a diversi progetti del CERN, come quelli tesi a verificare l’esistenza del cosiddetto bosone di Higgs previsto dal Modello standard, o quelli in cui si studiano le proprietà fisiche degli atomi di antimateria prodotti in condizioni fisiche di bassa energia (AD, Antiproton Decelerator). Recentemente (2012), i gruppi CMS (Compact Muon Solenoid) e ATLAS (A Thoroidal Lhc Apparatus), operanti presso LHC, hanno ottenuto evidenze sperimentali compatibili con il bosone di Higgs. Sul versante delle basse energie, gruppi italiani partecipano – all’interno della collaborazione ATHENA (Apparatus for High precision Experiments with Neutral Antimatter) – agli esperimenti riguardanti gli atomi di antidrogeno: il loro studio permetterebbe di verificare alcune proprietà di simmetria delle attuali teorie e il comportamento dell’antimateria nel campo gravitazionale terrestre.
Alla fine degli anni Sessanta, Francesco Melchiorri (1940-2005) lavorava presso l’IROE (Istituto di Ricerca Onde Elettromagnetiche) di Firenze, allora diretto da Giuliano Toraldo di Francia (1916-2011). Su suggerimento di Rossi e incoraggiato da Toraldo di Francia, Melchiorri iniziò a occuparsi della radiazione che, secondo l’ipotesi di Robert H. Dicke (1916-1997) e collaboratori, Arno A. Penzias e Robert W. Wilson avevano scoperto nei laboratori della Bell a Murray Hill (New Jersey), ma di cui ancora non si conoscevano le caratteristiche fondamentali: in particolare, la supposta natura di radiazione di corpo nero non era ancora stata provata. Melchiorri, nonostante il diffuso scetticismo nei confronti dell’ipotesi di Dicke, iniziò una serie di misure condotte presso l’osservatorio della Testa Grigia (Plateau Rosà), che mostrarono come lo spettro della radiazione cosmica di fondo (CBR, Cosmic Background Radiation) non potesse obbedire alla legge classica di Rayleigh-Jeans (1976). Seguirono poi misure effettuate con palloni stratosferici lanciati dalla base di Trapani dell‘Agenzia spaziale italiana (ASI), da poco costituita: fu così studiata l’anisotropia della CBR dovuta al moto della Terra nel cosmo in una regione dello spettro infrarosso (1980). L’impresa più significativa fu comunque costituita dal progetto BOOMERanG (Balloon Observation Of Millimetric Extragalactic Radiation and Geophysics), realizzato in collaborazione con un gruppo di Berkeley diretto da Paul L. Richards. Si trattava di lanciare palloni aerostatici in Antartide, dove i venti stratosferici favoriscono il ritorno dei palloni nelle vicinanze del punto di lancio. Le anisotropie intrinseche nella CBR scoperte nel 1989 dal progetto COBE (COsmic Background Explorer) furono misurate ad alta risoluzione e ad alti rapporti segnale/rumore. Risultati analoghi furono ottenuti dal contemporaneo progetto MAXIMA (Millimeter Anisotropy eXperiment IMaging Array), diretto da Richards e anch’esso basato su palloni stratosferici. Negli anni successivi, due missioni satellitari, la WMAP (Wilkinson Microwave Anisotropy Probe) della NASA e la Planck dell’ESA, hanno raffinato o stanno raffinando le misure pionieristiche effettuate con i palloni stratosferici.
Il contributo di Nicola Cabibbo alla teoria delle particelle elementari costituisce un esempio significativo del modo in cui si è sviluppato il Modello standard. Quest’ultimo è una teoria ‘collettiva’ riguardante le interazioni delle particelle subatomiche che si è sviluppata, modificandosi continuamente, nella seconda metà del Novecento sulla base di numerosi contributi teorici e sperimentali. Le sue predizioni si confrontano e si intrecciano con quelle di vari modelli cosmologici la cui validità viene messa alla prova dal recente sviluppo della cosmologia sperimentale, basata su osservazioni astrofisiche di cui quella precedentemente discussa riguardante la radiazione cosmica di fondo costituisce solo un esempio.
Da tempo, i fisici avevano individuato alcune particelle dette strane: particelle prodotte da un’interazione forte ma aventi una vita media molto breve rispetto a quella tipica di questo tipo di interazione. Cabibbo mostrò che ogni decadimento di tipo β, cui sono sottoposte anche le particelle strane, poteva essere descritto da un solo parametro, l’angolo detto poi di Cabibbo. Egli spiegò anche le piccole differenze osservate nella costante di Fermi che controlla il decadimento β dei neutroni e dei muoni. Successivamente, riformulò la sua ipotesi in termini dei tre tipi di quark allora conosciuti (up, down e strange). Nel 1970, Glashow, John Iliopoulos e Luciano Maiani (n. 1941) estesero la trattazione di Cabibbo in modo da includere un quarto tipo di quark (charm) la cui esistenza fu poi verificata nel 1974. Nel 1972, Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa riformularono ancora la teoria, in modo da tener conto della violazione della simmetria CP (carica-parità), introducendo due nuovi quark (top e bottom); a essi fu attribuito il premio Nobel per la fisica nel 2008.
I fisici italiani che nell’immediato dopoguerra si dedicarono allo studio della fisica degli atomi, delle molecole, dei liquidi e dei solidi non potevano contare, se si eccettua il filone di ricerca sull’effetto Raman, su una solida eredità culturale come quella lasciata da Fermi e Rossi nel campo della fisica nucleare e subnucleare e dei raggi cosmici. Non solo: la formazione degli studenti che accedevano al corso di laurea in fisica nell’immediato dopoguerra avveniva ancora sulla base di un piano di studi del 1937, già allora obsoleto e che sarebbe rimasto in vigore sino al 1962. Esso prevedeva l’insegnamento della fisica teorica; tuttavia, l’insegnamento della meccanica quantistica avveniva solo in qualche sede ed era per lo più assicurato da docenti che erano venuti in contatto con il gruppo di Fermi. Solo nel 1962 fu introdotto l’insegnamento di struttura della materia, che si configura come un corso di applicazione della meccanica quantistica alla fisica degli atomi, delle molecole e dei solidi. Pertanto, i fisici che si dedicarono a questi studi lo fecero da autodidatti o prendendo contatti con istituti e laboratori stranieri. Si assisté così a uno sviluppo policentrico, favorito da un intreccio di interessi culturali individuali, condizioni locali, casualità, possibilità di brevi periodi trascorsi in laboratori stranieri.
Nel 1942 a Pavia, Luigi Giulotto (1911-1986), su suggerimento di Caldirola, iniziò una ricerca spettroscopica tesa a confermare precedenti risultati che mettevano in dubbio la correttezza della teoria di Dirac dell’atomo di idrogeno, teoria secondo cui i due livelli 2s1/2 e 2p1/2 hanno la stessa energia. Le misure, concluse nel 1947, costituirono un’ulteriore conferma dell’esistenza di una discrepanza tra teoria ed esperimento (la riga emessa dagli atomi di idrogeno appare, nella spettroscopia convenzionale, come un doppietto asimmetrico; le conclusioni di Giulotto erano quindi basate su un delicato confronto tra la curva sperimentale e quella teorica ricostruita sulla base della teoria di Dirac). Qualche mese dopo, Willis E. Lamb Jr (1913-2008) e Robert C. Retherford (1912-1981) dimostrarono che effettivamente i livelli considerati hanno energia diversa, provocando una transizione diretta tra i due livelli mediante microonde di lunghezza d’onda opportuna: la descrizione teorica di quello che fu poi chiamato Lamb shift fu data dall’elettrodinamica quantistica. A Lamb fu assegnato il premio Nobel per la fisica nel 1955 per le sue scoperte sulla struttura fine dello spettro dell’idrogeno.
Questa vicenda è emblematica del divario allora esistente tra alcuni settori della fisica in Italia e i corrispondenti settori a livello internazionale, e del ritardo tecnologico del nostro Paese. Il medesimo problema fu affrontato da Giulotto con metodi spettroscopici tradizionali, seppur raffinati; da Lamb con un approccio sperimentale completamente nuovo ispirato da una visione interamente quantistica del problema e reso possibile dallo sviluppo negli Stati Uniti, durante la guerra e per scopi bellici, della tecnologia delle microonde.
Nel 1946, Giulotto iniziò la messa a punto di un apparato di risonanza magnetica nucleare. Poiché non era disponibile un oscilloscopio, egli sentì il primo segnale di risonanza attraverso una cuffia come un rumore aggiuntivo sul rumore di fondo dovuto alla frequenza di rete. Fu questo l’inizio di una felice stagione che permise a Giulotto e ai suoi collaboratori di inserirsi tra i gruppi di punta a livello mondiale sino alla metà degli anni Cinquanta. Successivamente, la produzione di potenti magneti resistivi o superconduttori, nonché di nuovi e dispendiosi spettrometri, rese obsoleta la strumentazione pavese. Nel triennio 1948-1951, Giulotto (con Gilda Olivelli, n. 1920) riprese gli studi sull’effetto Raman iniziati alla fine degli anni Trenta, questa volta nella calcite: l’interpretazione data per spiegare l’origine di due righe Raman di bassa frequenza fu poi estesa da Alfred Kastler al lontano infrarosso.
Agli inizi degli anni Cinquanta, Caldirola entrò in contatto con Fausto Fumi (n. 1924), un fisico teorico appena rientrato da Urbana (Illinois), dove aveva lavorato con Frederik Seitz (1911-2008) sulle proprietà dei solidi cristallini. Caldirola intuì la possibilità di favorire lo sviluppo in Italia della fisica dello stato solido (allora completamente sconosciuta nel nostro Paese), avvalendosi delle competenze di Fumi e dei suoi contatti internazionali; favorì così la permanenza di Fumi a Milano come professore incaricato e l’assegnazione di due tesi di laurea nel 1928 a Franco Bassani (1929-2008) e Roberto Fieschi (n. 1928), studenti a Pavia. A metà degli anni Cinquanta, Caldirola mise Fumi in contatto con Giulotto: il progetto era quello di favorire la costituzione, a Pavia, di un gruppo sperimentale e teorico di fisica dello stato solido. Gianfranco Chiarotti (n. 1928), un fisico sperimentale che sino ad allora si era occupato di risonanza magnetica nucleare, dopo un periodo di tre anni trascorso a Urbana nel gruppo di Seitz, passò allo studio di particolari difetti reticolari negli alogenuri alcalini (centri di colore) e, verso la fine degli anni Cinquanta, diede avvio allo studio sperimentale dei semiconduttori in istituti universitari. Alla fine del 1959, si trovavano a Pavia, oltre a Fumi, Bassani e Chiarotti, il fisico sperimentale Paolo Camagni (1931-2000) e i teorici Mario Tosi (n. 1928) e Vittorio Celli (n. 1936). Gravi contrasti tra Fumi e Giulotto provocarono il fallimento del progetto. Nel frattempo a Milano, Fieschi, su ispirazione di Caldirola, aveva esteso l’attività del suo gruppo di ricerca, originariamente teorico, a ricerche sperimentali (centri di colore); nel 1964 si trasferì a Parma, dove si impegnò, tra l’altro, per la costituzione di un laboratorio del CNR di fisica dello stato solido applicata, l’istituto MASPEC (MAteriali SPECiali per l’elettronica e il magnetismo).
Andrea Levialdi (1911-1968) fu uno degli animatori del progetto e avrebbe dovuto essere il direttore del centro, ma morì prima della sua costituzione avvenuta nel 1969 insieme a quella di altri due laboratori (Pisa e Roma).
Nonostante il precoce fallimento del progetto originario, l’esperimento pavese diede un contributo fondamentale alla nascita della fisica dello stato solido in Italia, anche grazie a una serie di fattori favorevoli, tra cui la possibilità di attingere a una base selezionata di laureandi e laureati provenienti dal Collegio Ghislieri e, in misura minore, dal Collegio Borromeo (storici collegi universitari pavesi), e le relazioni internazionali di Fumi, che permettevano ai suoi giovani collaboratori soggiorni di studio e di lavoro negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. La dispersione del gruppo pavese favorì la diffusione della fisica dello stato solido in altre sedi universitarie: Chiarotti, dopo Messina fu a Roma; Bassani, al rientro dagli Stati Uniti, prima a Messina, poi a Pisa, Roma e ancora a Pisa; Tosi, al rientro dagli Stati Uniti, a Messina, poi a Roma, infine a Trieste. Di particolare rilievo il contributo di Bassani, nelle varie sedi, alla formazione di numerosi fisici teorici, e allo sviluppo dell’applicazione del metodo dello pseudopotenziale al calcolo delle bande di energia in diversi solidi cristallini e alla loro connessione con la riflettività dei materiali nell’ultravioletto.
Alla fine della guerra, Adriano Gozzini (1917-1994), rientrando a Pisa, trovò l’istituto di fisica semidistrutto e depauperato nella sua dotazione strumentale dalle truppe tedesche in ritirata. Riuscì tuttavia a iniziare un’attività di ricerca caratterizzata dall’uso delle microonde. I primi lavori riguardarono l’effetto Corbino-Macaluso in sostanze paramagnetiche: i risultati ottenuti destarono l’interesse di Kastler, che li aveva previsti qualche anno prima. Questi iniziò quindi una duratura collaborazione con Gozzini, che estese la ricerca a campi magnetici trasversali. Il risultato più significativo ottenuto dal gruppo di Gozzini fu costituito dalla scoperta di alcune righe nere, di origine sconosciuta, nella fluorescenza di vapori di sodio eccitati mediante un laser multimodale a colorante (dye laser). La spiegazione delle righe nere fu data poco dopo da Gaspar Orriols ed Ennio Arimondo (n. 1942): sono dovute all’interferenza fra le ampiezze di probabilità di due transizioni tra livelli iperfini – la cui separazione in frequenza è uguale a quella tra due modi del fascio laser – e lo stato eccitato. Questa scoperta ha dato origine a una serie di importanti sviluppi successivi.
L’Istituto nazionale di elettrotecnica ‘Galileo Ferraris’ di Torino, inaugurato nel 1935, aveva una sezione dedicata allo studio delle proprietà magnetiche della materia. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale rinviò al dopoguerra l’inizio di una sistematica attività di ricerca. L’importanza tecnologica di questo tipo di ricerche ha favorito il loro sviluppo nei laboratori o istituti con finalità applicative. Negli anni Settanta, iniziò a operare al MASPEC di Parma un gruppo coordinato da Giovanni Asti (materiali e dispositivi magnetici) e, più recentemente, al ‘Galileo Ferraris’ (ora INRiM, Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica) il gruppo di Giorgio Bertotti (dinamiche di magnetizzazione). Altri gruppi sono attivi presso l’ISM (Istituto di Struttura della Materia) del CNR (Dino Fiorani, superparamagnetismo e registrazione magnetica), a Firenze (Dante Gatteschi, Roberta Sessoli, magnetismo molecolare), a Perugia (Giovanni Carlotti, cristalli magnonici) e a Bologna (Valentin Dediu, spin-elettronica in materiali organici).
Nel 1908, Heike Kamerlingh Omnes (1853-1926) riuscì a liquefare l’elio; tre anni dopo, scoprì il fenomeno della superconduttività. In Italia, il primo liquefattore di elio fu installato nel 1955 a Frascati, nell’ambito del progetto di costruzione dell’elettrosincrotrone. Salvini affidò a Giorgio Careri (1922-2008) il compito di organizzare e gestire il reparto criogenico. Quindi, anche in Italia, con un ritardo di mezzo secolo, si cominciò a sperimentare a temperature intorno a quella dell’elio liquido (4,2 K), sebbene fra difficoltà di vario tipo. Avendo appreso le tecniche delle basse temperature, Careri le utilizzò per lo studio delle proprietà dell’elio superfluido. Il secondo polo di sviluppo della fisica delle basse temperature fu quello di Genova (1960), su iniziativa di Giovanni Boato (1924-2009). Il gruppo si occupò delle proprietà di trasporto dei gas rari solidi e dei quanti di flusso magnetico nei superconduttori del II tipo. Careri e Boato furono protagonisti di un’altra operazione di trasferimento in Italia di tecniche che si erano sviluppate decenni prima. Si tratta della costruzione a Roma del primo spettrografo di massa. Anche questa tecnica, sviluppata negli anni Venti da Francis W. Aston (1877-1945), arrivò in Italia con grave ritardo (durante la Seconda guerra mondiale, la separazione del 235U dal 238U, cruciale per la costruzione della bomba a fissione nucleare che fu poi sganciata su Hiroshima, fu ottenuta con spettrometri di massa).
Nei primi anni Settanta a Napoli, Antonio Barone (1938-2011) iniziò un fecondo filone di ricerca sull’effetto Josephson che ebbe importanti riconoscimenti internazionali. Sull’effetto Hall quantistico, scoperto da Klaus von Klitzing nel 1980, è attivamente impegnato il gruppo del NEST (National Enterprise for nanoScience and nanoTechnology) di Pisa coordinato da Vittorio Pellegrini (n. 1969).
La scoperta, nel 1986, della superconduttività ad alta temperatura da parte di Karl A. Müller (1927) e Johannes G. Bednorz (1950), ha visto in Italia il tempestivo impegno sperimentale di tre gruppi a Pavia, Roma e Torino. A Pavia, questo filone di ricerca è stato avviato da Attilio Rigamonti (n. 1937), che aveva seguito da vicino i lavori di Müller; attualmente, il gruppo è coordinato da Pietro Carretta (n. 1966). Le proprietà dei superconduttori sono state indagate usando, tra l’altro, la tecnica della risonanza magnetica nucleare, che ha avuto le sue origini in Italia proprio nella sede pavese e, con misure di magnetizzazione basate sull’uso di SQUID (Superconducting Quantum Interference Device) nei pressi della transizione alla fase superconduttiva, sono state studiate le coppie di Cooper fluttuanti che generano un termine diamagnetico al di sopra della temperatura critica. Il gruppo romano coordinato da Paolo Calvani (n. 1948) ha studiato, in particolare, le proprietà ottiche dei superconduttori ad alta temperatura. Al Politecnico di Torino, i risultati di maggior rilevanza ottenuti dal gruppo coordinato da Renato Gonnelli (n. 1955) riguardano le proprietà del MgB2, che diventa superconduttore a 39 K.
Nel 1960, l’interesse italiano verso la costruzione di maser (Microwave Amplification by Stimulated Emission of Radiation) funzionanti nella regione del visibile e dell’infrarosso, fu risvegliato dalla scuola di Varenna della SIF (Società Italiana di Fisica), organizzata da Gozzini. Non sorprende quindi che ingegneri e fisici italiani reagissero prontamente all’invenzione del laser. Al di là della reattività intellettuale, l’approccio alla fisica del laser è stato favorito dalla relativa facilità di costruzione di un laser una volta che i suoi principi di funzionamento erano stati compresi. Nel 1963 prese avvio un progetto quinquennale del CNR denominato Impresa maser-laser i cui promotori furono Daniele Sette (n. 1918), Toraldo di Francia ed Emilio Gatti (n. 1922). La realizzazione dei primi laser in Italia vide in primo piano laboratori extrauniversitari (la Fondazione Bordoni a Roma e il CISE, Costruzioni dell’Ingegneria Strutturale in Europa, a Milano), ma la fisica del laser si sviluppò essenzialmente nelle università. La produzione scientifica italiana sui laser raggiunse rapidamente livelli di valore internazionale. Tra i pionieri di questo filone di ricerca in Italia, troviamo Tito Arecchi (n. 1933) e Orazio Svelto (n. 1936). Un lavoro di Arecchi, pubblicato nel 1965, primo di una serie dedicata alla coerenza della luce laser, misurata attraverso la statistica dei fotoni, è ancora citato ai nostri giorni; a Svelto si devono ricerche pionieristiche su laser in grado di emettere impulsi ultracorti e sulla fisica che con essi si può realizzare. Uno dei primi collaboratori di Arecchi, Vittorio Degiorgio (n. 1939), approdò all’inizio degli anni Ottanta a Pavia (facoltà di Ingegneria), dove ha costituito un gruppo di ricerca sulla fisica del laser e le sue applicazioni. Nei primi anni Novanta, è stato istituito a Firenze il LENS (Laboratorio Europeo di Spettroscopia Non lineare), dove si svolgono ricerche su un ampio spettro di argomenti.
Nel 1924, Satyendra Nath Bose (1894-1974) pubblicò, grazie all’interessamento di Einstein, un lavoro in cui ricavava la formula di Planck per la radiazione di corpo nero trattando la radiazione elettromagnetica contenuta in una cavità isoterma come composta da quanti di luce (fotoni) dotati di energia E=hν e quantità di moto p=hν/c (con ν frequenza della radiazione elettromagnetica), e applicando a essi una trattazione statistica. L’anno successivo, Einstein adattò la trattazione di Bose al caso del gas perfetto prevedendo, tra l’altro, che, quando la lunghezza d’onda di de Broglie degli atomi del gas diventa dello stesso ordine di grandezza della distanza interatomica media, parte degli atomi vanno a occupare lo stato energetico minimo, cioè ‘condensano’. Alla fine degli anni Venti, apparve chiaro che la statistica di Bose-Einstein è valida per particelle aventi momento angolare intrinseco (spin) pari a zero, h/2π o a un suo multiplo intero (bosoni), mentre, come abbiamo visto, la statistica di Fermi-Dirac è valida per particelle con spin semintero (fermioni).
La prima realizzazione di un condensato di Bose-Einstein avvenne nel 1995, cioè circa settant’anni dopo la predizione einsteiniana. In Italia, si è potuto rapidamente impegnare con successo in questo settore di ricerca un gruppo coordinato da Massimo Inguscio (n. 1952) a Firenze, la cui precedente attività scientifica si era sviluppata su temi connessi o propedeutici al fenomeno della condensazione di Bose-Einstein. Tra i risultati più significativi del gruppo si colloca l’osservazione dell’effetto Josephson realizzato con due condensati intrappolati in due celle di un reticolo ottico (costituito da onde luminose stazionarie).
Nel 1981, Gerd Binnig (1947) ed Heinrich Rohrer (1933) realizzarono il primo microscopio a effetto tunnel; cinque anni dopo, Binnig realizzò il primo microscopio a forza atomica, aprendo così la via alla nanoscienza e alle nanotecnologie che operano su almeno una dimensione lineare dell’ordine del nanometro (un miliardesimo di metro; le dimensioni atomiche sono di circa dieci volte inferiori). Il limite superiore è fissato dalla dimensione al di sopra della quale scompaiono le proprietà fisiche tipiche di un materiale o dispositivo ‘nano’ (e non presenti in campioni aventi dimensioni maggiori). I campi di applicazione della nanoscienza vanno dall’elettronica alla realizzazione di nuovi materiali e alla biomedicina. In Italia, questo settore vede impegnati laboratori di ricerca e industrie.
Con il termine plasma si indica, in fisica, un insieme di particelle cariche generalmente neutro. Il termine fu coniato negli anni Venti da Irving Langmuir per analogia (in realtà impropria) con il plasma sanguigno: la ionosfera è costituita da un plasma; nel cosmo sono stati individuati plasmi di vario tipo. I tentativi, tuttora in corso, di realizzare una fusione nucleare controllata per fini energetici ha stimolato lo sviluppo di questo settore della fisica. La realizzazione di una fusione nucleare controllata richiede il raggiungimento di temperature tali da non poter essere tollerate da alcun materiale (circa 107 K). Si tratta allora di cercare di raggiungere queste temperature in un plasma confinato in un volume sufficientemente lontano dalle pareti del contenitore.
In Italia, la fisica del plasma è nata come prodotto della ricerca mirante alla realizzazione della fusione nucleare. I centri di sviluppo sono stati il Laboratorio gas ionizzati di Padova (1959), il Laboratorio gas ionizzati di Frascati (1960) e l’Istituto di fisica del plasma di Milano (promosso da Caldirola e poi dedicato al suo nome) nel 1976. Attualmente, la ricerca sulla fusione nucleare dovrebbe essere coordinata dall’ENEA (Ente per le Nuove tecnologie, l’Energia e l’Ambiente).
Lo sviluppo degli acceleratori e delle centrali nucleari ha dato origine a nuove linee di ricerca. La prima osservazione di un antineutrino (1956) è dovuta a Clyde L. Cowan Jr (1919-1974) e a Frederick Reines (1918-1998), che usarono gli antineutrini prodotti da un reattore nucleare situato a Savannah River (South Carolina). La fisica sperimentale dei neutrini ha contribuito alla definizione del Modello standard con esperimenti come quelli riguardanti la violazione della parità nell’interazione debole e le oscillazioni dei neutrini previste da Vladimir N. Gribov e Pontecorvo nel 1969.
Il contributo italiano a queste ricerche si realizza con la partecipazione alle misure con un fascio di neutrini prodotto al CERN e inviato, attraverso la crosta terrestre, verso un rivelatore posto nei laboratori del Gran Sasso e con le misure volte alla ricerca del doppio decadimento β senza emissione di neutrini (che confermerebbe l’identità fra neutrini e antineutrini). I neutroni prodotti dai reattori nucleari furono usati negli anni Cinquanta per studiare le proprietà della materia condensata attraverso la loro diffusione elastica o anelastica. Ancora negli anni Cinquanta si iniziò a usare la radiazione elettromagnetica prodotta dai sincrotroni come strumento di indagine delle proprietà della massa condensata. Negli anni Settanta si è sviluppata una tecnica (μSR, muon Spin Resonance) basata sull’uso di muoni depositati nel materiale oggetto di studio.
In Italia, lo studio della materia condensata mediante diffrazione di neuroni iniziò negli anni Sessanta a Ispra (Giuseppe Caglioti, n. 1931; Francesco Paolo Ricci, 1930-2000) e a Roma (Casaccia). A Trieste fu invece ultimato (1993) un sincrotrone dedicato all’uso della sua radiazione. Questa iniziativa fu propugnata da Luciano Fonda (1931-1998), dopo la decisione di installare un sincrotrone europeo a Grenoble invece che a Trieste. La risonanza muonica è coltivata in Italia da un gruppo facente capo a Cesare Bucci (n. 1938), uno dei primi allievi sperimentali di Fieschi.
La nascita del 20° sec. colse la fisica in Italia culturalmente e istituzionalmente impreparata, in un Paese tecnologicamente arretrato. Negli anni Trenta, Fermi, Rossi e i loro collaboratori segnarono un punto di svolta nel campo della fisica nucleare, e dei raggi cosmici, mentre i restanti settori rimasero ai margini del tumultuoso sviluppo della disciplina. Le leggi razziali fasciste e la Seconda guerra mondiale deviarono, stravolsero e interruppero il cammino intrapreso.
Il fenomeno dei migranti della scienza, iniziato con le leggi razziali del 1938, assunse, nella seconda metà del Novecento, nuovi connotati. Tra i numerosi fisici che, formatisi in Italia in questo periodo, hanno costruito la loro carriera professionale all’estero, è necessario ricordare almeno alcune figure: Riccardo Giacconi (n. 1931), laureato in fisica nel 1954 a Milano ed emigrato negli Stati Uniti nel 1956. A Giacconi è stato attribuito il premio Nobel per la fisica nel 2002 «per i contributi pionieristici all’astrofisica che hanno condotto alla scoperta delle sorgenti cosmiche di raggi X». Federico Faggin (n. 1941), laureato in fisica nel 1965 a Padova e, dopo esperienze di lavoro alla Olivetti e alla SGS (Società Generale Semiconduttori), emigrato negli Stati Uniti nel 1968. È stato, tra l’altro, il principale progettista del primo microprocessore (1971). Federico Capasso (n. 1949), laureato in fisica nel 1973 a Roma ed emigrato negli Stati Uniti nel 1976. Capasso, durante la sua permanenza ai laboratori della Bell (1976-2002), ha coniugato ricerca di base e applicata nella realizzazione di materiali e dispositivi basati su etero-strutture semiconduttrici. Bruno Coppi (n. 1935), laureato nel 1959 al Politecnico di Milano, emigrò negli Stati Uniti nel 1961. Coppi ha contribuito alla progettazione del Tokamak di Frascati, entrato in funzione nel 1977, ed è l’ideatore del progetto italiano per la fusione nucleare denominato Ignitor che, in seguito a un accordo italo-russo del 2010, dovrebbe essere assemblato in Russia con componenti prodotti in Italia; una decisione singolare che, verosimilmente, provocherà serie difficoltà al progetto, posto in discussione anche dall’adesione italiana, attraverso l’Unione Europea, al progetto ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor).
Il secondo dopoguerra ha visto gli scienziati impegnati, come tutti gli italiani, in un processo di ricostruzione reso drammatico dalle devastazioni belliche, dall’arretratezza complessiva del Paese e delle sue strutture scientifiche. Il progressivo incremento del numero dei fisici, l’innalzamento del loro profilo professionale, l’aumento dei finanziamenti della ricerca hanno permesso alla comunità dei fisici italiani di entrare a pieno titolo nella più ampia comunità internazionale; ivi inclusa la fisica teorica la cui multiforme produzione ne impedisce qui un’analisi ancorché schematica. Sono comunque da ricordare i fondamentali contributi di Giorgio Parisi (n. 1948) allo studio dei materiali magnetici disordinati denominati spin glasses, che hanno prodotto significative ricadute in altri ambiti di ricerca.
Oggi, il futuro della ricerca dipende direttamente dall’efficienza del sistema Paese. Un Paese in cui si sottraggono risorse al sistema formativo invece di farne il fondamento del futuro; giovani laureati emigrano ogni anno senza che il loro flusso in uscita sia bilanciato, almeno parzialmente, da un flusso in entrata; il livello tecnologico dell’industria è arretrato e i materiali e la strumentazione dei laboratori di ricerca provengono, in larghissima misura, dall’estero: un simile Paese e la sua ricerca scientifica sono destinati a svolgere un ruolo sempre più marginale nel contesto internazionale.
Sul periodo 1900-45:
G. Polvani, Il contributo italiano al progresso della fisica, negli ultimi cento anni, in Un secolo di progresso scientifico italiano, 1839-1939, a cura di L. Silla, 1° vol., Roma 1939, pp. 555-699.
R. Maiocchi, Einstein in Italia: la scienza e la filosofia italiane di fronte alla teoria della relatività, Milano 1985.
R. Maiocchi, Non solo Fermi: i fondamenti della meccanica quantistica nella cultura italiana fra le due guerre, Firenze 1991.
G. Giuliani, Il Nuovo Cimento: novant’anni di fisica in Italia, 1855-1944, Pavia 1996.
Una difficile modernità: tradizioni di ricerca e comunità scientifiche in Italia, 1890-1940, a cura di A. Casella, A. Ferraresi, G. Giuliani, E. Signori, Pavia 2000.
Einstein parla italiano: itinerari e polemiche, a cura di S. Linguerri, R. Simili, Bologna 2008.
Su Fermi, Rossi e il gruppo di via Panisperna:
E. Recami, Il caso Majorana: epistolario, documenti, testimonianze, Roma 2002.
G. Maltese, Enrico Fermi in America: una biografia scientifica, 1938-1954, Bologna 2003.
C. Buttaro, A. Rossi, Franco Rasetti: una biografia scientifica, Roma 2007.
F. Guerra, N. Robotti, Ettore Majorana: aspects of his scientific and academic activity, Pisa 2008.
G. Maltese, Il Papa e l’Inquisitore. Enrico Fermi, Ettore Majorana, via Panisperna, Bologna 2010.
Sul periodo 1945-2000:
The origins of solid-state physics in Italy, 1945-1965, ed. G. Giuliani, Bologna 1988.
A. Russo, Le reti dei fisici: modalità della scoperta e forme dell’esperimento nella fisica del Novecento, Pavia 2000.
G. Battimelli, M. De Maria, G. Paoloni, L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare: storia di una comunità di ricerca, a cura di G. Battimelli, Bologna 2001.
Per una storia della fisica italiana, 1945-1965, 1° vol., Fisica della materia, fisica teorica, insegnamento della fisica, a cura di G. Giuliani, Pavia 2002.
L. Bonolis, Maestri e allievi nella fisica italiana del Novecento, Pavia 2008.
Si vedano inolte i seguenti siti:
Niels Bohr library & archives, Read oral history transcripts online, http://www.aip.org/history/ohilist/ transcripts.html: trascrizioni di interviste a fisici.
Accademia nazionale dei Lincei, Catalogo delle corrispondenze dei soci lincei, http://www.lincei.it/archivi/ corrispondenze/index.php: contiene i cataloghi delle corrispondenze di Amaldi, Persico e Touschek.
Università degli studi di Pavia, Dipartimento di fisica, Archivio di storia della fisica, http://fisica. unipv.it/asf: contiene, tra l’altro, l’archivio ‘Luigi Giulotto’ (corrispondenza e documenti vari).
Università degli studi di Pavia, Dipartimento di fisica, Paths of phisics, http://fisica.unipv.it/ percorsi: contiene documenti e saggi sulla fisica in Italia nel Novecento.
Luisa Bonolis homepage, http://www.luisabonolis.it/ Luisa_Bonolis_Homepage.html: interviste e saggi.
Ringrazio Pietro Carretta, Andrea Fontana, Attilio Rigamonti e Paolantonio Marazzini per i loro preziosi suggerimenti; Giancarlo Campagnoli e Rita Serafini per un’attenta lettura della prima stesura.