Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La scoperta dell’elettrone da parte di Thomson, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento ha segnato l’inizio della definizione a livello elementare della struttura della materia. Nei primi decenni del Novecento si susseguono le scoperte di altre particelle (il protone e il neutrone prima di tutte) che giustificano la stabilità dell’atomo e, quindi, a spiegazione di alcune anomalie spettroscopiche rispetto ai modelli ipotizzati, si scoprono l’anti-elettrone e il neutrino. Negli anni Trenta vengono introdotte le teorie della forza debole (Fermi) e dell’interazione forte (Yukawa); mentre nel 1954 la teoria di gauge, proposta da Yang e Mills, si rivela uno strumento indispensabile all’analisi delle interazioni fondamentali tra particelle e consente di unificare l’interazione debole e quella elettromagnetica nella interazione elettrodebole. Una volta trovata conferma sperimentale di questa teoria (con l’dentificazione del bosone di Higgs), è stata dimostrata la fondatezza del cosiddetto modello standard della fisica delle particelle. Lo sviluppo della cromodinamica quantistica, tuttavia, teorizzata nei primi anni Settanta, sostiene che l’interazione forte è mediata da gluoni, che fungono da collante tra le particelle fondamentali di cui protoni e neutroni sono costituiti, ovvero i quark.
Le prime scoperte sulla struttura dell’atomo
La nascita della fisica delle particelle si può far risalire alla fine dell’Ottocento, con le prime importanti scoperte sulla struttura dell’atomo. Tra il 1894 e il 1897 Joseph J. Thomson, studiando i raggi catodici (ovvero i raggi emessi tra due placche metalliche in un tubo di vetro sotto vuoto), nota che possono essere deflessi in presenza di un campo magnetico come ci si aspetterebbe se essi fossero costituiti da un fascio di particelle di carica elettrica negativa. Thomson misura il rapporto tra la carica e la massa della presunta particella e trova che è indipendente dal tipo di metallo di cui è fatta la placca metallica. Tali particelle saranno chiamate elettroni e nel 1909 il fisico americano Robert Andrews Millikan misurerà la carica elettrica dell’elettrone, da cui si potrà anche inferire la massa (dato il rapporto noto tra carica e massa scoperto da Thomson). Nel 1902 Thomson nel frattempo propone il primo modello atomico, il cosiddetto modello “a panettone”, in cui l’atomo è concepito come una sfera di raggio uguale a 10-10 metri in cui la carica positiva è uniformente distribuita, mentre gli elettroni – di carica negativa complessiva tale da bilanciare la carica positiva e in numero uguale al numero atomico dell’elemento – sono sparpagliati tra la carica positiva dell’atomo come l’uvetta in un panettone.
Tra il 1909 e il 1911 Hans Geiger e Ernest Marsden sotto la supervisione di Ernest Rutherford all’università di Manchester scoprono, grazie a degli esperimenti sulla diffusione delle particelle α, che il modello “a panettone” di Thomson non è corretto. L’esperimento consiste nel dirigere un fascio di particelle α (emesse per decadimento radioattivo di certe sostanze) attraverso una sottile lamina d’oro, dietro la quale sono collocati degli schermi in grado di contare il numero di particelle che erano passate attraverso la lamina e il loro angolo di deflessione. Se il modello atomico di Thomson fosse stato corretto, la maggior parte delle particelle avrebbero attraversato la lamina senza essere molto deflesse. Si osserva, invece, che alcune particelle sono deflesse come se rimbalzassero contro qualcosa. Dagli angoli di deflessione, Rutherford inferisce che la massa dell’atomo dovrebbe essere non uniformemente distribuita, ma concentrata in un nucleo (fatto presumibilmente di particelle con carica positiva) mentre gli elettroni orbiterebbero intorno al nucleo (modello planetario dell’atomo). Il modello atomico di Rutherford rappresenta un notevole progresso rispetto al precedente, ma subito rivela anche dei limiti: come spiegare la stabilità dell’atomo, ovvero il fatto che gli elettroni orbitanti non collassano sul nucleo dopo un certo periodo di tempo come ci si aspetterebbe secondo le leggi della fisica classica? Solo la teoria dei quanti potrà fornire una risposta a questo quesito, come Niels Bohr mostrerà nel 1913.
Nel 1919 è ancora una volta Rutherford a compiere un passo molto importante per la storia della fisica delle particelle. Studiando le reazioni di particelle α con nuclei di vari atomi, Rutherford scopre che in tutti i casi viene emesso un nucleo di idrogeno che è considerato uno degli elementi fondamentali della materia e prende il nome di protone. Resta da scoprire di che cos’altro consiste il nucleo di elementi chimici diversi dall’idrogeno, visto che il numero atomico (cioè il numero di protoni contenuti in un nucleo atomico) non coincide generalmente con il numero di protoni. La risposta verrà solo molti anni dopo, nel 1931 quando al Cavendish Laboratory di Cambridge (lo stesso prestigioso laboratorio dove Thomson aveva scoperto l’elettrone) James Chadwick scoprirà il neutrone. Con la scoperta del neutrone, particella a carica neutra, sembra ultimarsi la scoperta delle particelle costituenti l’atomo. Tuttavia sorge una nuova domanda: cosa rende stabili i nuclei atomici, costituiti da neutroni e protoni? Ovvero cosa tiene uniti i protoni e i neutroni nel nucleo, nonostante le forze repulsive esercitate dalle cariche positive dei protoni? Già nel 1921 Chadwick ed Étienne Bieler avevano ipotizzato l’esistenza di una forza nucleare forte agente tra gli elementi che costituiscono il nucleo di ogni atomo. Ma come vedremo in seguito, solo con la nascita della cromodinamica quantistica negli anni Settanta sarà possibile fornire una caratterizzazione più precisa della natura della forza nucleare forte.
Dal positrone al muone
Nel 1928 P. A. Maurice Dirac trova un’equazione relativistica per l’elettrone da cui deriva lo spin dell’elettrone ed è così possibile spiegare tutta una serie di anomalie spettroscopiche note fin dall’inizio secolo. Tuttavia l’equazione di Dirac presenta un problema: ha soluzioni con energia positiva e negativa. Come interpretare gli stati d’energia negativa? Nel 1931 Dirac avanza un’ipotesi euristica: identifica gli stati di energia negativa con una particella avente la stessa massa dell’elettrone ma carica elettrica opposta a quella dell’elettrone (+e) che egli chiama antielettrone. Dirac è convinto che questa particella non possa essere osservata in natura per la velocità di ricombinazione con l’elettrone, ma di lì a due anni Carl Anderson al Caltech di Pasadena individuerà la nuova particella nelle tracce di raggi cosmici fotografate in una camera a nebbia: l’elettrone a carica positiva o “positrone” come sarà chiamato è la prima antiparticella scoperta; molte altre antiparticelle saranno scoperte negli anni successivi.
La teoria di Dirac del 1931 presenta i processi di creazione e annichilazione di elettroni e positroni come del tutto simmetrici, ma c’è un fenomeno in cui la simmetria tra elettroni e positroni suscita delle perplessità: nel cosiddetto decadimento β, un neutrone decade in un protone e un elettrone n → p, e- (il processo opposto consiste in un protone che decade in un neutrone e positrone, p → n, e+). In entrambi questi processi sembra che il momento angolare non sia conservato: il neutrone ha spin 1/2, e lo spin totale dello stato successivo al decadimento è dato dalla somma dello spin dell’elettrone (1/2) con quello del protone (1/2) che, a seconda dell’allineamento parallelo o antiparallelo degli spin, può avere valore totale 1 o 0. Dunque una frazione di momento angolare dell’ordine di 1/2 in unità di h/2π sembrava non conservata. Per conservare il momento angolare, Wolfgang Pauli nel 1931 ipotizza che nel decadimento β, oltre al protone e all’elettrone, venga creata anche una nuova particella di massa molto piccola (quasi nulla) e di carica elettrica neutra, che fu all’inizio chiamata neutrone ma in seguito alla scoperta di Chadwick del neutrone prenderà il nome di neutrino.
Nel 1934 Enrico Fermi formula una teoria del decadimento β che fa uso dell’ipotesi di Pauli sul neutrino e che introduce una nuova forza (chiamata in seguito forza “debole” per distinguerla dalla forza nucleare forte) responsabile del decadimento di un neutrone in un protone (e viceversa) con la relativa emissione di elettroni (o positroni). Passeranno tuttavia ben 20 anni per la prima conferma sperimentale dell’esistenza del neutrino: solo negli anni Cinquanta con l’uso di reattori nucleari fu possible individuare il neutrino nel decadimento β (si tratta in realtà di un’antineutrino elettronico). Intanto nel 1935 il fisico giapponese Hideki Yukawa combinando relatività e teoria quantistica elabora una teoria della forza nucleare forte (o interazione forte) secondo la quale il collante che tiene uniti protoni e neutroni nel nucleo sarebbe una nuova particella di massa uguale a 100 MeV, ovvero 200 volte la massa dell’elettrone ma molto più piccola della massa del protone e neutrone che è di circa 900 MeV. Per questo motivo la particella è chiamata mesone, che in greco significa particella a massa intermedia, o meglio mesone π o pione. Tra il 1938 e il 1939, alcuni fisici sperimentali, analizzando tracce di raggi cosmici in camere a nebbia, osservano effettivamente una nuova particella di massa 100 MeV, all’inizio individuata come il mesone di Yukawa: la particella ha una vita media di circa due millionesimi di secondo per poi decadere in elettroni (o positroni) e in altre particelle neutre (che solo molti anni dopo saranno identificate con i neutrini). C’è tuttavia un problema. Secondo la teoria di Yukawa il mesone che avrebbe fatto da collante tra protoni e neutroni doveva avere una vita media di gran lunga più breve della pur breve vita media della nuova particella osservata: il mesone di Yukawa avrebbe dovuto infatti interagire con i nuclei degli atomi dell’aria e decadere molto rapidamente, mentre la nuova particella osservata nei raggi cosmici riuscì a penetrare senza interagire gran parte dell’atmosfera terrestre fino a raggiungere il livello del mare.
Nel 1947, dieci anni dopo la prima osservazione della nuova particella, fisici giapponesi e americani giungono alla conclusione che la nuova particella osservata non è il mesone di Yukawa, ma piuttosto una nuova particella che fu chiamata muone (µ) e che appartiene insieme all’elettrone, al positrone e al neutrino alla famiglia della cosiddette particelle leggere (o dal greco leptoni), ovvero particelle che non sono soggette all’interazione forte ma perdono energia solo per interazione elettromagnetica con i nuclei degli atomi dell’aria (questo spiegava perché i muoni penetrano gran parte dell’atmosfera fino a raggiungere il livello del mare).
Nel frattempo l’analisi di raggi cosmici negli strati alti dell’atmosfera, effettuata tramite sonde prive di equipaggio, rivela ben presto l’esistenza di un’altra particella avente massa di circa 140 MeV, che è soggetta all’interazione forte e decade rapidamente nel muone precedentemente osservato. La nuova particella è identificata con il mesone π o pione, anche se la massa è leggermente superiore a quella prevista da Yukawa. Il pione appartiene a una famiglia di particelle diversa da quella a cui appartengono elettroni, positroni, neutrini e muoni, ovvero appartiene alla famiglia dei cosiddetti mesoni. In seguito si scoprì che esistono tre pioni, a carica positiva, negativa e neutra (π+, π-, π0), tutti di spin 0 e che decadono in muoni, neutrini oppure due fotoni (decadimento del pione neutro). Altri mesoni saranno scoperti all’inizio degli anni Cinquanta, i cosiddetti kaoni K, anch’essi a carica positiva, negativa e neutra, e molti altri mesoni saranno scoperti nei decenni successivi.
Tra la fine anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, grazie all’avvento di nuove tecnologie come i ciclotroni, le camere a bolle, e i protosincrotroni (sincrotroni per protoni), il mondo delle particelle si rivela sempre più ricco e variegato: oltre ai pioni e kaoni, si scopre una particella pesante chiamata Λ0, nonché intere famiglie di nuove particelle (Δ++, Δ+, Δ0, Δ–), (Ξ-, Ξ0) e (Σ+, Σ0, Σ–). A questi sviluppi sul fronte della fisica sperimentale faranno ben presto seguito ancor più sorprendenti sviluppi sul fronte teorico nella seconda metà del Novecento.
Dalla teoria di gauge alla teoria elettrodebole
Nel 1954 Chen Ning Yang e Robert Mills elaborano una teoria nota come teoria di gauge che ben presto si rivela uno strumento teorico indispensabile per l’analisi delle interazioni fondamentali (debole, forte ed elettromagnetica). La teoria di gauge nasce come una teoria quantistica dei campi per l’interazione forte e debole modellata sull’esempio della elettrodinamica quantistica, dove i fotoni sono le particelle che fungono da tramite dell’interazione elettromagnetica. Ma mentre l’interazione elettromagnetica ha un lungo raggio d’azione che richiede come tramite proprio particelle prive di massa come i fotoni, le interazioni forte e debole hanno un raggio d’azione corto che è incompatibile con particelle prive di massa che fungano da tramite. Dunque la presenza di termini privi di massa come richiesto dalla teoria di gauge costituisce un problema per l’analisi dell’interazione debole e forte.
Nel caso dell’interazione debole fin dal 1957 con i lavori di Julian Schwinger, Sidney Bludman e Sheldon Glashow, si sa che tale interazione dev’essere mediata da particelle elettricamente cariche, con massa pesante e spin 1 che seguono la statistica Bose-Einstein (“bosoni”), più tardi chiamate W+, W-. Nel 1967, Steven Weinberg e Abdus Salam propongono una teoria di gauge che unifica l’interazione debole con l’interazione elettromagnetica nella cosiddetta interazione elettrodebole. La teoria elettrodebole ipotizza l’esistenza di un bosone a carica neutra mediatore dell’interazione debole (noto come Z0 nonché di un altro bosone dotato di massa, carica neutra, e spin 0 e chiamato bosone di Higgs (dal nome del fisico Peter Higgs): secondo la teoria, il bosone di Higgs si accoppierebbe con i bosoni mediatori dell’interazione debole (W+ -, Z0) ma non con il fotone mediatore dell’interazione elettromagnetica, con il risultato che i primi acquisterebbero massa mentre il secondo rimarrebbe privo di massa come richiesto dall’interazione elettromagnetica.
Solo nel 1983, grazie all’uso di un nuovo apparato noto come protone-antiprotone collider al CERN di Ginevra, Carlo Rubbia e Simon van der Meer riescono a individuare i bosoni (W±, Z0) come previsto dalla teoria elettrodebole, e per questa scoperta ottennero il premio Nobel. La ricerca sperimentale del bosone di Higgs rimane invece ancora aperta e rappresenta una delle frontiere della fisica delle particelle: solo se tale bosone verrà scoperto sarà possibile concludere che il meccanismo che sta alla base della teoria elettrodebole, e più in generale il cosiddetto modello standard della fisica delle particelle, di cui parleremo in seguito, è corretto. I preparativi per i nuovi esperimenti finalizzati all’osservazione del bosone di Higgs sono al momento in corso al CERN di Ginevra. In conclusione, mentre nel caso dell’interazione debole si può ovviare alla presenza di termini privi di massa, nella teoria di gauge di Yang e Mills postulando il bosone di Higgs e assumendo che i bosoni pesanti mediatori dell’interazione debole acquistino massa tramite esso, nel caso dell’interazione forte la presenza di termini privi di massa come richiesto dalla teoria di gauge di Yang e Mills troverà conferma con lo sviluppo della cromodinamica quantistica, secondo la quale l’interazione forte (quella stessa che Yukawa pensava fosse mediata dal pione) è mediata da otto gauge bosoni con spin 1, massa zero ed elettricamente neutri chiamati gluoni, che farebbero da collante (in inglese glue) tra le particelle fondamentali di cui protoni e neutroni sono costituiti, ovvero i quark.
La cromodinamica quantistica e il modello standard
L’ipotesi dei quark come particelle fondamentali costituenti non solo i protoni e i neutroni ma più in generale tutti gli adroni (cioè tutte le particelle di massa media), è formulata all’inizio degli anni Sessanta indipendentemente da Murray Gell-Mann, Yuval Ne’eman, e George Zweig. Si ipotizza che i mesoni (per es. i pioni e i kaoni) siano costituiti da una coppia quark–antiquark, mentre i barioni (particelle di massa pesante come per es. protoni, neutroni, Λ0, Ξ–, Ξ0, Σ+, Σ0, Σ– tra gli altri) fossero costituiti da tripletti di quark. All’inizio si postulano solo tre diversi tipi (o flavours) di quark: u (up), d (down), e s (strange), con le rispettive antiparticelle (). Sulla base di considerazioni puramente teoriche, ai quark venne assegnata carica elettrica frazionaria (2/3 al quark u, e -1/3 ai quark d e s), spin 1/2, e altre proprietà fisiche. In questo modo diventa possibile spiegare le proprietà fisiche di tutte gli adroni noti, riconducendole alle proprietà dei quark costituenti (per es. il protone viene identificato con un tripletto di quark uud, mentre il neutrone con un tripletto udd; lo spin 1/2 dei protoni e neutroni era dovuto all’allineamento antiparallelo degli spin-1/2 dei quark costituenti). Inoltre era anche possibile predire l’esistenza di nuovi adroni sulla base della loro composizione a quarks: e infatti un nuovo barione (la particella Ω- costituita dal tripletto di quark sss) è sperimentalmente scoperta nel 1964.
La scoperta della nuova particella è salutata come un grande successo per la teoria dei quark, ma allo stesso tempo solleva delle difficoltà: i quark hanno spin 1/2 e quindi dovrebbero seguire il principio di esclusione di Pauli (ovvero la statistica Fermi-Dirac, cioè sono fermioni), il quale afferma che non esistono in natura due particelle di spin-1/2 che siano nello stesso stato dinamico. Ma in realtà il principio di esclusione sembra violato: l’Ω- è costituita da tre quark s che sono nello stesso stato dinamico. Per salvare il principio di esclusione, nel 1965 Moo Young Han e Yoichiro Nambu introducono un’altra proprietà per i quark, in seguito chiamata colore (inutile dire che la proprietà in questione non ha ovviamente nulla a che vedere con il colore comunemente inteso). Si ipotizza che i tre quark u, d ed s possano ciascuno esistere in tre colori diversi (per così dire rosso, verde, e blu) così da salvare il principio di esclusione per i quark. Ma soprattutto con l’ipotesi dei quark colorati diventa possibile formulare una teoria di gauge per l’interazione forte che prende il nome di cromodinamica quantistica, e le cui idee pionieristiche risalgono al 1973 con i lavori di Bardeen, Fritzsch e Gell-Mann.
Secondo la cromodinamica quantistica, la forza che tiene uniti protoni e neutroni nel nucleo di un atomo si può spiegare in termini di forza che lega a sua volta insieme i quark colorati all’interno di ogni protone e neutrone. Questa forza sarebbe veicolata da otto bosoni di spin 1, massa zero, e carica neutra chiamati appunto gluoni. Come i fotoni sono bosoni che veicolano l’interazione elettromagnetica, e W±, Z0 sono bosoni che veicolano l’interazione debole, similmente i gluoni sono bosoni che veicolano l’interazione forte. Ogni gluone porta una combinazione di colore e anticolore (per esempio, blu e antirosso); emettendo o assorbendo gluoni, i quark colorati si manterrebbero legati all’interno di ogni protone, neutrone, e più in generale di ogni adrone. L’assunto fondamentale della cromodinamica quantistica è che in natura si possono osservare solo stati con colore totale zero, i quali corrispondono proprio a combinazioni di quark-antiquark (mesoni) e a tripletti di quark (adroni), ma non si possono osservare singoli quark colorati né gluoni perché questi hanno colore non-zero. In altre parole, i quark colorati e i gluoni sono confinati all’interno degli adroni ed è impossibile osservarli sperimentalmente. D’altro lato, nel regime delle alte energie i quark colorati si comportano come se fossero particelle libere: godono di una proprietà nota come libertà asintotica, come anticipato da David J. Gross, Frank Wilczek e David Politzer nel 1973 (premi Nobel nel 2004). Più precisamente, la libertà asintotica ha consentito una spiegazione di alcuni importanti dati sperimentali, disponibili sin dal 1968-1969, concernenti la struttura interna di protoni e neutroni: da questi esperimenti si evidenzia l’esistenza di particelle all’interno di un protone (o neutrone) che in un primo momento sono identificate con delle presunte particelle libere chiamate partoni, e non con i quark, sulla cui esistenza all’epoca si è ancora scettici. Solo con la scoperta della libertà asintotica si comprende che le particelle in questione non erano altro che quark colorati che nel regime delle alte energie si comportano (analogamente a quelli usati nei suddetti esperimenti) come se fossero particelle libere, ovvero partoni.
Altre importanti conferme sperimentali indirette per i quark colorati arrivarono tra il 1974-1976 con la scoperta di un quarto tipo di quark, il cosiddetto quark charm c, e ancora nel 1977 con la scoperta di un quinto quark bottom b, e infine nel 1995 con la scoperta di un sesto quark top t, mentre dalla fine degli anni Settanta all’inizio anni Ottanta nel laboratorio DESY di Amburgo si moltiplicano gli esperimenti volti ad accertare qualche evidenza indiretta per i gluoni.
Questi esperimenti hanno tutti confermato finora la validità del cosiddetto modello standard della fisica delle particelle, secondo il quale le particelle elementari in natura sono i sei summenzionati leptoni (elettrone, muone, tau, e i tre corrispettivi neutrini elettronico, muonico, tauonico) e i sei quark (u, d, s, c, b, t). Sia i leptoni che i quark sono particelle a spin-1/2 e quindi fermioni. Le quattro interazioni fondamentali (gravitazionale, elettromagnetica, nucleare debole, nucleare forte) sono mediate invece da bosoni a spin 1 (o spin 2 come nel caso dell’ipotetica particella portatrice della forza gravitazionale, il gravitone): i fotoni per l’interazione elettromagnetica, i bosoni vettoriali intermedi W±, Z0 per l’interazione debole, e i gluoni per l’interazione forte. Come accennato sopra, la definitiva conferma del modello standard verrà solo con la scoperta del bosone di Higgs. Ma questa è una delle tante questioni ancora aperte della fisica delle particelle.