Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In quest’epoca due importanti innovazioni interessano lo studio del moto: innanzitutto una nuova concezione del moto violento, che, partendo dalla critica della teoria aristotelica avanzata nel VI secolo da Giovanni Filopono, introduce il concetto di impetus, o forza impressa dal motore al mobile, con cui si spiega la prosecuzione del moto di un proietto; in secondo luogo un approccio quantitativo allo studio della cinematica, con il cosiddetto teorema mertoniano della velocità media. L’ambito in cui l’eredità greca dà i maggiori risultati nella direzione della matematizzazione della fisica è la scienza dei pesi o statica. Il recupero della tradizione archimedea e di quella pseudo aristotelica di Questioni Meccaniche contribuisce allo studio matematico delle condizioni d’equilibrio dei corpi.
Nella fisica aristotelica vi sono quattro tipi di movimento (o mutamento), secondo la sostanza (per esempio un tronco che brucia diventando cenere), secondo la qualità (riscaldamento dell’acqua), secondo la quantità (crescita di una pianta) e secondo il luogo (il cambiamento di luogo o posizione). Nel mondo terrestre, il moto locale può essere naturale o violento. Un corpo pesante si muove naturalmente verso il centro del cosmo, che coincide con il centro della Terra; se è mosso verso l’alto, si avrà allora un moto contro natura, o violento. L’indagine aristotelica dei problemi del moto si basa sull’assunto che il moto è un processo e ha carattere passeggero: i corpi terrestri tendono a raggiungere il loro luogo naturale, raggiunto il quale si arrestano. Mentre in Aristotele non vi è una analisi quantitativa dei problemi del moto, le Questioni Meccaniche pseudoaristoteliche (probabilmente opera di un allievo di Aristotele) si occupano delle macchine semplici in modo originale rispetto ad altri trattati tecnici dell’antichità – introducono infatti un approccio dinamico nella trattazione dei problemi di statica. L’opera pone a fondamento dei fenomeni meccanici il cerchio, e riconduce il funzionamento della bilancia e della leva ad alcune proprietà del moto circolare. Le operazioni della bilancia possono essere spiegate sulla base dell’assunto che l’efficacia di un peso su un braccio (vale a dire la sua velocità, laddove s’interpreti la maggiore o minore lontananza dal fulcro come misura di uno spostamento virtuale) aumenta in funzione della distanza del peso stesso dal fulcro. Mentre è difficile rintracciare un’influenza diretta (anche se una indiretta attraverso la scienza araba è attestata) delle Questioni Meccaniche pseudoaristoteliche, l’impatto della statica di Archimede è maggiormente visibile nel Medioevo latino.
Archimede si occupa di problemi meccanici sia da un punto di vista teorico che pratico. Nell’affrontare problemi di meccanica, Archimede si basa sulla geometria e nel trattato di statica Sull’equilibrio dei piani procede secondo un metodo rigorosamente deduttivo. Egli fonda la propria trattazione dei problemi di statica su alcuni assiomi: pesi eguali sospesi a eguali distanze sono in equilibrio; pesi eguali a distanze ineguali non conservano l’equilibrio, ma inclinano verso il peso che si trova a maggiore distanza; due grandezze sono in equilibrio a distanze che sono proporzionali alle grandezze stesse; un peso collocato sulla linea della verticale che passa per il fulcro della bilancia non disturba l’equilibrio.
Trattando della caduta dei gravi, Aristotele ritiene che la velocità sia direttamente proporzionale al peso del corpo e inversamente proporzionale alla resistenza del mezzo attraverso cui si muove. Giovanni Filopono, commentatore greco del VI secolo, critica la teoria aristotelica e ritiene che la resistenza vada sottratta alla potenza. Quindi, la velocità dei corpi non è data da P/R, dove P è il peso e R la resistenza, ma da P-R, cosicché è possibile un moto in assenza di mezzo resistente. Nel XII secolo Avempace, filosofo arabo attivo in Spagna, afferma – contro Aristotele – che il mezzo resistente non è necessario al verificarsi del moto e che la sua funzione è solo di ritardarlo. La critica di Avempace giunge nell’Occidente latino attraverso i commentari di Averroè alla fisica di Aristotele ed è ripresa da Tommaso d’Aquino.
Tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo il concetto di resistenza interna è introdotto nello studio dei problemi del moto. Questo concetto deriva da una nuova interpretazione della concezione aristotelica di corpo misto. Gli elementi leggeri e pesanti sono concepiti come se fossero composti di gradi o parti, cosicché, se in un misto sono predominanti gli elementi pesanti (terra e acqua), questo si muove naturalmente verso il basso; se sono predominanti aria e fuoco, il corpo tende naturalmente verso l’alto, ovvero verso la superficie concava della sfera lunare. Maggiore il rapporto di gradi degli elementi pesanti rispetto ai leggeri, maggiore la velocità di caduta.
Pesantezza e leggerezza possono coesistere nello stesso corpo che, per esempio, può avere tre gradi di leggerezza e otto di pesantezza e quindi muoversi più velocemente di un altro che ha otto gradi di pesantezza e cinque di leggerezza. La velocità di caduta è dunque la risultante di questo rapporto tra due qualità che sono presenti in quantità definite (gradi); la pesantezza è la forza motrice, la leggerezza, la resistenza interna. A partire da queste considerazioni Thomas Bradwardine e Alberto di Sassonia giungono a una conclusione incompatibile con i principi della fisica aristotelica: affermano che due corpi omogenei, anche se di dimensioni (e peso) differenti, cadono con la stessa velocità nel vuoto.
Una delle principali critiche rivolte alla meccanica aristotelica nel Trecento riguarda la spiegazione del moto violento, già confutata da Filopono nel VI secolo. La possibilità dei moti dei proietti (un caso di moto violento) dopo che essi si sono distaccati dal motore, cioè dall’agente che innesca il movimento (ad esempio, chi tende l’arco o rotea la fionda), è spiegata da Aristotele con l’azione dell’aria che trasmetterebbe il moto, accompagnando e trasportando il corpo scagliato. Mentre, dunque, nel moto naturale la fonte del moto (o motore) è una forza interna all’ente in movimento, nel moto violento è una forza esterna che deve essere costantemente a contatto con la cosa mossa. Il problema del moto violento riceve nuove soluzioni nel corso del secolo XIV, la principale delle quali si basa sul concetto di impetus, con cui si indica una forza impressa incorporea, non permanente ma transitoria, capace di conservare per un certo intervallo di tempo il moto violento di un grave. L’impetus ha carattere qualitativo e di esso non si dà una descrizione matematica. Si tratta di una virtù o potenza che modifica il proietto e che è tanto maggiore quanto più a lungo esso è sottoposto all’azione del proiciente; essa si esaurisce col tempo, nonché per l’effetto della resistenza del mezzo e della naturale inclinazione a cadere.
A Giovanni Buridano si devono due significative innovazioni nell’interpretazione della teoria dell’impetus: 1. egli dà una definizione quantitativa dell’impetus, facendolo dipendere dalla velocità con cui il mobile è mosso dal motore e dalla quantità di materia contenuta nel mobile; 2. rifiuta il carattere transitorio dell’impetus e ne fa una qualità permanente, ma solo in un caso ipotetico: in assenza del mezzo resistente e in assenza di un’inclinazione verso il basso suppone che esso possa conservarsi indefinitamente. Per Buridano, come per tutti i filosofi medievali, queste condizioni non sono presenti nel mondo sublunare. Ma, ed è qui il carattere originale della sua ipotesi, il caso limite di moto in assenza di mezzo resistente si ha con il moto dei cieli. Buridano suppone che i moti celesti (circolari e uniformi) continuino non per l’azione delle intelligenze celesti, ma per un’originaria azione diretta di Dio, ovvero per effetto di un impetus iniziale a essi conferito dal Creatore. Non essendoci inclinazioni ad altri moti, né resistenze, l’impeto originario conferito ai corpi celesti non diminuisce. Buridano applica la teoria dell’impetus al moto di caduta dei gravi. Aristotele sa che la velocità di caduta aumenta e fa dipendere l’accelerazione dalla vicinanza del corpo al suo luogo naturale; la crescente vicinanza produrrebbe un peso addizionale. Nel Medioevo viene proposta una diversa spiegazione dell’accelerazione di caduta: i corpi si muovono più rapidamente in prossimità del suolo perché qui la resistenza dell’aria è minore. Rifiutate ambedue queste spiegazioni, Buridano sostiene che l’accelerazione è prodotta dalla continua aggiunta di impetus ad opera della gravità. Inizialmente il grave è mosso solo dalla sua gravità naturale, e perciò si muove lentamente; successivamente è mosso insieme dalla gravità e dall’impeto acquisito, e perciò si muove più velocemente. Aumentando la velocità di caduta, aumenta anche l’impeto, cosicché aumenta ulteriormente la velocità.
Nel XIII secolo si hanno le prime trattazioni cinematiche della caduta dei gravi a opera di Giordano Nemorario, il quale afferma: “in periodi di tempo uguali è percorso uno spazio sempre maggiore, ossia in periodi di tempo uguali la velocità è maggiore” (Liber de ratione ponderis, cap. IV). Il tempo e la distanza sembrano essere strettamente associati, cosicché Buridano e il suo allievo Nicola Oresme fanno dipendere gli aumenti di velocità o dallo spazio percorso o dal tempo impiegato, senza comprendere la contraddittorietà delle due funzioni.
Importanti sviluppi quantitativi della meccanica emergono dalle ricerche condotte tra il 1328 e il 1350 dai filosofi e logici del Merton College di Oxford, in particolare da Thomas Bradwardine, Richard Swineshead, Guglielmo di Heytesbury e John Dumbleton. Gli studi quantitativi del moto a opera dei mertoniani cercano di rispondere al problema filosofico di come le qualità variano di intensità, che nella terminologia scolastica si esprime come ““aumento e diminuzione delle qualità””.
Quattro i principali contributi dei mertoniani: 1. una chiara distinzione tra dinamica e cinematica, espressa come distinzione tra le cause del moto e gli effetti spazio-temporali; 2. l’emergere del concetto di velocità istantanea; 3. la definizione del moto uniformemente accelerato come quel moto in cui incrementi uguali di velocità sono acquisiti in intervalli di tempo uguali; 4. la formulazione e la dimostrazione del teorema cinematico della velocità media. Secondo questo teorema, lo spazio percorso in un tempo dato con accelerazione uniforme è uguale a quello percorso nello stesso tempo con moto uniforme a una velocità pari a quella che il moto uniformemente accelerato ha nel suo istante di mezzo.
Con una notazione moderna, il teorema della velocità media si può esprimere nel modo seguente S=1/2Vft, dove S è lo spazio percorso, Vf la velocità finale e t il tempo. Nel Trecento si hanno numerosi tentativi di dare una dimostrazione formale del teorema, alcuni di carattere aritmetico, altri geometrico. Di grande importanza sono i contributi terminologici dei mertoniani, cui si deve la definizione di moto uniforme, definito come moto in cui si attraversano spazi uguali in uguali intervalli di tempo; moto uniformemente difforme, come moto in cui si acquisiscono uguali incrementi di velocità in periodi di tempo uguali. Occorre però sottolineare che nella cinematica medievale, compresi gli studi quantitativi dei filosofi del Merton College, l’esame delle variazioni delle qualità e delle velocità è condotto in termini puramente teorici e non è fondato sulla ricerca empirica, né la prevede.
Nell’Occidente latino la statica (che gli scolastici chiamano “scienza dei pesi”) riceve un significativo impulso dall’opera di traduzione che caratterizza i secoli XII e XIII. Si tratta di opere di Archimede ed Euclide, o comunque di opere ispirate alle loro idee, che hanno avuto circolazione, e in alcuni casi origine, in ambiente culturale arabo e che contengono i principali problemi e concetti della statica greca.
Notevole impatto ha un trattato anonimo di origine ellenistica intitolato De canonio e dedicato alla stadera o bilancia romana, una bilancia a bracci diseguali. L’autore adotta alcuni concetti già presenti nelle Questioni meccaniche pseudoaristoteliche e nella statica di Archimede. Nel trattato si dimostra come trovare il peso da appendere al braccio più corto della stadera per tenere la bilancia in equilibrio, senza applicare alcun peso al braccio più lungo. Nel trattato l’autore dà per dimostrata la legge generale della leva: la leva rimane in equilibrio solo se il prodotto del peso per il rispettivo braccio è uguale da una parte e dall’altra del fulcro. Egli adotta inoltre la dottrina di Archimede del centro di gravità.
Figura di primo piano della statica medievale è Giordano Nemorario, della cui vita si sa ben poco, salvo che soggiornò a Parigi nella prima metà del XIII secolo. Negli Elementa Jordani de ponderibus l’autore fa uso di un principio (poi comunemente chiamato “assioma di Giordano”) secondo il quale la potenza capace di sollevare un dato peso P a una data altezza h solleva un peso che è k volte maggiore di P a un’altezza che è 1/k l’altezza h. Giordano considera la pesantezza di un corpo in rapporto alla sua posizione (gravitas secundum situm): ““Un corpo è più pesante nella sua discesa quando il suo moto verso il centro è più diretto. Un corpo è più pesante secondo il suo luogo, quando in questo luogo la sua discesa è meno obliqua. Una discesa più obliqua è una per cui nella stessa quantità è contenuto meno cammino diretto”” (Brown, 1978).
Al XIII secolo risale uno dei primi trattati di idrostatica, il De insidentibus in humidum, attribuito ad Archimede e derivante da antiche fonti latine e arabe. Il trattato dello pseudo-Archimede distingue il peso specifico da quello che chiama “peso numerico”: ““La relazione di due gravi l’uno all’altro si può considerare in due modi – si legge nel De insidentibus in humidum – secondo la specie e secondo il numero. È secondo la specie se vogliamo ad esempio confrontare la gravità in specie dell’oro con la gravità dell’argento; e ciò si deve fare supponendo l’uguaglianza del corpo d’oro con quello d’argento [...] Di due corpi si dice più grave secondo il numero quello che fa inclinare dalla sua parte il giogo della bilancia. Nessun corpo è grave in se stesso; l’acqua in acqua, l’olio in olio, l’aria in aria non hanno nessuna gravità. Un corpo pesa più nell’aria che nell’acqua” [Clagett 1972, p. 115].