La filosofia politica nel pensiero antico
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il pensiero politico antico, caratterizzato da una forte componente etica e ricostruibile a partire da una grande varietà di fonti, molte delle quali frammentarie, è sempre strettamente legato alle condizioni storiche, istituzionali e sociali del mondo greco-romano che lo ha prodotto e si concentra in particolare su temi quali l’individuazione della miglior forma di governo, la natura e le qualità del politico o del princeps, il rapporto tra governanti e sottoposti, l’utilità della vita comunitaria per raggiungere la virtù e/o la felicità.
Negli ultimi anni le sintesi dedicate alla ricostruzione della storia del pensiero politico antico, greco e romano (da Rowe-Schofield fino a Cartledge), hanno sottolineato con forza la necessità di ripensare la contrapposizione tra “teoria politica” (o, detto in altri termini, “filosofia politica” in senso stretto) e “pensiero politico”. La prima, che copre un ambito più ristretto, ha infatti come oggetto di studio le idee di quei filosofi che, come Platone, Aristotele, Cicerone, Seneca o Agostino, hanno elaborato ed espresso nelle loro opere una visione più o meno sistematica dello Stato – sia esso polis, res publica o impero – e tende per lo più a trascurare il legame tra la teoria e gli sviluppi pratici del mondo politico greco e romano; il secondo invece, categoria assai più ampia, raccoglie tutto ciò che, dalla nascita della polis in Grecia nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., è stato detto, scritto o fatto in ambito politico: suo oggetto di studio non sono perciò soltanto le opere dei filosofi, ma tutte quelle manifestazioni letterarie (poesia, teatro, storiografia, oratoria e retorica) a partire dalle quali è possibile ricostruire un qualche pensiero politico, insieme con il funzionamento delle istituzioni, le fonti documentarie (le epigrafi, ad esempio) e le fonti archeologiche (come giustamente sottolineato da Paul Cartledge nel suo Ancient Greek political thought in practice, persino la pianta di una città può farsi espressione di una concezione politica).
L’esigenza, a nostro parere corretta, di contemperare i due punti di vista, uno più propriamente “filosofico” e l’altro invece più “storico”, nasce in primo luogo dalla volontà di contestualizzare la riflessione teorica, ma pure da esigenze di carattere pratico: se infatti i Greci cominciano ad agire e pensare “in modo politico” in concomitanza con l’invenzione della polis, ovvero della città-stato, essi giungono a elaborare una “teoria politica” capace di astrarre dai singoli casi concreti soltanto dopo il cosiddetto “illuminismo ionico” del VI secolo a.C. e, per alcuni studiosi, soltanto dopo l’istituzione della democrazia isonomica di Clistene, con la teoria costituzionale delineata nel dibattito persiano o logos tripolitikos di Erodoto di Alicarnasso (Storie 3, 80-82). Senza contare che poeti come Omero ed Esiodo rivestono un ruolo fondamentale nel fissare alcuni dei valori-cardine della cultura greca, sulla base dei quali i filosofi del V e del IV secolo a.C. eserciteranno la propria riflessione e la propria critica – lo stesso si può dire, a Roma, delle leggi delle XII tavole, che fissano quel legame tra politica, diritto e religione cui Cicerone darà voce nei propri scritti di filosofia politica.
Si impongono a questo punto ancora alcune precisazioni, fondamentali per comprendere sia la filosofia politica antica in senso stretto sia il pensiero politico antico. In primo luogo la “politica degli antichi” non è la “politica dei moderni”: ciò significa che i filosofi politici antichi non concepiscono la politica come un’analisi teorica e oggettiva del funzionamento dello Stato – inteso modernamente come entità “altra” rispetto alla comunità dei cittadini – ma come un sapere volto a comprendere e a influenzare la prassi e a rendere i cittadini virtuosi; questo spiega l’attenzione per temi, come la natura della virtù e in particolare della giustizia, che oggi rientrano nell’ambito propriamente etico, e l’attenzione per virtù che hanno modo di manifestarsi soprattutto nel contesto civico. Un altro aspetto da tenere presente è l’uso di una terminologia comune a quella impiegata nel mondo moderno (libertà, uguaglianza, giustizia) per designare realtà differenti: nell’Antichità greca del V e IV secolo a.C., ad esempio, non esiste un concetto di uguaglianza tra tutti gli uomini, femmine e maschi, ma l’uguaglianza riguarda precise categorie, definite diversamente a seconda del sistema politico e sempre “escludenti” nei confronti delle donne e degli schiavi; nella democrazia ateniese il concetto di cittadinanza implica poi un forte grado di partecipazione attiva e si distingue dalla cittadinanza per lo più passiva delle democrazie rappresentative moderne. Terzo aspetto di cui tenere conto è la condizione delle fonti a disposizione degli studiosi per ricostruire il pensiero antico: limitandosi alla filosofia politica in senso stretto, prima di Platone gli scritti dei filosofi naturalisti e dei sofisti sono quasi interamente perduti e, dopo Platone e il suo discepolo Aristotele, la tradizione è frammentaria e discontinua fino a Cicerone e Plutarco.
La nascita della polis o città-stato, a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C. e con tempi diversi nelle differenti aree della grecità, fornisce il contesto indispensabile all’interno del quale l’uomo greco comincia a “pensare in modo politico” e a porsi domande circa l’organizzazione ottimale della comunità. All’interno di queste prime poleis aristocratiche – nelle quali il potere è nelle mani di pochi individui che vantano nobili natali e detengono il controllo della terra e nelle quali diviene presto endemico il fenomeno della lotta civile o stasis, provocando dalla metà del VII secolo a.C. in poi l’ascesa di tiranni – tale riflessione assume per lo più la forma di versi di poeti, di legislazioni attribuite a personaggi mitici e di leggi vere e proprie conservate per via epigrafica, di idee di filosofi e maestri di sapienza.
Lasciando da parte Iliade e Odissea, che riflettono un mondo pre-polis in cui il potere è ancora nelle mani di un sovrano, cui si affiancano un consiglio e un’assemblea, la prima voce che si interroga sul ruolo della giustizia (dike) nella città aristocratica e sulla sua sacralità e importanza per la conservazione della stessa comunità è Esiodo, nel poema didascalico intitolato Opere e giorni. Il poeta, partendo dalla propria esperienza personale, sottolinea come la dike possa costituire uno strumento alternativo alla violenza per risolvere le contese tra i cittadini, ma evidenzia al tempo stesso come tale dike non debba essere esercitata in modo interessato. Il rischio che i detentori del potere abusino della propria autorità, danneggiando la massa priva di diritti ma anche conquistando una posizione di eccessivo predominio rispetto agli altri membri dell’aristocrazia, porta del resto a esigere l’elaborazione di una qualche forma di legislazione, che stabilisca limiti all’autorità. A tale esigenza rispondono le prime leggi scritte conservate per via epigrafica e il cui più antico esemplare risale alla metà e alla fine del VII secolo a.C. (legge da Drero, sull’isola di Creta, che fissa le norme dell’iterazione della carica del magistrato chiamato kosmos), ma anche l’attività, di cui si conserva notizia in fonti cronologicamente successive, di legislatori più o meno mitici (Epimenide, Zaleuco, Caronda, Licurgo e altri) che, spesso ispirati dalla divinità, danno leggi ad alcune poleis. Nonostante il tentativo di far fronte alla crisi interna alla città, che oppone tra loro i membri dell’aristocrazia in lotta per la supremazia e l’aristocrazia nel suo complesso alla massa sempre più povera, la situazione degenera progressivamente e conduce al potere individui che si appoggiano alle classi “medie” oplitiche per instaurare un regime personale: è il fenomeno della cosiddetta tirannide arcaica. In Atene la situazione potenzialmente esplosiva di inizio VI secolo a.C. è gestita grazie all’intervento di un arbitro (diallaktes) e legislatore (nomothetes), Solone. Egli, che unisce all’attività politica sul campo la riflessione poetica sul proprio operato, tanto che non è mancato chi lo ha considerato il vero fondatore della “teoria politica”, afferma di aver conciliato, nel proprio agire pratico, le rivendicazioni delle due parti in lotta, ponendosi nel mezzo, e di aver concesso ai ricchi e ai poveri quanto ciascuno meritava: le sue leggi, messe per iscritto perché tutti potessero vederle, stanno al di sopra degli interessi di parte e sanciscono la creazione in Atene di una costituzione timocratica, in cui le magistrature sono appannaggio dei più ricchi, ma in cui anche i poveri possono accedere all’assemblea e al tribunale. L’ascesa di “uomini nuovi”, che fondano la propria autorevolezza sulla ricchezza conseguita spesso con attività diverse dall’agricoltura e ambiscono a prendere parte alla vita politica, è invece condannata con violenza nei versi del poeta elegiaco Teognide, voce dell’antica aristocrazia conservatrice.
Ancora, nel corso del VI secolo a.C. la regione della Ionia, in Asia Minore, è sede di una profonda trasformazione nel modo di concepire la realtà, il cosiddetto “illuminismo ionico”, che avrà importanti conseguenze anche sul piano politico: il fenomeno genera infatti la capacità di elaborare un pensiero astratto e razionale, lo sviluppo della riflessione storica, l’interpretazione allegorica del mito. Degli scritti dei filosofi ionici, che non si occupano specificamente di politica ma che indagano la natura nel suo complesso e i principi che vi agiscono, restano brevi frammenti di tradizione indiretta. Tra questi personaggi si segnalano dal punto di vista politico Pitagora di Samo, che per primo tenta di istituire una città (Crotone) retta da individui dediti alla filosofia, ed Eraclito di Efeso, che insiste sull’importanza, nella natura come all’interno della polis, di tre principi: la “contesa” tra gli opposti, la legge e l’intelletto.
Tra la fine del VI e i primi quarant’anni del V secolo a.C. si verificano ad Atene alcuni avvenimenti che esercitano un’influenza fondamentale non soltanto sulla prassi politica ateniese e greca ma anche e soprattutto sullo sviluppo della “teoria politica” dei decenni successivi: in primo luogo, nel 508 a.C. Clistene istituisce la democrazia isonomica, all’interno della quale la partecipazione è basata sull’appartenenza dei cittadini a un demo, incluso in una delle dieci tribù territoriali, e grazie alla quale il popolo nel suo complesso è sempre più coinvolto nel funzionamento del meccanismo politico; successivamente, la vittoria nelle guerre greco-persiane [figura 4], e in particolare la vittoria della flotta ateniese a Salamina (480 a.C.) e a Micale (479 a.C.), rafforza prima la consapevolezza e, poi, il ruolo dei teti, ovvero dei nullatenenti, all’interno della democrazia; la creazione della lega delio-attica e le riforme di Efialte e Pericle, infine, affermano da un lato la supremazia ateniese sugli alleati e, dall’altro, l’instaurarsi di un regime politico basato su una grandissima partecipazione popolare (si veda, a tal proposito, il celeberrimo epitafio pronunciato da Pericle in Tucidide 2, 35-41), favorita in seguito anche attraverso la concessione di uno “stipendio” (misthos) ai membri delle giurie.
Nelle Storie di Erodoto, in cui l’autore si sofferma sull’operato di Clistene (5, 66, 2 e 6, 131, 1), descrivendo il modo di inclusione del demos nell’agone politico, si ritrova anche la prima formulazione della “teoria costituzionale a sei”, destinata a ricomparire nella Repubblica di Platone: nel dibattito persiano (3, 80-82), ambientato nel 522 a.C. circa, i tre interlocutori parlano a favore della costituzione (politeia) che ritengono migliore e attaccano invece quella che reputano peggiore – con un procedimento di discorso pro e contro che procede, forse, dalla tradizione sofistica –, dimostrando come, agli occhi dell’autore, le diverse politeiai reali si possano ricondurre a tre tipologie soltanto, democrazia, oligarchia e regno. Il tema della miglior forma di costituzione da dare alla città è del resto al centro della riflessione del gruppo dei cosiddetti primi “utopisti”, Ippodamo di Mileto e Falea di Calcedonia, di cui tratta Aristotele nel libro II della Politica, e Democrito di Abdera, di cui restano pochi frammenti.
Strettamente legato allo sviluppo e, poi, alla radicalizzazione della democrazia e al ruolo assunto dalla parola come strumento di lotta politica è il movimento della sofistica: i sofisti, che convergono ad Atene a partire dalla metà del V secolo a.C. e che provengono da contesti geografici differenti e impartiscono insegnamenti diversi, sono accomunati dalla pretesa di possedere un “sapere” e di poterlo insegnare a pagamento. Al centro della loro riflessione, che conosciamo quasi esclusivamente dagli scritti di Platone e da pochi frammenti di tradizione indiretta, sono soprattutto il rapporto tra legge e natura (nomos e physis), la ricerca dell’educazione migliore per partecipare alla vita politica e la virtù. Al movimento appartiene Protagora di Abdera, giunto ad Atene in età periclea e autore delle leggi democratiche della colonia panellenica di Turi, fondata nel 444/443 a.C.: egli, attraverso quanto è possibile ricostruire dagli scritti di Platone, sostiene la centralità dell’educazione all’interno della polis, unico strumento capace di rafforzare la giustizia (dike) e il pudore-rispetto (aidos) che Zeus ha voluto fossero concessi a tutti gli uomini, e l’importanza delle leggi, espressione dei valori condivisi dalla comunità politica, che i cittadini devono rispettare. Al pensiero protagoreo riguardo al nomos si oppongono invece quei sofisti che, come Callicle, Trasimaco e Crizia, ritengono che le leggi siano semplicemente uno strumento di cui si servono i detentori del potere per imporre la propria volontà o, piuttosto, un mezzo con i quali i più deboli limitano il margine d’azione dei più forti. In una prospettiva interstatale, l’idea secondo la quale la natura stessa stabilisce che è giusto che il più forte prevalga sul più debole è centrale nelle parole che, secondo il dialogo ricostruito dallo storico Tucidide (5, 84-113), gli ambasciatori ateniesi rivolgono agli abitanti dell’isola di Melo: una relazione improntata sul dikaion è possibile soltanto quando gli interlocutori sono su un piano di parità; quando invece le forze sono impari, è giusto che decida e imponga la propria volontà chi è più forte e questa norma non vale solamente tra gli uomini ma persino tra gli dèi.
L’attenzione per l’uomo che vive all’interno della polis e per la sua virtù ed educazione è al centro del pensiero di Socrate, personaggio cui si deve il prevalere, nella filosofia politica greca, dell’aspetto etico. Socrate, la cui posizione è parzialmente ricostruibile a partire dai dialoghi di Platone, dagli scritti di Senofonte e dalle Nuvole di Aristofane, propone ai propri concittadini un cammino di perfezionamento morale e sottopone a critica serrata i valori tradizionali su cui si fonda la città greca, dimostrando che quanti se ne fanno portavoce in realtà non sono in grado di darne ragione. Ciò non significa che le leggi della polis, che di tali valori condivisi sono espressione, non debbano essere rispettate ma che esse, per poter essere davvero giuste, devono coincidere con il dikaion e che compito del filosofo è persuadere i concittadini a cambiarle in tale direzione.
La condanna a morte di Socrate nel 399 a.C., uno dei primi atti politici della democrazia ateniese restaurata nel 403 a.C., una volta caduto il regime oligarchico dei Trenta tiranni imposto da Sparta qualche mese prima, dà inizio a una nuova tappa nella storia della politica pratica e della teoria politica: dopo la fine della guerra del Peloponneso e il venir meno dell’impero ateniese, il mondo greco si ritrova infatti privo di un potere egemonico e le poleis, che si affrontano in una serie di guerre inutili per la supremazia e che devono fare i conti con una nuova progressiva intrusione della Persia nelle vicende greche, conoscono spesso condizioni di difficoltà economica e di forte contrapposizione sociale interna tra ricchi e poveri; contestualmente, in diverse aree del mondo greco, si assiste all’ascesa di regimi dispotici (Dionisio I e Dionisio II a Siracusa; la monarchia macedone; Maussolo in Caria) che propongono una forma alternativa di autorità politica. Sul piano della riflessione a tale complessa situazione si cerca di far fronte attraverso l’indicazione di misure per un migliore sfruttamento delle risorse (Poroi di Senofonte), la legittimazione della monarchia come politeia (A Nicocle e Filippo di Isocrate e Ciropedia di Senofonte), l’esaltazione e la proposta del ritorno alla “costituzione degli antenati” (patrios politeia) come strumento per riformare il regime politico vigente nella città (Pace e Areopagitico di Isocrate e Memorabili e Costituzione degli Spartani di Senofonte). Attento ad alcuni di questi temi (si pensi all’uomo regale del Politico, ma anche all’abolizione della famiglia e della proprietà nella Repubblica per garantire l’unità della città), ma animato soprattutto dal desiderio di riformare la realtà politica in modo tale che essa si fondi sulla vera giustizia e sia affidata alle cure di quanti posseggono il vero sapere politico è il pensiero di Platone. La filosofia politica platonica rappresenta l’acme di quella riflessione sullo stretto legame esistente tra conoscenza ed esercizio del potere e tra giustizia nell’anima del cittadino e giustizia della città in cui egli vive che già Socrate aveva posto in evidenza. Nella Repubblica, dialogo di lunga gestazione e composto in gran parte dopo il primo viaggio in Sicilia e la fondazione dell’Accademia, il filosofo propone l’unificazione della città attraverso l’abolizione degli interessi privati generati dalla famiglia e dalla proprietà e la divisione degli incarichi fra le tre classi e sottolinea la necessità che governanti siano i filosofi, ovvero coloro che hanno raggiunto la vera conoscenza, e possono quindi agire per il meglio ed educare i propri concittadini alla virtù piena; nel Politico, composto intorno al 360 a.C., Platone individua la figura del vero politico nell’uomo regale, che, dotato del sapere, governa senza bisogno di leggi e, se necessario, contro la volontà dei sottoposti e contempla l’ipotesi di un governo delle leggi soltanto come alternativa alla difficoltà pratica di reperire un tale governante. Le Leggi, ultimo degli scritti platonici, sostituiscono invece alla figura del politico un corpus di leggi che, elaborato da quanti posseggono la conoscenza, riveste non solamente una funzione normativa ma anche educativa, poiché ciascuna legge contempla un proemio in cui è spiegata la sua funzione così che i cittadini ne comprendano l’origine divina e la necessità.
Con Aristotele di Stagira, discepolo di Platone, si assiste al prevalere della mentalità scientifica e pragmatica sulle forti istanze rivoluzionarie e riformatrici degli scritti platonici: nell’Etica Nicomachea si afferma infatti che la politica è una scienza pratica e nella Politica si ribadisce che la polis è l’unica realtà all’interno della quale l’uomo può conseguire la felicità, ovvero una vita secondo virtù. Ciò implica, da un lato, la necessità di definire che cosa sia la polis e che cosa il cittadino e quali siano la forma politica e il tipo di educazione che permettono al massimo grado il raggiungimento del fine (telos) della città (questioni affrontate nel libri I, III e VII-VIII della Politica), ma, dall’altro, anche l’esigenza di classificare e sottoporre a esame le costituzioni esistenti e di studiare quali siano i fattori che contribuiscono alla conservazione o al mutamento di un sistema politico (aspetti centrali nei libri IV-V-VI della Politica). Benché Aristotele nel libro III della Politica contempli la possibilità che esista un individuo superiore agli altri per virtù – e non è mancato chi ha voluto identificare in questa figura Alessandro III di Macedonia, di cui lo Stagirita fu effettivamente precettore e che, nel momento in cui il trattato veniva concepito, era forse già stato protagonista di alcune imprese militari leggendarie – e perciò in qualche modo autorizzato a esercitare l’autorità sui propri concittadini, egli predilige poi una costituzione all’interno della quale le leggi siano sovrane e permettano un esercizio giusto del potere (che il potere sia esercitato a vantaggio dei governanti o a vantaggio dei governati stessi funziona infatti come spartiacque tra le forme di governo corrette – regno, aristocrazia e politeia – e quelle “deviate” – tirannide, oligarchia e democrazia –). In queste affermazioni dello Stagirita si riflette la gravità del fenomeno della stasis all’interno della polis greca e la necessità, di conseguenza, di stabilire una norma oggettiva; allo stesso modo, l’adozione del criterio socio-economico ricchi/poveri per classificare le costituzioni e la proposta di una forma come la politeia, in cui coesistono oligarchia e democrazia e in cui le due componenti sociali cercano in qualche modo una mediazione, dimostra l’effettiva profondità delle tensioni tra ricchi e poveri.
La vittoria di Filippo II di Macedonia a Cheronea nel 338 a.C., la successiva spedizione asiatica (334-323 a.C.) di Alessandro III Magno, la morte senza eredi del Macedone e le lotte che si scatenano tra i suoi luogotenenti e collaboratori per la successione, conclusesi con la battaglia di Corupedio del 281 a.C., segnano la fine delle poleis come realtà politiche libere e indipendenti e il loro assorbimento all’interno di un certo numero di monarchie territoriali, che si estendono dalla Macedonia (dinastia degli Antigonidi) all’Egitto (dinastia dei Tolemei) all’Asia (dinastia dei Seleucidi e, dalla fine del III secolo a.C., anche degli Attalidi). Tale mutamento di scenario politico si ripercuote evidentemente sui temi oggetto della teoria politica, in seno alla quale emergono molteplici e differenti voci conservatesi in forma gravemente frammentaria: abbandonata per lo più la riflessione sulla polis e la sua politeia, su cui insistono soltanto gli esponenti dell’Accademia e del Peripato (ad esempio Dicearco di Messina, autore del Tripolitikos), i filosofi si soffermano ora sulla natura del potere monarchico e sulle relazioni che devono sussistere tra sovrano e sudditi, ora invece ripiegano sull’individuo e sulla sua condotta, esprimendo un rifiuto più o meno netto nei confronti della realtà politica in cui vivono.
Quest’ultima tendenza, in particolare, è quella che prevale nella letteratura utopistica, che assume generalmente la forma del romanzo di viaggio in terre lontane e felici (si pensi, ad esempio, agli scritti di Evemero di Messene e di Giambulo), ma soprattutto all’interno delle scuole filosofiche che vengono fondate già alla fine del IV secolo a.C., ovvero tra i cinici, gli stoici e gli epicurei, per i quali l’etica si separa progressivamente dalla politica. Per i cinici, che in realtà non costituiscono una vera e propria scuola ma piuttosto un movimento e il cui più famoso esponente è senza dubbio Diogene di Sinope, la polis rappresenta un ostacolo al perseguimento della virtù in quanto allontana dallo stato di natura e va quindi rifiutata nel suo complesso e non riformata nei suoi ordinamenti, in nome di una vita simile a quella degli animali. Più concilianti nei confronti dell’esistenza all’interno di una comunità politica sono invece Epicuro e i suoi seguaci che, pur evitando la partecipazione attiva e l’esercizio di cariche pubbliche, ritengono che la città limiti e disciplini la naturale aggressività umana, facilitando il perseguimento della felicità. La scuola stoica, fondata ad Atene da Zenone di Cizio verso il 300 a.C., nella sua corrente più antica evidenzia la separazione del saggio, il solo individuo dotato di libertà, dal resto degli uomini e propone un modello politico alternativo basato sulla concordia, sottolineando al tempo stesso la forte relazione esistente tra legge divina e leggi umane – aspetto ripreso anche nel De legibus di Cicerone. Alcuni esponenti dello stoicismo sono del resto aperti alla collaborazione con i sovrani ellenistici al fine di influenzarli e di dare realizzazione pratica alle proprie idee: è il caso di Perseo, attivo alla corte di Antigono II Gonata, e di Sfero di Boristene, legato al re spartano riformatore Cleomene III e fuggito con lui alla corte di Tolemeo III dopo la sconfitta spartana a Sellasia nel 222 a.C.
L’esistenza delle grandi monarchie territoriali nelle quali il potere risiede ormai definitivamente e completamente nelle mani del sovrano stimola alcuni autori a confrontarsi con il regno, interrogandosi sulla sua natura e sulle caratteristiche che il buon monarca deve possedere: dei trattati sulla regalità frutto di questa riflessione poco si conserva, se si eccettua la Lettera di Aristea a Filocrate (II sec. a.C.), in cui settantadue saggi giudei rispondono ad altrettante domande di Tolemeo sulla natura del governo monarchico, e i cosiddetti Apocrifi pitagorici (di datazione incerta), riportati nel libro IV del Florilegio di Giovanni Stobeo e incentrati principalmente sulla relazione tra il sovrano e la divinità, con una mescolanza di elementi greci e orientali.
Del tutto ignorato dalla riflessione filosofica è invece uno dei fenomeni politici più interessanti di epoca ellenistica, vale a dire la fondazione o, in alcuni casi, la rifondazione di organismi federali che riuniscono al loro interno più città (lega etolica e lega achea) e che cercano di porsi come interlocutori delle grandi monarchie territoriali e poi della stessa Roma.
Il periodo compreso tra il 220 e il 168 a.C. registra la rapidissima espansione di Roma nel Mediterraneo. La città, con una serie di guerre vittoriose, sconfigge prima Cartagine (202 a.C.) e poi, volgendosi a Oriente, Filippo V di Macedonia a Cinoscefale (197 a.C.), suo figlio Perseo a Pidna (168 a.C.) e Antioco III di Siria ad Apamea (188 a.C.), acquistando il controllo delle regioni della Macedonia e dell’Asia Minore. Nel 146 a.C., con la distruzione di Cartagine e, subito dopo, di Corinto, seguita alla repressione della rivolta antiromana in Grecia, Roma si impossessa anche dell’Africa settentrionale e della Grecia vera e propria. Tale espansione, che coincide internamente con l’ampliamento della base cittadina della repubblica romana ma anche con un inasprimento delle tensioni sociali, conseguenza della crisi della piccola proprietà terriera e dell’accrescersi smisurato della fortuna di un gruppo ristretto di individui, determina sul piano della teoria politica una triplice esigenza: capire quali siano le ragioni che hanno permesso a una città singola di conquistare così rapidamente l’egemonia; fornire un’ideologia politica ed etica ai nuovi dominatori del Mediterraneo; analizzare le caratteristiche del dominio romano, per giustificarlo oppure condannarlo.
Il primo aspetto è affrontato da Polibio di Megalopoli nel libro VI delle Storie, nel quale lo storico applica le categorie del pensiero politico greco alla realtà romana: trattando della seconda guerra punica, e in particolare della grave sconfitta subita dai Romani a Canne nel 216 a.C., egli introduce un excursus sulla politeia romana, rappresentata come una costituzione mista (mikte) in cui coesistono, in fertile tensione, tratti monarchici, aristocratici e democratici. L’idea di una politeia mista che contemperi diversi elementi al suo interno non presenta alcun elemento di novità, nuovo è invece il criterio dell’utilità pratica che guida l’analisi e la consapevolezza che le costituzioni, come qualsiasi altro organismo vivente, sono soggette a nascita, crescita e morte. Contemporaneo di Polibio e anch’egli presente per un certo periodo a Roma e legato a Scipione Emiliano è Panezio di Rodi, esponente dello stoicismo medio, il cui pensiero si ricostruisce per lo più a partire dagli scritti di Cicerone (in particolare il De officiis): il filosofo è il principale artefice dell’adeguamento della morale stoica alle condizioni politiche del mondo romano e delinea un modello di saggio accessibile all’aristocrazia di Roma. Abbandonando infatti la posizione secondo la quale il sapiens stoico deve ricercare l’apateia ed evitare il coinvolgimento nella politica, Panezio riabilita la città come luogo in cui gli uomini possono vivere insieme e la proprietà essere tutelata e afferma la possibilità per il saggio di partecipare all’attività politica, purché si lasci guidare dalla ragione. In questa prospettiva egli non soltanto realizza una sintesi etica tra mondo greco e mondo romano, ma anticipa anche uno dei tratti caratteristici della filosofia e della prassi politica romana (si vedano in proposito gli esempi di Cicerone, Seneca, Marco Aurelio, ma pure il legame tra Blossio di Cuma e Tiberio Gracco), ovvero la necessità del coinvolgimento politico del sapiens. La terza esigenza, vale a dire la giustificazione oppure la condanna del dominio romano, diviene invece questione pressante soprattutto dopo la distruzione di Cartagine e di Corinto nel 146 a.C. (si veda in merito la discussione sulla giustizia e sul diritto riportata nel libro III del De re publica di Cicerone): se già Catone, nell’orazione Pro Rhodiensibus del 167 a.C., evidenzia il rischio che l’eliminazione definitiva del nemico determini l’adozione da parte romana di comportamenti ingiusti verso i sudditi e gli alleati, Polibio accetta invece gli episodi più estremi dell’imperialismo romano in nome della legge del più forte e della necessità di rendere sicuro il dominio con il terrore e la paura; il greco Carneade, scolarca dell’Accademia giunto a Roma nel 155 a.C., contesta, secondo la testimonianza di Cicerone, il fondamento etico dell’Impero di Roma, perché espansione e grandezza di uno Stato si fondano sempre sulla sopraffazione nei confronti di altri, mentre Posidonio di Apamea, esponente dello stoicismo medio e maestro di Cicerone, sostiene l’opportunità di trattare i popoli sottoposti con umanità (philanthropia) e clemenza, in nome della comune appartenenza di tutti gli esseri alla società cosmica che raccoglie uomini e dèi.
L’espansione del dominio romano ha profonde conseguenze anche sul piano della politica interna, determinando il definitivo abbandono del mos maiorum e forti disuguaglianze sociali. Falliti i tentativi di riforma dei Gracchi (133 e 123 a.C. rispettivamente), la situazione va progressivamente deteriorandosi e, tra la fine del II e la prima metà del I secolo a.C., è ormai evidente la grave crisi in cui versano le istituzioni repubblicane, incapaci di contrastare il potere personale di generali vittoriosi che, come Mario e Silla prima, Pompeo e Cesare poi, possono contare sull’appoggio dei propri veterani. In questo clima di crisi della repubblica e di esasperazione e personalizzazione del confronto politico si inseriscono l’azione e la riflessione teorica di Cicerone, che si occupa di questioni politiche sia nelle orazioni sia negli scritti più propriamente filosofici (De re publica e De legibus) e che tenta di elaborare un progetto con cui risanare lo Stato romano. Dinanzi al grave rischio corso da Roma nel 63 a.C., quando è sventata la congiura ordita da Catilina, Cicerone rinuncia a comprendere le ragioni degli avversari e propone la collaborazione tra i due ordini dei senatori e dei cavalieri (concordia ordinum); deluso poi dal ceto degli ottimati, incapace di iniziativa politica, nella Pro Sestio (56 a.C.) introduce il concetto del vir bonus, rispettoso del mos e delle istituzioni e dotato di virtus, e propugna una collaborazione di tutti i boni (consensus bonorum omnium), romani e italici, in vista della restaurazione del buon governo e dell’ordine e della tranquillità sociali. Il ritorno al mos maiorum con alcuni correttivi quale strumento per affrontare la crisi della repubblica è al centro anche del De re publica, dialogo composto tra il 54 e il 51 a.C., in cui l’autore riflette sulla miglior forma di governo e sulla figura del perfetto governante, tenendo costantemente presente la prassi politica concreta: definito il popolo come un insieme di persone unite in virtù di un accordo sui diritti e sull’utilità comune e analizzate le diverse forme di costituzione (libri I-II), Cicerone si sofferma sulla politeia mista di Roma e sulla sua formazione nel tempo e sottolinea come di fronte alla crisi della repubblica i buoni politici (rectores civitatis) abbiano il dovere di guidare lo Stato alla salvezza (libri V-VI, fortemente frammentari). Nel De legibus, opera lasciata incompiuta dopo i primi tre libri, l’Arpinate riflette invece sul diritto naturale (libro I) e sulle istituzioni e leggi romane che ne sono espressione (libri II-III) e propone come alternativa alla crisi uno Stato conservatore in cui il senato eserciti una funzione di sorveglianza e di controllo. Nel De officiis, composto nel 44 a.C., sono infine delineate le qualità etiche che devono possedere i reggitori dello Stato per governare nell’interesse della repubblica. Il pensiero politico “ottimate” di Cicerone, al pari di quello “popularis” dello storico Sallustio, resta ancorato alla città-stato e si dimostra incapace di comprendere la realtà e la prassi politica emergente, cui dà invece voce l’operato di Cesare.
L’instaurarsi del principato chiude il lungo periodo delle guerre civili (49-31 a.C.) e determina la progressiva concentrazione dell’autorità politica nelle mani di un unico individuo, che si definisce princeps, vale a dire “primo” tra molti, ma che in realtà è un monarca a tutti gli effetti. Tale mutamento di regime coincide con la concentrazione della riflessione politica su di un unico tema, il rapporto tra il princeps e i suoi sottoposti, che si declina in due direzioni, quella della relazione tra sovrano e aristocrazia senatoria (auctoritas vs libertas) e quella dei modi di collaborazione tra sovrano ed élites locali, in particolare nel mondo greco.
In età augustea (27 a.C. - 14 d.C.) il pensiero politico in merito a questo tema è per lo più affidato alle opere di poeti e storici: così l’Eneide di Virgilio si fa portavoce dei valori che caratterizzano il principato augusteo ai suoi inizi e la storiografia di Tito Livio della nostalgia per la res publica, ormai irrecuperabile e in cui vigeva la libertà, mentre gli scritti di Diodoro Siculo e di Pompeo Trogo esprimono il malcontento delle province verso la politica “italica” di Augusto e quelli di Dionisio di Alicarnasso prefigurano la collaborazione tra princeps e aristocrazie locali. In età giulio-claudia (14-68 d.C.) Filone di Alessandria elabora poi un concetto di monarchia evergetica che risponda alle aspettative dei sudditi orientali dell’Impero. Agli inizi del principato neroniano appartiene il De clementia (55-56 d.C.) di Seneca, filosofo stoico oltre che politico impegnato al fianco di Nerone: in questo trattato, che inaugura la tradizione degli specula principis, vale a dire degli scritti in cui si sottopone al sovrano una figura di monarca ideale in cui egli possa “rispecchiarsi”, il principato è presentato come un male necessario perché consente la convivenza tra popoli diversi ma al principe, che dispone di grande potere, è consigliato un comportamento clemente verso i sudditi, lontano dagli accessi d’ira.
Durante gli anni della dinastia flavia (69-96 d.C.) il potere imperiale assume caratteri sempre più autocratici e la collaborazione tra intellettuali e imperatori si fa più complessa (si vedano a tal proposito le opere giovanili di Plutarco e Dione Crisostomo), per tornare poi a toni più distesi nel periodo del cosiddetto principato adottivo (96-138 d.C.). Durante il regno di Traiano, in particolare, si assiste al fiorire di molteplici voci che riflettono sui rapporti tra imperatore e sudditi: se il Panegirico a Traiano (100 d.C.) di Plinio il Giovane testimonia l’accettazione del principato da parte dell’aristocrazia senatoria ma pure la necessità che il principe racchiuda in sé ogni forma di virtù e collabori e rispetti i propri sottoposti, le opere di Tacito propugnano la possibilità di servire lealmente lo Stato anche sotto governanti malvagi (Agricola), ma non rinunciano a denunciare le aberrazioni del potere (Annales) e ad affermare l’impossibilità di conciliare principato e libertà. Della teorizzazione del comportamento che devono tenere le élites locali, soprattutto greche, nei confronti del potere imperiale per conservare un certo margine di autonomia e, al tempo stesso, partecipare alla politica, si occupano invece alcuni scritti (in particolare i Praecepta rei publicae gerendae) di Plutarco di Cheronea, le quattro orazioni Sulla regalità di Dione Crisostomo e le orazioni A Roma e Panatenaico di Elio Aristide, che vive già durante il principato di Marco Aurelio.
Con la figura di Marco Aurelio, imperatore e filosofo stoico, si realizza infine la conciliazione in un’unica persona di prassi e teoria politica, di potere e sapere: nei suoi pensieri, raccolti in una sorta di diario intitolato A se stesso, l’esercizio dell’attività di governo è concepito come dovere necessario, da compiersi nell’interesse del bene comune, ma al quale si preferirebbe talora la pratica esclusiva della filosofia.
Nel corso del II secolo la realtà politica imperiale si arricchisce di una nuova importante componente, i cristiani. Le comunità cristiane, diffuse all’interno dell’Impero e ancora caratterizzate da identità differenti, sono infatti costrette, a motivo delle persecuzioni cui vengono sottoposte (si pensi, ad esempio, alle persecuzioni in Gallia del 176 durante il regno di Marco Aurelio), a definire chiaramente la propria posizione nei confronti del potere politico. Al tema “pagano” del rapporto tra imperatore e sudditi, stancamente cristallizzato nella forma della presentazione della figura del monarca ideale, sia nei panegirici sia nei generi della biografia e della storiografia (Historia Augusta e Rerum gestarum libri di Ammiano Marcellino, entrambi datati al IV secolo), si affianca quindi la riflessione sulla relazione tra Chiesa e Impero, tra Dio e imperatore.
Se, tra la metà del II e i primi trent’anni del III secolo, la produzione apologetica (Melitone di Sardi, Tertulliano, Origene) tende ad affermare la lealtà dei cristiani verso il potere imperiale, a favore del quale essi pregano il vero Dio, e a ipotizzare una possibile conciliazione tra Chiesa e Impero, anche a motivo dell’accettazione dell’origine divina dell’autorità dell’imperatore – l’idea dell’autorità divina del monarca, diffusa soprattutto nelle province orientali, comincia a prendere nuovamente piede durante il regno dei Severi (193-235) e suscita, nelle sue forme più estreme, la reazione dell’aristocrazia senatoria (Cassio Dione e Filostrato) –, non mancano tuttavia voci come quella di Ippolito che, nel Commentario a Daniele, identifica il dominio di Roma con il male.
La situazione cambia radicalmente nel IV secolo quando, con la proclamazione della libertà di culto per i cristiani (311) a opera di Galerio e la conversione di Costantino (312 d.C.), il cristianesimo diviene la religione dell’imperatore: a partire da questo momento, infatti, la relazione tra Impero e Chiesa si configura per lo più come collaborazione, improntata ora alla stretta dipendenza ora invece a una progressiva autonomia. A Eusebio di Cesarea in Oriente e a Lattanzio in Occidente spetta la teorizzazione della funzione provvidenzialistica dell’Impero romano – che Eusebio eredita da Melitone di Sardi – e del ruolo di Costantino come “monarca per grazia divina” e rappresentante sulla terra del regno celeste di Dio: l’imperatore cristiano è il garante della giustizia divina e protegge la Chiesa dai suoi nemici. Il legame sempre più stretto tra Chiesa e Impero, che si traduce nell’ingerenza del potere politico nelle vicende interne alla Chiesa soprattutto durante il regno di Costanzo II (337-361) e in una progressiva “secolarizzazione” della Chiesa stessa, suscita del resto reazioni sia in ambito cristiano – il fenomeno del monachesimo ma anche gli scritti di Ilario di Poitiers, che rifiuta la partecipazione dei cristiani alla politica in nome della possibilità di preservarne la libertà – sia in ambito pagano, dove personaggi come Temistio, Libanio e Ammiano Marcellino difendono non soltanto una concezione più “laica” del potere imperiale, ma anche un ideale di tolleranza nei confronti dei culti pagani. Il paganesimo reagisce inoltre in modo violento contro il dominio cristiano con l’imperatore Giuliano (361-363), cui si deve il tentativo, fallito, di imporre un rinnovamento dell’ideologia pagana alla luce del neoplatonismo: il vero governante non è il prescelto da Dio, ma piuttosto il filosofo neoplatonico che si libera dai desideri ed è quindi il solo vero legislatore. Con il regno di Teodosio I (379-395) il cristianesimo diviene religione ufficiale (380) e i culti pagani vengono proibiti anche nella parte orientale dell’Impero (391-392). L’intensificarsi del legame tra potere politico e potere religioso genera reazioni differenti: in Occidente la Chiesa, in virtù del vuoto lasciato dall’aristocrazia senatoria, ormai in profonda crisi, erode parti di potere politico e acquisisce, in particolare con la figura di Ambrogio, una maggiore autonomia, ponendosi come argine per l’autorità dell’imperatore; in Oriente, invece, quest’ultimo può vantare un maggiore controllo sulle questioni religiose.
Tra la fine del IV e il V secolo alla questione della relazione tra Chiesa e Impero si somma la questione barbarica: di fronte al dilagare dei “barbari” all’interno del territorio imperiale e al sacco di Roma del 410 ad opera di Alarico ci si chiede se, qualora Roma dovesse cadere, la Chiesa potrà ugualmente sopravvivere. Nei sette libri delle Historiae adversus paganos di Orosio l’autore sostiene la funzione provvidenziale di Roma e del suo Impero, che hanno permesso l’affermazione del cristianesimo, e ne ritiene lontana la fine; gli stessi barbari, del resto, una volta sottomessi al diritto romano potranno essere evangelizzati e quindi in qualche misura assimilati. La questione del rapporto tra Impero e Chiesa dinanzi alla minaccia dei barbari compare anche nel De civitate Dei di Agostino di Ippona, composto tra il 412 e il 427. L’autore vi sostiene l’esistenza di due città, la città di Dio, costituita dai fedeli e pellegrina sulla terra, e la città terrena: queste due città non coincidono con la Chiesa e con l’Impero, ma sono presenti, mescolate, in entrambe le istituzioni e si separeranno soltanto alla fine dei tempi. La città di Dio, in particolare, dipende soltanto da Dio e non dalla città terrena e questo significa che, benché l’Impero di Roma abbia una funzione provvidenziale, qualora dovesse perire non porterà con sé anche la città di Dio, che continuerà a sussistere. Ciò non vuol dire che i membri della città di Dio debbano allontanarsi dalla città terrena: dal momento che i membri di quest’ultima sono uniti tra loro da un accordo sul diritto ma anche da un comune accordo sull’oggetto del proprio amore, i membri della città di Dio si adegueranno alle norme della città umana, se esse non contrastano con la volontà di Dio, e parteciperanno alla vita politica spinti dall’amore per i fratelli.
Erodoto
Storie, Libro III, cap. 80
Otane consigliava di deporre il potere al centro, per i Persiani, dicendo così: “Mi sembra opportuno che mai più un solo uomo diventi nostro monarca: non è cosa né piacevole né bella. […] Come, dunque, la monarchia potrebbe essere un’entità ben ordinata, se in essa si può fare ciò che si vuole e non si hanno conti da rendere? In effetti, anche il migliore di tutti gli uomini, una volta innalzato alla monarchia, muterebbe i suoi pensieri consueti. Poiché, se l’arroganza gli nasce dai suoi beni presenti, l’invidia nell’uomo è innata fin dall’inizio. Possedendo dunque le due cose, possiede ogni malvagità: compie molte scelleratezze saturo di arroganza, altre saturo di invidia. […] Al contrario, la moltitudine che governa ha in primo luogo il nome più bello di tutti: isonomia; in secondo luogo, non fa nulla di quello che fa il monarca: le cariche sono esercitate a sorte; chi ha una carica deve renderne conto; tutte le decisioni sono prese in comune. Propongo dunque che noi, abbandonando la monarchia, glorifichiamo la moltitudine: nel molto, infatti, si trova ogni cosa”.
Erodoto, Storie, a cura di D. Asheri, trad. it. A. Fraschetti, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 1990
Marco Tullio Cicerone
De re publica
“Dunque – disse l’Africano – la Repubblica è la cosa del popolo, e popolo non è ogni unione di uomini raggruppata a caso come un gregge, ma l’unione di una moltitudine stretta in società dal comune sentimento del diritto e dalla condivisione dell’utile collettivo. E la prima causa di quell’associazione non è tanto la debolezza quanto una sorta di naturale istinto degli uomini direi quasi all’aggregazione; perché la specie umana non è incline a vivere separata né a spostarsi da sola […]”.