Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il segreto della filosofia di Machiavelli si cela nella celebre formula “andar drieto alla verità effettuale della cosa”: si tratta della verità di un mondo lucreziano, privo di telos e tuttavia completamente intellegibile, in cui ogni forma è prodotta dal caso e dal conflitto. In questo orizzonte radicalmente materialistico Machiavelli sviluppa una concezione inaudita della virtù politica, fuori dai cardini della teologia e della morale, di cui simbolo è il centauro mezzo uomo e mezzo bestia e in cui la bestia si sdoppia in volpe e leone.
Se vi è un segreto della filosofia di Machiavelli, è senz’altro contenuto nel celebre passaggio in cui, a proposito della politica, viene contrapposta “la verità effettuale della cosa” all’“immaginazione di essa”. Dichiarazione radicale di rottura con il passato, certo, il cui contenuto filosofico però non è facilmente identificabile se non in un richiamo a un generico “realismo” contro ogni forma di utopismo. Cosa significa “verità effettuale della cosa”? Da una parte abbiamo un termine, verità, la cui storia ci costringe a ripercorrere la storia stessa della tradizione occidentale, dall’altra un termine senza storia, un neologismo machiavelliano. Di certo, nel termine “effettuale” c’è la radice latina di effectus, facere, factum, ma ben poco di più è possibile trarne. E, ancora, non ci aiutano a penetrarne il significato, altri contesti d’uso, poiché il sintagma è un hapax nell’opera di Machiavelli. Per comprendere il significato del richiamo machiavelliano alla “verità effettuale” è necessario far emergere dunque la filosofia di Machiavelli dai suoi testi storici e politici.
L’immutabilità dell’ordine naturale e l’universale variazione
La prima tesi filosofica machiavelliana è esposta nel “Proemio” dei Discorsi e costituisce la premessa metodologica dell’intera teoria. Allo scopo di fondare una conoscenza della storia che possa tradursi in prassi, Machiavelli afferma l’immutabilità dell’ordine naturale che sottende il continuo variare degli eventi: “[…] nello ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra, nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’imperio, non si truova principe né republica che agli esempli delli antiqui ricorra. Il che credo che nasca […] dal non avere vera cognizione delle storie, per non trarne, leggendole, quel senso né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce che infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, sanza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza, da quello che gli erono antiquamente” (Discorsi, 1513-19) In altri passaggi dei Discorsi Machiavelli ribadisce “che in tutte le città ed in tutti i popoli sono quegli medesimi desiderii e quelli medesimi omori” (ibidem) e che gli uomini “hanno e ebbono sempre le medesime passioni” (ibidem). Althusser ha notato giustamente come questa tesi machiavelliana funzioni come una tesi filosofica che afferma “l’oggettività e l’universalità delle proposizioni scientifiche a venire, da una parte, e dall’altra [fondi] la possibilità dei confronti sperimentali ‘dei casi’ ai quali Machiavelli si dedicherà” (L. Althusser, Machiavelli e noi, 1994). La tesi dell’omogeneità dei tempi fonda la possibilità stessa del discorso machiavelliano, allo stesso modo in cui la tesi dell’omogeneità del mondo sublunare e del mondo celeste fonderà la possibilità del discorso galileiano.
In apparente contraddizione con la prima tesi sembra quella dell’universale variazione. Essa è enunciata in un gran numero di passaggi delle opere machiavelliane, tra i quali il più celebre è forse il seguente: “[…] sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino” (Discorsi, 1513-19). Da essa dipende direttamente tanto il concetto di fortuna quanto il pregiudizio secondo cui questa governerebbe le cose degli uomini, cosa che “è suta più creduta ne’ nostri tempi, per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dí, fuora d’ogni umana coniettura” (Il Principe, 1513). La natura è variazione e la fortuna è variazione “non prevedibile”, “fuori d’ogni umana coniettura”, di cui sono metafora certo i “fiumi rovinosi” del Principe, ma anche la “tempesta di venti” delle Istorie fiorentine, “la quale in Toscana fece inauditi per lo adietro e a chi per lo avvenire lo intenderà maravigliosi e memorabili effetti” (Istorie fiorentine, 1520-25).
Per “andar drieto alla verità effettuale” queste due tesi non devono essere pensate separatamente, come se da una parte vi fosse il permanere delle forme e dall’altra il continuo variare degli accidenti. Devono invece essere pensate insieme, per schivare da una parte una pietrificazione del divenire attraverso il concetto e dall’altra il dissolvimento della sua intelligibilità in una dispersione senza strutture. Potremmo dire che la prima tesi costituisce una sorta di principio di causalità machiavelliano (del tipo “sempre ed in ogni luogo, nei tempi antichi e nei tempi moderni, non vi è alcun effetto che non abbia una causa e non vi è causa da cui non segua un effetto”), cioè di intelligibilità del reale, mentre la seconda tesi ne costituisce l’immediata rettifica o modulazione (del tipo “la continua variazione complica la linearità dei rapporti di causa-effetto”).
Il rifiuto della causalità lineare
Si potrebbero citare innumerevoli passaggi delle analisi machiavelliane in cui funziona allo stato pratico un rifiuto di un modello di causalità lineare. Paradigmatico il capitolo dedicato al “diverso modo di procedere” di Annibale e Scipione, causa dei “medesimi effetti” (Discorsi, 1513-20): “per chiarire meglio quello che io ho voluto dire, dico come e’ si vede Scipione entrare in Ispagna, e con quella sua umanità e pietà subito farsi amica quella provincia, ed adorare ed ammirare da’ popoli. Vedesi, allo incontro, entrare Annibale in Italia, e con modi tutti contrari, cioè con crudeltà, violenza e rapina ed ogni ragione infideltà, fare il medesimo effetto che aveva fatto Scipione in Ispagna; perché, a Annibale, si ribellarono tutte le città d’Italia, tutti i popoli lo seguirono”(ibidem). Ma si potrebbe citare anche quello dedicato alla “durezza di Manlio Torquato” e alla “comità di Valerio Corvino”, cause differenti di un medesimo effetto (“ciascuno fece il medesimo frutto, e contro a’ nimici ed in favore della republica e suo”; ibidem). Tuttavia vi è almeno un luogo in cui Machiavelli propone una vera e propria elaborazione teorica della questione della causalità, rifiutando ogni forma di linearità. Si tratta di una lettera conosciuta come i Ghiribizzi al Soderini: “[…] io mi meraviglierei, se la mia sorte non mi havessi mostre tante cose et sì varie, che io sono constrecto ad meravigliarmi poco o confessare non havere gustate né leggiendo né praticando le actioni delli huomini et e modi del procedere loro. […] vedendosi con varii governi conseguire una medesima cosa et diversamente operando havere uno medesimo fine” (Machiavelli a Soderini, 13-21 settembre 1506). Cause differenti possono produrre un medesimo effetto, come nel caso di Annibale e Scipione, ma anche di Lorenzo de’ Medici “che disarmò il popolo per tenere Firenze” e di Giovanni Bentivogli che “per tenere Bologna, lo armò”; e ancora di “Vitelli in Castello et questo duca d’Urbino” che “disfeciono le fortezze […] per tenere quelli stati” e del “conte Francesco e molti altri [che] le edificorno nelli stati loro, per assicurarsene” (ibidem). Ma non solo un medesimo effetto può nascere da cause opposte, la medesima causa può produrre effetti opposti. Da dove nasce, si domanda Machiavelli, che “le stesse operazioni qualche volta equalmente giovino o equalmente nuochino”: “Io credo – scrive – che, come la Natura ha facto ad l’huomo diverso volto, così li habbi facto diverso ingegno et diversa fantasia. Da questo nascie che ciascuno secondo lo ingegno et fantasia sua si governa. Et perché da l’altro canto e tempi sono varii et li ordini delle cose sono diversi, ad colui succedono ad votum e suoi desiderii, et quello è felice che riscontra el modo del procedere suo con el tempo, et quello per opposito, è infelice che si diversifica con le sue actioni da el tempo et da l’ordine delle cose. Donde può molto bene essere che dua, diversamente operando, habbino uno medesimo fine, perché ciascuno di loro può conformarsi con el riscontro suo, perché e’ sono tanti ordini di cose quanti sono provincie et stati. Ma, perché e tempi et le cose universalmente et particolarmente si mutano spesso, et li uomini non mutono le loro fantasie né e loro modi di procedere, adcade che uno ha un tempo buona fortuna et uno tempo trista. Et veramente, chi fussi tanto savio che conoscessi e tempi et l’ordine delle cose et adcomadassisi ad quelle, harebbe sempre buona fortuna o e’ si guarderebbe sempre da la trista, et verrebbe ad essere vero che ’l savio comandassi alle stelle et a’ fati. Ma perché di questi savi non si trova, avendo li uomini prima la vista corta, et non potendo poi comandare alla natura loro, ne segue che la Fortuna varia et comanda ad li uomini, et tigli sotto el giogo suo” (ibidem). La natura come variazione è ciò che interdice l’applicazione alla politica di un modello di causalità lineare. La pluralità degli ingegni e la pluralità degli ordini delle cose rendono impensabile il tempo come linea in cui si sviluppa, secondo una logica strumentale, l’azione di un soggetto: il variare dei tempi, di cui parla Machiavelli, è posto precisamente dall’intersezione di queste due pluralità in cui nessuno spazio è lasciato alla contingenza come assenza di necessità o, in positivo, come manifestarsi della libertà umana; la necessità è inderogabile, ma non lineare, e la contingenza è prodotta non dall’assenza di cause, ma dall’intreccio complesso delle cause, di cui non è mai possibile avere una prospettiva panoramica, ma solo interna e parziale.
L’essenza dei corpi misti
Il rifiuto di un modello lineare di causalità implica una specifica concezione della “possibilità” e dell’“essenza” o “forma” dei corpi misti. In una lettera al Vettori Machiavelli formula implicitamente il proprio concetto di possibilità: “Perché tutte le cose che sono state, io credo che possano essere” (Machiavelli a Vettori, 20 dicembre 1514). Il concetto di possibilità, l’essenza cioè di un corpo misto, viene dopo la sua esistenza. In altre parole, possibile non è ciò che è non contradditorio su un piano logico, ma ciò che è esistito o esiste su un piano storico. Tuttavia ciò che è esistito ed esiste non esaurisce il campo del possibile. Al contrario, proprio questa identità di possibilità e di esistenza fattuale, storica, apre al novum. In un’altra lettera al Vettori del 10 agosto 1513 Machiavelli scrive: “Io so che a questa mia opinione è contrario uno naturale difetto degl’huomini: [...] di non credere che possa essere quello che non è stato”. La storia funziona in Machiavelli come pura fatticità e non come garanzia di eterna ripetizione dell’uguale: ciò che accade è possibile proprio in quanto accade. Questo concetto di possibilità è strettamente legato al concetto di essenza che troviamo elaborato allo stato pratico nell’opera di Machiavelli: l’essenza del corpo misto è costituita dalle relazioni, cioè dai rapporti di forza, dal conflitto latente o manifesto che sia. L’oggetto dei Discorsi, l’essenza o la forma della repubblica romana, non è identificata in una forma politica semplice o mista, ma nella relazione conflittuale tra i suoi elementi, la “disunione della Plebe e del Senato”, cioè non è la forma che organizza la materia, ma è la materia stessa che giunge a darsi una forma attraverso il conflitto: “Io non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che furono in Roma dalla morte de’ Tarquinii alla creazione de’ Tribuni; e di poi alcune cose contro la opinione di molti che dicono, Roma essere stata una republica tumultuaria, e piena di tanta confusione che, se la buona fortuna e la virtù militare non avesse sopperito a’ loro difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra republica. Io non posso negare che la fortuna e la milizia non fossero cagioni delli’mperio romano; ma e’ mi pare bene, che costoro non si avegghino, che, dove è buona milizia, conviene che sia buono ordine, e rade volte anco occorre che non vi sia buona fortuna. Ma vegnamo agli altri particulari di quella città. Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e ’non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma” (Discorsi, 1513-19). Questa relazione conflittuale dei “due umori” non solo costituisce l’essenza interna del popolo romano, la sua organizzazione politica e militare, ma definisce anche la natura delle relazioni esterne, poiché fa di Roma uno Stato atto alla conquista, essendo il “popolo numeroso e armato” allo stesso tempo causa dei “tumulti” e dello “ampliare”.
La negazione della teleologia e il rifiuto del tempo ciclico
Il rifiuto della causalità lineare e l’affermazione del carattere relazionale dei corpi misti si accompagna in Machiavelli con l’affermazione dell’assenza di telos della variazione naturale, implicita nella teoria della virtù e della fortuna espressa nel Principe. Machiavelli ritiene che “la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi”, paragonando la fortuna “a uno di quei fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra, ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare” (Il Principe, 1513) e la virtù alla costruzione di “ripari e argini” in “tempi quieti”, “in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né si dannoso” (ibidem). La fortuna dunque “dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle; e quivi volta li sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e li ripari a tenerla” (ibidem). La storia è per Machiavelli il luogo dell’incontro di virtù e fortuna, incontro mai guidato da un telos. Il concetto filosofico attraverso cui Machiavelli esprime questa assenza di teleologia è quello di “occasione”. Celebre è il passo del Principe sui grandi fondatori: “[…] per venire a quelli che, per propria virtù e non per fortuna, sono diventati principi, dico che li più eccellenti sono Moisé, Ciro, Romulo, Teseo e simili. […] Ed esaminando le azioni e vita loro, non si vede che quelli avessino altro dalla fortuna che la occasione; la quale dette loro materia a potere introdurvi dentro quella forma parse loro; e sanza quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano” (ibidem). Un evento storico, come la fondazione di uno Stato, non è l’effetto di una prima causa mitica, che è all’origine di uno sviluppo lineare del tempo storico (ab urbe condita), ma è il risultato di un incontro tra la virtù e la fortuna sotto forma di occasione, incontro che può far nascere certo, ma anche porre fine a un mondo.
In questa prospettiva risulta paradigmatico il modo in cui Machiavelli ritrascrive la teoria polibiana dell’anakyclosis. Quando nei Discorsi si interroga sulla forma particolare della repubblica romana in rapporto alla tipologia aristotelico-platonica, sembra ripetere in un primo momento la teoria polibiana, ma solo per mettere in evidenza l’astrattezza di questa successione di forme una volta messa in relazione con il piano concreto delle relazioni storiche: non esiste legge di sviluppo delle forme di potere di una società indipendentemente dai rapporti di forza con altre società, nessuna società esiste isolatamente, di conseguenza, l’intersezione dei differenti cicli produce una temporalità storica attraversata da rotture e discontinuità. Tuttavia la presa di distanza dalla teoria dell’anacyclosis è ancor più radicale: Machiavelli infatti non si limita a una complicazione del quadro ereditato da Polibio, cioè ad affermare che vi sono sì cicli, ma che essi interferiscono gli uni con gli altri. Non si limita cioè a pensare il caso come l’intersezione del necessario sviluppo di più cicli, ma pone il caso all’origine della forma stessa della repubblica romana: furo tanti gli accidenti che in quella nacquero, per la disunione che era intra la Plebe ed il Senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore, lo fece il caso (Discorsi, 1513-20).
La “verità effettuale della cosa” si contrappone dunque a un mondo immaginario in cui dominano le forme o in cui l’ordine umano è espressione di una lex divina. È la “verità” di un universo lucreziano in cui lo spazio della politica è dominato dal caso e dal conflitto, dall’occasione e dalla virtù. Virtù di un centauro, mezzo bestia e mezzo uomo, in cui la bestia si sdoppia in “golpe” e “lione” proprio per poter far fronte ai rovesci della fortuna e alla durezza del conflitto.