La figura di Costantino nell’Ordo Panegyricorum
I panegiristi e la nascita del potere costantiniano
La voce si propone di indagare l’immagine che di Costantino hanno fornito i Panegirici latini1, espressione con la quale sono comunemente chiamati undici discorsi a imperatori (Augusti o Caesari) pronunciati in Gallia tra il 289 e il 389 d.C. in occasioni diverse e raccolti insieme alla gratiarum actio che Plinio il Giovane espose in Senato in occasione del consolato dell’imperatore Traiano nel 1002. Di alcuni è conservato l’autore IX/5 di Eumenio, IV/10 di Nazario, III/11 di Claudio Mamertino, II/12 di Latino Pacato Drepanio), mentre altri sono anonimi3. Quattro di questi discorsi furono offerti agli imperatori che governarono poco prima di Costantino (nel 289 e nel 291 a Massimiano, forse nel 297 a Costanzo Cloro) e cinque dedicati a Costantino nei primi anni del suo regno (nel 307, 310, 311, 313 e 321).
I panegyrici e le gratiarum actiones, essendo discorsi d’occasione, rispondono alla ratio locis ac temporis (Paneg. V/8,1,5), perciò i concetti in essi circolanti, espressi secondo i canoni del genere e della tradizione retorico-letteraria, si prestano a due tipi di lettura molto differenti: la prima, immediata, coglie il riproporsi generico in quei discorsi dei consueti concetti ideologici più o meno legati alla ‘propaganda’ imperiale e riarticolati per le generali aspettative dei destinatari; la seconda, non immediata, cerca di fissare i motivi specifici che hanno indotto l’oratore a servirsi di quei concetti prelevati dal patrimonio politico e retorico della tradizione letteraria per meglio esprimere le finalità politico-ideologiche di un discorso dedicato all’attualità4.
Tenendo conto di queste caratteristiche letterarie, la presente voce, dopo una rapida panoramica sulla storia del genere panegiristico dalla Grecia classica al periodo tardoantico, si articolerà in due parti: nella prima i discorsi saranno trattati singolarmente e autonomamente, nella prospettiva di collocare i concetti nelle loro specificità cronologiche e politiche; nella seconda parte, quella conclusiva, si tenterà di delineare l’evoluzione ‘ideale’ della figura di Costantino attraverso questi testi, collegandola alle più generali dinamiche politico-ideologiche tardoantiche.
Il Panegirico rientrava nel discorso pubblico, che la tradizione retorica pre-aristotelica divise in tre tipi, epidittico, forense, deliberativo, e Aristotele collegò rispettivamente con presente, passato e futuro, e con i concetti di nobile o non nobile, giusto o ingiusto, espediente o dannoso (Rh. 1,3); nella pratica, naturalmente, i discorsi potevano avere caratteristiche di più tipi. Il genus demonstrativum, epidittico secondo la terminologia aristotelica, era un discorso privo di una funzione pratica, concepito piuttosto per esibire il talento dell’oratore di fronte a spettatori che non devono prendere decisioni. Epidittici erano, quindi, i discorsi di tipo celebrativo come la laus, opposta alla vituperatio, e l’encomio, di cui sono esempi sia i discorsi funerari ateniesi (come quello di Pericle in Tucidide), sia i primi encomi di uomini (come quello di Evagora in Isocrate): questi avevano in comune la lode di individui – sebbene la vituperatio fosse solitamente molto più breve dell’encomio – ed entrambi erano focalizzati sull’interazione dei beni concessi dal destino (esterni, corporei, spirituali) con le virtù del singolo, quali emergevano nelle sue reazioni alle vicissitudini della vita. Diverso era l’inno, in quanto generalmente rivolto a una divinità (ad esempio quello di Eros nel Simposio di Platone)5.
Il termine panegirico deriva dal greco panegyrikos, grande festa6, ed era in origine strettamente connesso con l’occasione in cui, o in onore della quale, era destinato a essere pronunciato: con questo significato venne usato per il quarto discorso di Isocrate, che in tal senso rappresenta un unicum. Nella trattatistica7 i sofisti lo distinsero dal discorso politico (deliberativo e forense), come fece Dionigi di Alicarnasso nel dialogo sull’oratore attico Lisia. Ermogene di Tarso (II-III d.C.), diversamente, incluse nell’eloquenza politica quella deliberativa, forense ed epidittica, indicando come panegiristica la restante letteratura8. In ambito scolastico le più importanti trattazioni furono quelle di Elio Teone, autore della più antica raccolta di progymnasmata (I secolo d.C.), e Menandro II (tardo III d.C.), benchè l’insegnamento epidittico non abbia mai costituito la componente fondamentale del principale curriculum retorico9.
A Roma, Quintiliano ereditò dalla tradizione greca la concezione di panegirico inteso come discorso volto a procurare il piacere di un ampio pubblico (inst. II 10,11 e 3,7)10, ma distinse la pratica romana: i discorsi funerari a Roma – egli osserva – svolgevano una funzione pubblica ed erano spesso autorizzati dal Senato, mentre la lode e il biasimo svolgevano un ruolo importante negli interventi forensi e senatori (inst. III 7,1)11.
In età tardoantica, il termine panegirico venne a specificarsi, nel mondo romano, per indicare un discorso di lode rivolto a un sovrano (in greco si usava il termine enkomion). Elementi di lode del sovrano si trovavano già in Omero (Od. XIX 109-114) e, soprattutto, nell’epinicio, che era un canto di vittoria. Per quanto riguarda la tradizione latina, erano presenti elogi di individui nella laudatio funebris e nei discorsi forensi di Cicerone (rivolti alla clementia di Cesare nella Pro Ligario, Pro rege Deiotaro, Pro Marcello), accanto alle lodi di luoghi (Manil. 27-48); anche Seneca ricorse alla tecnica panegiristica nel De clementia dedicato a Nerone. Occasioni di lode potevano essere anche brevi componimenti poetici, a partire dall’epos (Aen. VI 791-805; Hor., carm. 1,2; 4,2; Lucan., I 33-66; Stat., silv. I 1). L’epoca tardoantica vide il fiorire dei discorsi in lode di imperatori, ma pochi se ne sono conservati, sia latini (quello di Simmaco a Valentiniano I e a Graziano; la gratiarum actio di Ausonio per il consolato di Graziano del 379; di Claudiano per il consolato degli Anicii Probino e Olibrio nel 395; di Sidonio Apollinare per Antemio, Maioriano e Avito; di Corippo per Anastasio e Giustino II; di Ennodio per il sovrano ostrogoto Teoderico; di Venanzio Fortunato per i sovrani merovingi Sigiberto, Cariperto, Chilperico e Childeberto II) sia greci (di Libanio per Costante e Costanzo; di Temistio per Giuliano; di Procopio per Anastasio I)12. Nel mondo bizantino, l’encomio venne rivolto anche a santi e patriarchi, e, a partire dall’XI secolo, apparvero anche panegirici dedicati a personaggi privati13.
Il panegirico tardoantico seguì, in generale, lo schema del basilikos logos che il retore Menandro di Laodicea teorizzò, prescrivendo la trattazione dei seguenti punti: 1. proemio: inadeguatezza dell’autore/grandezza dell’elogiato; 2. patria, città e popolo di origine del personaggio; 3. famiglia; 4. nascita; 5. qualità naturali; 6. educazione e infanzia; 7. genere di vita e occupazioni; 8. gesta militari e civili; 9. fortuna; 10. epilogo, comprendente confronti con altri personaggi celebri della storia greca e romana14. La pratica panegiristica tarda è caratterizzata da alcuni elementi che, in buona parte, erano già presenti nella trattatistica greca: tra questi, la tendenza a suscitare negli spettatori sentimenti quali l’ammirazione, il patriottismo, la gratitudine, potenziandoli in un senso quasi religioso attraverso il parallelo tra l’imperatore e dio, o mostrando come egli fosse in grado di controllare gli elementi; l’attenzione per le modulazioni stilistiche15, che avvicinano il genere epidittico alla poesia e alla storia; l’abbondanza di citazioni e allusioni poetiche (spesso Omero, Virgilio e Ennio), storiche (Tucidide), filosofiche (Platone) e retoriche (Cicerone); il frequente utilizzo di figure retoriche quali la prosopopeia e l’amplificatio. Se la codificazione di Menandro sembra aver fornito le linee-guida, tuttavia, la principale fonte di ispirazione per i panegiristi tardoantichi dovette essere la pratica, che si espresse in un’evidente elasticità, versatilità e capacità di innovare gli schemi fissati dalla trattatistica16. Una peculiarità del periodo tardo, ad esempio, è la crescente attenzione accordata dal panegirista alla componente visiva, che si espresse nelle numerose ekphraseis17 e, in generale, in uno spostamento nell’equilibrio della composizione: se tra il III e il IV secolo le virtù e le opere dell’imperatore non solo costituivano la materia del panegirico, ma determinavano la struttura di ogni singolo discorso, nei panegirici successivi la struttura poteva essere determinata da come si svolgevano certe occasioni cerimoniali18.
Il corpus dei XII Panegyrici latini19, ignorato nei secoli del Medioevo, fu scoperto nel 1433 nella biblioteca della cattedrale di Magonza, in Germania, dall’umanista siciliano Giovanni Aurispa (1370-1459). Parallelamente, l’arcivescovo di Milano Francesco Pizolpasso (1370-1443) in una lettera del 1436 informò l’umanista pavese Pier Candido Decembrio, suo segretario, di aver trovato il Panegirico di Plinio, indicando, probabilmente, di essere venuto in possesso del medesimo codice di Magonza20. I manoscritti che tramandano i Panegyrici sono tutti di età umanistica e tutti probabilmente apocrifi del Maguntinus, tranne un palinsesto della Biblioteca ambrosiana di Milano (E 147 sup.), nel quale, sotto il testo del VII secolo degli Acta primae Synodi Chalcedonensis, il futuro cardinale Angelo Mai (1782-1854) individuò opere di vari autori, scritte in semionciale nel VI secolo, tra cui alcune parti del panegirico di Plinio. Oltre cinquanta sono i manoscritti dei Panegyrici che, conservati nelle più importanti biblioteche d’Europa, tramandano o l’intero corpus panegiristico, o la sola gratiarum actio di Plinio, o selezioni di passi fatte per temi. Tra questi il più importante ai fini della costituzione del testo è un codice cartaceo appartenuto alla collezione londinese di sir Robert Harley (1661-1724), l’Harleianus 2480 della British library, scritto in modo chiaro e nitido con grafia umanistica di ispirazione gotica.
I dodici discorsi compresi nella raccolta – che occupano un arco temporale di tre secoli, dal 100 al 389 – non sono conservati in ordine cronologico; questo ha portato all’elaborazione di due sistemi di riferimento: la posizione nel manoscritto è solitamente indicata con un numero romano, mentre quella cronologica con un numero arabo tra parentesi21. Varie sono le ipotesi circa la genesi della collezione. La constatazione che i testi raccolti non sono accomunati dal destinatario, dal periodo o dall’affiliazione religiosa, e che, d’altra parte, sono presentati come effettivamente pronunciati e non rivisti, ha indotto gli studiosi a ritenere che una delle motivazioni principali della raccolta fosse quella di fornire modelli letterari: ciò è suggerito anche dalla collocazione iniziale del panegirico di Plinio, considerato subito un classico del genere, e dalla disposizione dei discorsi seguenti, che rappresentano ciascuno, andando indietro nel tempo, l’elogio di un imperatore celebre composto da un oratore famoso (Pacato per Teodosio, Mamertino per Giuliano, Nazario per Costantino). A questi primi quattro discorsi fu associata, probabilmente alla fine dell’età tardoantica, una seconda raccolta di otto panegirici più corti22, fino ad arrivare al numero di dodici, che, in quanto multiplo di tre, per la mentalità antica rivestiva un importante valore simbolico23. Lo stretto legame che tutti i discorsi mostrano con la Gallia (luogo della performance o di origine dell’autore) ha suggerito una matrice gallica per la collezione, che, in tal senso, è stata vista come espressione dell’orgoglio provinciale e delle ambizioni politiche di un intellettuale gallico, interessato a esibire la lealtà del proprio popolo all’Impero24.
Per quanto riguarda l’editore della raccolta, se in un primo momento è stato identificato con Eumenio, autore di Paneg. IX/5, oggi gli studiosi preferiscono optare per Latinius Pacatus Drepanius, autore del secondo (nell’ordine dei manoscritti) discorso, uno dei personaggi politici e delle figure letterarie più importanti del suo tempo: non solo avrebbe composto il panegirico per Teodosio (che gli aprì una brillante carriera amministrativa) ma potrebbe essere stato anche l’editore delle opere di Ausonio, in quanto suo migliore allievo25.
Secondo la critica contemporanea, che ha ormai superato un’opposizione artificiale e ideologica, di stampo positivista, tra contenuto e forma, tra verità storica e retorica epidittica menzognera, la forma, in questi discorsi molto strutturati, gioca un ruolo fondamentale. Più che una semplice scelta stilistica ed estetica, questa determina il tipo di informazione contenuta in tale genere di discorso. Si comprende, pertanto, il frequente ricorso, da parte dei panegiristi, a figure retoriche che abbiano una doppia efficacia, uditiva e visiva, che mira all’incisività della comunicazione; per questo si è parlato di una retorica funzionale. Tra le figure della presenza, che hanno lo scopo di rendere l’oggetto del discorso presente alla coscienza, con l’effetto di rendere il beneficiario onnipresente, sono la ripetizione, l’amplificazione, la sinonimia, il discorso indiretto (nel quale rientra anche la prosopopea). Le figure della scelta, che vogliono imporre o suggerire una scelta all’ascoltatore, presentandola come condizione necessaria di una verità ammessa unanimemente dall’uditorio, sono l’interpretazione, la definizione oratoria, la perifrasi, l’antonomasia, la ripresa, la correzione. Infine, le figure della comunione, che riescono a creare o confermare l’intesa con gli spettatori, associandoli alla costruzione stessa del discorso, sono l’allusione e la citazione, l’apostrofe, la domanda retorica26.
Frequenti sono i paralleli con luoghi comuni della storia romana (il ritorno di Cicerone, di Mario, di Cinna, di Silla a Roma; la formazione di Scipione Emiliano e di Annibale; la sobrietà di Curio; la memoria di Ortensio) e di quella greca (il viaggio degli Argonauti e di Trittolemo; le imprese di Ercole bambino), utilizzati per veicolare anche un messaggio morale: i retori, infatti, ricorrono alla classificazione che i filosofi avevano elaborato delle virtù cardinali (giustizia, prudenza, coraggio, temperanza) per elencare le qualità degli imperatori. Per colpire l’uditorio ed evitare la monotonia, ricercano forme impreviste e sorprendenti attraverso iperboli grottesche (il viaggio di Diocleziano e Massimiano in Italia è stato così rapido da far credere che il Sole e la Luna abbiano prestato loro i carri); espressioni patetiche (l’oratore apostrofa gli avversari dell’imperatore con rimproveri veementi); comparazioni (la modestia di Giuliano, che dissimula i propri meriti, è paragonata a un giovane uomo d’Etruria che, secondo la leggenda, sfigurò il suo bel viso per non eccitare passioni colpevoli); opposizioni inattese (nel lodare Costantino che ha intrapreso una guerra per sottrarre Roma al giogo di Massenzio, Nazario afferma: «gessisti bellum quod tibi non minus honos urbis imposuit quam eiusdem aerumna persuasit»: IV/10,6); aforismi giocati sull’antitesi («bellum animo gerere armis abstinentem non concordiae ratio est, sed ignava dissensio»: IV/10,10), associazione di parole paradossali (la diga fatta erigere da Costanzo per bloccare il porto di Bologna è definita «novum in mari vallum»: VIII/4,6). La lingua è prevalentemente classica (pur presentando talvolta una fraseologia ufficiale e dei neologismi), ispirata alla latinità ciceroniana, e caratterizzata da correttezza grammaticale e sintattica. L’esaltazione dei meriti degli imperatori è, in tutti i testi, oltre misura: tutta la gloria viene attribuita all’imperatore e a lui solo; il passato romano viene sminuito con lo scopo di innalzare, per contrasto, la gloria del monarca celebrato; per evitare la monotonia, talvolta simulano di rimproverare l’elogiato per un’azione lodevole (Costantino, ad esempio, viene biasimato sia per essersi voluto sottrarre troppo a lungo al fardello del potere, sia per l’eccessiva modestia che lo porta a non esibire i propri benefici27). Recenti studi hanno anche messo in evidenza come i panegiristi in molti casi rielaborassero il materiale laudatorio adattando lo stile e i topoi degli inni agli dei per elogiare l’imperatore28.
Due appaiono, tra le tante utilizzate per l’elogio del principe e la rappresentazione di lui come sovrano ideale, le tematiche maggiormente sviluppate dai panegiristi: l’invincibilità dell’imperatore e la sua costante presenza, vittoriosa sui barbari e benefica per le città romane, lungo il limes germanico. Ricorrente è il Leitmotiv secondo il quale da una parte stanno gli imperatori (Massimiano, Costanzo Cloro, Costantino, Giuliano, Teodosio) nelle cui persone dimorano tutte le virtutes, civili, militari, religiose, etc., elevate al massimo grado, dall’altra i loro nemici (Carausio, Alletto, Massimiano caduto in disgrazia, Massenzio, Massimo), che, posseduti da tutti i possibili vitia, sono l’incarnazione stessa del male. Un altro tema spesso presente è l’esaltazione dell’imperatore vittorioso sui barbari, connesso con la praesentia imperiale: la figura del princeps romano si innalza sulla folla degli sconfitti e risalta per valore militare e livello di civiltà; spesso è addirittura la sola presenza dell’Augusto a sconfiggere i nemici, descritta come fosse un’epifania divina. L’equazione tra caratteristiche imperiali e divine, infatti, è un passaggio logico conseguente al topos degli iperbolici effetti della praesentia imperiale29. Nell’affrontare questi temi, i panegiristi esprimono evidentemente le preoccupazioni di chi si sente troppo vicino al limes renano, al di là del quale le nationes barbarorum appaiono qualcosa di grandioso (la realtà geografica e umana dei barbari è caratterizzata da immanitas, immensità di estensione ed enormità di numero di uomini) e terribile; per quanto crudeli, incivili, devastatori di ogni cosa, essi, tuttavia, sono destinati a essere sottomessi dalla superiore civiltà e dalle armi di Roma30.
Lo stretto nesso funzionale tra forma e contenuto nei panegirici fa sì che questi possano essere utilizzati anche come fonti per una ricerca più specificamente storica, per conoscere l’ideologia, la storia della mentalità tardoantica, da una parte, e per ricostruire importanti fenomeni storici svoltisi tra III e IV secolo, dall’altra31. Tra questi, ad esempio, i movimenti di contadini e soldati ribelli chiamati rivolte bagaudiche, che si svilupparono nella Gallia romana, soprattutto nei territori lungo il Reno32; l’assedio di Autun del 270/271; il cosiddetto ‘impero gallico’ della seconda metà del III secolo33; la questione delle statue anguipedi, del cerimoniale imperiale tardoantico e la questione dei laeti34; il collasso del sistema tetrarchico e l’ascesa di Costantino fino agli anni Venti del IV secolo35. Questo tipo di ricerca, tuttavia, deve procedere in modo molto cauto, con un’attenta considerazione dello scopo e del contesto nel quale vengono citati i fatti storici36, e tenendo presente il fatto che i Panegirici furono conservati per ragioni letterarie e non storiche37.
Varie sono le ipotesi che gli studiosi hanno elaborato circa i modelli letterari seguiti dai panegiristi: si è parlato di Menandro retore, in quanto sintesi dei precedenti manuali di retorica greca, ovvero dei discorsi di elogio latini, nelle espressioni più alte di Cicerone (De imperio Cn. Pompei, De provinciis consularibus e Pro Marcello), di Plinio (panegirico di Traiano) e di Frontone (elogi di Antonino e di Adriano). Tali incertezze nascono dal fatto che, mentre i panegiristi, professori di retorica, conoscevano sia la trattatistica greca sia la tradizione latina, quest’ultima non è pervenuta38. È opportuno, quindi, parlare di procedimenti comuni ai panegiristi e alla tradizione retorica greca e latina a noi nota, piuttosto che tentare di individuare i modelli presenti agli autori39. In linea generale, i panegiristi sembrano seguire lo schema menandreo non in modo pedissequo, nonostante la convenzionalità di linguaggio e di materiale che risalgono alla tecnica retorica tradizionale: l’oratore, infatti, seleziona temi convenzionali in base alla specifica circostanza con la quale si confrontava, preoccupandosi di conferire un’impronta diversa e un carattere meno scontato allo schema40.
La gratiarum actio di Plinio è seguita dal discorso II/12, recitato a Roma nell’estate del 389 davanti al Senato e all’imperatore Teodosio da Latino Pacato Drepanio. Il panegirico III/11, tenuto nel 362 a Costantinopoli da Claudio Mamertino, è una gratiarum actio per il consolato conferito all’autore dall’imperatore Giuliano; il IV/10 fu pronunciato nel 321 da Nazario a Roma, in onore dei due Cesari figli di Costantino, Crispo e Costantino il Giovane; il V/8 fu forse detto a Treviri nel 311 a Costantino; il VI/7 fu recitato nel 310 a Treviri da un anonimo retore a Costantino; il VII/6 fu tenuto nel 307 probabilmente a Treviri da un anonimo in occasione delle nozze di Costantino e Fausta, figlia di Massimiano; l’VIII/4 risale al 297 e fu probabilmente pronunciato a Treviri da un retore anonimo in occasione dei quinquennalia, feste per l’anniversario dell’elevazione di Costanzo Cloro al titolo di Cesare; il IX/5 risale al 298 e fu composto da Eumenio, unico a non essere rivolto a un imperatore, in quanto pronunciato ad Autun davanti al governatore della provincia lionese; il X/2 del 289 e l’XI/3 del 291 furono pronunciati a Treviri da un anonimo in onore degli Augusti Massimiano Erculio e Diocleziano Giovio41; il XII/9) fu pronunciato nel 313 da un anonimo a Treviri alla presenza di Costantino42.
A monte dei Panegirici latini c’è la formazione di uno specifico contesto intellettuale, l’adattamento di questo contesto alle necessità della corte, la scelta deliberata e consapevole di particolari mezzi di espressione resi disponibili dalla tradizione letteraria, e un loro generale riaggiustamento per veicolare un preciso messaggio in un ben determinato momento storico43. In quanto rivolti agli imperatori, essi erano strettamente connessi con gli anniversari e le celebrazioni associate alla casata imperiale, che, come mostra il calendario di Filocalo del 354, vennero a dominare il calendario romano a partire dal IV secolo. Le occasioni per le quali furono composti i Panegirici sono varie: il compleanno dell’imperatore (XI/3); gli anniversari della sua accessione al trono (V/8 e IV/10); il matrimonio (VII/6); la celebrazione di vittorie (VIII/4, XII/9, II/12); gli anniversari della fondazione di importanti capitali imperiali (X/2, VI/7); i discorsi di ringraziamento per il consolato (panegirico di Plinio; III/11); pezzi apparentemente occasionali, come quello in cui Eumenio avanzò una richiesta relativa ai finanziamenti per una scuola (IX/5). L’analisi del linguaggio della praesentia imperiale, che si articolerebbe in reale e fittizia, ha portato gli studiosi a distinguere i testi che probabilmente furono pronunciati alla presenza dell’Augusto da quelli, invece, che furono esposti in sua absentia; tra questi ultimi sarebbero quelli di Nazario a Costantino (IV/10) e quello di Eumenio a Costanzo (IX/5). La lontananza fisica dell’imperatore (‘presente’, comunque, nelle imagines e statue che adornavano i fori e i templi) non invalidava l’esposizione del panegirico, sia perché la presenza di senatori e palatini, componente indispensabile del cerimoniale di corte, legittimava l’oratore, autorizzava i sentimenti espressi e santificava il momento, sia perché – stando ad alcune allusioni contenute nei testi (IX/5,21,4 e VI/7,22) – è probabile che copie o versioni estratte venissero inoltrate all’imperatore dopo la performance ufficiale44.
Il panegirista svolgeva quindi funzioni che andavano al di là del semplice sfoggio di abilità retorica; spesso, infatti, oltre che retori di professione, essi furono funzionari di corte: Mamertino fu comes sacrarum largitionum, poi prefetto al pretorio di Italia e Africa; Eumenio, al momento della recitazione del panegirico (IX/5), esercitava la carica di magister memoriae; l’anonimo autore del panegirico VIII/4 a Costanzo era stato segretario di Stato ab epistulis o a libellis sotto Massimiano; il panegirista del VII/7 aveva svolto funzioni palatine non meglio identificate; il panegirico II/12, pronunciato in onore di Teodosio, assicurò la promozione di Pacato alla dignità di proconsole d’Africa45. In occasione della stessa recitazione, del resto, i panegiristi svolgevano un ruolo pubblico in quanto delegati di una città. In tal senso, il panegirico non è più visto dagli studiosi come strumento di propaganda imperiale o comunicazione ‘discendente’, dall’imperatore e dalla corte verso la classe politica e, in misura minore, verso i soldati e i civili, quanto, piuttosto, come un mezzo riconosciuto e autorizzato di una comunicazione tra l’imperatore e i suoi sudditi, volto a gettare un ponte indispensabile tra l’ideologia generale della corte e la domanda concreta di un pubblico che aveva bisogno, su problemi particolari, di risposte assicurate dall’autorità imperiale; pertanto, il panegirico rispondeva puntualmente a esigenze politiche particolari, le medesime che avevano favorito la sua composizione. In termini di scienza della comunicazione, questo scopo poteva essere meglio raggiunto attraverso un’attitudine prudentemente ambigua – in passato considerata negativamente come adulazione di un imperatore dominus – che conciliasse il favore dell’imperatore e la corte, rendendoli meglio disposti ad accogliere le istanze, i valori e le richieste avanzate dal panegirista, rappresentante di una delle realtà sociali dell’Impero46.
Il discorso è pronunciato da un anonimo retore in occasione della doppia celebrazione della promozione di Costantino ad Augusto e del suo matrimonio con Fausta, sorella di Massenzio, figlia di Massimiano ed Eutropia. Discussa è la data della performance, variamente collocata il 31 marzo, il 25 dicembre o nel settembre del 307, comunque prima dello scontro pubblico tra Massimiano e Massenzio nella primavera del 308. Il luogo della cerimonia, sebbene non sia certo, è probabilmente Treviri. Una delle particolarità di questo discorso è che è l’unico panegirico sopravvissuto a essere rivolto direttamente a più di un imperatore47. Il discorso, introdotto dall’immagine della terra che gioisce per quelle nozze, che consolideranno la famiglia imperiale e assicureranno a Roma una discendenza divina e regale (1-2), si articola in tre parti: la prima dedicata a Costantino (3-7), la seconda a Massimiano (8-12), la terza al loro legame, simbolo di una concordia che darà stabilità e sicurezza allo Stato (13-14).
Per quanto riguarda Costantino, l’oratore adatta il tradizionale canone delle virtù alle specifiche circostanze, enfatizzando le somiglianze fisiche e morali con il padre Costanzo, che a Treviri gode di un’ottima reputazione (e può conferire stabilità alla caratterizzazione sia di Costantino, sia di Massimiano, essendo entrambi usurpatori48): continentia, rispetto per il matrimonio, fortitudo dimostrata nel recente scontro con i franchi, iustitia e pietas nel suo atteggiamento verso coloro che cercano aiuto; prudentia superiore a quella del padre per la lunga durata che il suo giovane regno promette. Rispetto a Massimiano, la cui autorità è connotata come superna attraverso sinonimi divini e un elevato immaginario, la legittimità di Costantino è totalmente ancorata alla discendenza da Costanzo. La preminenza accordata a Massimiano, comunque, non compromette la buona accoglienza data a Costantino, definito oriens imperator (certamente anche per la giovane età49), disposto a eseguire instancabilmente gli ordini di Massimiano, che è l’Augusto ‘padre’. Tale buona accoglienza, infatti, si comprende meglio considerando il contesto del 307: Costantino, ufficiale che, sebbene figlio di un governante famoso, aveva prestato servizio solo in Oriente ed è stato proclamato dalle truppe in Britannia, doveva essere ben poco conosciuto nella Gallia del tempo50.
Il tema ricorrente nel testo, comunque, è il matrimonio, il cui simbolismo viene trasferito al rapporto tra i due Augusti: la descrizione di un dipinto in un palazzo di Aquileia (nel quale Fausta bambina porge al giovane Costantino un elmetto come dono nuziale) diviene metafora della relazione politica e privata tra i due imperatori: Costantino è, infatti, nipote (per adozione), figlio (secondo la gerarchia imperiale) e genero (per matrimonio) di Massimiano. Il loro legame è caratterizzato principalmente da adfinitas, ovvero l’obbligo reciproco di parentela degli Augusti, che deve assicurare la concordia nelle generazioni a venire: anche il tema della prole abbondante, metafora dell’eternità del potere, infatti, viene trasferito all’accordo tra i due sovrani. Sebbene la natura binaria della metafora della loro alleanza politica sia stata interpretata come una deliberata cancellazione dell’idea di tetrarchia o, quantomeno, come un segno del disdegno nei confronti degli imperatori orientali, il riferimento alla casata di Ercole (Massimiano, Costanzo Cloro e Costantino), comunque, sembra indicare che il panegirista preferisce operare ancora nello schema ideologico della tetrarchia; l’assenza di riferimenti alla dinastia di Giove (Diocleziano, Galerio, Massimino Daia), tuttavia, rivela la consapevolezza dell’oratore delle circostanze storiche51. Le ricorrenti e diverse affermazioni del diritto alla successione ereditaria di Costantino tramite il riferimento a Costanzo (forse indizio della dipendenza dell’oratore dal controllo del giovane Augusto), marginalizzano piuttosto la figura di Massenzio, figlio naturale di Massimiano, che al tempo fondava le sue pretese imperiali sul principio di successione familiare52.
Il discorso è tenuto in occasione dell’inizio delle celebrazioni per i Quinquennalia del regno di Costantino (all’inizio del quinto anno), il 25 luglio del 310: nel giorno dell’anniversario della fondazione della città di Treviri il panegirista, consapevole dei propri limiti, si propone di celebrare il solo Costantino (1). La prima parte del testo è dedicata alle vittorie militari del padre dell’imperatore, Costanzo Cloro, contro Carausio, i germani e in Britannia, cui seguono quelle del figlio sui re franchi e sui brutteri, e la costruzione del ponte di Colonia sul Reno, monito per i barbari (2-13). La seconda parte dell’elogio ricorda la congiura di Massimiano e lo scontro con Costantino, che culmina nella battaglia di Marsiglia e con la morte dell’usurpatore, risparmiato da Costantino ma non dagli dei (14-20). Sulla strada verso il Reno, il vincitore si ferma al tempio di Apollo presso Autun e lì il dio in visione gli predice eterna gloria (21). Il panegirista, quindi, invita l’imperatore a tornare ad Autun e a favorirne la ripresa e, ringraziandolo, gli raccomanda figli e alunni (22-23).
Il panegirico rispetta sostanzialmente il tradizionale schema menandreo: descrizione dell’elezione di Costantino da parte dell’esercito e degli dei, inclusa la recusatio e la rivelazione della divinità; seguono le imprese militari e di altro tipo, i paragoni, le trappole e gli agguati del nemico. Un posto preminente è riservato all’eccezionale giovinezza e alla straordinaria bellezza dell’imperatore, elementi essenziali per colui che, secondo il vates, è destinato a governare il mondo.
Due sono gli aspetti che hanno attratto maggiormente gli studiosi: la legittimazione del potere di Costantino e la visione di Apollo. Per quanto riguarda il primo aspetto, in questo discorso, per la prima volta, Costantino viene associato a Claudio II Gotico, indicato come antenato53; è identificato con Apollo e il Sol Invictus; sono enfatizzati la discendenza e il trasferimento di potere dal padre Costanzo (7-8); a differenza del precedente panegirico del 307, il panegirista del 310 rovescia la teoria del promeritum, basando la legittimità del potere di Costantino sulla sua nascita, unica rivendicazione, fortemente esaltata: il panegirista lo definisce deus in quanto discendente dagli imperatori divinizzati Costanzo e Claudio II54. Questi elementi sono stati interpretati come segno della necessità, dopo il tentativo di usurpazione e la morte di Massimiano, di trovare una nuova legittimazione per Costantino, che non fosse più legata a Ercole (con il quale era associato insieme a Massimiano) e allo stesso Massimiano (tramite il matrimonio con la figlia Fausta)55. La visione di Apollo ha stimolato un grande dibattito tra gli studiosi: nel tentativo di comprendere l’entità dell’episodio e, tramite la sua analisi, di cogliere tracce del percorso religioso di Costantino, sono state formulate ipotesi molto varie, che vanno dall’accettazione dell’autenticità di una visione pagana, a spiegazioni razionali e ‘scientifiche’ del fenomeno naturale56, fino all’affermazione che si tratti di una pura finzione di Costantino o dell’oratore57. Alcuni lo hanno considerato indizio di una sovrapposizione, creata dal panegirista in termini virgiliani e forse in sintonia con l’ideologia costantiniana, tra l’imperatore tardoantico e l’illustre predecessore Augusto58.
Il testo è recitato il 25 luglio del 311 in occasione della fine delle celebrazioni per i quinquennalia di Costantino, a Treviri, da un oratore anonimo proveniente da Autun59. Il panegirista, in apertura, si sente in dovere di spiegare perché si tiene a Treviri il discorso di ringraziamento per i benefici concessi dall’imperatore alla città di Autun (1-2). Quindi si propone di esporre perché Autun abbia meritato i benefici imperiali, e quali siano: gli edui, chiamati fratelli del popolo romano, favorirono Giulio Cesare nella conquista della Gallia, che così conobbe la civiltà; in tempi più recenti, durante le cosiddette rivolte bagaudiche, hanno sollecitato l’intervento in Gallia dell’imperatore Claudio il Gotico, pagando con la rovina della città la fedeltà all’Impero (2-4). Costantino, consapevole dei problemi della regione, è venuto a far visita alla città e si è reso conto della devastazione provocata nei territori provinciali dalle guerre, cui si sono sommati il gravame delle imposte, il degrado delle campagne e la miseria: allora ha deciso di ridurre il peso della tassazione e di condonare parte dei debiti arretrati (5-13). Grazie a questi benefici, la città rivive e sarà sempre riconoscente all’imperatore (14).
L’intenzione principale del panegirista è quella di ringraziare l’imperatore a nome degli abitanti di Autun per averli aiutati concedendo la riduzione delle imposte e la remissione di cinque anni di arretrati, come aveva annunciato nella sua visita alla città60. Il discorso, infatti, si presenta come una gratiarum actio piuttosto che un panegirico, e questo ne spiega i caratteri particolari, quali l’assenza di una sezione preliminare precedente la richiesta dedicata a Costantino e la presenza, invece, di una laus urbis61. In questa prospettiva, si comprende perché il panegirista non debba affrontare il problema della legittimazione del potere di Costantino (come nel VI/7), ma piuttosto trattare argomenti connessi con l’assistenza che l’imperatore aveva dato ad Autun. Essendo stato commissionato dalla città, il panegirista deve anche considerare gli interessi dei suoi concittadini, cercando di coordinarli con quelli dell’imperatore laddove siano reciprocamente in conflitto.
Per adulare il sovrano, il panegirista gli attribuisce quante più virtù possibili, tenendo tuttavia conto del contesto. La iustitia e la clementia (iusta clementia), apparentemente in contraddizione, servono a mostrare alle altre città che Autun ha ricevuto i benefici di Costantino secondo giustizia, e non per fortuna: ancora, il panegirista parla di bonitas e sapientia in quanto l’imperatore non solo compie buone azioni, ma sostiene chi se lo merita (bene meritis) e chi ne ha bisogno perché indebolito dalla difficile condizione delle proprie terre (graviter adfectis). Costantino mostra anche providentia nei confronti degli edui, abitanti di Autun, nel senso originale del termine, prendendosi cura dei sudditi in base alla previsione di ciò che sarebbe accaduto. Nel loro caso si tratta di un intervento che rientra in un legame di amicitia tra pari, caratterizzato da communitas amoris e da dignitatis aequalitas, perché gli edui furono i primi galli a essere chiamati fratelli del popolo romano, chiesero l’intervento dell’antenato di Costantino, Claudio II Gotico, per recuperare Autun, e ottennero benefici da Costanzo Cloro, padre dell’imperatore. Considerando che, storicamente, i rapporti di Autun con Claudio II e Costanzo non erano stati in realtà così positivi, e che la discendenza di Costantino da questi fu enfatizzata anche nella successiva propaganda ufficiale, è possibile che il panegirista faccia questa concessione alla corte imperiale, sapendo che è in corso la formalizzazione di tale ideologia62. Nel descrivere il precedente adventus di Costantino ad Autun, il panegirista indica come dimostrazione della sua pietas le lacrime che ha versato di fronte alla povertà della città. All’annuncio dei benefici, quindi, sono seguite subito soluzioni concrete, permesse dallo spirito divino che ispira e dà forza all’imperatore. L’allusione finale al comes e al socius di Costantino, inoltre, sembra riferirsi ad Apollo e al Sol Invictus, già citati nel panegirico del 310 e, successivamente, nella propaganda ufficiale63.
L’oratore, probabilmente a Treviri dal momento che è ancora la principale residenza imperiale, parla in un’occasione non precisata nel corso del 313, che, secondo alcuni, potrebbe collegarsi con le celebrazioni del trionfo sui franchi, alle quali si fa riferimento nel testo (23). Chiesta comprensione per il fatto che lui, un gallo, deve celebrare le gesta di Costantino, che altri valenti oratori romani hanno già celebrato (1), il panegirista si concentra sullo scontro con Massenzio, seguito dettagliatamente nelle tappe di Susa, Torino, Milano, Verona, Aquileia, per culminare con la presa di Roma, dove il pavido rivale si era arroccato (2-19). Manifestata la sua clemenza verso gli sconfitti, Costantino parte alla volta del Reno per domare un’incursione di barbari (21-22). Queste imprese rendono Costantino più grande dei predecessori, compreso il padre Costanzo che, comunque, riceve gloria dalle imprese del figlio (24-25).
Il panegirista non segue pedissequamente la struttura del basilikos logos. L’esordio è corretto; il discorso, dalle gesta alla perorazione finale, procede con ordine, passando da un argomento all’altro secondo le indicazioni di Menandro. Dall’esordio, tuttavia, l’oratore passa direttamente all’oggetto dell’elogio, Costantino, tralasciando dettagli sulla patria del sovrano e la sua formazione. Non sacrifica però il valore della bellezza, che salva di per sé stessa e adorna la rettitudine morale dell’imperatore. Costanzo Cloro, in questo caso, fa una breve comparsa insieme a personaggi quali Alessandro, Giulio Cesare, Fabio Massimo e altri, e viene presentato come un exemplum inadeguato, che deve essere orgoglioso dei successi del figlio. I colleghi della tetrarchia sono nominati solo se morti (Severo e Massimiano), mentre di quelli vivi non si fa menzione, come se rientrassero nella categoria degli oppositori o di coloro che, tradizionalmente, guidavano le logore truppe orientali che non era lodevole aver sconfitto. Nell’orazione c’è spazio solo per la discendenza di Costantino, anche quella futura, e lui è presentato come il più grande, il migliore e, per di più, l’unico regnante64.
L’attenzione del panegirista, tuttavia, è chiaramente rivolta all’occupazione dell’Italia e di Roma conclusa con la sconfitta del ‘tiranno’, che si presta bene a essere enfatizzata nel 313, all’indomani dell’evento, a pieno sostegno della propaganda costantiniana di dissociazione dal sistema tetrarchico e di avvicinamento a una personale linea politica improntata sulla successione dinastica65.
In questo panegirico, come in quello del 321, infatti, sono narrati gli eventi bellici della trionfante campagna di Costantino in Italia, culminata con la sconfitta di Massenzio a ponte Milvio il 28 ottobre del 312. Il panegirista trae spunto per presentare Costantino come un valente e coraggioso condottiero secondo i criteri della trattatistica militare romana (anzitutto Giulio Cesare): è destinato all’Impero proprio per la sua virtus; Massenzio, ritratto con le caratteristiche e i comportamenti tipici del tiranno, è descritto per contro come la negazione dell’etica del guerriero e per questo condannato al fallimento. La condotta dell’imperatore è caratterizzata da ratio, consilium e prudentia, mentre il comportamento dell’avversario è improntato all’amentia, al furor e alla temeritas. Nella descrizione della battaglia di Roma il panegirista inserisce anche il motivo della fedeltà dei soldati a Costantino, che riconoscono la sua auctoritas, con la quale l’imperator riesce anche a imporre la clemenza ai suoi soldati, impedendo loro il saccheggio della città conquistata: il vincolo è significativamente definito sacramenti fides. In questo discorso, infatti, rispetto al successivo, sembra essere esaltato soprattutto l’aspetto militare del confronto con Massenzio, piuttosto che il sostegno divino66.
Nazario, retore famoso, nominato da Ausonio tra i professori di Bordeaux (Prof. Burd. 14, 9)67, pronuncia questo panegirico probabilmente a Roma nel 321 per la celebrazione dei quinquennalia dei due Cesari Crispo e Costantino il Giovane (nominati il 1° marzo del 317), in assenza dell’Augusto Costantino (3) e, forse, anche dei Cesari68. Dopo le consuete dichiarazioni di inadeguatezza dell’oratore di fronte all’eccezionalità delle imprese e delle virtù di Costantino e dei figli (3), l’oratore loda i Cesari che hanno ereditato le virtù del padre, loro principale educatore e modello (4). Segue, quindi, l’elogio di Costantino, incentrato, come il precedente discorso, sullo scontro con Massenzio, al quale si intreccia la narrazione delle imprese, precedenti la campagna in Italia, contro i re franchi Ascarico e Merogaiso e contro altre popolazioni germaniche (16-18). Sconfitto Massenzio nella penisola (28-31) e in Africa (32), Costantino concede generosi benefici alla città (35). L’oratore torna quindi a lodare i due giovani Cesari: il più grande, Crispo, ha già riportato una vittoria sui franchi; presto seguirà il suo esempio il minore, Costantino il Giovane, che, già capace di scrivere, appone la sua firma sui decreti accanto a quella del padre (36-37).
Approfittando dell’occasione per lodare l’imperatore, l’oratore si concentra sul parallelo tra Costantino e i figli: secondo il principio per cui il figlio emula il padre per svolgere una nuova funzione, i figli di Costantino sono a lui paragonati, sebbene l’analogia non sia completa visto che non lo possono superare. I fanciulli, tuttavia, hanno avuto un’infanzia più fortunata di quella del padre, che assistette a terribili fatti nelle corti orientali di Diocleziano e Galerio. Come nel panegirico del 313, qui Costantino è dipinto nelle vesti del condottiero ideale: Nazario ricorda la presenza dell’esercito divino e, nel descrivere l’aristia dell’imperatore (costruita secondo gli stilemi dell’epica), in coerenza con l’immagine dell’imperator creata dalla tradizione militare romana, elogia il desiderio dell’imperatore di distinguersi dai suoi soldati per il labor piuttosto che per la sua condizione di principe. Sintetizzando il ruolo del comandante nella funzione di regista e supervisore attraverso l’uso del consilium, l’oratore riassume il comportamento di Costantino in battaglia: ugualmente solerte nell’azione e nel comando, sostiene i suoi uomini con la parola e con l’azione e li infiamma con l’esempio. Così i soldati, definiti fortissimi perché a loro è affidata l’azione, seguono l’ardor del loro comandante, ne sentono la forte auctoritas e per questo si impegnano al massimo come se l’esito della battaglia fosse riposto nelle braccia di ciascuno. Nell’ultima battaglia al Milvio Costantino è stato assistito dal volere divino (risultato del suo coraggio, della sua sagacia militare e della sua perizia bellica) e sottratto al libero gioco della fortuna, a differenza di Massenzio che, collocato fuori dalla protezione divina per le sue azioni contro la legalità e il bene, è esposto, come gli altri uomini, agli imprevedibili rovesci della fortuna, e quindi non possiede il binomio necessario all’imperator per la vittoria: la virtus e la felicitas. Massenzio qui è espressamente definito tyrannus69. Colpisce, comunque, la scelta del panegirista di narrare eventi ormai datati, senza alcun aggiornamento o rettifica dei fatti70. Nella narrazione degli eventi, Nazario mostra di conoscere alla perfezione il panegirico precedente del 313 e, pur non potendo modificare le località toccate durante la marcia di avvicinamento all’Urbe, dosa sapientemente i contenuti e la loro presentazione, evitando ridondanze rispetto all’altro elogio e utilizzando i significativi eventi del 312 per fini politici diversi. In generale, Nazario cattura l’attenzione dell’uditorio insistendo sulla volontà di Costantino di giungere a un accordo tra le parti, ne mostra il lato moralizzatore, ne evidenzia una certa dose di tolleranza volta a scongiurare un conflitto che ha tutti i contorni di una guerra civile, e, infine, insiste sul sostegno divino di cui gode il sovrano, ricordando l’apparizione degli eserciti celesti venuti in suo soccorso. Dipinge con efficacia i passi intrapresi da Costantino: la sua grande pazienza, la ricerca di rimedi indolori, gli sforzi compiuti per giungere a un incontro a quattr’occhi, il desiderio di pace, pur trovandosi egli in una situazione di superiorità. Loda la caelestis prudentia di Costantino, la sua gravitas, la sua modestia e il suo decor che non possono che disorientare la petulantia dell’avversario. Nella narrazione degli eventi di Susa, ad esempio, elementi comuni ai due discorsi sono la caparbietà dei cittadini nel voler opporre resistenza e la rapidità con cui viene conclusa l’operazione, ma Nazario preferisce affrontare una questione, per così dire, ‘morale’ piuttosto che dar maggior peso alla battaglia, per rivelare gli scrupoli che Costantino si era fatto per salvare la città prima che bruciasse completamente. Trattando degli eventi legati alla liberazione di Roma, sottolinea infatti che l’imperatore non ama le guerre, e dà un particolare tocco al corteo trionfale, di cui descrive la sfilata dei vitia personificati, debellati battendo Massenzio; rammenta inoltre i frutti prodotti dalle qualità di Costantino a liberazione avvenuta, con chiaro riferimento alla vis, alla fortituto, alla prudentia, alla benignitas, alla clementia, alla liberalitas, alla temperantia, alla civilitas, alla gravitas e alla hilaritas del vincitore. Nazario loda anche i figli dell’imperatore, Crispo e Costantino, in particolare il primo, il maggiore. Non fa alcun riferimento, tuttavia, al nipote acquisito, Valerio Liciniano Licinio, figlio dell’omonimo Augusto, né al collega stesso di Costantino, sebbene vigesse ancora una Diarchia. Questo dettaglio, unito all’assenza di riferimenti al soggiorno di Costantino a Milano, città in cui i due Augusti si erano incontrati e momentaneamente riappacificati nel 312 durante la marcia di Costantino su Roma, ha suggerito agli studiosi che Nazario abbia costruito e pronunciato il discorso per mettere in guardia il rivale di Costantino dai possibili sviluppi futuri: nel 321 la vituperatio di Licinio non è ancora lettura sfruttabile, poiché egli vive, ma le virtù pubblicizzate nel panegirico a favore di Costantino, l’uomo del dialogo, sono uno spunto per la formulazione successiva dei loro contrari, secondo una procedura tutt’altro che insolita alle orecchie della corte e del Senato71.
Accanto a una contestualizzazione storica specifica, i Panegyrici latini offrono, nel complesso, un’immagine di Costantino che può essere analizzata da due osservatori: uno, per così dire, diacronico, e uno sincronico, che permettono di cogliere le implicazioni che questi testi ebbero nella realtà storica contemporanea e in quella successiva. Da una parte, il ritratto del primo imperatore cristiano va inserito nelle linee dell’evoluzione politico-ideologica del suo potere, e le virtù a lui attribuite vanno calcolate nel più ampio panorama del vocabolario politico-religioso tardoantico, al fine di cogliere la portata funzionale e teorica di queste operazioni di rielaborazione; dall’altra, i codici Itali (detti così perché scritti in Italia), ad esempio, al di là della loro validità testuale, richiamano l’attenzione degli storici sulla fortuna della quale, appena scoperti, i Panegirici godettero nell’Italia del Quattrocento. Teorizzando l’antico ideale dell’optimus princeps, i signori del Rinascimento intravidero in Costantino soprattutto un nobile modello per il nuovo Herrscherideal, quale si andava diffondendo nelle loro corti72.
I Panegirici latini, dunque, permettono, in primo luogo, di seguire la trasformazione del modello tetrarchico e l’incidenza avuta dall’agire di Costantino. Nel discorso del 307 prevale ancora l’ideologia tetrarchica, Costantino è presentato come nipote di Massimiano iure adoptionis e figlio del Divino Costanzo (VII/6,3,3); l’alleanza che rafforza il legame tra Costantino e Massimiano è l’occasione per riaffermare la natura erculea di questa discendenza (VII/6,8,2); Costantino vive della protezione di due figure tutelari: Massimiano e Costanzo. Nel panegirico del 310, invece, sebbene il panegirista sembri concepire come ancora vitale l’idea di un potere collegiale quale pensato da Diocleziano (concors et socia maiestas: VI/7,8,2-5)73, viene elaborato un principio legittimista in rottura con l’ideologia tetrarchica: Costantino è presentato come tertius imperator dopo due imperatori già presenti nella sua famiglia: Claudio il Gotico e Costanzo, dei quali, per così dire, perpetua il regno (VI/7),2,1-5). La fusione collegiale di padre e figlio, simbolicamente uniti nella linea gioviana e erculea, quindi, non costituisce più un modello; ormai solo il legame di sangue alimenta la legittimità: l’antenato Claudio giustifica l’elevazione alla porpora di Costanzo e queste due figure sono i garanti del potere di Costantino. Nel panegirico del 312, pronunciato da un retore della città di Autun, la storia municipale e la storia dinastica vengono a confluire in un significativo accostamento: gli Edui celebrano Costantino quale figlio e parente di imperatori che, in diversi momenti, li avevano beneficiati, come a commemorare la perennità di un legame che li unisce a un patrono discendente, a sua volta, da una linea di patroni. Il panegirico del 313, composto al termine del conflitto tra Massenzio e Costantino, sottolinea ancora una volta l’importanza del sangue, al punto di condizionare fortemente la verità storica: nella stessa frase Massenzio è trattato come figlio suppositus di Massimiano (figlio di un adulterio che la madre avrebbe commesso con un personaggio non appartenente alla stirpe erculea), mentre Costantino è figlio di Costanzo pius (XII/9,4,3). Ormai, dunque, secondo il nuovo potere, la nascita decide della legittimità imperiale. Nazario, infine, nel panegirico del 321, parla di un corteo di esseri celesti che cantano le lodi di Costantino e alla testa del quale è collocato il padre, il Divus Costanzo; Claudio il Gotico non compare più nel discorso74.
Costantino, dunque, attraverso questi testi, subisce una sorta di ‘metamorfosi’: da Augusto ‘minore’, subordinato all’anziano Massimiano tanto da essere rappresentato come il Cesare che, seguendo fedelmente gli ordini dell’Augusto, va a difendere la frontiera (VII/6)75, fino all’Augusto unico e assoluto, paterno e premuroso del discorso di Nazario. L’attenzione dei panegiristi di un Costantino non solo in ascesa ma anche politicamente innovatore, dunque, si concentra particolarmente sul tema della legittimazione del suo potere, che essi tendono a giustificare con due ordini di motivi: per ragione ereditaria e per scelta divina. Tale potere, fondato sul principio dinastico, è predisposto dalla volontà divina per colui che è destinato a essere l’unico reggitore dell’Impero. Entrambi i motivi non sono certo una peculiarità dei panegirici costantiniani. Nella monetazione di Massenzio e Massimino Daia, infatti, ricorre il tema ereditario76, e la protezione divina occupa un posto centrale nelle tradizionali concezioni politiche romane: lo suggerisce lo stesso panegirico del 313 che, fornendo una spiegazione ‘provvidenziale’ della morte di Massenzio (trascinato via dal Tevere), si richiama alle antiche leggende romane (XII/9,18,1-2)77. Alla protezione divina che sostiene l’imperatore viene dato significativo rilievo nei panegirici attraverso la descrizione di visioni celesti: quella di Apollo nel 310 (VI/7,21,4-6) e quella delle schiere celesti nel 321 (IV/10,14,1-6); si aggiunge il paragone, istituito dal panegirista del 313, tra Costantino e Massenzio, con l’elogio del primo per la sua partecipazione segreta alla mens divina, una divinità superiore, di natura non fisica ma spirituale (XII/9,2,4-5). Il confronto con altre fonti contemporanee quali la Vita Costantini di Eusebio e il De mortibus persecutoribus di Lattanzio sembra indicare che il tema del sostegno divino ricevuto da Costantino in occasione della battaglia di ponte Milvio, topico della panegiristica e riflesso di uno stesso clima politico-religioso78, sia divenuto ormai canonico nell’interpretazione popolare dell’evento79. Dalle parole dei panegiristi, nonostante si riferiscano ai patroni spirituali dell’imperatore con vaghezza (genericità che è stata anche interpretata come prudenza, in vista di eventuali cambiamenti dei protettori divini in un momento di rapide trasformazioni politiche80), è evidente, comunque, lo stretto legame tra Costantino e la divinità solare: il panegirista del 307 dipinge l’arrivo di Costanzo Cloro al matrimonio del figlio sul carro del Sole (VII/6,14, 3); il discorso del 310 si conclude con la narrazione della famosa visione divina nel tempio di Apollo. Se la centralità del Sole nell’ideologia politica imperiale rientrava nelle tendenze sviluppatesi a partire dalla metà del III secolo, quando il Sol Invictus emerse come uno dei più popolari comites imperiali, tuttavia, il legame tra potere imperiale e culto solare segna un cambiamento rispetto all’ideale tetrarchico che Diocleziano incardinò sulle linee degli dei tradizionali, creando le dinastie Gioviana ed Erculea e indebolendo la posizione di privilegio del Sole. In questa prospettiva, la rinnovata alleanza di Costantino con il dio Sole e la nuova linea dinastica che da Claudio il Gotico, attraverso Costanzo Cloro, culmina con Costantino, sono state interpretate come parte di un programma di riscrittura delle linee di legittimazione del potere secondo criteri pre-tetrarchici81.
I Panegirici sono anche promotori e partecipi di una rifinitura del ritratto costantiniano che, negli stessi anni, passò dall’iniziale figura del guerriero a quella finale di didaskalos, forse introducendo, secondo alcuni studiosi, elementi di una figura anticipatrice dei tempi, quella dell’imperatore guerriero al servizio del suo Dio protettore che si spinge fino alla guerra di religione per liberare i bisognosi dall’oppressione dei nemici del suo Dio e per restituirli ai loro diritti: la figura dell’imperatore guerriero (Paneg. XII/9,22,2), dell’imperatore militare che ha la personale ispirazione divina (Paneg. XII/9,2,5), il sostegno della divinità (Paneg. IV/10,13,5) e la promessa della vittoria (Paneg. XII/9,3,3)82.
Complessivamente, la persona di Costantino, omnium maximus imperator (XII/9,26,5), è dotata di eccezionale pulchritudo dalla quale traspaiono le sue nobili qualità morali. Tra queste spicca la continentia, virtù che Costantino rivela sin da giovane mostrandosi, sull’esempio del padre Costanzo, alieno dalle dissipazioni e rivolto già con l’animo al matrimonio (VII/6), e che sarà sempre un tratto distintivo di Costantino (XII/9); tale virtù lo spingerà anche a prendere provvedimenti legislativi per la promozione del matrimonio e la restaurazione della pubblica moralità (IV/10). Col suo aspetto fisico, l’imperatore manifesta i segni evidenti del charisma imperiale, che in lui è sicuramente di origine divina (VII/6), e che lo guida in una vita secondo iustitia e pietas. Accanto a queste virtù, tipiche dell’Herrscherideal del periodo altoimperiale, compare la clementia (V/8), virtù meno vincolata alla legge e più legata invece alla benevola e spontanea volontà del sovrano. La clementia è centrale nella rievocazione delle vittorie militari di Costantino, generalmente accompagnata al ricordo del suo comportamento nei confronti dei vinti, la cui vita è comunque degna di essere conservata; in tempo di pace, la clemenza, unita alla liberalità, indirizza gli interventi dell’imperatore nei confronti delle città dell’Impero, come Autun e Treviri (VI/7)83.
1 Negli ultimi decenni, sulla scia dello studio che G. Sabbah, De la rhétorique à la communication politique: les Panégyriques Latins, in Bulletin de l’association Guillaume Budé, 43 (1984), pp. 363-388, fece della retorica dei panegirici latini intesi come strumento di comunicazione politica, sono apparsi numerosi studi dedicati alla comprensione della performance dei singoli panegirici, con l’intenzione di rintracciare le interconnessioni tra i vari personaggi (oratore, imperatore, notabili di corte, soldati, cittadinanza), portatori di visioni, interessi, capacità personali, che agivano – talvolta attraverso una ‘presenza’ immaginaria – nelle cerimonie nelle quali si inserivano questi eventi, che si svolsero in uno specifico momento e luogo storico: si tratta sia di monografie (B. Müller-Rettig, Der Panegyricus des Jahres 310 auf Konstantin den Grossen: Űbersetzung und historisch-philologischer Kommentar, Stuttgart 1990) sia di articoli (K.A.E. Enenkel, Panegyrische Geschichtsmytologisierung und Propaganda. Zur Interpretation des Panegyricus Latinus VI, in Hermes, 128 (2000), pp. 91-126; M. Lolli, “Massenzio-bis” in Pan. IV(X) [321 d.C.]: il monito di Costantino imperatore al collega Licinio, in Historia, 51 (2002), pp. 502-508), alcuni prevalentemente focalizzati sulla propaganda di Costantino, visto come il principale autore del messaggio veicolato dai panegirici (C.E.V. Nixon, Constantinus oriens Imperator: propaganda and panegyric. On reading Panegyric 7 (307), in Historia, 42 (1993), pp. 229-246), altri, i più recenti, sulla sottile e complessa operazione comunicativa realizzata con consapevole competenza dal panegirista (S. de Beer, The Panegyrical Inventio. A Rhetorical Analysis of Panegyricus Latinus V, in The Manipulative Mode. Political Propaganda in Antiquity. A Collection of Case Studies, in Mnemosyne Supplementa, 261 (2005), ed. by A.E. Enenkel, I.L. Pfeijffer). Parallelamente, sono stati realizzati studi sia sull’evoluzione ideologico-politica dell’immagine del primo imperatore cristiano che è possibile seguire attraverso i panegirici a lui dedicati (M.J. Rodríguez Gervás, Constantino en los Panegíricos, in Studia Zamorensia, 7 (1986), pp. 423-428; D. Lassandro, Sacratissimus Imperator. L’immagine del princeps nell’oratoria tardoantica, Bari 2000, in particolare pp. 91-94), sia sul graduale formarsi della fede personale di Costantino (K. Rosen, Constantinus Weg zum Christentum und die Panegyrici Latini, in Costantino il Grande dall’antichità all’Umanesimo, Atti del Colloquio sul cristianesimo nel mondo antico (Macerata 18-20 dicembre 1990), a cura di G. Bonamente, F. Fusco, Macerata 1993, pp. 853-863).
2 I Panegirici sono indicati nella presente voce con il numero romano corrispondente alla posizione nei manoscritti, seguito dal numero arabo dell’ordine cronologico.
3 J. Dingel, s.v. Panegyrici Latini, NP IX, c. 239.
4 N. Baglivi, A proposito di impero, imperatori e “Panegirici Latini”, in Vichiana, 4 (2002), pp. 107-115, in partic. 109-110.
5 D.A. Russell, The Panegyrists and Their Teachers, in The Propaganda of Power. The Role of Panegyric in Late Antiquity, ed. by M. Whitby, Leiden-Boston-Köln 1998, pp. 17-50, in partic. 17-21.
6 Nelle sue componenti etimologiche, il termine racchiude i valori semantici della universalità (pas) e della assemblearità (agorà).
7 Generalmente il panegirico rientrava in quella epidittica (si veda l’Ars rhetorica dello Pseudo Dionigi di Alicarnasso), ma talvolta non vi era compreso (come nel trattato di Menandro retore). S. Fornaro, s.v. Panegyrik (griechisch), NP IX, cc. 240-242, in partic. 240.
8 Ivi, cc. 241-242.
9 D.A. Russell, The panegyrists, cit., pp. 25-26, 28-33 e 49.
10 J. Dingel, s.v. Panegyrik (römisch), NP IX, cc. 242-244, in partic. 242.
11 D.A Russell, The Panegyrists, cit., pp. 26-28. Per la storia del discorso elogiativo si veda L. Pernot, La rhétorique de l’éloge dans le monde gréco-romain, Paris 1993, pp. 19-114.
12 J. Dingel, s.v. Panegyrik, NP IX, cc. 243-244; R. Rees, Layers of Loyalty in Latin Panegyric. AD 289-307, Oxford-New York 2002, p. 6.
13 A. Berger, s.v. Panegyrik (byzantinisch), NP IX, cc. 244-245.
14 D. Lassandro, I “Panegirici Latini” del III-IV secolo, in Storia della civiltà letteraria greca e latina, a cura di I. Lana, E.V. Maltese, III, Dall’età degli Antonini alla fine del mondo antico, Torino 1998, pp. 476-483, in partic. 478-479.
15 Soprattutto nella revisione dei testi destinati alla fruizione scritta, secondo le regole di scrittura che aveva perfezionato Isocrate, elaborando la cosidetta grafichè lexis (D.A. Russell, The Panegyrists, cit., pp. 34-38).
16 Ivi, pp. 48-49.
17 Il panegirico tardoantico, per questo aspetto, è stato opportunamente definito «una conferenza con diapositive» da S.G. MacCormack, Arte e cerimoniale nell’antichità, Torino 1995, pp. 14-17.
18 Questo è evidente soprattutto nei panegirici in versi di Claudiano, Corippo e Sidonio, e in quello in prosa di Cassiodoro per la coppia reale dei goti Vitige e Matasunta: c’è una predilezione per la descrizione piuttosto che per la narrazione e l’analisi (S.G. MacCormack, Arte e cerimoniale, cit., pp. 9-12).
19 Titolatura adottata nelle moderne edizioni critiche. Le antiche edizioni umanistiche e quelle del Seicento e Settecento, invece, spesso titolavano Panegyrici veteres e talvolta Panegyrici Gallici.
20 D. Lassandro, G. Micunco, Panegirici Latini, Torino 2000, p. 59.
21 Ad esempio il panegirico di Plinio è indicato con 1(1). Sulla confusione creata dai due sistemi di riferimento si veda R. Rees, Layers of Loyalty, cit., p. 20. In tutti gli altri contributi della presente opera, tuttavia, per esigenze redazionali si è scelto di utilizzare esclusivamente la numerazione araba, mantenendo tra parentesi tonde la posizione cronologica del panegirico.
22 P.L. Schimdt, Les Panégyriques, in Restauration et Renouveau. La literature latine de 284 à 374 après J.-C., éd. par R. Herzog, P.L. Schimdt, Turnhout 1993, pp. 185-198, in partic. 188.
23 A. Hostein, Le corpus des Panegyrici Latini dans deux ouvrages récents, in Antiquité Tardive, 12 (2004), pp. 373-385, in partic. 375.
24 R. Rees, Layers of Loyalty, cit., pp. 21-23.
25 R. Pichon, Le derniers écrivains profanes, Paris 1906, pp. 270-291, criticando l’ipotesi di Otto Seeck che vide in Eumenio l’autore della raccolta, propose di identificare Pacato come primo editore: egli avrebbe posto all’inizio il panegirico di Plinio, autore molto stimato al tempo di Teodosio; subito dopo il proprio panegirico a Teodosio; quindi i Panegyrici diversorum septem; a questi ultimi venne in seguito aggiunto l’ottavo per arrivare al numero di dodici. Sul personaggio di Pacato si veda A.-M. Turcan-Verkerk, Un poète latin redécouvert: Latinius Pacatus Drepanius, panégyriste de Théodose, Brussels 2003.
26 G. Sabbah, De la rhétorique à la communication politique, cit., pp. 380-388.
27 R. Pichon, Le derniers écrivains, cit., pp. 270-291.
28 G. La Bua, Laus deorum e strutture inniche nei Panegirici Latini di età imperiale, in Rhetorica, 27 (2009), pp. 142-158.
29 R. Rees, Layers of Loyalty, cit., pp. 8-9.
30 D. Lassandro, I “Panegirici Latini”, cit., pp. 480-482.
31 G. Sabbah, De la rhétorique à la communication politique, cit., pp. 369-370; A. Hostein, Le corpus des Panegyrici Latini, cit., p. 378.
32 D. Lassandro, I “Panegirici Latini”, cit., p. 479.
33 J.F. Drinkwater, The Gallic Empire. Separatism and Continuity in the North-Western Provinces of the Roman Empire, A.D. 260-274, Stuttgart 1987, pp. 78-82.
34 A. Hostein, Le corpus des Panegyrici Latini, cit., p. 378 nota 30.
35 B. Bleckmann, Sources for the History of Constantine, in The Cambridge Companion to the Age of Constantine, ed. by N. Lenski, New York 2006, pp. 14-31, in partic. 24.
36 Si veda, ad esempio, la sottile analisi storico-retorica dei riferimenti al sistema di tassazione contenuti nel panegirico 5(8) condotta da S. de Beer, The Panegyrical Inventio, cit., pp. 295-317.
37 B.H. Warmington, Aspects of Constantinian Propaganda in the Panegyrici Latini, in Transactions and Proceedings of the American Philological Association, 104 (1974), pp. 371-384; C.E.V. Nixon, Constantinus oriens Imperator, cit., p. 232 nota 16.
38 G. Sabbah, De la rhétorique à la communication politique, cit., pp. 366-370.
39 E. Vereeke, Le Corpus des Panégyriques Latins de l’époque tardive: Problèmes d’imitation, in L’Antiquité classique, 44 (1975), pp. 141-160, in partic. 154-157.
40 F. Del Chicca, Struttura del panegirico latino tardoimperiale, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari, 43 (1985), pp. 79-113, in partic. 112.
41 Gli studiosi, tuttavia, dibattono sull’identità dei panegiristi. Alcuni, ricostruendo il nome nei manoscritti, li attribuiscono entrambi a Mamertino (R. Rees, Layers of Loyalty, cit., pp. 193-204).
42 Per questo prospetto si veda B. Müller-Rettig, Der Panegyricus des Jahres 310, cit., pp. 5-6.
43 S.G. MacCormack, Arte e cerimoniale, cit., pp. 4-5.
44 R. Rees, Layers of Loyalty, cit., pp. 6-19.
45 Va notato, tuttavia, che nessuno dei panegiristi del periodo tetrarchico e costantiniano erano membri della corte al momento della performance: l’autore di Paneg. VI/7 del 310, dopo una considerevole esperienza palatina, era al tempo occupato da privatorum studiorum ignobiles curae; Nazario (Paneg. IV/10) e altri (Paneg. VIII/4 e forse Paneg. XII/9) non sembrano aver avuto precedenti legami con l’amministrazione imperiale.
46 P.L. Schimdt, Les Panégyriques, in Restauration et Renouveau, cit., pp. 185-198. Uno dei problemi connessi, in generale, con il genere panegiristico è quello di comprendere il criterio con cui un panegirista era selezionato per capire quanto l’iniziativa dei sudditi fosse libera dall’‘ispirazione’ proveniente dai circoli palatini (C.E.V. Nixon, Constantinus oriens Imperator, cit., pp. 231-232).
47 R. Rees, Layers of Loyalty, cit., pp. 165-168.
48 B. Saylor Rodgers, The Metamorphosis of Constantine, in Classical Quarterly, 39 (1989), pp. 233-246, in partic. 236-237.
49 Gli studiosi discutono sull’età che Costantino aveva al tempo dell’ascesa al trono: intorno ai trentacinque o ai venticinque (come suggerisce il parallelo con Scipione l’Africano e Pompeo). Cfr. C.E.V. Nixon, Constantinus Oriens Imperator, cit., p. 240.
50 Ivi, p. 238.
51 Ivi, pp. 242-244.
52 R. Rees, Layers of Loyalty, cit., pp. 153-184. Gli studiosi, comunque, sono divisi sul livello di gradimento del panegirico da parte di Massimiano e Costantino, quindi sull’eventuale intervento dell’uno ovvero dell’altro nell’elaborazione del testo (C.E.V. Nixon, Constantinus Oriens Imperator, cit., p. 233).
53 Notizia che, sebbene sia citata in altri testi (iscrizioni e Historia Augusta), oggi viene considerata falsa dalla maggior parte degli studiosi (si veda B. Saylor Rodgers, The Metamorphosis of Constantine, cit., p. 238 nota 17).
54 Ivi, pp. 237-238.
55 S. De Beer, The Panegyrical Inventio, cit., pp. 297-298.
56 Per Peter Weiss l’episodio sarebbe testimonianza di un reale fenomeno celeste che avrebbe indotto Costantino a fare una deviazione nel percorso di marcia previsto, per andare a rendere omaggio ad Apollo visitandone il tempio (H.A. Drake, Solar Power in Late Antiquity, in The Power of Religion in Late Antiquity, ed. by A. Cain, N. Lenski, Farnham Surrey 2009, pp. 215-226).
57 Per una rapida rassegna delle interpretazioni si veda B. Müller-Rettig, Der Panegyricus des Jahres 310, cit., pp. 330-331.
58 B. Saylor Rodgers, The Metamorphosis of Constantine, cit., pp. 237-239.
59 Gli studiosi dibattono se si tratti dello stesso autore del panegirico VI/7 del 310, o se siano due retori distinti (S. de Beer, The Panegyrical Inventio, cit., pp. 314-316).
60 Per questo aspetto, il discorso è stato oggetto di particolare attenzione da parte degli storici (Ivi, p. 295 nota 2).
61 Alcuni elementi, comunque, accostano questo discorso al genere del presbeutikòs (B. Saylor Rodgers, The Metamorphosis of Constantine, cit., pp. 233-246, in partic. 239).
62 S. de Beer, The Panegyrical Inventio, cit., pp. 300-304.
63 Ivi, pp. 306-309.
64 B. Saylor Rodgers, The Metamorphosis of Constantine, cit., pp. 240-244.
65 B.H. Warmington, Aspects of Constantinian Propaganda, cit., pp. 371-384; M. Lolli, “Massenzio-bis”, cit., p. 502.
66 C. Giuliese, Costantino stratega nei “Panegirici” del 313 e del 321, in Invigilata lucernis, 27 (2005), pp. 169-179.
67 Sull’identità di Nazario si veda C.E.V. Nixon, B. Saylor Rodgers, In Praise of the Later Roman Emperors, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1994, pp. 334-338.
68 Ivi, p. 338.
69 C. Giuliese, Costantino stratega, cit.
70 B. Saylor Rodgers arrivò addirittura a ipotizzare che questo discorso fosse stato pronunciato nello stesso anno del panegirico XII/9 (C.E.V. Nixon, B. Saylor Rodgers, In Praise, cit., p. 338).
71 M. Lolli, “Massenzio-bis”, cit., pp. 502-508.
72 Esemplare testimonianza di ciò può essere considerata la presenza nella Biblioteca malatestiana di Cesena di due manoscritti dei Panegyrici (S XVII. 5 e S XX. 2), miniati con grande raffinatezza nelle prime pagine e all’inizio delle singole parti, che rappresentano una splendida testimonianza artistica dell’officina scrittoria di quella biblioteca. Cfr. D. Lassandro, Sacratissimus Imperator, cit., p. 31 e nota 36.
73 Ivi, pp. 95-96.
74 F. Chausson, Stemmata Aurea. Constantin, Justine, Théodose. Rivendications généalogiques et idéologie impériale au IVe siècle ap. J.-C., Rome 2007, pp. 43-48.
75 B.H. Warmington, Aspects of Constantinian Propaganda, cit., p. 374.
76 Ivi, p. 375.
77 D. Lassandro, Sacratissimus Imperator, cit., pp. 98-99.
78 Ivi, pp. 99-102.
79 J. Long, How to Read a Halo: Three (or More) Versions of Constantine’s Vision, in The Power of Religion in Late Antiquity, cit., pp. 227-235, in partic. 232.
80 Ad esempio, dopo la conquista di Roma nel 312, i retori evitano di citare i nomi degli dei pagani e di accennare al culto imperiale, e non danno nome alla potenza ultraterrena che ha predisposto la vittoria. Cfr. M. Edwards, The Beginnings of Christianization, in The Cambridge Companion to the Age of Constantine, cit., pp. 136-158, in partic. 141.
81 H.A. Drake, Solar Power, cit., p. 224. Come emerge dai panegirici indirizzati a Massimiano (nel 289 e nel 291) e a Costanzo I (nel 297), gli elogi tetrarchici trattano la genealogia del governante in modo fortemente simbolico, rinforzando la coesione imperiale grazie alla finzione di una discendenza da Giove ed Ercole e attraverso una gerarchizzazione dei membri del collegio, non solo attraverso l’attribuzione dei titoli di Augustus e di Caesar, ma anche per mezzo del principio di adozione che riunisce Augusti e Caesari Iovii e Herculii due a due e in un rapporto di filiazione (F. Chausson, Stemmata Aurea, cit., pp. 42-43).
82 N. Baglivi, A proposito di impero, cit., p. 114. L’immagine del guerriero si connette con un tema ricorrente in tutti i Panegirici, che, per questo aspetto, rivelano la loro origine gallica: la difesa da parte di Costantino della frontiera renana e le sue vittorie sui germani (VII/6; VI/7; XII/9; IV/10), che ricordano, agli occhi dei panegiristi gallici, le imprese compiute dal padre Costanzo e dall’antenato Claudio il Gotico (B.H. Warmington, Aspects of Constantinian Propaganda, cit., pp. 382-383): il continuum di tre generazioni aumenta e, per così dire, estende nel tempo la serie di vittorie per le quali Costantino può essere lodato, alimentando le speranze dei cittadini (J. Long, How to Read a Halo, cit., p. 228).
83 D. Lassandro, Sacratissimus Imperator, cit., pp. 91-94.
84 R. Rees, Layers of Loyalty in Latin Panegyric. AD 289-307, Oxford, New York 2002, p. 20.
85 D. Lassandro, R. Diviccaro, Rassegna generale di edizioni e studi sui XII Panegyrici Latini, in Bollettino di Studi Latini, 28 (1998), pp. 132-204, in partic. 133.
86 R. Rees, Layers of Loyalty, cit., p. 20.
87 D. Lassandro, R. Divaccaro, Rassegna, cit., p. 133.
88 R. Rees, Layers of Loyalty, cit., p. 20.
89 D. Lassandro, R. Divaccaro, Rassegna, cit., p. 133.
90 R. Rees, Layers of Loyalty, cit., p. 20.
91 D. Lassandro, R. Divaccaro, Rassegna, cit., p. 133.
92 Ibidem.
93 R. Rees, Layers of Loyalty, cit., p. 20.
94 Ibidem.
95 D. Lassandro, R. Divaccaro, Rassegna, cit., p. 133.
96 R. Rees, Layers of Loyalty, cit., p. 20.
97 D. Lassandro, R. Divaccaro, Rassegna, cit., p. 133.