La fede italiana: geografia e storia
Quando nel 1532 l’inquisitore di Cividale del Friuli si trovò davanti al contadino Biagio di Totulo da Buttinicco sedotto da idee luterane, lo interrogò, lo sottopose alla tortura e alla fine gli chiese quale fosse secondo lui la vera fede, quella luterana o quella italiana («quam credat esse veram fidem, an italicam an lutheranam»), Biagio rispose senza incertezze: «Signori, sempre ho sequitata la vera fede italiana et sempre ho tenuto questa esser perfecta et ogni anno me son confessato, né ho mai manzato carne de zorni quadragesimali, né de vigilie, né venere manco de sabato»1.
L’opposizione tra italiani e luterani si sovrapponeva così a quella tradizionale fra italiani e barbari. La «tedesca rabbia» di cui parlava Francesco Petrarca nella canzone all’Italia riemergeva col rifiuto machiavelliano del «barbaro dominio» e alla figura di Lutero si applicava l’annuncio profetico del male che doveva venire dal nord («ab Aquilone pandetur omne malum», Ier. I, 14). L’immagine della minacciata aggressione dei ‘barbari’ e della necessità di difendere il paese cintato dalle Alpi aveva avuto lungamente corso nella cultura letteraria ed era diventata uno slogan politico con le guerre d’Italia: fu allora che per iniziativa di Giulio II nacque la politica della «libertà d’Italia». «Che l’Italia rimanesse libera da’barbari», ecco le parole che «uscivano frequentemente dalla bocca sua» secondo Francesco Guicciardini2. All’inizio, libertà d’Italia significava nella politica del papato del Cinquecento impedire l’affermazione di un potere statale sugli altri: da ciò era nato lo scontro militare con la repubblica di Venezia e dovevano nascere le successive alleanze contro la minaccia del predominio degli Asburgo sulla penisola. Secondo l’analisi di Machiavelli, il papato che non aveva la forza di unificare la penisola era però determinato a impedire che altri lo facessero: la libertà era alternativa all’unità. Quella libertà si venne poi definendo negli anni delle guerre d’Italia tra Francia e Spagna. La strategia di sopravvivenza della Santa Sede la interpretò come libertà del papato in quanto principato italiano in un contesto di equilibrio delle potenze. Mentre Machiavelli concludeva il Principe con i versi di Petrarca e invitava a prendere le armi per liberare l’Italia dagli «oltramontani», la politica papale perseguì la politica di chiamare in Italia non una ma due potenze d’Oltralpe per sperimentare con loro la politica dell’equilibrio. Fu così che i due pontificati medicei di Leone X e di Clemente VII applicarono sistematicamente la formula che aveva fatto la grandezza di Lorenzo il Magnifico. Come scrisse ancora Guicciardini, «non dispiaceva al pontefice che il re di Francia conseguisse il ducato di Milano, parendogli che, mentre stavano in Italia Cesare e il re di Francia, che la sedia apostolica e il suo pontificato fussino sicuri dalla grandezza di ciascuno di loro»3. Libertà d’Italia venne a significare di conseguenza non l’unità ma il suo contrario: la garanzia della conservazione di molti e diversi poteri politici. All’ombra di Francia o di Spagna si collocarono stati-città come Lucca e Genova, Stati territoriali governati da aristocrazie cittadine come Venezia o da famiglie di antica nobiltà come gli Este o i Gonzaga, e una miriade di feudi e potentati minori: la protezione di una delle due grandi potenze statali europee fu necessaria e ricercata o per opporsi alle ambizioni dei vicini o per reprimere rivolte e congiure all’interno. Su questo insieme diviso e percorso da conflitti e strategie di potere l’autorità temporale e spirituale del papato fondò la sua primazia. E la città di Roma assurse al ruolo di ultima grande capitale di richiamo internazionale rimasta nella penisola, mettendo in ombra le cento città d’Italia. La libertà fu l’alternativa all’unità politica: una libertà come privilegio, riconosciuto a ogni pur minuscolo potere, di essere libero in casa propria.
Ma esattamente nello stesso momento in cui si consolidava definitivamente l’assetto del particolarismo politico, l’avvio della Riforma luterana fece emergere una preoccupazione nuova nella politica della Santa Sede: quella di tutelare la compattezza religiosa della penisola in quanto spazio di sicurezza della Chiesa. Il tentativo avviato da Martin Lutero di riformare tutta la Chiesa pose con urgenza la questione dell’unità religiosa della popolazione italiana e la definizione dei confini italiani come frontiera contro la Riforma. Ma prima ancora si affacciò all’orizzonte del papato una minaccia più urgente di quella dottrinale rappresentata da Lutero e dai suoi ancora esigui seguaci e simpatizzanti italiani: l’inattesa riscossa dell’antico rivale medievale, l’impero. Se ancora un secolo prima l’autorità imperiale appariva esausta e alimentava solo qualche utopia nel mondo germanico, ora Carlo V d’Asburgo si proponeva come il supremo garante dell’unità religiosa del mondo cristiano europeo disegnato nella Monarchia di Dante Alighieri – un’opera che proprio allora vedeva la pubblicazione per volontà del cancelliere imperiale Mercurino da Gattinara. I lanzi tedeschi che durante il sacco di Roma del 1527 lasciarono scritte inneggianti a Lutero sugli affreschi di Raffaello erano l’armata di un imperatore che regolava così i conti col papato e dimostrava che solo lui era capace di riformare la Chiesa, punendo come meritava un papato incapace e corrotto. Ben più delle dottrine religiose disseminate in ristretti circoli spagnoli e napoletani da Juan de Valdés furono i dialoghi satirici di suo fratello Alfonso a dimostrare quale fosse l’ambizione che aveva mosso Carlo V a lanciare il suo famoso ‘manifesto’ contro Clemente VII. Da qui come dal punto più basso toccato fino ad allora dall’autorità papale cominciò il percorso di ricostruzione di un potere scosso e pericolante. Un potere politico e religioso, un corpo e due anime com’è stato detto4: ma se l’ambito religioso era teoricamente universale, la base politica del papato era indiscutibilmente italiana. Ne risultò una linea di condotta ambigua: si parlava di Chiesa universale e di convocazione di un concilio ecumenico, si operava sabotando non solo il concilio ma tutto ciò che poteva portare al successo della politica imperiale di riconciliazione coi protestanti. L’Italia, ormai libera dalle guerre franco-imperiali, offrì al papato non solo il campo dove ampliare la propria influenza politica ma anche il laboratorio di sperimentazione primaria delle risposte da dare alle proteste religiose e alle domande di riforma.
Dal mutare dell’emergenza derivò una conseguenza importante: l’accento si spostò dalla libertà (politica) all’unità (di fede). Ci volle un’altra rivoluzione, quella politica della Francia dopo quella religiosa di Lutero, perché libertà e unità si presentassero come due termini inscindibili nella prospettiva obbligata dell’Italia all’interno di un’Europa delle nazioni. Fu la Rivoluzione francese a porre all’ordine del giorno il problema per gli uomini di cultura e per le classi dirigenti italiane. Ne conseguì – come vedremo – che l’unità di fede e l’unità politica dovettero essere misurate con un altro metro: quello della libertà, una parola che tornava in primo piano anche se con diverso significato.
Ma intanto sullo scenario del secolo della Riforma, il rapporto tra l’unità nazionale italiana e la religione degli italiani si presentò come argomento per opporre la fedeltà degli italiani al papato e alla Chiesa di Roma come vera ‘religione italiana’ a ogni tentazione di seguire i predicatori tedeschi della Riforma. Se quell’argomento fosse o meno rispondente alla realtà di fatto è questione ancora discussa: resta indiscutibile il fatto che l’unità di fede fu costruita e consolidata, diffondendo capillarmente dottrine e riti tradizionali nella definizione del concilio di Trento, mentre le forme di dissidenza dottrinale venivano colpite e cancellate con una azione centralizzata particolarmente efficace. Cominciò allora quella storia dell’esilio come scelta dei dissidenti e degli eretici che accompagnò a lungo la storia d’Italia. Bernardino Ochino, Lelio e Fausto Sozzini, Celio Secondo Curione sono alcuni dei nomi più noti di una galassia di spiriti ribelli e irrequieti che doveva portare con sé l’eredità di una cultura e di una lingua dotate allora di grande prestigio anche fuori della penisola. E nuovi nomi si aggiunsero tra Settecento e Ottocento a quelli degli eretici del Cinquecento. L’Italia che si lasciavano alle spalle appariva conformista e soffocante a uomini come Alberto Radicati di Passerano e Filippo Buonarroti, come più tardi a Giacomo Costantino Beltrami e ad Antonio Panizzi. Le nuove idee diffuse dall’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, ma anche dagli scritti di una cultura illuministica maturata nelle maggiori città italiane, prepararono il terreno per una volontà riformatrice dalle insolite venature religiose. A livello popolare questa fase si concluse con la rivolta contro le proposte del vescovo di Pistoia-Prato Scipione de’ Ricci. E quando la Rivoluzione francese rovesciò sulla penisola italiana i suoi eserciti la controrivoluzione fu scatenata da masse popolari fanatizzate dal clero. Movimenti come il ‘Viva Maria’ aretino, le insorgenze del mondo padano, la rivolta antigiacobina di Napoli, la crociata guidata dal cardinale Ruffo mostrarono quale fosse il rapporto tra la cultura delle élites borghesi e la religione delle classi popolari. Fu su questa base in qualche modo unitaria che si doveva porre nel secolo XIX la questione del rapporto tra religione e politica a chi volle perseguire l’obbiettivo dell’unificazione nazionale dell’Italia.
Questi sono gli episodi più noti di una frattura tipica della storia italiana in cui si incuneò la presenza della Chiesa e nella quale si svolse la costruzione di quella unità di fede che, nei momenti di maggior crisi della nazione, è stata evocata come un dato indiscutibile, quasi un patrimonio naturale e senza storia. In realtà, come tutti i dati di cultura, si è trattato del frutto di un processo storico che ha periodicamente rivisitato e aggiornato forme e modi di concepire e praticare l’appartenenza religiosa. Il modo in cui si è svolto quel processo nell’età della crisi più radicale della tradizione – l’epoca della Riforma e delle guerre di religione, della rivoluzione della stampa e di quella copernicana – è una premessa necessaria per intendere gli esiti del progetto di unificazione posto all’ordine del giorno in Italia dalla Francia rivoluzionaria e napoleonica.
A quell’appuntamento la Chiesa si presentò come la titolare di un patrimonio simbolico e di un potere istituzionale e sociale che apparvero a tutti decisivi. Si trattava di una realtà che era stata pazientemente e assiduamente costruita, sia pure sfruttando il deposito offerto da una ricca tradizione. Si usa parlare spesso in Italia e in Europa di ‘radici cristiane’ come di una realtà antica e incancellabile. Ma come non c’è radice naturale che possa sopravvivere in condizioni avverse, così le radici di una cultura religiosa hanno bisogno di essere coltivate per vivere. Gli uomini sono figli dei loro tempi più che dei loro padri, diceva Marc Bloch: al quale veniva spontanea la metafora vegetale del rapporto tra l’albero, il seme e il terreno. Tra Cinquecento e Settecento il suolo italiano fu coltivato con particolare impegno dagli uomini della Chiesa. È una vicenda che è stata per certi aspetti molto discussa ma che resta poco esplorata nel suo insieme.
Qui possiamo cercare di riassumerla distinguendo tra i due piani in cui si svolse: quello della storia e quello della storiografia. Da un lato ci fu la costruzione di un efficace governo degli uomini e delle loro società da parte del corpo ecclesiastico sotto la guida del papato e delle congregazioni romane; dall’altro ci fu l’elaborazione di una descrizione e narrazione dell’Italia come realtà unita dalla fede cattolica romana.
Torniamo allo scenario in cui furono create le basi della costruzione di una unità di fede in Italia. Intanto bisognerà ricordare che ci volle l’emergenza della Riforma perché si ponesse in modo perentorio un problema del genere. Nella lunga storia del cristianesimo dopo la svolta costantiniana conflitti e divisioni erano stati la regola nella realtà italiana: allo scontro tra la nuova religione delle élites urbane e la resistenza dei culti pagani nel mondo delle campagne si erano aggiunte col tempo fratture politiche e culturali che avevano lasciato tracce profonde nella storia della penisola5. Basti evocare gli effetti della guerra greco-gotica che divise l’Italia bizantina da quella longobarda: ne rimase una lunga eredità di differenze nelle istituzioni, nelle dottrine e nelle pratiche rituali dell’unica religione cristiana. Il contributo di altre religioni, da quella della diaspora ebraica a quella dell’espansione islamica, rese ancor più complicato il caleidoscopio dei culti e delle fedi coltivate in territorio italiano. Anche il simbolo cristiano per eccellenza – la croce – registrò le metamorfosi e si adattò ai mutamenti. Un solo esempio: la moneta d’oro fatta coniare da Roberto il Guiscardo nella Sicilia strappata ai sovrani arabi conservò a lungo la mezzaluna e la citazione coranica al posto della croce, segno della tolleranza per quel sincretismo in materia di simboli che esprimeva bene la realtà di un mondo dove le fedi erano parecchie e le differenze potevano convivere6. E potevano aumentare, specialmente in quelle terre del Mezzogiorno e della Sicilia che erano come una zattera nel cuore del Mediterraneo. Se le campagne antiereticali della Chiesa e dei poteri politici portavano insediamenti di valdesi sulle coste calabresi e pugliesi, fu ancora nel Mezzogiorno e in Sicilia che si rifugiarono greci e albanesi sospinti dall’avanzata ottomana. La caduta di Costantinopoli nel 1453 portò modificazioni profonde non solo nei rapporti di forza ma anche nella circolazione di uomini e di culture. Il grande mare interno divideva e nello stesso tempo univa genti diverse. Basti pensare al modo in cui le scorrerie dei pirati musulmani e l’avanzata turca per via di terra ebbero un corollario di episodi di scambi di ostaggi e di intrecci di esperienze. Accadeva così che nella vita di una sola persona non fosse raro il succedersi di diverse identità religiose. Si cambiava fede così come si cambiava la moneta passando da un luogo all’altro.
Ne risultò un caleidoscopio di lingue e di riti religiosi, una sedimentazione profonda di culture che non hanno più cessato di affiorare nel corso della storia italiana.
In una realtà così variegata la preoccupazione dell’unità non era certo assente dalla mente delle autorità ecclesiastiche e dal funzionamento delle istituzioni. Le norme dettate dalle bolle papali e dai concili erano affidate alla presenza del clero secolare che esercitava la cura d’anime nelle pievi e nelle parrocchie. E la custodia della fede dall’attacco delle eresie impegnava gli inquisitori che avevano le loro sedi nei conventi mentre da quegli stessi conventi muovevano i predicatori che nei cicli dell’Avvento e della Quaresima portavano ai popoli il consuntivo dottrinale e morale elaborato nei loro studi teologici presso le università. Su queste risorse doveva poggiare anche la ripresa dell’iniziativa papale dopo il sacco di Roma.
Lutero aveva portato l’attacco più duro ma aveva anche offerto un modello di ricostruzione dell’unità di fede: con la visita delle chiese della Sassonia elettorale nel 1527 aveva mostrato ai vescovi quale grande responsabilità avessero nello smarrimento della norma cristiana di vita del popolo; e con la redazione del suo catechismo aveva inventato un genere letterario che doveva conoscere una inesauribile fortuna e una straordinaria versatilità. La sua proposta era quella di utilizzare lo strumento rivoluzionario della stampa per gli scopi della sua rivoluzione religiosa: si trattava di diffondere la conoscenza dei principi della fede insieme a preghiere, simboli e riti che dovevano essere comuni a tutti e rendere riconoscibili e uniti i cristiani. Da basi simili partì la prima proposta fatta propria da un gruppo di vescovi italiani. Si tratta di un episodio quasi sconosciuto ma non per questo poco importante. Ci fu un catechismo elementare pubblicato per utilità del clero in cura d’anime e distribuito nel corso delle visite pastorali che si svolsero in alcune importanti diocesi dell’Italia settentrionale. Nella sua prima versione fu opera di Gian Matteo Giberti, l’uomo che era stato il principale responsabile della politica della «libertà d’Italia» e che dal cuore del potere papale aveva seguito le vicende della diffusione della protesta luterana e, in contrasto con le opinioni degli intransigenti, aveva cercato di guadagnare alla Chiesa di Roma l’avallo di quell’Erasmo da Rotterdam che molti consideravano l’ispiratore primo della Riforma di Lutero. Come vescovo di Verona Giberti è stato definito un modello del ‘buon pastore’ di età tridentina e postridentina perché attuò il dovere di risiedere in diocesi e vi restaurò lo strumento tradizionale del governo vescovile, la visita personale della diocesi. Lo fu in un senso più specifico e a effetto immediato: il Breve ricordo in lingua volgare, da lui fatto stampare e distribuito a tutto il suo clero, fu la più sollecita risposta italiana e cattolica al catechismo di Lutero: come tale fu ristampato e riproposto in breve tempo e con qualche aggiustamento ai sacerdoti della diocesi di Bologna dal vicario vescovile Agostino Zanetti (1535), a quelli della diocesi di Belluno dal cardinale Gaspare Contarini (1537), a quelli della diocesi di Mantova dal cardinale Ercole Gonzaga. Mancano prove che altrettanto sia avvenuto nella diocesi di Modena sotto il cardinale Morone, del quale sappiamo tuttavia che intanto si ispirava al modello veronese per le misure da attuare nella sua visita pastorale7. Altri casi di iniziative vescovili di quegli anni mostrano che la scossa era stata avvertita e che si voleva correre ai ripari8. Ma la rapida entrata in circolazione sotto nomi diversi dello stesso testo mostra che si era d’accordo sull’urgenza del problema e sul modo di affrontarlo e risolverlo. Si trattava di migliorare la qualità e la preparazione del clero delle parrocchie facendone il tramite della religione da insegnare al popolo: come aveva fatto Lutero, anche qui si proponeva un nucleo ridotto di nozioni dottrinali e di preghiere. È stupefacente che in questi testi non si facesse parola delle questioni dottrinali su cui verteva il contrasto tra Roma e Wittenberg. Quella che vi veniva proposta era una pietà religiosa illuminata e semplice, che poneva al centro la fede in Cristo, criticando le devozioni ai santi e le credenze di tipo magico, e imponeva per questo al clero l’obbligo di leggere e commentare la Sacra Scrittura per istruire il popolo. Il fatto che di queste stampe, pubblicate e diffuse in maniera capillare in vaste aree dell’Italia centro-settentrionale nel corso degli anni Trenta, siano sopravvissute solo singoli rarissimi esemplari è la prova di qualcosa di più di un fallimento: si trattò della sconfitta di questa piccola ma importante pattuglia di uomini di Chiesa in una battaglia che oppose due diverse strategie per la riconquista al clero di obbedienza romana di un terreno perduto. Da notare che quasi tutte queste stesse personalità ecclesiastiche si ritrovarono sostanzialmente d’accordo, al di là di sfumature personali, nell’accogliere con favore un altro opuscolo: il ben più celebre Trattato utilissimo del beneficio di Gesù Cristo crocifisso per i cristiani. Ma non fu questa la via scelta dal papato. La strategia alternativa che ebbe successo fu delineata in quegli stessi anni da un altro ecclesiastico la cui opera attraversò in forme diverse l’esperienza di quei vescovi: Gian Pietro Carafa. Ossessionato dalla minaccia dell’espansione delle idee riformatrici di Lutero inviò nel 1532 un memoriale al papa nel quale collegava la riforma della Chiesa alla lotta contro l’‘eresia’ luterana e proponeva rimedi duri di tipo disciplinare e giudiziario – rimedi che ebbe modo di applicare quando Paolo III lo nominò membro della Congregazione dell’Inquisizione nel 1542. La creazione di quella congregazione avvenne mentre Gaspare Contarini viveva i suoi ultimi giorni come legato di Bologna, emarginato dalla Curia dopo che nel colloquio di religione di Ratisbona aveva corso l’imperdonabile rischio di avallare la politica religiosa di Carlo V. E l’urgenza dello scontro dottrinale si rese evidente nel confronto tra il vescovo Morone e il gruppo di letterati dell’Accademia modenese nel quale il ricorso al catechismo assunse un carattere non più pastorale ma nettamente teologico9.
Nel breve percorso di quei pochi anni si era venuta definendo la strategia del papato nella riconquista dell’unità religiosa dell’Italia. Quando nel 1536 giunse notizia di episodi di dissenso dottrinale e di cerimoniali riformati alla corte ferrarese degli Este, la reazione romana fu immediata: se fino ad allora l’espansione dello Stato pontificio nell’area dei ducati padani aveva puntato alla conquista per mano militare, questa volta si fece leva sull’unità di fede e sul ricatto dell’accusa di eresia. E nella bolla papale emerse l’espressione «confini d’Italia» a indicare il limite non valicabile dalle dottrine eretiche. Fu allora che l’allarme prese un volto specificamente italiano e la questione della riforma della Chiesa divenne un problema primario per il papato. Fu convocata una commissione di cardinali e di alti prelati che formulò il Consilium de emendanda Ecclesia, cioè la dichiarazione che c’era qualcosa da emendare nella Chiesa se si voleva fronteggiare l’onda montante di un moto che travolgeva e cancellava l’impalcatura intera di una Chiesa clericalizzata. E si avviò la ricerca di calibrare in maniera diversa la struttura del collegio cardinalizio. Dopo una stagione in cui nella scelta dei cardinali il nepotismo papale si era variamente intrecciato con una politica di alleanze con gli stati e le famiglie dominanti, emerse una volontà di saldare intorno al papato il consenso della società letteraria italiana. Il nome fra tutti più significativo di quella nuova linea fu l’elezione di Pietro Bembo, il «papa laico» della letteratura italiana.
Con atti di questo genere a Roma si passò dalla difesa della libertà d’Italia alla conquista del consenso dell’élite intellettuale e morale italiana.
A garantire l’unità religiosa degli italiani intorno al papato si scelse una via più spiccia di quella del governo pastorale di vescovi residenti in diocesi. La difesa della ‘fede italiana’ fu affidata allo strumento antico dell’inquisizione fratesca riformulato secondo il modello iberico dell’accentramento sotto un organo centrale dotato di pieni poteri. L’efficacia di quello strumento si manifestò nel Mezzogiorno d’Italia con l’eliminazione manu militari della minoranza valdese sulle montagne e nelle campagne di Calabria e Puglia. Nel mondo cittadino del Centro-Nord la campagna per snidare e colpire il dissenso dottrinale scatenata dal centro romano della Congregazione del Sant’Uffizio trovò il consenso dei poteri statali preoccupati per il contagio che dalla disobbedienza di fede minacciava di trasferirsi sul terreno sociale e politico. Mentre si colpivano gli spiriti inquieti e contestatori delle accademie letterarie e delle botteghe di mercanti e di stampatori, avvenne anche la resa dei conti dei vincitori con i sostenitori dell’altra strategia, quella che aveva puntato a un effettivo rinnovamento culturale e religioso del clero e del suo ruolo nella Chiesa. E a questo servì egregiamente l’affidamento di poteri straordinari alla Congregazione romana dell’Inquisizione: uno dopo l’altro, i vescovi e i cardinali che avevano fatto proprio l’invito al clero a leggere e insegnare le Sacre Scritture furono colpiti da sospetti, processati, emarginati. L’avvio della nuova istituzione recò l’impronta della fanatica intolleranza del suo creatore e dei suoi principali imitatori che mostrarono tutti nel loro stile di pontefici uno stile comune: Gian Pietro Carafa poi papa Paolo IV, il domenicano Michele Ghislieri (Pio V), il francescano Felice Peretti (Sisto V). Mentre venivano ricercati ed eliminati non solo i seguaci delle dottrine riformatrici ma anche la minoranza di alti prelati sospettati di tendenze ireniche, una raffica di provvedimenti polizieschi si abbatteva su tutto ciò che minacciava la purezza della fede e dei costumi. Per eliminare ogni possibilità di contatti pericolosi vennero espulse le comunità ebraiche dalle città dello Stato pontificio oppure se ne ammise la presenza a patto di una rigida chiusura nei ghetti. E anche i monasteri femminili dovettero piegarsi alla norma della clausura, eliminando così – o tentando di eliminare – una zona di contiguità di età diverse e di diversi stati di vita: tradizionale risorsa offerta dalla Chiesa alle famiglie che volevano alleggerirsi del peso di figlie da crescere e da quello delle temute doti matrimoniali, il monastero ospitava accanto alle monache vere e proprie un popolo di educande, di vedove, di ‘converse’; di fatto si trattava spesso di riserve femminili aperte alle violenze e agli amori maschili. A tutte loro fu imposta una scelta simile a quella fatta alla minoranza ebraica: quella tra lo stato laicale del matrimonio e quello religioso della clausura conventuale, ambedue concepiti come recinti invalicabili10. Il presupposto di tale imposizione era che le persone scegliessero irrevocabilmente con piena e matura convinzione lo stato in cui volevano vivere, fosse quello matrimoniale o quello monacale. La realtà dei rapporti di forza e di reciproca convenienza tra la legge della Chiesa e quella delle famiglie doveva disporre altrimenti. La reazione della famiglia, l’istituzione che si sentì minacciata da questa norma come pure dal rigore annunciato in materia di ordinazioni sacerdotali, costrinse le autorità ecclesiastiche a venire a patti: il principio teorico della libera scelta come condizione per la validità della monacazione si piegò così all’ipocrisia e alla violenza delle monacazioni forzate che dilagarono nel corso del Seicento. Nell’«inferno monacale», descritto da suor Arcangela Tarabotti, toccò alle monache anziane ‘rapir l’anima’ delle bambine loro affidate e piegarle a una prematura scelta per lo stato religioso11. Davanti a questa come alle altre ingiustizie della società, la pedagogia ufficiale della Chiesa si dedicò a convincere le vittime che l’unica scelta possibile era quella di accettare la condizione imposta per trasformare così le sofferenze in meriti davanti a Dio. Lo stesso suggerimento fu dato ai membri delle classi popolari che trovavano ingiusto l’assetto della società per l’enorme differenza tra le loro condizioni miserabili e lo stile vita delle classi dominanti: per «acquetare i lamenti de’poveri», come suggerì il cardinale Gabriele Paleotti, bisognava invitarli a riferire tutto alla imperscrutabile provvidenza divina e alla volontà di quel Dio che mandava dal cielo la pioggia e il bel tempo12. Questo investimento in una pedagogia di lunga durata si avvalse di libri, di prediche, di sviluppi dettagliati di una modellistica sociale degli stati di vita13. Ma soprattutto prezioso fu il ricorso alla direzione delle coscienze attraverso la confessione: uno strumento che doveva rivelarsi un alleato prezioso della sorveglianza e della durezza inquisitoriale.
Oltre a quella inquisitoriale doveva rivelarsi fondamentale l’altra strada, quella dell’unità costruita per via di diligenza di governo pastorale. Se il potere dell’inquisitore era temuto e faceva tremare anche i potenti, diverso ma non trascurabile era quello del vescovo. Davanti alle resistenze e all’ostilità dei poteri locali, l’argine che poteva offrire la sua autorità era fragile, anche in ragione diretta dell’omogeneità sociale e della fedeltà politica che legava la sua figura all’ambito dove era chiamato a esercitare il suo ministero. Ma su quella del vescovo si levava ormai sempre più l’autorità papale: i suoi poteri e doveri erano stati definiti in maniera da non porre limiti alla possibilità di avvalersi di lui da parte del papa. Perciò era stato battuto il tentativo di una parte dell’assemblea tridentina di legare il vescovo al governo della diocesi con l’affermazione della residenza come norma di diritto divino, da cui nemmeno il papato potesse esentare. Ma anche qui emerse il tratto caratteristico dell’avanzata dell’unità di religione in Italia: l’accentramento del sistema intorno al papa. Al posto del riconoscimento della superiore dignità e autorità del vescovo come tale prese posto la concessione di un’autorità speciale come delegato della Sede apostolica14. Era uno scambio decisivo: attraeva il vescovo nella sfera del papato e condizionava la sua opera al mandato romano.
Un altro scambio riguardò il modello culturale e religioso del ‘pastore’ impegnato nella formazione religiosa del suo popolo: alle nozioni elementari di cultura religiosa attinte dalle Sacre Scritture e proposte nei catechismi degli anni Trenta si sostituì il Catechismo romano detto «del Concilio di Trento», con le sue puntuali precisazioni dottrinali contro le dottrine della Riforma protestante. Ecco cosa si legge in un avvertimento a un parroco del tardo Cinquecento:
«Procuri di haver un catechismo romano di quei che hanno l’aggiunta del modo di applicare le materie di esso catechismo a gli evangelii correnti; i quali in quel modo doverà tanto più il rettor dichiarare in quanto l’haversi dal S.to Oficio dell’Inquisitione lievati adesso gli Evangelii volgari, non senza giuste ragioni, si deve andar incontro al disgusto che molti n’hanno ricevuto, con questa più sicura esposizione»15.
Questo è uno degli ordini lasciati al curato della parrocchia di Cigognara nella diocesi di Cremona durante la visita fatta dal gesuita Antonio Possevino. Chi li proponeva aveva una grande esperienza dell’arte gesuitica di accomodarsi alle circostanze per fare avanzare la conquista dei popoli alla versione romana del cristianesimo. Possevino era stato chiamato nelle campagne cremonesi dal vescovo Cesare Speciano, impegnato in una ambasceria politica e dunque costretto a mancare a quell’obbligo di visitare i suoi popoli che gli aveva inculcato il suo grande modello, l’arcivescovo di Milano e suo metropolita Carlo Borromeo. Così il disegno tridentino del vescovo come ‘pastore di anime’ presente in mezzo al suo gregge conosceva una piccola variante, quella della sua sostituzione con un membro noto ed esperto della Compagnia di Gesù. Restava la sostanza del ricorso alla visita delle chiese e dei popoli con una minuta e attenta serie di interventi su persone e cose: in apparenza, si riproponeva la stessa strategia che alcuni avevano concepito e avviato nella prima metà del secolo. Per questo c’è chi ha parlato di un movimento generale di riforma interna alla Chiesa dal lento avvio ma dal finale trionfo. In realtà le differenze non mancavano. Il concilio voluto da Carlo V e osteggiato dal papato aveva sancito la frattura religiosa. E i suoi decreti venivano ora adottati e interpretati da congregazioni romane. La sostituzione del catechismo alla Bibbia era una spia del cambiamento di prospettiva e di significato delle cose che si facevano. Emerge invece tra gli atti della visita di Possevino l’attenzione all’amministrazione del sacramento della penitenza: una normativa complessa fatta di attestati formali e di permessi incrociati tra frati e parroci e medici era destinata a regolare l’atto della confessione e a garantire che nessuno si sottraesse all’obbligo suo16. Si conferma anche attraverso questo dettaglio la centralità della confessione nella strategia della riconquista religiosa attuata in Italia. Uno scrittore di cose spirituali, il chierico Tullio Crispoldi da Rieti, aveva dedicato un suo scritto del 1537 alle «ragioni del perdonare» sottolineandone analogie con leggi degli «antichi» e il fondamento nel «publico ben vivere» (forse per suggestione di una lettura di Machiavelli)17. E fu specialmente nella patria di Machiavelli che la rinnovata ‘fede italiana’ promossa dalla Chiesa doveva trovare una risorsa speciale in quelli che Tommaso Campanella doveva definire «li tribunali della coscienza». Fu nell’esercizio del confessare e del perdonare che si incrociarono e spesso si sovrapposero i due volti del cattolicesimo postridentino, quello inquisitoriale e quello pastorale.
Quello documentato nelle carte di Possevino è solo un caso tra moltissimi altri di come a pochi anni dalla chiusura del concilio il progetto concepito negli anni Trenta e successivamente rielaborato dai padri conciliari, mirante a ricondurre la cura d’anime nelle mani di sacerdoti e vescovi, si venisse aggiustando e modificando per adattarsi ai contesti e alle esigenze della riconquista religiosa dell’Italia. Della quale va detto intanto che fu generalmente opera del clero e si svolse senza conflitti armati: e questo è un tratto che differenzia il caso italiano da quelli iberici dei secoli precedenti e dalle coeve guerre di religione in Francia o nei Paesi Bassi per non parlare del grande incendio che doveva devastare di lì a poco l’impero asburgico. È vero che ci furono anche episodiche prese d’armi ai confini estremi della penisola, come quelle che cancellarono i valdesi dalla Calabria e dalle Puglie o come le campagne militari dei sovrani sabaudi nelle valli alpine. Ma in generale si trattò di un’azione pervasiva e persuasiva anche nelle sue forme più violente, svolta da ecclesiastici anche se con la debita assistenza e protezione dei poteri statali. Nella carriera di Possevino quel tipo di conquista è esemplificabile in tutti i suoi aspetti. Apparteneva a un corpo specialmente dedito all’opera di guadagnare all’uniformità di fede romana culture lontane e diverse: aveva fatto esperienza tra i valdesi del Piemonte, associando la forma della missione popolare alle campagne militari guidate dalla croce dell’inquisizione. Abile e spregiudicato negoziatore di grandi affari politico-religiosi – dal disegno di portare Ivan il Terribile in braccio alla Chiesa romana al tentativo di evitare il conflitto dell’Interdetto con la repubblica di Venezia – il gesuita fu uno dei tanti uomini che la Compagnia di Gesù mise a disposizione per l’impresa dell’unificazione religiosa dell’Italia. Come abbiamo visto, lo strumento di cui si servì nella diocesi di Cremona e in altre terre vicine fu la visita pastorale. Ed è a questo tipo di fonte che si deve guardare in modo speciale per ricostruire storia e geografia religiosa dell’Italia postridentina.
Negli atti e nei resoconti delle esplorazioni che di volta in volta presero la forma della visita pastorale o della missione popolare si trova consegnata la storia di quell’impresa.
In ambedue i casi non si partiva certamente da zero. Il giorno in cui potrà essere ripresa e realizzata l’idea di una carta ecclesiastica d’Italia si avrà finalmente un’idea precisa di come il paesaggio italiano alla fine del Quattrocento fosse costellato da chiese e campanili e vi si incontrasse la presenza diffusa di abbazie e cattedrali, pievi e parrocchie, conventi e confraternite laicali. I documenti cartografici vaticani e le rationes decimarum Italiae sono le prime fonti storiche che vengono in mente quando si pensa alle più antiche forme di conoscenza amministrativa centralizzata e di rappresentazioni complessive della realtà geografica dell’Italia medievale. Così da ambedue le prospettive – quella della storia e quella della ricognizione storica e geografica – la considerazione che si affaccia è la stessa: la costruzione dell’unità di fede italiana potè partire da robuste premesse.
Si trattava anche allora di unità nella diversità. Il giudizio tagliente di Machiavelli che la Chiesa fosse colei che teneva «questa provincia divisa» fu contestato da Guicciardini: in Italia, secondo lui, la resistenza a una monarchia unitaria apparteneva a «quello modo di vivere che è più secondo la antiquissima consuetudine ed inclinazione sua [dell’Italia]»18. La questione è stata più volte discussa e ambedue le tesi sostenute dai due grandi testimoni della crisi italiana del Cinquecento hanno trovato i loro sostenitori. Quale che sia la causa, la realtà della disunione e della diversità non è scomparsa mai del tutto e ha avuto le sue conseguenze e i suoi riflessi anche nella ricerca storica e documentaria. Come distinguere, per esempio, ciò che era consueto da ciò che fu nuovo allora nella presenza stessa degli ordinamenti ecclesiastici e della pratica religiosa governata da vescovi e pontefici della Chiesa di Roma? La domanda va rivolta specialmente alle forme del governo, ai tramiti che assicuravano l’unità. Erano di due tipi, l’uno di cura del gregge affidato ai pastori, l’altro di eliminazione della zizzania dai campi di buon frumento: queste immagini, fissate nel linguaggio religioso dalla pastorizia e dalla cultura dei campi della Palestina ebraica ai tempi di Gesù, si applicavano da un lato alla cura del clero rivolta alla salute delle anime con l’amministrazione dei sacramenti e la predicazione, dall’altro alla individuazione e alla eliminazione dell’eresia. I vescovi o i loro vicari si accertavano periodicamente del buon andamento della prima funzione col mezzo delle visite diocesane, dette appunto visite pastorali. Le ispezioni e i controlli vescovili dovevano garantire anche un’azione efficace per la diffusione della dottrina ortodossa e per la lotta contro le eresie: ma di fatto con l’affermazione del potere assoluto del papato la seconda funzione era stata affidata a membri degli ordini religiosi dei Domenicani e dei Francescani, come titolari di poteri delegati dal papa.
Queste erano le forme ordinarie del governo religioso dell’area italiana ben da prima del XVI secolo. Le filze degli atti di visite pastorali e quelle dei processi inquisitoriali sedimentate negli archivi suggeriscono l’idea di una continuità frammezzata da lunghe interruzioni e intense riprese, come di strumenti consueti via via recuperati dai depositi dove erano stati lasciati a lungo dormienti.
Visite pastorali, registri parrocchiali, carte criminali e civili delle curie vescovili, processi inquisitoriali: si deve al persistente carattere localistico degli studi di storia della Chiesa in Italia se manca ancora una soddisfacente inventariazione e regestazione a livello nazionale dei documenti fondamentali lasciati luogo per luogo, parrocchia per parrocchia e diocesi per diocesi, dall’esercizio del governo religioso della popolazione. Lo Stato ha lasciato alla Chiesa e alle sue diramazioni locali la cura di queste fonti e per molto tempo solo gli archivisti ecclesiastici e gli studiosi di storia locale se ne sono occupati. L’assenza di inventari (ma anche spesso di una adeguata tutela della conservazione di tali fonti) impedisce allo storico di avere un’idea dell’incidenza e della continuità degli atti del governo ecclesiastico sull’insieme del territorio italiano. Ma si deve avere almeno mentalmente presente la quantità e la qualità delle forme di presenza che quelle carte documentano. Nessun altro potere istituzionale e nessuna altra forma di comunicazione tra centro e periferia e tra alto e basso culturale sono stati capaci di proporre con altrettanta continuità la loro presenza: una continuità nel tempo che appare evidente a prima vista dall’ordinamento archivistico, laddove sia possibile cogliere a colpo d’occhio le serie dei registri delle visite vescovili e dei libri parrocchiali o quelle dei fascicoli processuali di un tribunale dell’inquisizione o di una curia vescovile.
Fu con quegli strumenti che la Chiesa tridentina prese in carico il popolo italiano: tenendo una registrazione sistematica e aggiornata dei comportamenti dei singoli fedeli parrocchia per parrocchia, curando periodiche ispezioni e valutazioni dell’andamento delle diocesi, raccogliendo voci e testimonianze su pratiche e idee non tollerate. Erano strumenti non nuovi di per sé: si pensi per esempio ai registri battesimali, il più straordinario repertorio storico degli italiani di cui disponiamo, una statistica permanente della popolazione legata alla pratica di fede come sistema civile di riti di passaggio. Si tratta di un tesoro documentario inestimabile se si pensa che è qui presente in potenza una biografia collettiva del popolo italiano nel suo insieme e nei singoli componenti: unici esclusi i membri delle comunità ebraiche tollerate, che però dovettero per proprio conto occuparsi del censimento dei propri membri. Se il concilio di Trento li rese obbligatori, quei registri avevano avuto in alcune parti d’Italia origini locali nel tardo Medioevo e vi avevano conosciuto una pratica relativamente diffusa prima che ne venisse resa obbligatoria e capillare la tenuta da parte dei singoli parroci. Ma nel permanere dello strumento cambiava la sua utilizzazione. A Firenze e a Bologna, le due città che avevano regolamentato nei loro statuti l’introduzione dei registri di battesimo, si era trattato di disporre di dati anagrafici per finalità di ordine civile. Invece nell’Italia postridentina fu l’anima a diventare il soggetto delle registrazioni nel suo percorso dalla nascita alla morte scandito dai sacramenti. Lo scopo fu quello di garantire l’ortodossia pratica dell’intera popolazione individuando chi non si presentava docilmente a ricevere i sacramenti per sé o per i propri figli alle scadenze obbligatorie. In tal modo il vescovo poteva avere il quadro statistico dei comportamenti al momento della visita e riferire poi ogni volta che si presentava a Roma per la rituale visita ad limina Beati Petri per rendere conto di come custodiva il gregge suo.
Abbiamo così evocato due novità che colorarono diversamente l’uso di strumenti già noti. Si trattava intanto di registrazioni scritte e di controlli personali che erano diventati obbligatori e sistematici. Su tutto si posava lo sguardo di autorità centrali alle quali affluiva la rete delle informazioni. Se i dati delle parrocchie venivano sottoposti al vescovo, il vescovo a sua volta doveva presentare la sua relazione a Roma nella periodica visita ad limina: e se qualcuno non battezzava i figli o non si confessava alle scadenze obbligate, l’informazione passava dal vescovo all’inquisitore. E se veniva formato un processo per eresia, esso era sotto l’attenta regia della suprema congregazione romana. L’accentramento del sistema era la novità. Ed era questa la via obbligata per la costruzione dell’unità di fede in un paese che non aveva un potere politico centrale, un sovrano dalla cui religione dipendesse quella dei sudditi come avveniva nel resto d’Europa. Il compito di definire i caratteri della fedeltà politica e religiosa era stato affidato in altre realtà europee a speciali documenti scritti: le confessioni di fede elaborate da teologi e adottate dai sovrani a partire da quella della dieta d’Augusta del 1530. Quella che ebbe vigore in Italia fu chiamata «Professione di fede tridentina» ma fu elaborata a Roma e approvata dal papa: così la definizione della fedeltà si spostò tutta verso un’autorità ecclesiastica centrale. Fu nei suoi confronti che i cristiani si trasformarono in ‘fedeli’.
Tradizione e novità si incontrano anche nella ripresa delle visite pastorali. Era una forma di governo che aveva preceduto anch’essa l’età della Riforma (protestante e tridentina) pur registrando alti e bassi, sospensioni e riprese. Si può dare solo una indicazione sommaria in materia con qualche esempio dei casi più noti. Negli archivi ecclesiastici italiani gli atti verbali delle visite vescovili compiute a partire dall’avvio dell’età della Riforma si presentano molto spesso inserite come continuazione di una serie più antica. Se a Verona quelle avviate nel 1529 da Giberti sono conservate accanto a quelle compiute da Ermolao Barbaro, a Ferrara una nutrita serie di visite quattrocentesche precedette l’opera dei vescovi di età tridentina. A Reggio Emilia i verbali della visita attuata per incarico di Marcello Cervini tennero dietro a quella di poco precedente del vescovo Grossi. A Pisa, a Lucca, a Firenze, a Pistoia troviamo ricche e complesse registrazioni di ispezioni diocesane. E in generale si può dire che il governo episcopale, anche se discontinuo, aveva dovunque lasciato la sua traccia, creando un’abitudine e un bisogno. Nella figura del vescovo il mondo cittadino italiano aveva trovato il suo raccordo con quello del contado in una forma storicamente diversa da quella dei vescovi dei territori tedeschi dell’impero. L’offerta tridentina di una ripresa generalizzata dell’antico strumento giunse anche come risposta alle lamentele degli abitanti per lo stato di abbandono delle chiese, per l’assenteismo o l’impreparazione del clero, per la mancanza del sacramento vescovile della cresima. Documenti di questo genere riempirono le cancellerie dei governi laici e i dossier delle doléances conciliari su queste materie. Erano proteste e denunzie dell’interruzione di una continuità che si chiedeva di ristabilire: presupponevano una idea radicata del corretto governo religioso. Su questo poté innestarsi la proposta del nuovo avvio tridentino che si iscrisse nella ricezione e promulgazione, diocesi per diocesi, dei decreti del concilio e si affidò alle capacità di un corpo ecclesiastico richiamato all’obbligo di governare la popolazione e di tenere sotto controllo ogni espressione di vita sociale. Il tutto sotto il segno della continuità con la tradizione. Ma nella riaffermazione della continuità c’era qualcosa di nuovo: da un lato, la volontà di rendere continuo e capillare l’esercizio della presenza e del governo pastorale del clero sui laici; dall’altro la costruzione di una catena di comando che faceva capo a un centro di controllo costituito da congregazioni centrali, corpi dotati di poteri delegati dall’autorità suprema, quella papale. Ne vedremo alcuni esempi. Ma intanto bisogna gettare uno sguardo sul panorama di quell’Italia sulla quale si dispiegò la nuova presenza della Chiesa.
Alla tradizione obbedì la forma del governo pastorale su luoghi e persone. Che però, intanto, fu capillare e sistematico come non era mai stato. L’ingente documentazione degli atti di visita delle diocesi e dei registri parrocchiali, sommata alle carte dei tribunali ecclesiastici – quello dell’inquisizione contro l’eretica pravità e quelli vescovili – raccoglie un deposito di conoscenze sulla popolazione italiana che non ha l’uguale negli archivi dei poteri statali. Gli uomini del clero secolare e quelli dei conventi garantirono una continua attenzione a comportamenti e convinzioni di una popolazione di cui intanto registravano i percorsi di vita. La distribuzione sul territorio italiano delle due famiglie del clero fu disuguale, continuando in questo una tradizione già affermatasi da tempo19. Lontano dai centri urbani, e specialmente nelle campagne e sulle montagne dell’Italia meridionale e delle isole, dove vescovi e parroci erano tradizionalmente carenti nella presenza e nell’impegno, toccò ai frati e alle nuove congregazioni di chierici regolari assicurare la cura pastorale e la presenza capillare necessaria. La loro supplenza nel governo delle anime – predicazione, confessione, pratiche di carità ma anche sorveglianza antiereticale – era diventata un dato di primaria importanza soprattutto nell’Italia del Mezzogiorno. Qui anche la scelta dei vescovi avveniva soprattutto all’interno degli ordini religiosi. La loro opera continuò a rappresentare una alternativa e spesso un valido sostituto rispetto a quel modello del parroco come ‘buon pastore’ che era stato disegnato dal concilio tridentino. Anche nell’Italia centro-settentrionale i decreti tridentini non poterono modificare che in parte la realtà di un episcopato italiano cui si richiedevano spesso impegni e missioni di tipo politico-diplomatico. Come abbiamo visto, quando il gesuita Possevino fu mandato a visitare le campagne cremonesi e mantovane lo fece in sostituzione di un vescovo che era impegnato in una nunziatura. Il suo caso riassume una situazione che si presentò ripetutamente e aiuta a comprendere quali spazi si aprissero all’opera della Compagnia di Gesù, un corpo sacerdotale selezionato e ben preparato, votato alla missione intesa come disponibilità a recarsi dovunque lo richiedesse il papato. In quell’occasione Possevino, pur sollecitando la presenza del vescovo almeno per amministrare il sacramento della cresima, affrontò vigorosamente il compito affidatogli. Le sue annotazioni danno un’immagine viva degli incontri e delle materie che venivano trattate, registrano le forme rituali, i contatti personali e gli interventi normativi: si andava dalle solenni cerimonie sacre e dall’annuncio di indulgenze speciali alle forme di interrogazione e di esame dei singoli membri del clero secolare fino alla distribuzione di catechismi per le scuole della dottrina cristiana e agli ordini da far osservare alle diverse categorie sociali: per esempio l’invito agli osti e agli albergatori a mettere nelle stanze dei clienti immagini del crocifisso e della Madonna e l’ordine di provvedere a cancellare periodicamente le scritte oscene dalle mura. Accanto agli atti di visita ci sono le lettere ai superiori e al vescovo che documentano pensieri, impressioni e preoccupazioni del visitatore e mostrano quanto serio e intenso fosse il suo impegno nell’affrontare questioni molto concrete – rifacimenti di edifici di culto, controllo dello stato patrimoniale – mentre doveva fare i conti con un mondo di privilegi e di corpi autonomi che rivendicavano l’esenzione dall’autorità vescovile. Antico lo strumento, ma sempre nuova la realtà umana e culturale che si trovava davanti e che doveva addomesticare ai fini della religione e del corpo ecclesiastico che la rappresentava e ne rivendicava il governo. Alle generazioni che si succedevano come le onde del mare l’orizzonte del cielo ecclesiastico si offriva come una permanenza senza tempo, sempre uguale a se stesso. Ma gli uomini e i tempi erano diversi. Quanto lo fossero ce lo dice l’apparire tra le carte della visita di una lettera firmata da un nome celebre: Baldassar Castiglione. Ma non era l’autore del Cortegiano: il suo nome, un tempo celebre in tutta Europa, era ormai quello dell’autore di un’opera finita all’Indice, frutto di una moralità e di una cultura guardate con sospetto. Quel nome adesso lo portava un suo erede fattosi ecclesiastico e titolare di una chiesa nella sede del feudo di famiglia a Marcaria che non voleva assoggettata al controllo del visitatore20. I nomi più illustri della prima metà del secolo erano allora portati da eredi del tutto diversi che riassumevano emblematicamente il mutamento del paese: a Firenze c’era un Niccolò Machiavelli che faceva il canonico; a Siena c’era un Mariano Sozzini che si dedicava a convertire al cattolicesimo i turisti stranieri. In quell’Italia mutata da sé, il rituale antico della visita vescovile incontrava ora una società fin troppo accogliente, dove non c’erano ribelli e se c’erano non si vedevano; ora al posto dell’anticlericalismo un tempo consueto c’era una gran voglia di entrare nel corpo ecclesiastico e di goderne i privilegi. Qualche resistenza nasceva dai più potenti e altolocati membri dell’élite sociale che cercavano di sfuggire ai rigori della disciplina tridentina e vedevano di mal occhio l’incanalarsi delle pratiche sessuali e della libertà del maschio nel matrimonio sacramentale. La popolazione minuta cercava invece protezione e speranza di una vita migliore nell’offerta della religione. Un’offerta che nel linguaggio delle prediche e nell’iconografia delle chiese invitava a vedersi come anime da redimere col battesimo e da accompagnare nei passaggi della vita terrena verso il mondo dell’aldilà. Gli uomini di Chiesa erano quelli che si occupavano di registrare le nascite, i matrimoni e le morti collegando quei passaggi della vita a sacramenti e consolazioni religiose.
Naturalmente il modello ideale dell’ecclesiastico come maestro e guida del suo popolo che aveva animato speranze e modelli di riforma dovette fare i conti con la realtà. E la realtà degli uomini mal si piegava al disegno ideale elaborato a Trento. La dura riaffermazione del celibato ecclesiastico doveva produrre esiti difformi dalle intenzioni. L’ideale dell’astinenza come virtù per obbligo di legge si scontrò con la realtà di un clero dedito a rapporti sessuali che per essere illegittimi divennero tanto più violenti e causa di comportamenti decisamente criminali. Per non prestare argomenti ai nemici della Riforma protestante, le procedure di controllo si nascosero nel segreto dei tribunali ecclesiastici diffondendo invece un’immagine edificante a ogni costo del buon parroco. Non fu un caso solo italiano: anche se mancò in Italia l’ironia di un Cervantes nel far emergere dietro l’immagine della propaganda la realtà del clero21.
Non c’era solo da tener presente lo sguardo ostile dei nemici di fede. Davanti alla Chiesa si parava l’autorità dello Stato, quella forma di potere che aveva portato fuori d’Italia alla formazione di chiese nazionali o alla formula luterana del principe come responsabile della religione del popolo. Se la dottrina del sacerdozio universale dei credenti si era concretizzata nella cancellazione del diritto canonico nei paesi della Riforma, anche negli Stati cattolici la pretesa papale di imporre l’adozione del modello tridentino non trovò dovunque vita facile. Dalla monarchia francese giunse a Roma un secco diniego alla proposta di accogliere e dare forza di legge ai decreti tridentini, con l’argomento che se il clero aveva bisogno di riforma era per colpa di Roma. Diverso il caso dei poteri vigenti negli Stati italiani, che accettarono di ratificare i decreti conciliari. Ma non mancarono tensioni e conflitti tra Chiesa e Stato che dovevano estendersi e approfondirsi nel secolo successivo: l’ambito delle materie ecclesiastiche che la Chiesa rivendicava come di sua esclusiva spettanza comprendeva settori delicati e importanti della società e del potere, come la nomina dei vescovi e la concessione dei benefici ecclesiastici, i privilegi di foro del clero, il governo dei monasteri femminili, quello degli ospedali e così via. Attraverso l’ordinazione sacerdotale si apriva una via all’ascesa sociale che rompeva almeno in parte il controllo sulla società da parte dei patriziati e della nobiltà. La normativa tridentina sul matrimonio e l’affermazione di criteri più rigorosi sulle monacazioni e sulla clausura dei conventi femminili mettevano a rischio ambiti di potere delle famiglie.
Era la società italiana che, sottoposta al potere di classi dominanti dalle ambizioni nobiliari nel contesto di una generalizzata ripresa feudale e impoverita dalla crisi generale del Seicento, si volgeva alla Chiesa, ne sfruttava i privilegi, si inseriva nelle sue reti finanziarie e di potere o coglieva le occasioni offerte dal raggio mondiale dell’azione dei suoi ordini missionari e delle sue congregazioni centrali. A livello degli Stati si svolgeva intanto la dinamica di rapporti che andarono dalla normativa giurisdizionale alla ridefinizione dei confini dopo gli sconvolgimenti della prima metà del secolo e i successivi aggiustamenti. L’adeguamento dei confini tra le due amministrazioni, quella civile e quella religiosa, fu un processo che si svolse nel tempo lungo e riguardò non solo la configurazione generale dell’assetto statale ma si spinse fino alle circoscrizioni minori che legavano un contado a una città. Solo eccezionalmente la creazione di città nuove non avvenne contemporaneamente alla creazione di sedi episcopali: è questo il caso di Livorno che dopo la solenne promozione a città dovette attendere a lungo per avere un proprio vescovo. Il sistema delle relazioni, pur diverse da caso a caso, si fondò sul principio della reciproca convenienza e solidarietà di Chiesa e sovrano nel garantire la fedeltà dei sudditi. L’offerta dei servigi della religione, formulata sul piano generale da Giovanni Botero, trovò un’accoglienza straordinaria da parte dei poteri politici. Avere nuovi vescovadi, suggeriva il vescovo di Fossano al duca Carlo Emanuele di Savoia nel 1622, serviva non solo a far coincidere i confini delle province con quelli delle diocesi, ma a far crescere il prestigio del sovrano grazie all’aumento dei luoghi promossi a città dalla presenza di un vescovo22. Se le altre corti europee tenevano in gran considerazione i rapporti con Roma, i principi italiani erano spinti a mirare ai favori papali per ottenere consacrazioni e segni di favore tali da consolidarne la posizione nel contesto della penisola: l’esempio di Cosimo I de’ Medici, promosso granduca dal papa, fu ben presente nelle strategie ecclesiastiche degli altri concorrenti. Avere un cardinale era l’ambizione maggiore, farlo diventare papa un successo inaudito; e per realizzare queste ambizioni si fecero investimenti sostanziosi a Roma e nell’ambito degli Stati per portare al successo popolare e al riconoscimento canonico santità e devozioni specifiche, come poté essere quella dei Savoia alla sindone23.
Anche nei confronti del popolo avere un vescovo suddito del principe era fondamentale per tenere sotto controllo i potenti capitoli delle chiese-cattedrali, espressione dei patriziati e della nobiltà locale e come tali ostili alle ordinazioni ecclesiastiche con le quali i vescovi attivavano l’unico processo di promozione sociale della società d’antico regime: le proteste contro le ordinazioni di «ignoranti, inhabili e superflui» dei canonici di Asti nel Settecento sono un esempio di questa lunga vicenda24. La rete di interessi e di legami clientelari avvolgeva laici e chierici e trovava la sua massima espressione al vertice stesso della Chiesa. La ricerca dello storico Wolfgang Reinhard ha ricostruito con una analisi dettagliata il sistema dei vincoli di clientela e di scambio di protezioni e di favori che da tutta Italia facevano capo a papa Paolo V Borghese25. Il condominio tra la Chiesa e gli Stati si venne definendo in rapporto a numerose esigenze: si trattava di garantire la fedeltà politica e le caratteristiche sociali del corpo ecclesiastico locale in modo gradito ai poteri e alle gerarchie locali. Ma si trattava anche di tutelare l’esercizio del potere centrale romano sul clero e i privilegi del clero, in modo speciale quelli di foro. Era questo il punto capitale sul quale la Chiesa tridentina aveva scelto di battere una strada opposta rispetto a quella della Riforma. Il risultato fu che il clero delinquente poté contare su di una tutela speciale: e il disegno di un nuovo modello di ecclesiastico ben preparato e moralmente esemplare fu la copertura ideale che legittimò e nascose le infrazioni. Il che garantì una permanente e sotterranea conflittualità che solo in pochi casi esplose in modo grave. La resistenza degli Stati italiani avvenne caso per caso e non toccò in genere il principio del privilegio di foro. Solo con l’interdetto lanciato da papa Paolo V contro la repubblica di Venezia esplose un conflitto che nacque dalla volontà della repubblica di affermare la giurisdizione dei suoi tribunali sul clero colpevole di reati comuni. Una zona speciale di frizione riguardò la materia dei monasteri femminili: qui la consorteria nobiliare che governava lo stato era decisa a evitare il disonore minacciato sulle loro famiglie dalle ispezioni ecclesiastiche su «l’inferno monacale». Nel momento più aspro dei conflitti intorno alla visita apostolica il doge di Venezia aveva minacciato di tornare al rito greco26. Era un richiamo alla concezione dello Stato di origine bizantina, ostile alle pretese romane di una autonomia del potere spirituale. Ma i vincoli che univano le classi dominanti alla struttura romana e alla rete del corpo ecclesiastico erano troppo importanti perché si producessero crisi profonde.
Alle resistenze di realtà indocili e alle ambizioni dei poteri politici il corpo ecclesiastico rispondeva presentandosi come un ordine compattato da privilegi speciali e retto da un diritto suo proprio insediato nelle cellule delle parrocchie e dei conventi.
Se al vertice del clero secolare c’era il vescovo, la presenza degli ordini religiosi era quella di corpi che avevano una consistenza non territoriale, di entità ramificate e possenti, dipendenti in ultima istanza proprio dal pontefice. Nell’Italia postridentina la funzione dei conventi, nonostante le critiche abbattutesi su di loro (a partire dal celebre detto di Erasmo da Rotterdam: «monachatus non est pietas»), si venne rafforzando allora in una duplice direzione: da un lato la supplenza nelle funzioni pastorali della predicazione e dell’amministrazione dei sacramenti, dall’altro la polizia della fede. I conflitti interni tra gli ordini religiosi non minavano la loro presa su di una popolazione sulla quale esercitavano il potente richiamo della loro sapienza oratoria, dell’esperienza di mondi lontani e misteriosi (le Indie) e degli speciali privilegi loro concessi nell’amministrazione della confessione. Le relazioni delle missioni popolari svolte da Gesuiti, Cappuccini e Francescani accanto alle cronache dell’azione assistenziale e pedagogica dispiegata luogo per luogo dalle congregazioni di chierici regolari sorte nel Cinquecento fanno emergere una specie di topografia sacra delle diverse parti d’Italia. Ma in questa variegata topografia spicca una rete fissa di istituzioni specializzate nel governo della fede: i tribunali dell’inquisizione.
Nella storia del riassetto della sorveglianza inquisitoriale si verifica in massimo grado lo scarto tra prima e dopo la Riforma religiosa del Cinquecento che abbiamo riscontrato nell’insieme delle forme di governo della Chiesa in Italia. La rete disseminata di inquisitori nominati dai superiori degli ordini francescano e domenicano e delegati dal papa fu sostituita da commissari nominati dalla Congregazione del Sant’Uffizio dell’Inquisizione, la prima e la più importante nel nuovo sistema di esercizio dell’autorità centrale del papato come realtà religiosa e politica. E fu il Sant’Uffizio a gestire la direzione dell’opera di controllo e di repressione delle idee e delle pratiche sospette.
Dell’Inquisizione romana e della sua presenza nella realtà italiana abbiamo oggi una conoscenza analitica sufficiente per dire che la rigidezza del modello di un potere universale e rigoroso, superiore per definizione a ogni altro, si adattò alle differenze delle situazioni senza per questo rinunziare al compito di garantire l’unità: la fede italiana fu la sua bandiera27. La veste calata allora sulla penisola fu unitaria anche se piena di strappi, ricuciture e gibbosità: anche allora il lavoro del potere fu come quello del sarto che deve cucire un abito per un gobbo, secondo l’immagine che doveva venire alla mente di Giovanni Giolitti quando spettò al governo laico amministrare le tante differenze italiane. Ed è proprio accostando l’una all’altra le diverse tessere dei governi di vescovi e inquisitori e seguendo la loro opera nel tempo che si può ricostruire la geografia religiosa italiana come prodotto di storia. La rapida diffusione delle reti dell’Inquisizione occupò pochi decenni e non presentò particolari problemi: non solo perché le sedi dei conventi erano già presenti e attive nella sorveglianza antiereticale ma anche perché la dissidenza dottrinale apparve foriera di pericoli alle sospettose oligarchie e ai tirannelli locali che temevano dietro le inquietudini religiose l’avanzata di ribellioni politiche e sociali. La rivalità del modello spagnolo nel viceregno napoletano fu aggirata con una finzione, la resistenza della repubblica lucchese fu solo di facciata. Le speranze dei protestanti italiani e dei principi tedeschi nella repubblica di Venezia durò lo spazio di un mattino: le ragioni di un sistema oligarchico condannato a tutelare l’immobilità del suo assetto di potere con una politica dominata dal segreto e dal sospetto furono determinanti e sconfissero senza difficoltà le utopie di qualche letterato28.
Ma se l’Inquisizione romana fu lo strumento per disegnare e tutelare i confini dell’unità di fede, la politica dell’unificazione dovette passare attraverso la costruzione in positivo di quell’unità dei riti, delle pratiche, dei comportamenti e delle abitudini senza la quale non poteva reggersi la forma del dominio romano – che fu, come è bene ricordare, solo in minima parte direttamente politico e per il quale si parla piuttosto di egemonia. Ed è qui che si incontra ancora una volta l’organizzazione nuova della Chiesa e del potere papale in Italia: le Congregazioni, un governo centralizzato delle reti di governo dei laici attraverso organismi simili a moderni dicasteri statali. Una di queste si occupò espressamente dell’interpretazione dei deliberati del concilio Tridentino. In tal maniera l’affermazione del modello tridentino di vita religiosa fu assunta in proprio dal papato che ne fece uno speciale ed efficace strumento di unificazione rituale, disciplinare e morale dell’Italia, e di affermazione del primato papale fin negli ultimi terminali della struttura ecclesiastica e nelle più remote località del paese. E fra le tante misure che dovremmo elencare una almeno richiede una menzione speciale: la decisione di Gregorio XIII, il bolognese Ugo Boncompagni, di inviare dei ‘visitatori apostolici’, vescovi dotati da lui di pieni poteri, per avviare l’adeguamento delle Chiese locali alle norme tridentine. Il censimento di gran parte dell’Italia ecclesiastica fu depositato negli atti delle visite che si svolsero nell’arco di un decennio a partire dal 1573 e che si conservano oggi nell’Archivio Segreto Vaticano tra le carte della Congregazione del concilio ma furono depositate allora anche localmente nelle diverse sedi diocesane che furono interessate dall’ispezione. Si cominciò con l’invio nel 1573 di «sette distintissimi vescovi» per la visita delle diocesi dello Stato pontificio29. Particolarmente accurata fu la visita di Bologna e delle sue dipendenze da parte di Ascanio Marchesini: papa Boncompagni aveva conservato forti legami con la sua città e la «visita Marchesina» meriterebbe anche per questo uno studio accurato ora che, grazie alla trascrizione fattane decenni fa in appendice a numerose tesi, sarebbe possibile e facile farne un’edizione30. In quello stesso anno monsignor Gian Francesco Sormani svolse una importante e complessa visita a Ragusa31. In seguito, a quanto pare per ispirazione di Carlo Borromeo, una pattuglia di visitatori nominati con un breve dell’aprile 1575 affrontò lo stesso compito per Milano, Venezia, il granducato di Toscana, la repubblica di Lucca. Oltre allo stesso Carlo Borromeo, ne facevano parte Niccolò Sfondrati, Giovanni Battista Castelli, Francesco Bossi, Alfonso Binarini, Girolamo Ragazzoni, Antimo Marchesani, Agostino Valier per il Veneto, l’Istria e la Dalmazia; e per la Terraferma orientale veneta (Treviso, Belluno, Feltre, con in più Concordia e Aquileia) un incarico identico toccò nel 1584 al vescovo di Parenzo Cesare de Nores. Di questa impresa, per quanto possa sembrare strano, non abbiamo uno studio adeguato alla sua importanza. Per opera di uomini dotati di cultura giuridica e di poteri straordinari il papato dette allora non solo un’accelerazione all’attuazione dei decreti tridentini di riforma nella realtà italiana ma soprattutto fece avvertire la sua presenza al vertice di una struttura ecclesiastica che si presentava così come un corpo compatto e autorevole capace di far avvertire tutto il suo peso dietro ciascuno dei suoi membri fino all’ultimo parroco32.
Negli atti notarili del lavoro dei visitatori troviamo la fotografia dello stato delle istituzioni e degli edifici, il censimento del clero e l’esame della sua preparazione, l’accertamento delle rendite dei benefici, la verifica dei poteri di elezione e nomina del clero in cura d’anime, ma anche la verifica dei comportamenti dei laici intesi ormai come ‘fedeli’, cioè esecutori obbedienti degli ordini e delle indicazioni della Chiesa. I registri dei visitatori possono essere assunti come una descrizione luogo per luogo della geografia ecclesiastica italiana nel momento della uniformazione del paese al modello tridentino-papale. Realizzare questo disegno non fu facile. Si trattava non tanto di un esercizio pastorale dedicato alla salute delle anime quanto di un ben più impegnativo compito di verifica dei poteri e dei privilegi. Il confronto e la verifica avvenivano a ogni livello: a quello delle spicciole realtà locali, dove bisognava tracciare i confini tra le pertinenze ecclesiastiche e quelle soggette a laici, ma anche al più sostanziale livello del rapporto coi titolari del potere politico. Un punto essenziale di questa revisione dei confini tra i due ordini della società riguardava proprio l’imposizione di nuove e precise regole per la scelta del prete: il conferimento dei benefici con cura d’anime era da tempo uscito in gran parte dalla disponibilità del vescovo e dai diritti delle comunità e le lagnanze per l’assenza o la inadeguatezza dei preti locali nascevano proprio da qui. C’erano luoghi dove non si poteva più «haver messa il zorno de Natale», come scriveva il principe di Mantova Ludovico Gonzaga il 17 gennaio 147733. E le cause erano riconducibili alla trasformazione del beneficio curato in privilegio personale ottenuto per via di potenti famiglie locali o di traffici con la Dataria romana o semplicemente per trasmissione ereditaria (con la resignatio in favorem da parte del titolare). L’affermazione del controllo ecclesiastico su questa materia ebbe tra le sue conseguenze quella di cancellare ovunque possibile i diritti delle comunità nell’elezione del parroco. La divisione tra area del clero e area laica non si fermò qui. Ospedali, confraternite, conventi, cappelle, oratori, campanili, diritti di patronato, tutto fu passato al setaccio per rinnovare diritti antichi e reclamarne di nuovi. La Chiesa tridentina si affermava come corpo ecclesiastico dotato di un proprio e superiore diritto e si confrontava con le ambizioni e le pretese dei poteri locali sfrondando abusi e ridisegnando privilegi. Toccò a Carlo Borromeo, come visitatore apostolico e come arcivescovo metropolita di Milano, offrire non solo il suo stimolo all’iniziativa delle visite apostoliche ma anche un modello celebre e destinato a larga influenza della nuova coscienza di sé della gerarchia ecclesiastica: nei riti della liturgia come nella organizzazione degli spazi sacri e nella strategia dei rapporti col potere politico e con le confraternite laicali la sua proposta fu quella di una affermazione dura e imperiosa della superiore dignità e della funzione di governo del clero. Ai laici si lasciava solo una funzione di servizio obbediente nelle attività della parrocchia e della diocesi, dalle scuole di dottrina cristiana alle compagnie del SS. Sacramento. L’interpretazione e l’applicazione di quel modello suscitarono diffidenze e reazioni ostili: ma non c’è dubbio che ne rimase un segno profondo34. Su di un piano più generale, questo riassetto postridentino delle istituzioni ecclesiastiche definì la figura del sacerdote in termini che dovevano lasciare una traccia profonda nella società dell’età moderna differenziando stabilmente chierici e laici. La dignità della persona sacra doveva essere espressa dall’abito e dallo stile di vita: gli era vietato l’esercizio di mestieri umili ma anche di professioni e arti liberali. Intorno al sacerdote si levò la protezione di norme severissime. La ‘libertà della Chiesa’ si tradusse nelle scomuniche fulminate in base alla bolla In Coena Domini contro chi attentava ai privilegi e ai beni del clero: di fatto, è stato osservato, quella bolla «perse, col passare del tempo, sia il tacito significato di protesta morale contro la tirannide, sia l’esplicita funzione di strumento efficace contro il cesaro-papismo, e si ridusse ad assumere la difesa dei piccoli interessi clericali contro i diritti o le pretese dell’autorità civile»35. Ma l’offerta di una speciale protezione e di uno stato sociale privilegiato attirò uomini e risorse e fu all’origine di una penetrazione in profondità nelle cellule della società degli Stati italiani. Dai più diversi ambienti si protesero verso la robusta pianta della Chiesa i tralci di innumerevoli ambizioni e arrampicate sociali. Mentre la crescita percentuale della componente clericale rispetto a quella laica nelle città italiane non conosceva soste, l’ombrello della manomorta e le speculazioni finanziarie spingevano le classi proprietarie e chiunque avesse una qualche carta da giocare a saldare gli interessi privati a quelli della Chiesa, alla quale affluivano intanto gli infiniti rivoli dei lasciti per le anime del purgatorio e per altre cause pie. Nel disegno complessivo comune, si delinearono profonde differenze tra un’area e l’altra. Così, se la revisione e il riassetto della proprietà ecclesiastica dopo una lunga epoca di declino furono un fenomeno generale, altra fu la vicenda delle grandi proprietà dell’area padana e altra quella delle campagne meridionali. Qui, in certe aree come quella lucana è stato descritto il processo che portò il latifondo ecclesiastico a sostituirsi a quello privato, con il declino dell’arativo sostituito dal pascolo e con un arretramento complessivo della produzione36.
Nel corso delle visite apostoliche non mancarono episodi di frizioni e di conflitti, non solo coi poteri politici ma anche all’interno della struttura ecclesiastica. Ma intanto si affermava in via di diritto il potere papale di far ispezionare luoghi, istituzioni e persone da uomini di sua fiducia. Che cosa questo volesse dire lo mostra la lettura delle relazioni. Gli uomini inviati da Roma distribuirono l’imponente compito a loro affidato a un piccolo plotone di vescovi che sulla base dei poteri delegati indicati nella bolla di nomina poterono farsi aprire porte e archivi anche dei moltissimi luoghi che si fregiavano del privilegio dell’esenzione dall’autorità ordinaria del vescovo: capitoli canonicali e loro dipendenze, conventi, oratori laici e confraternite, ospedali. Raccolsero un’imponente massa di informazioni nei loro registri di verbali e atti di visita. Un confronto con le rationes decimarum, la fonte medievale che aveva offerto alla sede romana una conoscenza delle sue pertinenze e dei suoi diritti di tipo fiscale in Italia, fa risaltare la modernità dell’impianto delle visite cinquecentesche. Com’è noto, l’istituto della visita come strumento di conoscenza e la figura del commissario come titolare di poteri delegati dal centro furono fondamentali nel processo di fondazione dello Stato moderno. Con quelle realizzate dalla Roma papale in Italia siamo davanti a un modello di grande respiro. Alla grande visita apostolica dedicata al clero secolare si aggiunse pochi decenni dopo una iniziativa analoga che ebbe per oggetto la consistenza e l’assetto di conventi e monasteri. Ne fu promotore papa Innocenzo X che nel 1649 creò la Sacra Congregazione sullo stato dei regolari e promosse una inchiesta generale sullo stato dei conventi in Italia. Il clero regolare era lo storico alleato del papato, quello a cui un papa francescano – Sisto IV – aveva concesso di esercitare la cura d’anime e di riscuotere decime in regime di esenzione dall’autorità ecclesiastica ordinaria: la bolla Regimini universalis ecclesiae del 1474 aveva elencato tanti di quei privilegi da essere proverbialmente definita ‘Mare magnum’. La tempesta riformatrice che aveva investito nel Cinquecento il mondo dei conventi non aveva scosso che in misura assai ridotta quei privilegi: né i poteri civili potevano fare molto davanti a una popolazione fratesca per sua natura mobile e incontrollabile. Di fatto, mentre le istituzioni previste dal concilio di Trento per migliorare e rendere più efficace l’opera del clero secolare tardavano a prendere piede, erano stati gli ordini religiosi a espandersi. La visita apostolica si rese dunque necessaria per verificare la situazione che si era creata e mettere in atto misure di contenimento e di controllo che si concretarono nella soppressione dei ‘conventini’, cioè delle sedi al di sotto di un limite minimo di consistenza. Ne emersero dati interessanti per cogliere la permanenza di un dato tradizionale, quello della maggiore diffusione della presenza fratesca nell’Italia meridionale: con una valutazione approssimativamente geografica, si può dire che nell’Italia del nord c’era il 29,3% dei conventi e il 32,3% dei religiosi, al centro il 22,2% dei conventi e il 23,7% dei religiosi, mentre al sud si collocava il 48,3% dei conventi e il 43,9% di frati e monaci37. A questa ramificata presenza dei conventi faceva capo la popolazione: «Monaci e frati [ha scritto Claudio Donati] adunavano intorno ai loro confessionali larghe schiere di penitenti; monopolizzavano la funzione di predicatori quaresimali […], svolgevano compiti socialmente utili come l’insegnamento e l’assistenza [...]. Godevano di una vasta e consolidata popolarità che si manifestava tangibilmente nelle donazioni che ricchi e meno ricchi, cittadini e contadini, nobili e mercanti, facevano ai conventi»38. E le verifiche fatte su situazioni locali hanno confermato questo giudizio39. Sta di fatto, comunque, che in ambedue i casi ricordati, la visita apostolica fu lo strumento di governo usato da Roma per rendere operante l’autorità papale sul corpo ecclesiastico: e non su quello della Chiesa universale ma specificamente su quello italiano.
Né poteva mancare un coordinamento centrale dell’altra e fondamentale forma di presenza del governo religioso che fu la vera novità dell’epoca, destinata a rimanere esemplare della funzione di animazione spirituale e di periodico risveglio devoto delle popolazioni – una funzione che la semplice presenza di una chiesa parrocchiale e di un curato non riusciva a espletare: la missione popolare. Si trattava di prendere atto della radicale differenza tra la cultura e la religione delle classi popolari italiane e quelle elaborate e proposte dalla Chiesa di Roma: e questo fu reso possibile dall’esperienza maturata dagli ordini religiosi della predicazione del cristianesimo fuori d’Europa. Fu la Compagnia di Gesù a proporre per prima e a sviluppare l’associazione tra le Indie lontane e quelle italiane o spagnole e a elaborare le strategie conseguenti a quella nuova visione della realtà40. L’unità della regia fu garantita dal padre generale della Compagnia e i problemi che emergevano furono dibattuti in seno alle congregazioni generali periodicamente convocate. Lo strumento del contatto e della direzione generale furono le lettere scambiate tra centro e periferia. Ma è nelle relazioni dei missionari che troviamo la fotografia di realtà locali con tutti i loro problemi e il resoconto degli argomenti e dei metodi usati per affrontarli. Altri ordini la seguirono. Per ridurre l’azione autonoma dei Gesuiti su questo terreno entro i vincoli di organismi di governo centrale nacque la Congregazione di propaganda fide per le missioni esterne; all’interno della realtà italiana si svilupparono diverse forme di strutturazione e di governo delle iniziative missionarie in mezzo al popolo, specialmente là dove questa forma di presenza fu più forte e continua, cioè nel Mezzogiorno. A Napoli, la grande capitale meridionale, fu fondata la Congregazione delle apostoliche missioni nel 1646 e quella dei missionari del SS. Redentore, fondata nel 1732 da s. Alfonso de’ Liguori, il grande protagonista di una proposta religiosa destinata a penetrare in profondità nella cultura popolare.41
Gli atti delle relazioni di visite pastorali e di missioni popolari sono una fonte indispensabile per la storia della Chiesa in Italia come storia della costruzione di un corpo ecclesiastico disciplinato e controllato da Roma capace di affermare la sua autonomia e il suo prestigio nella società. Fonte indispensabile ma scarsamente usata, con una tendenziale limitazione degli studi alle Chiese locali. È mancata quasi generalmente – a riprova del vizio d’origine localistico che la storiografia ha ereditato dalla storia – una lettura d’insieme di queste fonti con l’ampiezza di sguardo necessaria: anzi, per essere più precisi, con l’ampiezza dello sguardo di chi concepì allora il piano dell’impresa, che doveva garantire il dominio delle reti ecclesiastiche sulla vita sociale. L’affermazione di quel dominio non fu un atto isolato, ma proseguì nei secoli della prima età moderna sul duplice percorso del governo reale di uomini e cose e della elaborazione delle rappresentazioni.
Il bolognese Ugo Boncompagni, diventato papa Gregorio XIII, pensava all’Italia come a una realtà unitaria. Fu così che se la fece dipingere nella galleria dei palazzi vaticani denominata dalle bellissime e dettagliate carte geografiche delle due Italie, quella «antiqua» e quella «nova». L’impresa fu concepita con l’ampiezza di mezzi e l’investimento di cultura che richiedeva e, se non fu facile da realizzare, lo si dovette alla gelosia di quegli Stati che ne ostacolarono qualche dettaglio dell’esecuzione42. Altri casi di rappresentazioni geografiche nelle sale dei potenti se ne possono trovare in abbondanza: il bisogno di possedere in immagine il territorio soggetto al proprio potere è senza epoca, come quello dell’amante che vuole avere un ritratto dell’amata. Nella cultura del tardo Cinquecento si va dalle mappe di castelli e domini feudali affrescate nelle dimore nobiliari fino alle carte geografiche e ai mappamondi che Filippo II, il sovrano del più grande impero del mondo, faceva collocare allora all’ingresso della grande biblioteca dell’ Escorial. È in questo contesto culturale e storico che si inserisce il desiderio di Gregorio XIII di avere nel suo palazzo una carta dell’Italia nelle due versioni: quella antica dell’Italia soggetta alla Roma imperiale e quella dei suoi tempi, che trovava ancora in Roma una capitale sovralocale. La vicenda delle visite apostoliche e quella della riproduzione della carta d’Italia sulle mura vaticane obbedirono dunque a un solo e identico progetto.
Quel progetto fu realizzato sulla base di una ricognizione topografica e di una perimetrazione dei confini fatta direttamente sui luoghi nei limiti in cui fu consentito. Ma aveva alle spalle una descrizione geografica e storica a stampa che costituì la vera fonte alla quale si ispirarono i geografi e i pittori impegnati nella realizzazione delle carte geografiche: e molto probabilmente quella fu anche la fonte del progetto papale. Era l’opera di un autore bolognese che non poteva sfuggire alla cultura del papa Boncompagni, così legato alla sua città da farsene riprodurre una mappa dettagliata nella sua galleria in modo da poter ripercorrere con l’occhio le strade della memoria. Frate Leandro Alberti, domenicano bolognese, aveva concepito il disegno della sua Descrittione di tutta Italia negli anni Trenta e ne aveva curato personalmente la stampa della prima edizione uscita nel 155043. Così, anche se il nome di Francesco Guicciardini è il primo che viene in mente quando si pensa al primo apparire dell’Italia come soggetto di una storia unitaria, il primo concorrente a giungere al traguardo fu Leandro Alberti. La Storia d’Italia di Francesco Guicciardini, scritta negli ultimi anni di vita dell’autore e lasciata interrotta dalla sua morte, fu pubblicata per la prima volta nel 1561 a Firenze dal Torrentino. Fu un approdo faticoso, preceduto da un’attenta revisione e da qualche censura. Doveva essere letta specialmente fuori d’Italia dove intanto emigrava anche l’opera del suo concittadino Machiavelli. Altra cosa è la Descrittione di Alberti. Della differenza di qualità tra i suoi scritti e quelli dei due grandi fiorentini era consapevole anche fra Leandro Alberti, che espresse nei loro riguardi sentimenti di viva ammirazione del tutto eccezionali sotto la penna di un domenicano, e per di più in anni come quelli.
Quella di Guicciardini fu una storia delle «calamità d’Italia» iniziate nel 1494, proprio mentre l’Italia godeva di una condizione massimamente felice. È celebre la rappresentazione nostalgica di quel tempo con cui l’opera si apre: «Dappoi che lo imperio romano, indebolito principalmente per la mutazione degli antichi costumi, cominciò, già sono più di mille anni, di quella grandezza a declinare, non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità»44. Ma, come mostra questo passo, la storia dell’Italia contemporanea si apriva evocando la lunga e più che millenaria «declinazione» della storia d’Italia. Nel 1531 l’editore Froben aveva pubblicato a Basilea gli Historiarum libri ab inclinatione Romanorum imperii di Flavio Biondo. A Flavio Biondo si rifece allora anche frate Leandro Alberti dell’Ordine dei Predicatori, con la sua Descrittione. Ma di Biondo prese a modello l’Italia illustrata, la prima descrizione della penisola prodotta dalla cultura umanistica. L’opera di Biondo, entrata in circolazione manoscritta nel 1453 e pubblicata a stampa per la prima volta nel 1474, aveva inaugurato la moderna esplorazione geografica e storica del paese. Il tema era quello del confronto tra l’Italia dell’età romana e l’Italia dei suoi tempi per individuare i mutamenti intervenuti dietro l’apparente permanenza di nomi e di vestigia dell’antico, e rispondere così alla questione storica se la decadenza sia stata frenata da una rinascita. La descrizione della realtà del paese che Biondo offriva era maturata in parte da esperienza diretta e, almeno in certi casi – come quello dell’Emilia e Romagna –, da una profonda conoscenza dei dati umani e naturali. Ma intanto la sua Italia si arrestava a quattordici delle diciotto regioni previste (pur sempre ampliando di necessità il numero delle articolazioni regionali rispetto alle undici di età augustea) e lasciava da parte quelle meridionali fermandosi alla Apulia. E comunque l’opera dell’umanista era il prodotto secondario di una ricerca storica: come ha osservato Lucio Gambi, la sua Italia è un’opera che vuole offrire «supporti chiari e stabili, cioè riconoscibili» alla grande opera storica delle Decades; ne consegue che «il suo quadro è poco uniforme» anche «per disparità di materiali documentari»45, poggiando per vaste aree su informazioni libresche e su conoscenze di tipo antiquario. La sua era l’Italia di un umanista che si concentrava sul confronto tra il paese del suo tempo e quello di età romana costruendo l’unità di una espressione geografica sulla storia e sul desiderio che quella storia riaffiorasse: era possibile raggiungere ancora l’antica grandezza? Da qui l’attenzione al numero delle città, alla popolazione, alla forza militare, alla fertilità dei campi e alla fioritura economica. Quello scenario di un’Italia che «non aveva giammai sentito [...] tanta prosperità» fu il punto di partenza del desolato resoconto guicciardiniano. Diverso il caso di Alberti. Il frate bolognese, che forse ebbe modo di conoscere l’opera concepita e avviata da Guicciardini quando già la sua Descrittione di tutta Italia aveva preso forma, era un domenicano di grande erudizione, che aveva fatto i suoi studi umanistici all’università di Bologna ma che aveva scelto la via della predicazione e della sorveglianza inquisitoriale, combattendo streghe ed eretici. Alberti aveva conosciuto personalmente la maggior parte dei luoghi descritti nell’opera sua nel corso di una ispezione alla rete dei conventi domenicani svolta a partire dal 1525 a fianco del generale Francesco Silvestri da Ferrara. Alle fonti di esperienza diretta aggiunse fonti libresche e ricerche d’archivio. Fu dunque un doppio viaggio, tra le cose e tra i libri. Fra le tante fu particolarmente importante per lui la scoperta tra i manoscritti del convento dei Domenicani di Palermo di un’opera fondamentale per i suoi scopi: la Descriptio totius Italiae di un altro domenicano, Pietro Ranzano poi vescovo di Lucera (Palermo 1426/27?-Lucera 1492/93?). Ranzano aveva ripreso il modello umanistico di Flavio Biondo all’interno di una cultura enciclopedica storica e geografica di marca domenicana, alimentata dai dati raccolti in una peragratio personale. Così il progetto di descrivere l’Italia come culla storica dell’impero romano – secondo la proposta di Flavio Biondo – fece spazio a un’attenzione curiosa a tradizioni e credenze e miracoli descritti da Ranzano con la sua autorità di theologus et episcopus46. Se Alberti sapesse di Ranzano prima dell’ispezione dei conventi iniziata nel 1525 non è chiaro. Ma dopo averne incontrato l’opera nell’archivio dei Domenicani di Palermo dovette convincersi che era quello il modello che gli si offriva nel compito di traghettare in volgare quella scienza corografica e storica della cultura umanistica laica e fratesca del Quattrocento. Dall’enciclopedia di Ranzano selezionò l’illustrazione dell’oggetto che allora si era reso sempre più evidente e problematico negli anni delle guerre del primo Cinquecento, quello sul quale si era già concentrato il lavoro di Flavio Biondo: l’Italia. L’opera di Alberti raggiunse una prima forma già intorno al 1537, ma divenne il libro che conosciamo solo nel 1550, dopo una lotta accanita con le difficoltà dell’impresa di stampare tutta quella congerie di pagine fittissime di notizie. La funzione della storia per il domenicano era didascalica e celebrativa, come spiegò nelle sue Historie di Bologna: una storia doveva ammaestrare «il rozzo contadino, l’industrioso artefice, il nobile cittadino, il strenuo soldato, il saggio e prudente capitano, l’alto e famoso principe, e ’l consagrato ad Iddio sacerdote». Il progetto era dunque quello di una storiografia di divulgazione e di intrattenimento, interclassista e pedagogica, dove c’era posto per il favoloso e per la devozione, e dove l’esaltazione delle glorie antiche si mescolava all’omaggio alle autorità vigenti. Era una scelta di livello che distingueva l’Alberti dal suo vicino grande, Guicciardini, dall’ammirato Machiavelli e dal più famoso dei contemporanei, Paolo Giovio.
Se Guicciardini lavorò sui documenti dell’archivio dello stato fiorentino e sulle carte di casa, Alberti esplorò personalmente la penisola e la Sicilia e raccolse documentazione dagli archivi dei conventi domenicani oltre a servirsi della collaborazione di altri membri del suo ordine. Così l’età moderna della storiografia sull’Italia scritta da italiani si apre sotto il segno della gara tra una storiografia tucididea di un autore laico sulla vicenda italiana come narrazione delle vicende politiche e militari contemporanee all’autore e una ricognizione palmo a palmo delle diversità locali – tradizioni, folklore, realtà fisica ecc. – di penna fratesca anzi inquisitoriale. L’Italia di Alberti appare così ai lettori come una risposta a quella di Guicciardini: se qui dominava la fortuna, là era la Provvidenza a governare le cose umane. E se per Guicciardini le guerre d’Italia e il sacco di Roma erano la prova dell’incostanza e dell’infelicità del corso storico, per Alberti l’orizzonte municipale delle cento città e delle minori terre d’Italia si chiudeva nella soddisfatta contemplazione delle memorie e delle celebrità locali. E la ricomposizione di quell’Italia devastata dalle guerre era opera della rete dei conventi, dei vescovi, della presenza della Chiesa in una parola. La straripante quantità di informazioni curiose su luoghi, monumenti, uomini illustri, curiosità e glorie locali saldava l’idea dell’unità storica e religiosa d’Italia con l’offerta di una descrizione curiosa e affettuosa delle sue tante differenze di paesaggi, di prodotti della terra, di varietà della natura e di molteplicità dei casi storici e delle tradizioni, delle devozioni e delle leggende locali.
Era un’offerta vincente sul terreno di una funzione pedagogica e apologetica della storia e della geografia del paese che doveva diventare sempre più evidente nella cultura della Controriforma. L’Italia era stata opposta alla Chiesa nel lapidario giudizio di Machiavelli che doveva gravare come un’ombra (e – solo per alcuni – sventolare come una bandiera) nella storia moderna del paese: «E perché molti sono d’opinione che il bene essere delle città d’Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio contro a essa discorrere quelle ragioni che mi occorrono [...] » (Discorsi, I, 12). Contro di lui la Chiesa di Roma doveva schierare le sue batterie. Toccò all’oratoriano Tommaso Bozio riprendere il tema del confronto tra passato e presente dell’Italia per sostenere proprio quella opinione contestata da Machiavelli che se era stata di molti ora doveva essere di tutti47. E così mentre l’erudizione antiquaria e il robusto senso storico del bolognese Carlo Sigonio si scontravano con la censura ecclesiastica e Cesare Baronio doveva lottare con la propria coscienza di storico per scrivere le pagine sulla Donazione di Costantino48, dilagava l’uso controversistico e apologetico della storia della Chiesa e la geografia veniva trasportata al morale e all’apologetica nelle opere di Giovanni Botero e del gesuita Daniello Bartoli.
Ma la proposta di Alberti trovò immediato riscontro nella fioritura di storie locali che doveva assorbire le energie di una dilagante tradizione erudita e antiquaria. Furono soprattutto storie di chiese e di vescovi, di famiglie nobili e di santi e di devozioni quelle che dovevano illustrare le glorie delle cento città d’Italia sotto il profilo ecclesiastico. L’erudizione devota e patriottica in senso localistico del Seicento e del Settecento accumulò una quantità straordinaria di informazioni, mentre l’Italia che il geografo bolognese Giovanni Antonio Magini raccontava in un’opera imponente era ancora quella dell’Alberti, letteralmente saccheggiato da questo dimenticato rivale accademico di Galileo49.
Ma dopo tutto questo trionfo delle differenze locali ci fu di nuovo un momento di ricomposizione in cui si doveva riaffacciare l’Italia come entità unitaria. In pieno Seicento il modello albertiano trionfò grazie a un disegno capace di unire le città e le campagne sotto l’esponente antico e nuovo dell’autorità episcopale: l’Italia sacra sive de episcopis Italiae del cistercense Ferdinando Ughelli (1643-1662)50. Esplorazione degli archivi locali, conoscenza della realtà naturale e raccolta delle curiosità contribuiscono a disegnare qui una storia dell’Italia come entità unitaria sotto il governo federale del corpo episcopale. All’Italia come provincia romana – della Roma pagana ereditata dalla Roma papale – subentra una «Italia sacra» come ordinata successione nel tempo dei nomi e delle opere dell’unica gerarchia sovrana cittadina che non avesse conosciuto interruzioni nella durata molto spesso più che millenaria delle diocesi. L’importanza dell’opera è stata sottolineata più volte: una menzione speciale ne fece Girolamo Tiraboschi nella sezione della sua Storia della letteratura italiana dedicata alla storia delle Chiese particolari (secondo una divisione in generi e classi di storie) dove si legge un grande elogio dell’Ughelli – «un’opera ha in questo genere l’Italia, che si può considerare come il modello su cui quelle delle altre nazioni si son poscia formate»51. La gara era allora agli occhi di Tiraboschi quella tra l’Italia sacra e la Gallia christiana dei Saint-Marthes che è del 1656; e doveva seguire l’Anglia sacra di Henry Wharton del 1691. Un elogio anche più alto fu dedicato all’Ughelli da Denis Hay nelle sue Birkbeck Lectures sulla Chiesa nell’Italia del Quattrocento52. Per lui, l’opera dell’Ughelli era la «foundation stone» della storia della Chiesa in Italia. E notava il fatto curioso («ironical») che al tempo dell’Ughelli l’Italia in realtà non esisteva. C’era – secondo Hay – una «nazione italica» solo nel limitato significato geografico del termine: e l’opera dell’Ughelli «helped to give life to the idea», contribuì a dare vita a questa idea. E ci riuscì proprio perché concepì e realizzò un progetto che andava al di là delle storie delle Chiese locali che erano cresciute disordinatamente sempre più numerose nel corso dell’età tridentina. La storia dei vescovi come storia della città e delle particolari prerogative dei luoghi era stata affrontata da storici di valore come Sigonio (per Bologna) ed era poi dilagata sede per sede, mentre nei palazzi vescovili i ritratti dei vescovi locali venivano affrescati nelle sale di rappresentanza a documento e memoria dell’ininterrotta successione episcopale53. Ma la novità dell’intuizione che Ughelli trasformò in un’opera monumentale consistette nell’aver pensato che la somma delle cento città si poteva riassumere e trasformare in storia dell’Italia attraverso il censimento delle serie episcopali tutte e la raccolta sistematica di atti e decreti del governo dei presuli. L’Italia appariva qui unita nella fede e nello stesso tempo diversa quanto diverse erano le sedi del governo vescovile e diverso il loro rapporto di obbedienza con Roma: il disegno risultante era quello di una confederazione retta dal sommo pontefice. Ma è pur notevole che ai tempi di Ughelli e per merito di un altro uomo di chiesa, l’idea d’Italia fissata nel Cinquecento dalla tradizione umanistica e dall’opera di Guicciardini dominasse di nuovo una imponente realizzazione: gli Annali d’Italia di Ludovico Antonio Muratori. L’uomo, che grazie alla carriera ecclesiastica era riuscito a vincere il condizionamento delle sue origini sociali e a dare vita a una possente vocazione di storico, vi ricostruiva le vicende politiche di un’Italia nata come nazione dalla Roma imperiale. La sua proposta era quella di una storiografia che doveva occuparsi non degli «avvenimenti della Chiesa di Dio» (per i quali bastavano gli annali inaugurati da Baronio) ma della «sola storia civile» come «quella che domanda e può ricevere aiuto dai giorni nostri». Il che gli permetteva di sbrigarsela con Lutero e col concilio di Trento rinviando ad altri: «Questo è argomento spettante alla storia ecclesiastica, passiamo oltre»54.
La tradizione letteraria dell’idea d’Italia come nazione rivelava così la sua vitalità nel momento in cui le riforme di governi illuminati tendevano a riportare «la repubblica e la chiesa entro i loro limiti». E la cultura delle riforme poteva contare sul contributo di uomini di chiesa che sapevano distinguere tra la loro fede e la politica di dominio temporale dei papi55.
Voltato l’angolo della Rivoluzione francese le esplorazioni della realtà italiana avvennero per iniziativa di poteri laici. Nell’Italia dove l’unità nazionale era ormai all’ordine del giorno cominciarono nuove imprese dedicate alla conoscenza analitica e dettagliata delle realtà sociali e culturali della penisola. Tra queste ricordiamo almeno due casi fra tutti eminenti che si ebbero nel momento apparentemente più solido dell’impero napoleonico e dei progetti di costruzione di un’Italia associata alla Francia: il catasto murattiano del Regno di Napoli e l’indagine sulle pratiche folkloriche nell’Italia napoleonica svolta per conto dell’Académie celtique, ambedue del 181156. Si passava dalle inchieste ecclesiastiche a quelle di poteri laici e culture illuministiche: ma nel passaggio gli operatori intermedi della raccolta delle informazioni furono ancora i membri del clero. Era quel clero che una lunga disciplina aveva abituato a raccogliere tutti i dati anagrafici e a studiare le pratiche di culto e le forme di vita delle popolazioni. Dunque, come dietro il lavoro di ricerca dell’abate Ughelli c’era la collaborazione di storici ed eruditi locali, dietro i censimenti dei governi laici dell’Italia napoleonica c’era la rete capillare della presenza ecclesiastica. E quello che potevano esibire era il raccolto di un lungo lavoro grazie al quale aveva preso volto una forma di vita sociale dominata dai riti e dalle pratiche della devozione. Se nel confronto con la Riforma protestante le autorità della Chiesa avevano mostrato una volontà di mettere sotto controllo la proliferazione di riti e di credenze locali, il paesaggio italiano rivelava ora il trionfo di una coloritissima religione capace di declinare localmente nelle più varie forme le devozioni ufficialmente incoraggiate, come quella della Madonna o quella del Corpus Domini, detta anche «il trionfo dell’eresia». La creatività locale rispondeva alla proposta dei riti sacri con l’invenzione di grandi macchine festive: una «sementa di fiori e di erbe a disegno, e coi pubblici spettacoli di corsa» era il modo che un documento del 1820 citava come l’«immemorabile» modo di festeggiare l’Ottava del Corpus Domini a Genzano57.
Federalismo e accentramento sono le idee che si opposero all’appuntamento dell’unità nazionale. È naturale che l’ipotesi federale (sotto il papa di Roma) apparisse ovvia a membri del mondo ecclesiastico. Ma anche nella cultura laica e anticlericale l’idea federalista apparve realistica. Le cose andarono come andarono. Ma prima delle divisioni, delle scomuniche e dei conflitti postunitari, si deve restaurare il dato primario della naturale egemonia conquistata dalla Chiesa in Italia ai diversi livelli dell’élite sociale e delle popolazioni contadine e artigiane della penisola. Non è certo secondario il fatto che la Descrittione di Alberti e l’Italia Sacra di Ughelli fossero il risultato di viaggi di scoperta condotti per le diverse e concomitanti vie della conoscenza libresca e della ispezione personale dei luoghi. La cifra della differenza e della molteplicità che caratterizza la società italiana come modello opposto rispetto a quello della Francia accentrata trovò nel mondo ecclesiastico chi ne fece la chiave interpretativa del ritratto del paese. Se la partizione romana in province proposta da Flavio Biondo si era offerta come il modello di un ordine antico adatto a mascherare il disordine dei particolarismi moderni e dell’assenza di un’autorità politica unitaria, l’elenco per diocesi proposto da Ughelli pose le infinite varietà locali sotto il segno del rapporto di dipendenza dalla Roma papale. Solo lo sguardo antropologico dell’Académie celtique provò a ordinare le pratiche e le credenze delle popolazioni in una griglia non religiosa ma di costumanze civili. Ma intanto i fenomeni della rivolta contro il vescovo di Pistoia-Prato Scipione de’ Ricci, dei moti delle «insorgenze» padane e del «Viva Maria» nel centro-sud mostravano chiaramente che al localismo e alla frammentazione geografica si era sovrapposta una unità di fede che aveva messo tra le classi popolari radici profonde, mentre le classi dominanti avevano costruito col corpo ecclesiastico una rete di interessi comuni e una alleanza di potere. Le convinzioni della massa della popolazione e gli interessi di conservazione dei ceti privilegiati si paravano ora davanti alle idee e ai progetti di rinnovamento della nuova élite intellettuale e politica maturata con l’Illuminismo che ora prestava tutta la sua attenzione alle vicende della Rivoluzione francese. Lo spettro della Rivoluzione doveva pararsi da allora in poi davanti a ogni proposta di novità in Italia: e se per alcuni fu lo spauracchio evocato a esorcizzare ogni mutamento dell’ordine antico, per altri rappresentò una spinta potente a favorire l’unità e l’indipendenza d’Italia come misura necessaria contro la minaccia rappresentata dalle idee di Voltaire e di Rousseau. Non fu certo per caso se un precoce campione di un indirizzo del genere si incontra in un membro della Compagnia di Gesù: lo svedese Lars Thjulen58. Convertitosi ed entrato nella Compagnia nel 1770 col nome di Ignazio, fu testimone dell’ingresso di Napoleone a Bologna e del modo in cui il cardinale arcivescovo Andrea Gioannetti fu cacciato dalla città. Da allora, nel corso di una lunga attività di libellista e di poeta satirico, non perse occasione per scagliarsi contro l’ombra di Voltaire e contro le correnti giacobine italiane. Ma fu anche – è stato scritto – «sollecito fautore dell’unità e indipendenza dell’Italia, ancorché intese in funzione conservatrice e antifrancese»59. Non fu il solo.
«‘Sentir Messa’ è più comune di ‘udire’, ma è d’uso anche questo». Con questa citazione (dal Dizionario dei sinonimi di Tommaseo) comincia un celebre testo abbozzato da Alessandro Manzoni a partire dal 1835 (ma pubblicato solo nel 1923) e dedicato a sostenere l’importanza dell’uso linguistico rispetto a ogni altro criterio. Citazione casuale? No, evidentemente. L’autore che rifletteva allora sul problema dell’unità linguistica dell’Italia era lo stesso che si impegnava in una impresa apologetica sulla morale cattolica e la storia italiana. All’ordine del giorno c’era la questione della rivoluzione nazionale: non solo per Manzoni. Come è stato scritto, «la nazione italiana dopo il 1815 è già una patria nel senso politico del termine (e non più letterario o retorico o profetico), perché è nella natura di una rivoluzione nazionale che, una volta iniziata, il suo esito finale sia presente e agisca in ogni momento del suo svolgimento»60. Per quella rivoluzione era obbligatorio che si impegnassero i rappresentanti di quei ceti dirigenti sui quali Napoleone aveva costruito l’assetto della repubblica italiana in funzione moderata e antigiacobina. E tra i compiti fondamentali spiccava la costruzione di una nuova lingua. «Una d’arme, di lingua, d’altare» era la nazione in incubazione. O piuttosto doveva esserlo. Ma quelle unità non erano tutte ugualmente esistenti allo stato dei fatti. Mancava l’esercito nazionale, ovviamente: ma mancava anche la lingua. Lo si vide chiaramente quando il Parlamento italiano riunito per la prima seduta a Torino mise insieme persone che parlavano lingue diversissime, tanto che ci fu bisogno di traduttori. Di unitario c’era solo l’altare, cioè la presenza diffusa su tutta la superficie del paese di una struttura ecclesiastica capillare, che si incontrava col popolo quando lo convocava a «sentir messa». Sentire, forse udire: ma senza comprendere. Il sentir messa era un dato emblematico del rapporto tra il popolo e l’altare: la messa era quella in latino del rito di Pio V. Quello che se ne capiva era solo l’elaborazione fantastica intorno a sintagmi incomprensibili: nasceva da lì per esempio la figura di Donna Bisodia, che la cultura d’origine di Antonio Gramsci aveva inventato dal passaggio potenzialmente più forte e commovente per le classi popolari della preghiera del Pater noster, quello del pane quotidiano («panem nostrum quotidianum da nobis hodie»). E dunque il sentir messa era un fatto rituale condiviso quanto incompreso di una religione accettata, subìta ma proprio perché misteriosa e incomprensibile oltre che alleata dei poteri sociali e politici, destinata a coniugarsi con mille altre fedi e credenze. Per dare corpo all’unità progettata e pensata dalle classi dirigenti e dalle minoranze dell’élite, ma del tutto assente nel paese, era necessario coniugare il vincolo unitario del rito incomprensibile all’invenzione di una lingua d’uso da tutti compresa. Da quando la Chiesa di Roma aveva aperto le sue porte ai membri della società letteraria italiana, lingua e altare erano le province di loro spettanza. Fu in quella direzione che si mosse senza incertezze il conte milanese erede di Verri e di Beccaria dopo la sua avventurosa conversione alla versione elitaria del cattolicesimo, il cristianesimo giansenistico dell’abate Degola. Si trattava di procedere a tappe forzate sulla via segnata da Napoleone e di applicare alla futura nazione italiana il modello francese postrivoluzionario dell’unità e del controllo politico e sociale: unità politica, unità linguistica, governo moderato garante dell’ordine sociale della nazione. Le divisioni tra classicisti e romantici non toccavano la sostanza del compito ma solo gli schieramenti di una società letteraria che era l’unica forma di unità culturale del paese e alla quale spettava per tradizione la custodia della lingua. Nella costruzione di quello strumento linguistico nuovo che doveva essere il fondamento dell’unità il problema dibattuto era se si dovesse seguire la precettistica elaborata dalla tradizione purista oppure ricorrere all’uso e offrire a tutti una determinata forma locale dell’italiano. La scelta di Manzoni fu questa seconda, com’è noto. Il senso della proposta si misura nel confronto con la scelta del tutto diversa, anzi opposta che nacque in quegli anni in una periferica area italiana dal genio solitario di Giacomo Leopardi. La Crestomazia della prosa e le Operette morali proposero un modello di lingua che attingeva a piene mani dalla tradizione letteraria non in nome del rispetto puristico dei monumenti del passato ma in nome di un’idea della civiltà moderna diversa da quella esemplificata dalla Francia: alla modernità dell’utile Leopardi contrapponeva una modernità dell’autentico e del bello e si rifaceva per questo agli scrittori dell’epoca in cui gli italiani non si erano ancora «dispensati dal pensare»61. Leopardi aveva idee chiarissime sul ritardo storico del vocabolario intellettuale e politico italiano conseguente all’assenza italiana dalle grandi rivoluzioni della moderna storia europea. Nel confronto che allora era obbligato col francese, la proposta di Leopardi recava una lingua ricca di valori espressivi, misurata su modelli come Torquato Tasso e Galileo Galilei. Da un passato ormai condannato la sua scelta salvava per frammenti la lingua dei sentimenti e delle idee del Cinquecento e del Seicento, non il puristico Trecento dei comuni e della libertà repubblicana oggetto della celebrazione di Simonde de Sismondi. La proposta nacque già sconfitta. Vinse invece Manzoni che col francese di Voltaire e di Montesquieu e con la lettura della storia italiana di Sismondi era entrato in guerra con convinzioni e con mezzi assai diversi da quelli del contino marchigiano.
Le Osservazioni sulla morale cattolica, compito apologetico laborioso assunto dal convertito Manzoni, affrontarono un tema non nuovo. Si trattava ancora una volta di fare i conti con l’accusa di Machiavelli e di stabilire se la presenza del papato e della Chiesa cattolica avesse indebolito la robustezza morale del paese bloccandone e deviandone la potenziale unità. Il nome di Machiavelli era tornato in auge negli anni del giacobinismo italiano. La ricerca di una religione civica e l’utopia di un clero evangelico e di una Chiesa senza potere avevano animato le discussioni dei circoli patriottici e dei progetti costituzionali: e si era tornati a leggere l’autore del Principe e dei Discorsi insieme a fra Paolo Sarpi e a Fausto Sozzini62. Ma il suo nome rimase fuori campo per Manzoni che per formazione culturale e per scelta di priorità apologetica scelse invece l’obbiettivo polemico della traccia storiografica proposta da Sismondi: l’esaltazione della libertà delle piccole repubbliche medievali, modello ideale del localismo delle cento città che la nuova realtà nazionale doveva cancellare. Così attraverso Sismondi il confronto e la polemica poterono prendere di petto il pensiero illuministico di Voltaire, di Rousseau e di Montesquieu legato a doppio filo per Manzoni con l’esito della Rivoluzione del 1789. Esito di violenza popolare, di per sé contrario all’idea manzoniana del giusto; che si dichiarò sempre in guerra con l’opinione «che attribuiva alla volontà del popolo lo stranissimo potere di costituire un diritto»63.
Ma se la volontà del popolo non bastava a costituire un diritto e non lo autorizzava a rivoltarsi contro il potere esistente, quella Rivoluzione di Francia aveva qualcosa di positivo da suggerire ai cattolici italiani: un’idea di nazione e un’idea di Chiesa sotto il comune denominatore della libertà. E fu qui che la costruzione dell’unità d’altare viaggiò per qualche tempo in compagnia dell’idea di libertà come soluzione dei problemi della stessa Chiesa. Era l’unico valore che Manzoni riconosceva alla Rivoluzione francese:
«M’ingannerò [scrisse nelle Osservazioni], ma credo che quando la Religione fu spogliata in Francia dello splendore esterno, quando non ebbe altra forza che quella di Gesù Cristo, potè parlare più alto, e fu più ascoltata; e almeno coloro che sono disposti a pigliare le parti degli oppressi, ebbero contro di essa un pregiudizio di meno»64.
È una delle tante testimonianze di un fenomeno storico ben noto: la diffusione della religione della libertà. In una pagina celebre della sua Storia d’Europa Benedetto Croce parlò della «religione della libertà» come la nuova fede del XIX secolo. Quello che non è stato abbastanza spiegato è che quella religione unì per un tratto chierici e laici, atei e uomini di chiesa o – come si direbbe oggi – laici e cattolici. Se opposizione ci fu, essa passò attraverso schieramenti e divisioni interne a ciascuno dei due fronti: divisioni che per quanto riguarda il mondo cattolico dovevano disegnarsi sempre più nettamente a partire dal 1848 e dalla svolta reazionaria del ‘papato liberale’ di Pio IX. Pochi cenni basteranno per ricordare quanto vasta fosse stata l’ondata di consenso suscitata dai primi atti del pontefice succeduto al cupo e gretto mondo di Gregorio XVI, il papa che ebbe in Giuseppe Gioacchino Belli il suo cantore. La geografia delle esperienze fatte a questo proposito offrirebbe una verifica di un qualche interesse di quel che si muoveva allora nella composita realtà italiana. Ma si può riassumere tutto nella vicenda della missione romana di Antonio Rosmini e della sorte delle sue Cinque piaghe della Santa Chiesa, che dettero voce al «sacro universal grido de’popoli cristiani, quello di libertà». È questa la parola che ritorna con straordinaria insistenza nell’opera dell’abate roveretano. Quel «grido generoso di libertà» Rosmini diceva di averlo ascoltato nella proposta del sacerdote francese di rinunziare allo stipendio statale e lo rilanciava con l’invito alla Chiesa intera a sciogliere il vincolo stretto col potere. La sua proposta era quella «di una religione libera di comunicarsi al cuore de’popoli senza l’intermezzo de’principi e de’governi». La cronaca dell’ascesa e della caduta dell’astro di Antonio Rosmini riassume in sé tutte le contraddizioni di quel momento di instabile equilibrio che vide papa Pio IX diventare per un brevissimo momento l’ideale promotore e presidente di una federazione italiana per diventare subito dopo il più accanito avversario e dell’unità d’Italia e dell’idea liberale65.
La frattura si ripercosse in cerchi sempre più larghi in una cultura che aveva colto spesso con entusiasmo la prospettiva di realizzare in Italia una rivoluzione uguale e contraria rispetto a quella francese: non solo quella rivoluzione legalitaria e moderata che poi Manzoni cercò di descrivere e di difendere nelle stanche argomentazioni del suo Saggio comparativo, ma anche una confusa volontà di vedere rinnovarsi la Chiesa e andare incontro ai bisogni e alle speranze del popolo. Era il desiderio di vedere la fine dell’età tridentina che muoveva uomini di fede cattolica laici ed ecclesiastici a cercare contatti e alleanze con i promotori di moti e di congiure. Su questo sfondo la tragedia dei martiri di Belfiore fu il sigillo della speranza perduta e della delusione che ne seguì: l’alleanza della Roma papale col potere liberticida dell’Austria significò la verifica dell’impossibilità di conciliare la libertà dei popoli con la libertà della Chiesa. Da qui la portata lacerante dell’episodio per le coscienze dei contemporanei66. Mentre una ridotta pattuglia di intellettuali e di uomini politici continuava a professare pubblicamente la propria fede di cattolici e di patrioti, le strade dell’obbedienza al papa e della appartenenza all’Italia unita si divaricavano. Come scrisse mons. Francesco Lanzoni di un antenato canonico che aveva celebrato con un Te Deum l’annessione delle Romagne al Regno sabaudo, don Filippo Lanzoni «fu detto [...] prete liberale; ma liberale, nel senso solito darsi oggi a questa parola, don Filippo non fu mai»67.
Si trattò di una frattura che doveva inaugurare una storia diversa, piena di lacerazioni e aperta ad aggiustamenti e compromessi di vario genere. Ma i legami di fedeltà alla Roma papale avevano messo radici profonde nella società italiana. E questo pose problemi non semplici nelle scelte dei singoli e in quella più generale della guida politica del paese. C’è un caso che mostra quali conflitti si potevano creare nelle coscienze delle persone più semplici: quello di Davide Lazzeretti, il Messia di Arcidosso. L’umile figlio di un barrocciaio, arruolatosi volontario nella cavalleria piemontese nella campagna del 1860, cercò poi e ottenne nel 1868 un incontro con Pio IX sulla cui benedizione fondò le ambizioni di predicatore di un vangelo della ‘nuova alleanza’ che doveva ricondurre la giustizia divina sulla terra. Le contraddizioni delle sue scelte rispecchiavano quelle della convivenza di autorità ecclesiastiche e di poteri del nuovo Stato che si videro dispiegate nella fine della sua avventura: processato e condannato dall’Inquisizione come eretico nel 1878, fu ucciso dai carabinieri chiamati dal vescovo e sostenuti dai notabili locali68.
Ma se era facile eliminare un uomo del popolo che dalla religione ricavava una sua predicazione di giustizia sociale pericolosa per Chiesa e Stato, più difficile si mostrò il caso del vescovo Michele Caputo, fuggito dalla sua sede irpina di Ariano per andare incontro a Garibaldi a Napoli e poi diventato una figura in vista del movimento dei ‘clerico-liberali italiani’, o quello del gesuita Carlo Passaglia, diventato professore di filosofia morale all’università di Torino69.
Alla vigilia dell’Unità, le titubanze delle classi dirigenti moderate furono sbaragliate dallo spettro che si aggirava per l’Europa. Il primo numero della «Civiltà cattolica» si aprì con una presentazione programmatica non firmata ma di Carlo Curci, il fondatore, dove si evocava la minaccia dell’«Idra spaventevole del socialismo»70. E i carteggi dei moderati toscani di quegli anni mostrano che le resistenze davanti al progetto dell’unità politica furono travolte dalla coscienza che solo così si poteva evitare una rivoluzione sociale. La minaccia di un sommovimento capace di sconvolgere il tradizionale dominio di classe valse anche a suggerire l’utilità di ricorrere alla religione come pedagogia capace di tenere il popolo in obbedienza. Maturarono allora le condizioni del rapporto strumentale tra borghesia scettica, razionalista e anticlericale e religione delle classi popolari che doveva farsi strada successivamente nel corso della lunga evoluzione del rapporto tra Stato e Chiesa. L’esplosione del problema meridionale e di quello sociale confermò, agli occhi della classe dei proprietari, l’insostituibilità della religione cattolica e dell’insegnamento religioso come strumento necessario per tenere sotto controllo le masse e frenarne le pulsioni ribellistiche, che le delusioni storiche delle promesse e delle speranze risorgimentali dovevano ingigantire. Si apriva una nuova storia: ma l’Italia liberale nasceva sotto il segno di un patto se non con la Chiesa almeno col lascito di essa, che apparve alla nuova classe dirigente un mezzo indispensabile per garantire la conservazione di antichi rapporti di forza nel paese.
1 L’episodio è riferito in A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 20092, pp. 28-29, un libro a cui queste pagine per molti punti si rifanno.
2 F. Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, 3 voll., Torino 1971: II, p. 111.
3 Ibidem, III, p. 1574.
4 Cfr. P. Prodi, Il Sovrano pontefice. Un corpo e due anime, la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 1982.
5 Cfr. C. Vivanti, Lacerazioni e contrasti, in Storia d’Italia, I, Torino 1972, pp. 869-948.
6 Le monete in questione sono riprodotte nel saggio di L. Travaini, La croce sulle monete da Costantino alla fine del Medioevo, in La Croce. Iconografie interpretazione (secoli I-inizio XVI), Atti del Convegno internazionale (Napoli 1999), a cura di B. Ulianich in collaborazione con U. Parente, Napoli 2007, pp. 7-40, in partic. pp. 24-27.
7 I dati raccolti in A. Prosperi, Di alcuni testi per il clero nell’Italia del primo Cinquecento, «Critica storica», 7, 1968, pp. 137-138, devono essere integrati dalla scoperta di un allora a me ignoto adattamento del testo gibertino fatto stampare dal cardinal Gaspare Contarini per la diocesi di Belluno e conservato in copia unica nell’archivio del capitolo di Belluno. Si tratta di una Breve instruttione per li sacerdoti curati della città et diocesi Bellunese, come debbano bene instituire, et governare se medesimi, et li subditi alla lor cura commessi, e stampata “per Stephano da Sabio 1538” s. l. (ma Verona) insieme a una Tavola per la doctrina dela christiana religione; l’opera è stata segnalata da V. De Boni, Il cardinale Gaspare Contarini vescovo di Belluno (1536-1542), «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 28, 1989, pp. 457-470, ed è conservata nell’unico esemplare a me noto nella Biblioteca Lolliniana del Seminario Gregoriano di Belluno. Ringrazio monsignor Renato De Vido, Rettore del Seminario, per la grande cortesia con cui me ne ha agevolato la ricerca e procurato una riproduzione.
8 Fu il caso di Onofrio Bartolini de’Medici che si impegnò in una visita pastorale a Pisa nel 1530; e nel 1533 si tenne un sinodo diocesano a Faenza per volontà di Rodolfo Pio da Carpi che fece pubblicare delle costituzioni per il clero dove si leggeva l’invito a studiare le summae di casi di coscienza per curare specialmente la materia delle confessioni (cfr. F. Lanzoni, La Controriforma nella città e diocesi di Faenza, Faenza 1925, p. 40).
9 Cfr. M. Firpo, Gli “spirituali”, l’Accademia di Modena e il formulario di fede del 1542: controllo del dissenso religioso e nicodemismo, in Id., Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul Cardinal Giovanni Morone e il suo processo d’eresia, Bologna 1992, pp. 29-118.
10 Sulla realtà dei monasteri e sulla condizione femminile nella società italiana esiste una vasta letteratura, cfr. G. Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna 2000.
11 Sulla Tarabotti e sulla vita dei monasteri femminili veneziani tra Cinquecento e Seicento cfr. M.G. Mazzucco, Jacopo Tintoretto e i suoi figli. Storia di una famiglia veneziana, Milano 2009.
12 A. Prosperi, Tribunali della coscienza, cit., pp. 352-353.
13 Per la condizione femminile cfr. Donna, disciplina e creanza cristiana dal XV al XVII secolo. Studi e testi a stampa, a cura di G. Zarri, Roma 1996.
14 Cfr. H. Jedin, Delegatus Sedis Apostolicae und bischöfliche Gewalt auf dem Konzil von Trient, in Id., Kirche des Glaubens und Kirche der Geschichte, II, Freiburg i. Breisgau 1966, pp. 414-428.
15 Ordini lasciati nella prima visita del P. Possevino al Rettor di Cigognara, Roma, Archivum Romanum Societatis Iesu (ARSI), Opp.N.N 321, ff. 9r, 146rv. (il documento è datato 17 giugno 1596).
16 Un atto del 21 agosto 1596 specifica le condizioni per l’esercizio di questo ministero da parte di un fra’ Gian Battista da San Giorgio, francescano dell’Osservanza. Ibidem, f.170r.
17 L’aver alluso a una possibile presenza della lettura di Machiavelli in questo testo – cfr. C. Ginzburg, A. Prosperi, Giochi di pazienza. Un seminario sul Beneficio di Cristo, Torino 1975 – ha sollevato severe obiezioni da parte di un attento studioso di Machiavelli e della Controriforma come Vittorio Frajese (V. Frajese, Note su Machiavelli, «Studi storici», 38, 1997, pp. 135-155, in partic. p. 148 n.). Sulla centralità della confessione mi sia consentito rinviare ad A. Prosperi, Tribunali della coscienza, cit.
18 F. Guicciardini, Opere, a cura di V. De Caprariis, Milano-Napoli 1953, p. 341.
19 Cfr. D. Hay, The Church in Italy in the Fifteenth Century, Cambridge 1977 (trad. it. La chiesa nell’Italia rinascimentale, Roma-Bari 1979).
20 ARSI, cit., f.186r (lettera del 7 sett. 1597).
21 Dalle pagine del Don Chisciotte prende avvio uno studio sull’immagine del clero in Spagna: J.L. Betràn Moya, El pastor de almas: la imagen del buen cura a través de la literatura de instrucción sacerdotal en la Contrarreforma española, in Discurso religioso y Contrarreforma, ed. de E. Serrano, A.L. Cortés, J.L. Betràn, Zaragoza 2005, pp. 161-201.
22 Il documento è citato da P. Cozzo, La geografia celeste dei duchi di Savoia. Religione, devozioni e sacralità in uno Stato di età moderna (secoli XVI-XVII), Bologna 2006, p. 246.
23 Cfr. P. Cozzo, La geografia celeste dei duchi di Savoia, cit.
24 Cfr. A. Torre, Il vescovo di antico regime. Un approccio configurazionale, «Studi storici», 19, 1996, p. 204.
25 W. Reinhard, Paul V. Borghese (1605-1621), mikropolitische Papstgeschichte, Stuttgart 2009.
26 Cfr. L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del medio evo, IX, Roma 1955, p. 59.
27 Oltre alle singole voci dedicate alle città e Stati italiani in Dizionario storico dell’Inquisizione, 4 voll., a cura di A. Prosperi, V. Lavenia, J. Tedeschi, Pisa 2010, cfr. Ch. Black, The Italian Inquisition, Yale 2009, come testimonianza dell’avvenuta identificazione del carattere unitario e nazionale dell’Inquisizione romana.
28 Cfr. F. De Vivo, Information and Communication in Venice, Rethinking Early modern Politcs, Oxford 2007.
29 L. von Pastor, Storia dei papi, IX, cit., p. 56.
30 Ad esempio, gli atti della visita di mons. Ascanio Marchesini relativi all’Emilia e alla Romagna sono stati trascritti e studiati in una sezione speciale delle tesi discusse presso la Facoltà di Magistero dell’Università di Bologna negli anni tra il 1968 e il 1985 sotto la guida del prof. Paolo Prodi e dello scrivente, e sono attualmente conservati presso il Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna.
31 È conservata in Archivio Segreto Vaticano con alcune relazioni del visitatore, cfr. A. Prosperi, L’eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano 2000, pp. 354-357.
32 Cfr. A. Prosperi, Missioni popolari e visite pastorali in Italia tra ’500 e ’600, «Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée», 109, 1997, pp. 767-783.
33 Il documento è citato da G. Gardoni, Frammenti di vita religiosa della campagna mantovana alla fine del medioevo, in La religione nelle campagne, «Quaderni di storia religiosa», 2007, nr. monografico, pp. 279-335 in partic. pp. 279, 295-297. Per le figure di sacerdoti prima del concilio di Trento è interessante la raccolta di studi Preti nel Medioevo, ivi, 1996, nr. monografico.
34 Sulle reazioni che si ebbero nel granducato di Toscana cfr. A. Prosperi, Comment, in Florence and Milan. Comparisons and Relations, Acts of Two Conferences at Villa I Tatti in 1982-1984, ed. by C.H. Smyth, G.C. Garfagnini, Firenze 1989, pp. 85-91.
35 R. Giura Longo, Clero e borghesia nella campagna meridionale, Matera 1967, p. 70.
36 Ibidem, pp. 50-52.
37 Cfr. E. Boaga, La soppressione innocenziana dei piccoli conventi in Italia, Roma 1971, p. 152.
38 C. Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche, in La Chiesa e il potere politico, a cura di G. Chittolini, G. Miccoli, Torino 1986, p. 758 (Annali della storia d’Italia Einaudi, IX).
39 Cfr. G. Poidomani, Gli ordini religiosi nella Sicilia moderna. Patrimoni e rendite nel Seicento, Milano 2001.
40 Un tentativo di studio globale dell’opera missionaria dei Gesuiti è stato fatto da L. Clossey, Salvation and Globalization in the Early Jesuit Missions, Cambridge 2008.
41 Cfr. M.G. Rienzo, Il processo di cristianizzazione e le missioni popolari nel Mezzogiorno. Aspetti istituzionali e socio-religiosi, in Per la storia sociale e religiosa del Mezzogiorno d’Italia, a cura di G. Galasso, C. Russo, I, Napoli 1980, pp. 441-481. Per uno sguardo sull’opera di s. Alfonso de’Liguori cfr. M. Poidomani, Centralismo romano e “policentrismo” periferico. Chiesa e religiosità nella Diocesi di Sant’Alfonso Maria de’Liguori, Milano 2007.
42 Cfr. La Galleria delle carte geografiche in Vaticano, a cura di L. Gambi, A. Pinelli, Modena 1994 (Mirabilia Italiae [dir. S. Settis], I); cfr. la recensione di A. Prosperi, «Geographia antiqua», 5, 1996, pp. 127-136.
43 È comparsa di recente un’edizione anastatica dell’edizione veneziana del 1568: Descrittione di tutta Italia di F. Leandro Alberti Bolognese. Aggiuntavi la descrittione di tutte l’isole, Bergamo 2003.
44 F. Guicciardini, Storia d’Italia, cit., I, pp. 5-6.
45 Per una rilettura di Biondo e Alberti, geografi, in Il Rinascimento nelle corti padane. Società e cultura, Bari 1977, p. 263.
46 Cfr. P. Ranzano, Descriptio totius Italiae (Annales, XIV-XV), a cura di A. Di Lorenzo, B. Figliuolo, P. Pontari, Firenze 2007.
47 De antiquo et novo Italiæ statu libri quatuor, adversus Macchiavellum auctore Thoma Bozio [...], Romae, apud Gulielmum Facciottum, 1596.
48 Per Sigonio cfr. P. Prodi, Storia sacra e Controriforma. Nota sulle censure al commento di Sigonio a Sulpicio Severo, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», III, 1977, pp. 75-104. Sui dubbi di Baronio cfr. S. Zen, C. Baronio sulla Donazione di Costantino tra critica storica e autocensura (1590-1607), «Annali della Scuola normale superiore di Pisa. Cl. di Lettere e Filosofia», s.V, 2010, 2/1, pp. 181-219.
49 G.A. Magini, Geografia cioè descrittione universale della terra [...], Venezia, appresso Gio. Battista, & Giorgio Galignani, 1597-1598.
50 La si conosce per lo più nell’edizione in dieci volumi editi a Venezia dal sacerdote Niccolò Coleti, 1717-1722.
51 La gara era con la Francia, per la Gallia Sacra.
52. D. Hay, The Church in Italy, cit.
53 Cfr. S. Ditchfield, Liturgy, Sanctity and History in Tridentine Italy. Pietro Maria Campi and the Preservation of the Particular, Cambridge 1995.
54 L.A. Muratori, Annali d’Italia, a cura di A. Mauri, Milano 1838, in partic. prefazione al vol. I e vol. IV, p. 314.
55 È celebre la risposta di papa Benedetto XIV alla domanda di Muratori se qualcosa delle sue idee avesse scontentato la Santa Sede: «Ciò che non piaceva a Roma nelle opere sue non riguardava né il dogma, né la disciplina della Chiesa: ma soltanto il dominio temporale de’Papi» (A. Mauri, introduzione a L.A. Muratori, Annali d’Italia, cit., I, p. X).
56 Per i documenti del catasto murattiano cfr. La “statistica” del Regno di Napoli nel 1811, a cura di D. De Marco, 4 voll., Roma 1988. Sui documenti dell’inchiesta dell’Académie celtique l’opera di riferimento è quella di G. Tassoni, Arti e tradizioni popolari. Le inchieste napoleoniche sui costumi e le tradizioni del Regno italico, Bellinzona 1973.
57 “Con magnificenza e con decoro”. I Comuni e la devozione civica nel territorio romano tra ’700 e ’800: luoghi, riti, feste, protagonisti. Mostra storico-documentaria, a cura di M.G. Branchetti, D. Sinisi, Roma 2008, p. 68.
58 Su Lars Thjulén (Göteborg 1746-Bologna 1833) cfr. L. Rooth, s.v. Lars Thjulén, in Diccionario histórico de la Compañia de Jesús, Roma-Madrid, 2001, IV, p. 3790.
59 Cfr. M. Fabbri, Vagabondi, visionari, eroi. Appunti su testi “in minore del Settecento spagnolo, Abano Terme 1984, pp. 49-74, in partic. p. 73.
60 G. Bollati, introduzione a G. Leopardi, Crestomazia italiana. La prosa, I, Torino 1968, p. VIII.
61 Zibaldone, I, 546-547. Il passo è citato da G. Bollati, introduzione, cit., p. LVIII.
62 Dal Cantimori di Utopisti e riformatori italiani del Settecento agli studi di Armando Saitta su Filippo Buonarroti e sulle discussioni costituzionali del 1796 fino alle pagine di Renzo De Felice sull’abate Della Valle e l’evangelismo giacobino (cfr. R. De Felice, Italia giacobina, Napoli 1965, pp 169 segg.), la questione delle idee di riforma religiosa presenti nell’orizzonte ideologico e nei programmi dei giacobini italiani è stata molto attuale negli studi della metà del secolo scorso.
63 Dal primo abbozzo del Saggio comparativo su La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, in A. Manzoni, Dell’indipendenza d’Italia, a cura di F. Ghisalberti, Milano 1947, p. 85.
64 A. Manzoni, Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di R. Amerio, R. Ricciardi, Milano-Napoli 1966, II, pp. 456-457.
65 Per l’intervento censorio sull’opera di Rosmini cfr. L. Malusa, s.v. Rosmini, in Dizionario storico dell’Inquisizione, cit., III, pp. 702-708.
66 Cfr. A. Prosperi, Belfiore, preti e politica in Italia, «Belfagor», LXII, 6, 30 nov. 2007, pp. 732-735.
67 M. Ferrini, Cultura, verità e storia: Francesco Lanzoni (1862-1929), Bologna 2009, pp. 200-201.
68 I nuovi documenti emersi dall’Archivio della Congregazione per la dottrina della fede cfr. L. Niccolai, s.v. Profeta dell’Amiata, in Dizionario storico dell’Inquisizione, cit., III, pp. 626-628.
69 La documentazione relativa ai due casi conservata nell’Archivio della Congregazione per la dottrina della fede mostra che le trattative furono particolarmente laboriose sia nel caso di Michele Caputo (St.st. S 3-c) sia in quello del gesuita Carlo Passaglia (St. st.S 4-f).
70 «Quel secolo di Voltaire finisce appunto nel nostro 1850, in cui ha levato il capo l’Idra spaventevole del socialismo, nella prevalenza del quale ogni civiltà cattolica dovrebbe spegnersi e fare indietreggiare il mondo fino alla barbarie del paganesimo», cfr. «La Civiltà cattolica», I, 1, Napoli 1850, p. 14.