di Claudio Arbore
Il Sahel meridionale dimenticato del dopo 11 settembre, è tornato ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale a partire dal 2012 a causa di una serie di crisi regionali ed internazionali, divampate in un quadro di grande complessità, legando a doppio filo le primavere arabe e la guerra al terrore guidata dagli Stati Uniti. Le aree di crisi e di guerra del continente africano, dalla fine degli anni Novanta hanno progressivamente spostato il proprio baricentro dal Golfo di Guinea alla fascia saheliana, la quale sembra pagare, ancora una volta, a caro prezzo, la sua dimensione di zona di contatto e di tensioni.
In età post-coloniale, il Sahel diviene infatti un topos nell’immaginario collettivo a partire dalle crisi alimentari della fine degli anni Settanta, che raggiungeranno l’acme con le eccezionali siccità del 1984-85. Questi cicli siccitosi, uniti all’importante aumento demografico e alla progressiva degradazione dei suoli per ragioni antropiche, determineranno in quegli anni le carestie più gravi degli ultimi settant’anni, con migliaia di morti. Saranno queste crisi a lanciare il problema della desertificazione e del progressivo allungarsi dei periodi di siccità, preludendo a qualcosa di non periodico come i cambiamenti climatici. Tuttavia la desertificazione, dopo aver alimentato le global narratives e orientato le politiche per la sicurezza alimentare nazionali e internazionali per due decenni, è progressivamente scomparsa dalle agende delle priorità delle agenzie di sviluppo internazionali. La progressiva marginalizzazione politica, economica e sociale ha alimentato spesso frustrazioni e tensioni tra le popolazioni saheliane del nord e quelle sudanesi urbanizzate del sud, connotandone le relazioni dall’età delle indipendenze africane a oggi. È in questo contesto che deve essere inquadrata per esempio la questione tuareg, che infiamma la regione settentrionale del Mali, l’Azawad, almeno dal 1960.
Tuttavia la crisi maliana del 2012, pur muovendo dalla causa dei popoli del nord e dei tuareg, coinvolge altri gruppi combattenti. Tra questi, si distingue il Mujao nei cui ranghi sono confluiti numerosi elementi della setta islamista nigeriana Boko Haram. Questo movimento, nato nel 2000 nel nord della Nigeria con il nome di Jama’atu Ahlul Sunna Lidda’awati Wal Jihad (Comunità dei discepoli per la propaganda religiosa e il jihad) e ramificatosi a partire dagli stati di Borno e Yobe, è andato progressivamente radicalizzandosi nell’opposizione alle forze governative centrali, alimentando una tradizionale linea di frattura tra il sud a maggioranza cristiana e il nord musulmano.
Il nome del movimento, locuzione che unisce il pidgin inglese Boko, da ‘book’, e ‘haram’ dall’arabo, che significa ‘proibito’, sintetizza il rigetto per tutte le forme di acculturazione di stampo occidentale. Il suo fondatore, Ustaz Muhammad Yusuf, ha studiato teologia all’università di Medina, in Arabia Saudita, e intercetta rapidamente, col suo movimento, i sentimenti di frustrazione e marginalità nel quale vivono i giovani del Borno e dello Yobe. Nella più grande democrazia del continente esistono grandi ineguaglianze nell’accesso ai servizi fondamentali e nella redistribuzione della ricchezza nazionale, nel frattempo cresciuta con i proventi dell’estrazione petrolifera. Gli stati della cintura nord al confine con Niger e Ciad sono tra i più poveri del paese, con degli indici di alfabetizzazione e di occupazione molto bassi (nello stato di Borno, nel 2012, l’83% dei giovani risultavano analfabeti). Boko Haram intercetta il disagio e lo catalizza attraverso il prisma religioso, ma il suo movente è anche politico e sociale. La legge islamica si afferma negli ordinamenti degli stati del nord e Boko Haram riesce a influenzare anche i processi elettorali dei diversi governatorati, ma la sua influenza crescente, unita alle modalità violente con le quali l’organizzazione risolve i conflitti con altri gruppi salafiti, determineranno le prime azioni di rappresaglia con successive più sistematiche repressioni delle forze di polizia.
La radicalizzazione del conflitto tra lo stato e Boko Haram ha avuto come conseguenza quella di far crescere sempre di più un’organizzazione terroristica tra le più forti della regione saheliana, entrata a far parte rapidamente delle reti terroristiche internazionali. Nell’autunno 2014 Boko Haram siede a un tavolo con il governo di Abuja con la mediazione del Ciad, per negoziare il rilascio delle 200 studentesse rapite nel Chibok e il cessate il fuoco, in cambio del rilascio dei militanti arrestati. In gioco non ci sono solo le elezioni presidenziali e legislative della primavera 2015, ma la legittimazione anche internazionale di un’idea del tutto nuova: con il terrorismo si può trattare.