Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La famiglia del Cinquecento si sviluppa in senso autoritario: nello sforzo di moralizzazione compiuto dagli Stati, dalle Chiese protestanti e dalla Chiesa cattolica, vengono combattuti il concubinaggio e i matrimoni clandestini, viene favorito il controllo dei genitori sui figli, e vengono rese rigorose le pratiche del matrimonio. Tramontano, sotto il peso delle guerre e dell’intolleranza di riformati e cattolici, i tentativi della cultura umanistica di consolidare i rapporti affettivi tra genitori e figli, e di favorire l’istruzione classica delle donne degli strati superiori.
Premessa
Il Cinquecento è in Europa, per l’istituto della famiglia, un periodo di mutamenti profondi, che vanno di pari passo con gli sconvolgimenti politici e religiosi che caratterizzano il secolo. Coesistono, come sempre succede nelle grandi epoche di trapasso, diverse forme di organizzazione familiare. La famiglia cinquecentesca è sottoposta a numerosi influssi: i residui dell’organizzazione familiare feudale, presenti largamente ovunque soprattutto nella prima metà del secolo; gli influssi della concezione umanistica della famiglia e dell’educazione, elitari, minoritari e destinati nel tempo a soccombere; la pratica rinascimentale e cittadina del matrimonio come alleanza tra famiglie; gli sconvolgimenti e i mutamenti, infine, portati in questo quadro dalla Riforma e dalla Controriforma.
Nel corso del secolo continua tenacemente a persistere, quasi ovunque, quella che lo storico Lawrence Stone (nel 1977) definisce, riferendosi all’Inghilterra, la “famiglia a lignaggio aperto”, di ascendenza e sopravvivenza feudale, in cui coniugi e prole sono immersi nel più vasto mare di rapporti di parentela (per le classi nobili) o di vicinato e di villaggio (per il popolo). Tale famiglia viene lentamente affiancata, sempre per usare la terminologia di Stone, dalla “famiglia nucleare patriarcale ristretta”, cioè da un tipo di famiglia più chiusa in se stessa, che ha come referente di fedeltà, di solidarietà e di sopravvivenza non più la parentela, il vicinato o il villaggio, ma lo Stato, che si va rafforzando e che va conquistando una serie di funzioni che erano prima attribuite alla società feudale. Una delle funzioni di cui si appropria lo Stato, affiancato sia dalle Chiese riformate che dalla Chiesa cattolica, è proprio quella del controllo sul matrimonio. Questo processo non è omogeneo in tutta Europa, ma avviene secondo ritmi e scadenze differenti.
L’influenza della Riforma e della Controriforma. Elementi comuni
Molti critici concordano nel valutare sia Riforma protestante che Controriforma, al di là delle differenze che dividono le due esperienze dal punto di vista dottrinale e della concezione della vita, come due processi paralleli tesi a una moralizzazione della società attraverso una sua più profonda cristianizzazione, una normalizzazione della società e l’instaurazione di un forte controllo sociale. In questo quadro, Riforma e Controriforma attuano una serie di misure di controllo nei confronti del matrimonio, continuando una strada già aperta nei secoli precedenti, e affiancandosi all’analoga attività di controllo esercitata dagli Stati cinquecenteschi. Alla base di tutto questo c’è un atteggiamento nuovo, e molto meno disposto a compromessi, nei confronti del sesso e dei peccati a esso connessi. La nuova etica cristiana è ormai ossessionata dai peccati della carne. concilio di Trento e Chiese riformate vanno di pari passo; sia protestanti che cattolici infatti favoriscono il controllo dei genitori sui figli, penalizzando i matrimoni clandestini, e combattendo quella pratica di matrimonio, largamente diffusa nel Medioevo, di fatto basata sulla preminenza della promessa sul matrimonio vero e proprio.
Già nel clima della pre-Riforma, nel 1514, il V Concilio Lateranense sancisce il divieto del concubinato che la Chiesa aveva cominciato a osteggiare già nel Quattrocento. Il concilio di Trento, i pubblici poteri e le Chiese riformate si scagliano contro la licenza imperante che si esprime tra l’altro negli stupri collettivi e nella prostituzione dilagante, spesso esercitata da ragazze che vengono pubblicamente stuprate, costrette ad accettare simbolicamente del danaro e così avviate sulla strada della prostituzione dalle varie abbayes de jeunesse (compagnie di scapoli). Ma spesso la moralizzazione, anziché abolire gli stupri e la prostituzione, rende la prostituzione clandestina e colpevole.
Le pratiche del matrimonio vengono rese più rigorose. Perché il matrimonio risulti giuridicamente valido, fino al concilio di Trento era sufficiente che i coniugi esprimessero in varie forme il loro consenso; i rituali della cerimonia non erano ancora codificati. Con il decreto Tametsi il concilio di Trento impone l’obbligo della celebrazione del matrimonio in chiesa, alla presenza del parroco e di due o tre testimoni, e richiede la pubblicazione dei bandi. I protestanti, dal canto loro, fin dagli anni Venti e Trenta del Cinquecento, introducono l’obbligo del consenso paterno per i minorenni e della celebrazione della cerimonia alla presenza del pastore e di testimoni. Il divieto del concubinato fa sì che non venga più tollerata la presenza dei figli illegittimi, che nel Medioevo erano allevati ed educati quasi come figli legittimi.
Nell’ambito di una comune propensione per il controllo sociale, la Chiesa cattolica si dimostra più tollerante in campo matrimoniale rispetto agli Stati cinquecenteschi e rispetto alle Chiese riformate, poiché cerca di mantenere il principio e la tradizione che fondavano il matrimonio sulla libera volontà dei contraenti (a scapito delle idee innovatrici favorevoli all’introduzione di più efficaci forme di controllo da parte delle famiglie). Mentre gli Stati cinquecenteschi e le Chiese riformate sono decisamente dalla parte dei genitori appoggiando il loro potere decisionale sulla scelta del coniuge, nel controllo teso a impedire i matrimoni clandestini e, nei Paesi cattolici, nell’imposizione delle monacazioni coatte (la dote di una monaca è molto meno cara della dote per una sposa), la Chiesa cattolica cerca un suo faticoso spazio di mediazione teso a garantire, sia pur blandamente, il rispetto della volontà dei contraenti e dei protagonisti. Il sacerdote diviene spesso di fatto il mediatore dei rapporti tra padri e figli nei Paesi cattolici, e la figura che stabilisce la convenienza e la liceità di un’unione contrastata o la veridicità di una vocazione monacale.
Sperone Speroni
Discutendo sulla gelosia
Dialogo d’amore
GRAZIA: Quello è amore perfetto, il cui nodo lega e congiunge perfettamente due innamorati, in maniera che, perduto il loro proprio sembiante, diventino amendue un non so che terzo, non altramente che di Salmace e di Ermafrodito si favoleggi. La quale mutua e miracolosa unione in varii modi significarono i nostri poeti, dicendo già un di loro Laura portar seco il suo cuore nel viso; e altrove quella medesima avergli dato il più e il meglio di sé, e il meno ritenuto. Quindi similemente ebbero origine tutti quanti quei privilegii amorosi, sciolti e diversi (come si dice) da ogni condizion naturale, e specialmente questo uno: vivere in altri, e in sé stesso morire. Ché così come nella vostra armonia col suon del liuto confondete la voce, e ne’ profumi l’ambra, il muschio e il zibeto, alterata la purità loro, tutti insieme rendono odor più soave che essi non fanno separati; così allora è perfetto lo amore, quando ambidue gli amanti non sono quello che essere soleano una volta, ma mescolati in maniera che né uno né due, e uno e due, si possano con verità nominare; e non sia fallo in grammatica dell’uno e dell’altro dire: tu amate e voi ami. E per certo, se amor vince e sforza essa natura ardendo, agghiacciando, ferendo, sanando, uccidendo e risuscitando in un punto, ben dovrebbe poter fare a suo modo d’una regola di grammatica, senza che alcuno ne lo repigliasse. Tale è adunque la perfezzion dell’amore di cui parliamo, la quale malamente puote aver luoco in quel cuore, ove siede la gelosia, monstro orrendo e pien di paura; cui null’altra cosa produce nel petto all’innamorato, fuor che ’l trovar lui in sé medesimo alcun difetto onde sia esente il rivale, dubitando tutt’ora della fede e della constanzia della sua donna.
TASSO: A me par che, mascendo in tal guisa e di così fatta radice, sia buona cosa la gelosia; perciò che il geloso continovamente procurerà d’esser tale in vertù che pochi o niuno se li pareggi; e con paura di vedere mutar voglia alla donna sua, mai verso lei non muterà modi o costumi.
GRAZIA: Così è buona la malatia, e così giova il nemico: che ll’uomo uso all’infirmità schiva il cibo mal sano, e molte fiate, per meglio guardarsi dall’avversario, è più fedele agli amici. Per la qual cosa, come la febbre che ci mena a morire, in tanto è segno di vita in quanto non la sente chi non è vivo; così, avvegnadio che ’l geloso sia innamorato, nondimeno la gelosia è strada che più tosto ad odiare che ad amare ne conduce.
TULLIA: Meglio sarebbe insegnarmi a non esser gelosa, che me, nella mia gelosia stare lasciando, biasimare il mio errore. Ma quando fia mai ch’io non sia gelosa, avendo continovamente dinanzi agl’occhi l’infinite vertù del mio Tasso, per le quali egli è degno che maggior donna, che non sono io, l’ami e adori?
TASSO: Cagione ho io d’esser geloso, perché ’l mio valore è poca cosa al vostro intelletto; e il bene, che già mi mosse ad amarvi, non è noto a me solo; e quello, da chiunque il conosce, palesemente sento ammirare.
GRAZIA: Né voi il ben suo, né lei le vostre vertù, ma ambidue fa gelosi l’aver timore che quello vi sia a grado in altrui che ’n voi soli vi devrebbe piacere. E perché meglio ci sia palese la gelosia, dovemo sapere ch’el desiderio amoroso è veramente, qual noi diciamo, fiamma e ardore, e questo, come s’accende in un punto, così in un punto si spegnerebbe, se la speranza non lo vietasse: nella quale, come il fuoco nella candela, si conserva il nostro appetito. Perciò che, veduta e desiata naturalmente una bella cosa, l’anima vaga di possederla si paragona con esso lei e s’ella è tale, o si dà a credere, che sua vertù o sua sorte o l’altrui cortesia ne lo faccia godere, già è nata la speme, onde si pasca il suo desiderio; il quale allora è degno di questo nome d’amore, ch’egli ha bevuto tal latte. Ora cotal vertù della speme, questo bel parto della ragione, questa santissima e cortesissima dea, madre e nutrice di amore, turba e spegne la gelosia; la quale, togliendo alle nostre voglie il vivo e soave umore della loro speranza e il rivale pascendone, è cagione che quel pellegrin desiderio che già amore fu nominato, fatto rabbia e furore, non altramente arda e distrugga la carità che il fuoco faccia il papiro, poscia che ll’olio è consumato. In questo modo la gelosia (la quale così è segno d’amore, come è l’aceto del vino) fa la via all’odio con la sua rabbia.
TULLIA: Insegnateci adunque la strada da schivar cosa sì rabbiosa.
GRAZIA: Mal potreste imparare a non essere gelosi, non sapendo in qual modo di due innamorati faccia amore quel suo misto miracoloso. Dovete adunque sapere che, tosto che noi amiamo l’un l’altro, fatti accorti del nostro affetto, mille pensieri amorosi volano di continovo tra l’amante e la cosa amata, tinto ogn’uno di loro nel color, dell’oggetto e tanto a quello simile quanto è la cera al suggello. La qual cosa non acqueta, anzi infiamma le nostre voglie; le quali, vaghe di maggior gioia, lasciando l’ombre da canto, con tutti quanti i lor sentimenti corrono ad abbracciarsi alla verità; nella quale allora ci trasformiamo del tutto, quando in tal modo e così bene conosciamo e trattiamo la cosa amata, come ella è atta che l’uomo goda e appaghi di lei i suoi desiderii. Per la qual cosa, non contenti di vederla e udirla, il rimanente de’ nostri sensi con ogni studio ci affatichiamo di compiacerne. Quindi passando alla nostra mente e con lei sottilmente le vertù della cosa amata considerando (perciò che non solamente siamo occhi e mani, ma intelletto e ragione), se elle son tali che l’amante contemplando se ne diletti, già è perfetto l’ermafrodito amoroso; né altramente, sì che egli viva, siamo possenti di generarlo, perciò che i sensi sono via alla ragione. Onde chiunque è così sciocco in amore ch’egli non curi i loro appetiti, ma come semplice intelligenzia cerchi solo di satisfarne la mente, egli è simile a colui il quale, tranguggiando alcun cibo senza toccarlo co’ denti, più s’inferma che si nutrichi. Resta a dire (s’io non lo dissi di sopra) in che modo la gelosia s’interponga tra l’amante e la cosa amata, vietando loro che ll’uno nell’altro non si tramuti.
in Trattatisti del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Milano-Napoli, Ricciardi Editore, 1978
L’influenza della Riforma e della Controriforma. Elementi di divergenza
Accanto agli elementi comuni, nel campo della famiglia, cattolici e protestanti sono divisi da profonde differenze, all’origine dei futuri sviluppi completamente divergenti nel modo di concepire e realizzare l’unione matrimoniale. Per i protestanti, innanzitutto, il matrimonio non è più considerato un sacramento ma un contratto, sia pur vissuto cristianamente; e questo, inserendo il matrimonio nel diritto civile, porta come conseguenza in alcuni casi l’ammissibilità del divorzio (per adulterio, per diversità di fede religiosa). Il concilio di Trento ribadisce invece il carattere sacramentale del matrimonio e la sua indissolubilità. Questa diversità di vedute porterà notevoli conseguenze: nei Paesi protestanti il divorzio giungerà a essere ammesso, nel tempo, anche per reciproco consenso dei coniugi e andrà affermandosi la possibilità di celebrare, accanto al matrimonio religioso, il matrimonio civile (che in Olanda viene ammesso nel 1580). Nei Paesi cattolici perché divorzio e matrimonio civile siano ammessi dalla legge bisognerà aspettare la rottura della Rivoluzione francese.
Tra i protestanti circola anche insistentemente l’idea della poligamia che viene messa in pratica, però, soltanto dai settori più radicali ed eccentrici del movimento (ad esempio dagli anabattisti durante l’assedio di Münster, tra il 1534 e il 1535). Un’altra differenza di concezione che apre una forbice destinata a portare su posizioni molto distanti riformati e cattolici è il fatto che, mentre i cattolici rimangono legati alla concezione medioevale che considera la castità come il valore supremo, per i protestanti il valore supremo diviene il matrimonio cristiano, the holy matrimony; questa nuova concezione darà i suoi frutti più avanti, alla conclusione delle guerre di religione, della caccia alle streghe e del clima di intolleranza e sospetto reciproco, quando in Inghilterra tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento darà luogo alla nascita della famiglia moderna, basata sull’amore coniugale e sulla libera scelta del coniuge.
Lo sviluppo degli aspetti patriarcali
La famiglia cinquecentesca può essere definita nell’insieme un’organizzazione che si sviluppa in senso autoritario, sull’onda dei mutamenti religiosi e politici, e in cui la figura del marito e quella del padre assumono un ruolo particolarmente importante. Il controllo effettuato dagli organi civili e religiosi sul matrimonio si ripercuote anche al suo interno e favorisce la formazione di una rigida gerarchia; si sviluppano e crescono o, se vogliamo, si organizzano e si strutturano, assumendo una funzione più politica, gli elementi patriarcali già esistenti all’interno dell’organizzazione familiare. Per i protestanti il padre di famiglia assume all’interno della famiglia un ruolo di capo religioso; ma non sono solo riformati e cattolici a proiettare dall’esterno le giustificazioni del ruolo politico del padre e del marito. Siamo nell’epoca del lento rafforzamento degli Stati e della lenta formazione degli Stati assoluti: Stato autoritario e famiglia patriarcale si legittimano a vicenda. Il sovrano assoluto assume le funzioni simboliche di padre autoritario e il padre di famiglia, a sua volta, assume le funzioni di sovrano assoluto, di rappresentante dell’idea di autorità all’interno della famiglia intesa come cellula primordiale. In Francia Jean Bodin, teorico dell’assolutismo, giunge a postulare per i padri il ritorno al diritto di vita e di morte sui figli. Analoghe posizioni, anche se non così estreme, sono assunte da giuristi dell’epoca, come Ayrault e Du Vair. Del resto il clima generale, caratterizzato dalla caccia alle streghe, dall’orrore delle guerre di religione, dalle lotte intestine e dai continui conflitti propri di una società squilibrata e violenta, favorisce in ogni caso la prevalenza di soluzioni autoritarie.
L’educazione dei figli tende a svilupparsi sempre più come non affettiva e basata sulla deferenza; l’idea sottesa a questo tipo di educazione è che essa deve formare i giovani, piegando la loro volontà, all’idea di subordinazione e di obbedienza verso i genitori e verso i superiori. Vale la pena di ricordare, a questo punto, che dalle concezioni e dalle esperienze di educazione degli umanisti, sia pur elitarie, minoritarie e circoscritte necessariamente ad ambienti ristretti, sono banditi gli eccessi delle punizioni corporali. Nel corso del secolo, Stefano Guazzo in Italia, Thomas More – l’autore di Utopia – in Inghilterra e lo stesso Erasmo da Rotterdam scrivono significative pagine contro la fustigazione dei fanciulli. Gli stessi umanisti, nella prima metà del secolo, propugnano e cercano di applicare un’educazione basata sull’affetto e si dichiarano favorevoli all’istruzione classica delle donne, che sarà poi abbandonata nella seconda metà del secolo.
Proprio gli umanisti rappresentano, in questo quadro, l’elemento anomalo. Senza voler forzare la situazione, si può affermare che taluni elementi della famiglia moderna siano già presenti nel pensiero e nella prassi degli umanisti (la tendenza all’istruzione classica della donna aristocratica, l’atteggiamento affettivo e non repressivo nei confronti dei figli). Questo elemento anomalo, però, va lentamente spegnendosi; l’ossificarsi dell’esperienza umanistica e il suo cedere di fronte all’intolleranza delle rispettive riforme e controriforme, che in Italia si unisce alle gravissime carenze strutturali della penisola, determinano il passaggio da una situazione dinamica, sia pur elitaria, all’immobilismo e all’involuzione. Certo, l’umanesimo non sparirà: sopravviverà almeno in parte nei collegi dei Gesuiti, dove saranno educati Tasso, Galilei e Calderón; ma la vaga utopia del suo mai realizzato “modello di perfetta amicizia” dovrà aspettare un paio di secoli per cominciare a illuderci.