La falsificazione in archeologia
di Licia Vlad Borrelli
Per falsificazione si intende la produzione per scopi fraudolenti di manufatti che imitano o si ispirano ad uno o più modelli autentici. La differenza fra i falsi e le copie o le imitazioni risiede solo nel giudizio di falso, cioè nel riconoscimento dell'intenzione dolosa che ha presieduto all'esecuzione dell'oggetto. Falso è dunque "non tanto ciò che è falso, quanto ciò che determina il falso" (Carnelutti 1935). La storia delle falsificazioni di opere d'arte nasce nell'ambito del commercio antiquario e soggiace quindi alle leggi dell'economia: quando la domanda non può essere evasa in modo legittimo o il prezzo di un originale è inaccessibile allora nasce il falso. Prodotto di consumo, esso è legato alla moda e interpreta uno stile attraverso la mediazione del gusto del proprio tempo. Così che è stato detto che il più temibile nemico del falsario è il tempo (Arnau 1961), o, più ottimisticamente, che la vita di un falso può essere contenuta nell'ambito di una generazione. Difatti all'esecuzione di un falso presiede una duplice suggestione, quella del tempo del falso e quella del tempo al quale il falso pretende di appartenere, due vettori che non possono coincidere. La difficoltà di individuazione di un falso risiede solo nell'incertezza del giudizio critico o nell'angustia delle conoscenze. Ad esse si supplisce con il supporto di indagini fisico-chimiche sulla materia dell'oggetto e sulle sue modificazioni, in modo da integrare con dati oggettivi la soggettività del giudizio. L'applicazione delle scienze della natura all'archeologia (archeometria), in particolare per l'individuazione dei falsi, è diventata di recente elemento imprescindibile di ogni ricerca e ha raggiunto validi e brillanti traguardi. Va tuttavia sottolineato che solo dal concorso di più esami tecnici, congiuntamente alle ricerche archeologiche, può scaturire la certezza del giudizio. Un caso emblematico di come un'interpretazione unilaterale di un dato scientifico possa trarre in inganno è rappresentato dalla vicenda del cavallino bronzeo del Metropolitan Museum di New York, opera attica del 480-470 a.C., che per qualche anno fu relegato nel limbo dei falsi.
Le condizioni sociali ed economiche della Grecia classica sembrano escludere un mercato del falso. False erano certamente alcune epigrafi ricordate da Erodoto (V, 59-61) e da Pausania (I, 48, 7; VIII, 14, 6-7; IX, 11,1, ecc.) su monumenti, statue e suppellettili conservati in alcuni santuari, per incrementarne il valore simbolico o il significato storico-religioso. Molto presto, invece, si cominciò a falsificare la moneta, se già nelle leggi di Solone si prevedono pene severe contro i coniatori di monete false. Precoce fu anche l'uso di monete "suberate" (cioè con una foglia esterna di metallo pregiato e l'anima in metalli vili), come quelle che Policrate usò per pagare gli Spartani al fine di distoglierli dall'assedio di Samo (Hdt., III, 56), e alle quali ricorsero più volte i Romani in momenti difficili della loro economia. Lo stesso Plinio (Nat. hist., XXXIII, 132) ne insegna la fabbricazione. I costumi dei Romani mutarono con la conquista della Grecia e i più stretti contatti con l'Oriente: nacquero il gusto dell'antiquariato, il mercato delle opere d'arte e, contestualmente, quello dei falsi. Per primo ne dà notizia Fedro, quando, appellandosi per la propria opera al nome di Esopo, ricorda per analogia che viene pagato un prezzo più elevato per opere moderne se su un marmo è iscritto il nome di Prassitele, se su una statuetta d'argento quello di Mirone, su una tavola quello di Zeusi (V, l). Una conferma viene dai Dioscuri di Montecavallo, opere probabilmente severiane, nobilitate da due iscrizioni che li attribuiscono l'uno a Fidia e l'altro a Prassitele. Le attuali iscrizioni risalgono alla sistemazione del gruppo all'epoca di Sisto V, ma riproducono quelle che vi erano state apposte quando furono restaurate le terme costantiniane, ove il gruppo era collocato (450 d.C.). J.J. Winckelmann, inoltre, ricorda che una statua di Ercole recava la firma falsa di Lisippo. Molte fonti riferiscono anche di uno scandalo scoppiato nei primi anni dell'Impero per coppe d'argento fraudolentemente firmate col nome di Mys, celebre toreuta del V sec. a.C. Anche Zenodoros, famoso bronzista del I sec. d.C., aveva così abilmente imitato delle tazze cesellate da Kalamis che non si distinguevano dagli originali (Plin., Nat. hist., XXXIV, 47). Un particolare aspetto della falsificazione è quello che si rivolge ai materiali; esso è ampiamente trattato da Plinio e da Vitruvio, ma risale a fonti molto più antiche, tra le quali anche testi alchemici. Viene insegnato come falsificare l'oro, l'argento, i colori pregiati, le pietre preziose, ecc. Alcune di queste ricette si ritrovano nel Papiro X di Leida e in quello di Stoccolma (III sec. d.C.); attraverso gli Arabi si diffonderanno poi in Europa e costituiranno la base di prontuari ad uso degli artisti e degli alchimisti medioevali. Non di falsificazione, ma di riuso e di rilavorazione, si può parlare a proposito di modifiche a sculture e ritratti del I e del II secolo effettuate in epoche successive, con maggiore frequenza nel IV secolo. Il diritto romano colpiva solo i falsari di testamenti, monete (lex Cornelia de falsis), documenti pubblici (lex Julia de majestate). Il falso d'arte non veniva considerato reato; infatti in tutto il mondo antico l'autenticità non rappresentava un requisito fondamentale della creazione artistica. Per Platone e per Aristotele l'arte era l'imitazione della natura e, come tale, ulteriormente riproducibile senza recare danno o offesa. In età medievale sarà sempre solo contro la falsificazione di documenti che verranno comminate pene severe (l'Editto di Rotari contemplava il taglio della mano). Nei primi secoli del cristianesimo un tipo particolare di falso era quello rappresentato dalle immagini acherotipe, cioè una serie di ritratti di Cristo e della Vergine che si ritenevano non eseguiti da mano umana, e dalle reliquie. La falsificazione delle gemme cominciò molto presto per soddisfare i gusti classici degli imperatori carolingi e ottoniani; molte gemme false, eseguite per Federico II di Svevia, passarono nella collezione di Lorenzo de' Medici. Antiche medaglie di Augusto, Tiberio, Costantino ed Eraclio furono acquistate nei primi anni del Quattrocento dal duca Jean de Berry; degli ultimi due tipi si conservano varie copie in stile palesemente borgognone. Nel Rinascimento lo studio dell'antico e la dichiarata volontà di imitarne i modelli resero estremamente ambigui i confini fra copia, imitazione e falso. L'identificazione con l'antico era però soprattutto una tenace volontà di immedesimazione e di ricreazione che, almeno nelle intenzioni primarie, nulla aveva in comune con la fraudolenta opera del falsario. Con questo spirito a Padova e a Venezia venivano prodotti marmi e bronzi "all'antica", anche con le mutilazioni che il tempo aveva provocato sui pezzi autentici (ad es., quelli di Tullio Lombardo). Valerio Belli, Vittore Gambello, detto il Camelio, Giovanni da Cavino erano ritenuti fra i più abili esecutori di "bronzi all'antica" e di monete e medaglie, mentre la collezione Grimani si popolava di bronzi e sculture pseudoantichi o ampiamente rilavorati. Fra i primi vanno in particolare ricordati i ritratti di Vitellio e di Traiano, entrambi usciti da botteghe venete. I ritratti romani, in particolare la serie dei dodici Cesari, rappresentarono un elemento fondamentale della decorazione architettonica dei palazzi patrizi. Lo straordinario interesse per le opere del passato accrebbe il valore dei pezzi autentici, che venivano anche venduti, come si è visto, con false attribuzioni. Lo ricorda anche Poggio Bracciolini a proposito di alcuni mercanti greci possessori di teste marmoree spacciate come opere di Policleto e di Prassitele. Sculture di Policleto erano state offerte a Ciriaco d'Ancona. Il noto episodio del Cupido dormiente di Michelangelo, sotterrato per acconciarlo "all'antica" e venduto nel 1496 al cardinale Riario, sembra nascere piuttosto da una giovanile provocazione che dall'intento di gabellare per antica un'opera contemporanea. Già un anno prima il fiorentino Pietro Maria Serbaldi da Pescia aveva seppellito a Roma una tazza di porfido da lui eseguita, per poi disseppellirla all'entrata di Carlo VIII (1495): l'opera fu acquistata come antica dal collezionista veneziano Francesco Zio, ma poi riconosciuta come falsa da Francesco Michiel. Anche Benvenuto Cellini (Vita, III, 3) aveva cesellato un vaso d'argento che fu venduto per antico. Esecutore di teste in marmo vendute per antiche fu, a detta del Vasari (Vite, VII), Tommaso (Della) Porta, appartenente ad una dinastia di scultori lombardi. Lo scultore fiorentino Simone Bianco (1512-1548) rilavorò invece ritratti romani di I e II secolo, che poi firmò con il suo nome in greco, Simon Leukòs, seguito dall'appellativo "veneziano". Nella seconda metà del Cinquecento a statue antiche vennero attribuite con iscrizioni apografe paternità illustri. Nello stesso tempo la collezione Benavides a Padova si arricchì di due imitazioni di vasi italioti illustrati in un linguaggio tardo cinquecentesco. La voga dei "pasticci" esplose però nel XVII secolo, contemporaneamente al consolidarsi delle grandi collezioni. Artisti illustri furono chiamati a restaurare le sculture antiche; Ippolito Buzzi, l'Algardi, il Bernini si esercitarono soprattutto sulla collezione Ludovisi. Accostando frammenti e statue diversi e sapientemente integrandoli, essi crearono nuove opere e nuovi gruppi, spesso molto lontani dall'originale, ma efficace espressione della loro lettura dell'antico. Un falso egizio dello stesso secolo è il cosiddetto "busto di Iside" del Museo Egizio di Torino, proveniente dalle collezioni sabaude. La testa è in stile classicheggiante, con strani segni cabalistici che nella seconda metà del Settecento diedero luogo a dispute famose. I primi falsi etruschi nacquero nel clima del collezionismo settecentesco e degli studi di "etruscheria". Fra i compiti della Deputazione Volterrana vi era anche quello di "invigilare che non sian commesse delle fraude in pregiudizio della stima ben grande che hanno acquistato in Toscana e fuori gli studi dei Caratteri Etruschi" (18 luglio 1744). Un evento che doveva modificare profondamente la conoscenza dell'arte antica e incidere in modo determinante sugli orientamenti del gusto, di conseguenza anche sul falso, fu la scoperta di Ercolano e di Pompei. Ne approfittò un artista veneziano, G. Guerra, allievo di F. Solimena e attivo a Napoli intorno alla metà del secolo, il quale eseguì molte false pitture romane utilizzando talvolta anche frammenti antichi. Ne vendette ai gesuiti per il loro Museo Kircheriano e ad altri collezionisti romani. Ingannò fini studiosi e conoscitori, come il conte di Caylus e il J.-J. Barthélemy; egli utilizzava una tecnica mista, a fresco, a tempera e ad encausto, cospargeva poi la pittura di tartaro e la riscaldava, finché la superficie non aveva acquistato un colore rossastro. Alla stessa epoca risale probabilmente la cosiddetta Musa di Cortona o Polimnia, dipinta su una lastra di ardesia con una tecnica che arieggia l'encausto, e una Cleopatra, della quale oggi si è persa notizia. Se Winckelmann non fu ingannato dalle false pitture di Guerra, cadde invece vittima di una frode ordita da G.B. Casanova che gli presentò alcuni disegni di un gruppo di cosidetti "affreschi" di provenienza imprecisata, forse Ercolano. Nella prima edizione della Geschichte der KunstWinckelmann li pubblicò; di essi rimane il Giove e Ganimede, oggi alla Galleria Nazionale di Arte Antica di Roma, attribuito ad A.R. Mengs o allo stesso Casanova. L'opera è chiaramente ispirata al Marsyas e Olympos pubblicato nel primo volume delle Pitture di Ercolano tre anni prima della comparsa sul mercato del falso (1760), ma vi è anche evidente il ricordo del Giove e Cupido dipinto da Raffaello nella villa della Farnesina. Accanto alle pitture murali sono anche da segnalare falsi mosaici, alcuni dei quali eseguiti su rilievi ("rilievi a mosaico"). La proliferazione dei falsi e delle imitazioni era favorita da una domanda crescente: i giovani aristocratici che venivano da Oltralpe per compiere il grand tour desideravano ripartire con un tangibile segno della propria iniziazione alla classicità. Lo trovavano nelle botteghe romane, in particolare in quella di B. Cavaceppi (1716-1799), che, interprete non sempre fedele della lezione di Winckelmann, raccoglieva, restaurava, acconciava, riproduceva marmi antichi. L'interesse non si rivolgeva, però, solo alle grandi sculture, ma anche agli oggetti minori, secondo una scelta di gusto che sarà cara anche agli enciclopedisti. Così nella grande collezione di lucerne raccolte da G.B. Passeri (Lucernae fictiles Musei Passeri, 1739) si ritroveranno molti esemplari falsi e altri autentici con false epigrafi. Prosegue inoltre in questo secolo la produzione di gemme e monete, spesso senza intenti deliberatamente dolosi. Nella seconda metà del XIX secolo, tra le frodi che ebbero maggiore risonanza non si può tacere quella di 1700 oggetti in terracotta con iscrizioni incomprensibili, venduti ai Musei di Berlino (1878) col nome di Mohabitica (dal nome di una fantomatica arte dei Mohabiti), opera di un rozzo pittore di icone di Gerusalemme. Nello stesso periodo la politica degli acquisti di alcuni grandi musei europei e americani e di alcuni collezionisti privati favorì lo smercio dei falsi. La collezione Campana, dispersa fra San Pietroburgo, Parigi, Londra, Roma e Firenze, conteneva numerosi falsi. Una buona parte di essi si doveva alla mano di P. Pennelli, che fu anche l'artefice di un sarcofago etrusco in terracotta venduto ad Alessandro Castellani e successivamente acquistato dal British Museum. Il nome di Alessandro Castellani riconduce ad una cerchia di antiquari, eruditi, bronzisti, orefici e falsari operanti a Roma nel XIX secolo. M. Guarducci ne ha esplorato le attività e l'intricata rete di rapporti internazionali soprattutto in relazione alla contestata autenticità della "fibula prenestina", già venerato incunabolo dell'oreficeria e dell'epigrafia antica. Fortunato Pio Castellani e i figli Augusto e Alessandro furono soprattutto abilissimi orafi che si specializzarono nelle tecniche antiche. Le loro opere non furono dei falsi, ma raffinate imitazioni realizzate spesso con l'impiego di gemme, scarabei e monete autentiche; tuttavia alcune di esse furono vendute per antiche. Come avvenne per molti altri oggetti, queste opere sono da considerare veri e propri pasticci. Tale è un carro acquistato dal British Museum nel 1911, costruito da un abile artigiano, P. Riccardi. Tali sono bronzetti, specchi, ciste, autentici, ma con decorazioni e iscrizioni false; fra gli oggetti più famosi va ricordata la cista Pasinati, abbellita da un'incisione che illustra le origini di Roma e che finì al British Museum nel 1884. I connotati dell'arte etrusca serbavano ancora delle zone d'ombra che offrivano ai falsari maggiori possibilità di mimetismo. Analogamente avvenne per una serie di idoletti sardo-fenici, opera di un certo Cara, nonché per tutti quegli oggetti che venivano smerciati come manufatti di civiltà meno note. Uno dei falsi più famosi della seconda metà del secolo XIX fu la cosiddetta Tiara di Saitaferne, un copricapo in oro massiccio riccamente decorato e recante due fregi, l'uno con episodi dell'Iliade e l'altro con scene della vita degli Sciti. Un'iscrizione in caratteri greci recava una dedica a Saitaferne da parte dei popoli di Olbia. Fu acquistato dal Louvre, ma ben presto si rivelò opera di un ebreo russo di Odessa, I. Rouchomowsky, che aveva sfruttato l'interesse suscitato dai recenti, splendidi ritrovamenti nel Bosforo Cimmerio. Fra i falsari della fine dell'Ottocento va ricordato anche il nome di A. Scappini che riprodusse il vaso di Boccoris del museo di Tarquinia. Egli aveva firmato la sua opera, che però, immessa sul mercato senza il frammento che conteneva la sua firma, entrò nella collezione Sacchini e poi al museo di Bonn. Una coppa, riproduzione di quella di Oltos ed Euxiteos, sempre a Tarquinia, trasse in inganno uno specialista come E. Pottier. Una forma più sottile di falsificazione si valse inoltre di vasi antichi acromi, sui quali furono dipinte scene e figure, come avvenne per la cosiddetta "coppa di Nephele", già nella collezione Tyszkiewicz, illustrata da A. Furtwängler, abile scopritore di falsi, e per i tondi di Centuripe, smascherati da C. Albizzati. I primi decenni del XX secolo sono dominati dalla singolare figura di A. Dossena. Abilissimo e raffinato imitatore di tutti gli stili, la sua opera spaziò dall'epoca arcaica a quella rinascimentale. Le sue statue furono acquistate da numerosi musei stranieri e ingannarono studiosi di vaglia. Per l'arte antica vanno ricordate la scena di ratto (il cosiddetto "gruppo da Velia"), ispirato al gruppo di Teseo e Antiope dal frontone del tempio di Apollo a Eretria, una Atena gradiente, acquistata dal museo di Cleveland (1926), una kore, per la quale erano state approntate due teste, che finì al Metropolitan Museum di New York. Tutte queste statue, in stile tardo arcaico, erano in marmo, mentre in terracotta è una delicata statua femminile comprata dalla Ny Carlsberg Glyptotek nel 1930 con forti reminescenze dell'Apollo di Veio. Un'altra statua in terracotta di sapore eclettico, la Diana col cerbiatto, è al museo di Saint Louis dal 1952. Nel 1933 furono presentate al Metropolitan Museum di New York due colossali statue di guerrieri e una testa pure di guerriero, tutte in terracotta dipinta. Si trattava di falsi grossolani, fabbricati nel 1914 in un laboratorio di Orvieto da R. Riccardi, figlio del già menzionato P. Riccardi, da due suoi cugini e da A.A. Fioravanti. Vendute in frammenti, furono esposte in un momento nel quale le strepitose scoperte di Veio richiamavano l'attenzione degli studiosi e dei profani sull'arte etrusca. Se già le opere di Dossena rivelano la mano di un esecutore di rango, i falsi eseguiti dopo la metà del secolo denotano una più approfondita conoscenza degli stili e delle tecniche imitate, nonché delle più recenti scoperte delle scienze applicate all'archeologia. Ancora al mondo etrusco si rivolge un gruppo di lastre in terracotta dipinta di tipo ceretano immesse sul mercato svizzero intorno agli anni Sessanta, ora disperse fra i musei di Parigi (Louvre), Monaco, Basilea, Boston e presso l'Università di Berna; per esse le forti perplessità stilistiche hanno trovato conferma nelle analisi della terracotta e dei pigmenti. Da un'officina romana, ove lavorava un certo Ermegildo (detto Gildo) Pedrazzoni, uscì la nota stele Schiff-Giorgini. Non è possibile, né sarebbe necessario, enumerare tutti i falsi che hanno costellato la storia dell'archeologia; spesso si sono rivelati come spiacevoli infortuni nella carriera di brillanti archeologi. La buona fede e l'entusiasmo hanno giocato il ruolo di cattivi consiglieri in una disciplina dalle conoscenze tuttora lacunose. A conferma di quest'ultima costatazione va ricordato che vi sono ancora opere, come il Trono di Boston, sulle quali pende un giudizio irrisolto. La problematicità dell'interpretazione degli esami fisici, ad esempio per l'autenticazione dei marmi, è riconosciuta peraltro dagli stessi scienziati ed è valida, quindi, solo se è di supporto all'analisi critica: ulteriore conferma di come un giudizio in tema di falso e autentico diviene attendibile solo se vi è convergenza fra i dati emersi dall'esame globale del manufatto.
In generale:
K. Kluge, Die antike Erzgestaltung, in K. Kluge - K. Lehmann Hartleben, Die antike Grossbronzen, I, Berlin - Leipzig 1927, pp. 236-45; F. Carnelutti, Storia del falso, Padova 1935; T. Würtenberger, Das Kunstfälschertum, Weimar 1940; R. Bianchi Bandinelli, Antico non antico, in JWCI, 9 (1946), pp. 1-9; C. Albizzati, s.v. Falsificazione, in EI, XIV, 1951, pp. 756-59; G. Isnard, Faux et imitation dans l'art, Paris 1959- 60; D. Mustilli, s.v. Falsificazione, in EAA, III, 1960, pp. 576-89; F. Arnau, Arte della falsificazione. Falsificazione dell'arte, Milano 1961; C. Brandi - L. Vlad Borrelli, s.v. Falsificazione, in EUA, V, 1961, cc. 312-30; C. Kurz, Falsi e Falsari, Vicenza 1961; M. Pallottino, Il problema delle falsificazioni d'arte etrusca di fronte alla critica, in AttiSLuca, 5 (1961), pp. 3-11; L. Vlad Borrelli, Ambiguità del falso, in ArchCl, 24 (1971), pp. 93-104; S.J. Fleming, Authenticity in Art, London - Bristol 1975; K. Türr, Fälschungen antiker Plastik teil 1800, Berlin 1984; E. Formigli, Tecnica dell'oreficeria etrusca e romana. Originali e falsificazioni, Firenze 1985; E. Paul, Falsificazioni di antichità in Italia dal Rinascimento alla fine del XVIII secolo, in S. Settis (ed.), Memoria dell'antico nell'arte italiana, II, Torino 1985, pp. 415-39; A. Andrèn, Deeds and Misdeeds in Classical Art and Antiquities, Partille 1986; O. Rossi Pinelli, Chirurgia della memoria: sculture antiche e restauri storici, in S. Settis (ed.), Memoria dell'antico nell'arte italiana, III, Torino 1986, pp. 181-250; P. Coco, Teoria del falso d'arte, Padova 1988; M. Jones (ed.), Fake? The Art of Deception, London 1990; P. Cellini, Falsi e restauri, Roma 1992; E. Formigli, Falsificazioni di oreficerie etrusche, in Gli Etruschi e l'Europa (Catalogo della mostra), Milano 1992, pp. 432-39; L. Vlad Borrelli, Falsi, pasticci, imitazioni, ibid., pp. 432-39; N. Cuomo di Caprio, La galleria dei falsi. Dal vasaio al mercato di antiquariato, Roma 1993.
Per alcuni casi particolari:
W. Lusetti (ed.), Alceo Dossena scultore, Roma 1955; F. Baroni, Una nota sul trono Ludovisi e sul trono di Boston, Roma 1961; D.V. Bothmer, An Inquiry into the Forgery of the Etruscan Terracotta Warriors, New York 1961; L. Alscher, Götter vor Gericht. Das Fälschungsproblem des bostoner "Thronos", Berlin 1963; S.J. Fleming - H. Jucker - J. Riederer, Etruscan Wall-Paintings on Terracotta. A Study in Authenticity, in Archaeometry, 13 (1971), pp. 143-67; G. Bordenache Battaglia, Le ciste prenestine, I, Roma 1979; Ead., Oreficerie Castellani, in G. Proietti (ed.), Il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma 1980, pp. 319-48; M. Cagiano de Azevedo, La Polimnia di Cortona e Marcello Venuti, in Storia dell'Arte, 39-40 (1980), pp. 389-92; M. Guarducci, La cosidetta fibula prenestina. Antiquari, Eruditi e Falsari nella Roma dell'Ottocento, in MemLinc, 24 (1980), pp. 415-574; G. Munn, Les bijoutiers Castellani et Giuliano, Fribourg 1983; M. Guarducci, La cosidetta fibula prenestina. Elementi nuovi, in MemLinc, 28 (1984-86), pp. 127-77; U. Procacci, Giudizi sfavorevoli già espressi nel XVIII secolo circa l'autenticità della "Polimnia", in M.G. Marzi Castagli - L. Tamagno Perna (edd.), Studi di antichità in onore di Guglielmo Maetzke, Roma 1984, pp. 647-55; M. Guarducci, Il cosidetto Trono di Boston, in BdA, 43 (1987), pp. 49-62; R. Rolle - W. Herz, Betrachtungen zur "Tiara des Saitaphernes", in Gedenk Driehaus, Mainz a. Rh. 1990, pp. 251-63; M. Guarducci, Nuova appendice alla storia della "fibula prenestina", in RendLinc, 9, 2 (1991), pp. 139-46; E. Formigli, Indagini archeometriche sull'autenticità della fibula prenestina, in RM, 99 (1992), pp. 329-43; E. Paul, Die "Tiara des Saitaphernes", in AW, 25 (1994), pp. 266-72; Il Trono Ludovisi e il Trono di Boston. Atti del convegno (Venezia, 12 settembre 1996), Venezia 1997.
di Isabella Damiani
Riproduzioni di oggetti preistorici venduti come autentici, ritrovamenti di "oggetti strani" che si richiamavano nella forma a manufatti preistorici, contraffazioni di vario genere si sono avuti in Europa sin dalla metà dell'Ottocento, quando l'entusiasmo per la nascente disciplina preistorica produsse un certo interesse per questo settore anche da parte dei falsari, sia professionisti sia improvvisati. Un caso famoso fu quello dell'inglese Flint Jack, il cui vero nome era E. Simpson, noto per aver fabbricato oggetti in selce per oltre vent'anni tra il 1841 e il 1862. In Europa va considerata, inoltre, l'esistenza di una produzione a scopo di lucro di manufatti, come strumenti e armi in selce, ciottoli dipinti, fibule e altri ornamenti in metalli anche preziosi, vasellame, che imitano in maniera più o meno precisa le produzioni pre- e protostoriche e che possono talvolta trovare posto nelle vetrine di musei e di collezionisti. L'identificazione delle frodi ha seguito percorsi diversi a seconda della loro natura e del contesto storico nel quale sono state realizzate. I criteri utilizzati vanno dall'esame critico delle tecniche di realizzazione (ad es., strumenti litici recanti tracce di attrezzi metallici per la loro realizzazione, regolarità di esecuzione) e del grado di conservazione (eccessiva lucentezza delle pitture, assenza o anomalie delle patine, di concrezioni, ecc.) all'utilizzo di metodi sofisticati di datazione (termoluminescenza, ecc.). Si è trattato in alcuni casi di rinvenimenti che ebbero notevole peso nel dibattito scientifico, poiché costituivano delle risposte ad hoc rispetto a questioni di grande attualità. Inconsapevoli vittime furono talvolta studiosi illustri, come J. Boucher de Perthes, al quale furono consegnati nel 1863 una mandibola umana e strumenti litici "provenienti" dalle ghiaie di Abbeville. Fu poi dimostrato che erano stati alcuni operai della cava di Moulin-Quignon a realizzare le amigdale e a collocarle nella cava, insieme ad una mandibola di età recente, vista la promessa di una ricompensa, fatta dallo stesso studioso, per chi avesse fornito elementi utili a dimostrare l'associazione tra animali estinti, resti umani e industria litica. Nel caso delle selci di Breonio, le discussioni sulla loro autenticità si protrassero per circa cinquant'anni e coinvolsero numerosi archeologi in una disputa che raggiunse anche toni molto aspri. La questione iniziò nell'ultimo ventennio del XIX secolo, quando dapprima G. Chierici e poi L. Pigorini avevano illustrato e difeso l'autenticità degli strumenti litici rinvenuti da S. de Stefani in diverse località del territorio veronese. Questi manufatti presentavano forme e talvolta dimensioni inconsuete, che non trovavano confronti nel repertorio tipologico dell'industria litica europea. La loro autenticità fu contestata per la prima volta da G. de Mortillet nel 1885; lo scambio di opinioni che seguì vide contrapposti gli studiosi italiani, ma anche personaggi come F. von Duhn, che difendevano le posizioni di L. Pigorini, e una nutrita schiera di archeologi europei, tra cui H.W. Seton Karr, che la contestavano. La polemica si placò nei primi anni del Novecento, senza che da parte dei difensori dell'autenticità dei manufatti fosse ufficialmente ammessa la sconfitta; ancora negli anni Trenta P. Ducati e U. Rellini si interrogavano sulla natura delle selci di Breonio. Il più famoso falso della preistoria può però essere considerato il cranio di Piltdown (Inghilterra). La "scoperta" in una cava di ghiaia, tra il 1912 e il 1915, di resti di un cranio con caratteri umani e di una mandibola con caratteri scimmieschi, ma con denti usurati secondo le modalità della specie umana, associati a strumenti in selce e resti di animali estinti, condizionò gli studi sull'evoluzione dell'uomo fino agli anni Cinquanta. La disputa circa l'antichità dei reperti e le conseguenze che questa scoperta apportava al dibattito sull'affermazione del genere Homo coinvolse paletnologi e antropologi, a cominciare da M. Boule, che solo dopo la notizia del ritrovamento di un altro cranio nello stesso luogo accettò l'autenticità della scoperta. Solo gli studi di W.E. Le Gros Clark, insieme ai risultati delle analisi del dosaggio del fluoro effettuate nel 1953 da J.S. Weiner e di K.P. Oakley, stabilirono in modo inequivocabile la modernità dei reperti paleoantropologici. Anche se non se ne ha la certezza, è verosimile che l'autore della beffa di Piltdown sia stato lo stesso scopritore, Ch. Dawson.
A. Vayson de Pradenne, Les fraudes en archéologie préhistorique, Paris 1932; N. Cuomo di Caprio, La galleria dei falsi. Dal vasaio al mercato di antiquariato, Roma 1993; M. Jones - M. Spagnol (edd.), Sembrare e non essere. I falsi nell'arte e nella civiltà, Milano 1993; G.M. Bulgarelli - E. Pellegrini, 1875-1925: i primi cinquant'anni del "Bullettino di Paletnologia Italiana", in M. Bernabò Brea - A. Mutti (edd.), "...le terremare si scavano per concimare i prati...", Parma 1994, pp. 235-41.
di Filippo Salviati
Nei Paesi dell'Estremo Oriente la produzione di falsi archeologici ha conosciuto lo sviluppo più intenso e prolungato nel tempo in Cina, costituendo un fenomeno per molti aspetti unico nel suo genere che, iniziato a partire dalla dinastia Song (960-1279 d.C.), si è protratto senza soluzione di continuità fino ai giorni nostri. All'origine di questa prolungata attività di falsificazione vi sono inizialmente fattori di carattere eminentemente culturale, ai quali si sono successivamente aggiunte motivazioni di ordine economico e sociale. La contraffazione di manufatti archeologici e di opere d'arte tout court ebbe infatti inizio nella Cina dell'epoca Song a seguito di un accrescersi dell'interesse manifestato da uomini di cultura, letterati, artisti o dagli stessi imperatori cinesi per il passato del proprio Paese e per i manufatti prodotti dalle dinastie dell'età del Bronzo. Il fenomeno, sinteticamente definito come "ritorno all'antico", si estrinsecò in una molteplicità di manifestazioni, che andavano dallo scavo di tombe antiche, e quindi da forme di ricerca archeologica ante litteram, al collezionismo delle opere dell'antichità, in particolare bronzi e giade dei periodi Shang-fase Yin (XIII sec. a.C.-1050/1045 a.C.), Zhou (1050/1045-256 a.C.) e Han (206 a.C. - 220 d.C.), allo studio sistematico dei reperti. Essi furono classificati, descritti e pubblicati in quelli che risultano i primi cataloghi della storia cinese: il Kaogu tu ("Repertorio illustrato di antichità"), degli inizi dell'XI secolo, e lo Xuanhe bo gu tu lu ("Repertorio illustrato delle antichità conservate nello Xuanhe"; quest'ultimo termine è il nome dato all'edificio dove si conservavano le collezioni imperiali), redatto negli anni tra il 1107 e il 1110 su ordine dell'imperatore Huizong. Un altro importante aspetto di tale "ritorno all'antico" fu la realizzazione di opere arcaizzanti, cioè di manufatti che nei materiali, nelle forme e nelle decorazioni si ispiravano direttamente ai modelli antichi, in particolare ai bronzi rituali. Non si trattava certo, in questo particolare caso, di una vera e propria manifattura di falsi; tuttavia, l'abilità degli artigiani, unita al desiderio dei committenti di poter "ricreare" augusti e venerati oggetti del passato, portò alla realizzazione di opere difficilmente distinguibili dai prototipi originali, quale un famoso tripode in bronzo (lo "Zhenghe ding", datato al 1116) oggi conservato nelle collezioni del National Palace Museum di Taipei a Taiwan. Quest'attività di ricerca e studio delle antichità si accompagnò allo sviluppo di un fiorente mercato di reperti archeologici e di opere d'arte che già alla fine del X secolo aveva in Kaifeng, capitale dei Song Settentrionali, uno dei suoi centri principali. Con il progressivo accrescersi del numero di collezionisti e quindi della richiesta di oggetti antichi, aumentò anche il numero di falsi che venivano prodotti, sì da soddisfare la sempre maggiore richiesta di manufatti arcaici. La prolifica attività dei falsari, già pienamente sviluppata nel periodo Song, proseguì dunque nelle successive epoche Yuan (1272-1368), Ming (1368-1644) e Qing (1644-1911), di pari passo con l'evolversi e l'espandersi del collezionismo di cose antiche e oggetti d'arte, costringendo gli studiosi ad elaborare una serie di criteri utili per l'autenticazione dei reperti antichi, in specie bronzi arcaici, imitati non solo nelle forme, ma anche nella patina e nelle iscrizioni. I processi di contraffazione, sempre più accurati e perfezionati, erano elaborati e piuttosto lunghi, come sappiamo da resoconti in testi delle epoche Ming e Qing: i bronzi venivano invecchiati artificialmente mediante il trattamento con soluzioni di sali metallici, interrati per giorni, cosparsi con sostanze che ne alteravano la superficie e inducevano modificazioni nel metallo tali da far loro acquisire la colorazione riscontrabile nei reperti di scavo. Anche le giade subivano analoghi procedimenti di invecchiamento artificiale: non poche delle giade "arcaiche" collezionate dall'imperatore Qianlong (1736-1795) della dinastia Qing si sono rivelate all'analisi moderna falsi di epoca Ming. Nei periodi successivi ai Song proseguì inoltre la realizzazione di opere arcaizzanti, fatto che complica non poco il lavoro degli studiosi moderni quando occorre distinguere tra oggetti arcaizzanti o falsi d'epoca. Il fenomeno attuale della falsificazione di reperti archeologici e di opere d'arte antiche cinesi continua dunque questa lunga tradizione, anche se oggi esso ha assunto dimensioni senza precedenti, proporzionate del resto alla crescita del numero di collezionisti, asiatici come occidentali, che, soprattutto negli ultimi decenni, si sono orientati sempre più verso l'acquisizione sul mercato antiquario internazionale di reperti provenienti da scavi clandestini. Accanto ad una produzione falsaria "tradizionale", orientata cioè verso la riproduzione di tipologie da tempo note, come le figurine funerarie in terracotta delle epoche Han (206 a.C. - 220 d.C.) e Tang (618-907 d.C.), oppure ceramiche antiche, bronzi, giade, costituisce un fenomeno piuttosto nuovo la riproduzione di reperti di scavo che segue a breve distanza di tempo la pubblicazione dei ritrovamenti in riviste specializzate o in cataloghi di mostre. Nella maggior parte dei casi, le riproduzioni fotografiche costituiscono infatti per molti falsari la fonte principale da cui trarre ispirazione per eseguire copie più o meno fedeli dei manufatti provenienti da scavo. Per citare un esempio, le numerose giade rinvenute in siti della cultura tardoneolitica Liangzhu (3300-2200 a.C. ca.), scavati dagli anni Ottanta in poi, sono state quasi immediatamente riprodotte dai falsari (anche a seguito del clamore suscitato dai ritrovamenti e dal conseguente desiderio dei collezionisti di ottenere esemplari di questi manufatti), che hanno letteralmente inondato il mercato antiquario con copie degli oggetti scavati. La falsificazione dei reperti archeologici cinesi è quindi anche attualmente legata al mercato antiquario, così come lo fu in origine durante l'epoca Song; ciò costringe gli specialisti ad operare un monitoraggio continuo delle opere d'arte e dei reperti archeologici di provenienza sospetta per appurarne l'autenticità.
R. Kerr, Later Chinese Bronzes, London 1990; I. Graham, Fakes and Forgeries, London 1993, pp. 68-78; E.C. Bunker, A New Dilemma: Recent Technical Studies and Related Forgeries, in Orientations, 25, 3 (1994), p. 90; J.C.Y. Watt, Antiquarianism and Naturalism, in W.C. Fong - J.C.Y. Watt (edd.), Possessing the Past. Treasures from the National Palace Museum, Taipei, New York 1996, pp. 219-55; P. Meyers, Ancient Chinese Gold: Is It Really Old?, in Orientations, 28, 3 (1997), pp. 117-18; F. Salviati, Archaic Jades, Modern Fakes: Problems and Solutions, in Arts of Pacific Asia Show, New York 1998, pp. 19-21.
di Giovanna Antongini,Tito Spini
La teoria evoluzionistica ha influenzato a lungo il giudizio di studiosi ed esperti, riluttanti a riconoscere capacità estetiche in popoli considerati primitivi, tanto che nel 1910 L. Frobenius, di fronte alle straordinarie sculture Ife (Nigeria), ipotizzò una loro dipendenza dalla Grecia. Sempre a Frobenius è legato il più celebre e più discusso falso: la testa detta Ori Olokun, oggi conservata nel museo di Ife, primo esemplare tra i famosi bronzi ad essere riportato dalla letteratura. Queste speculazioni ebbero fine solo dopo il 1943 con la scoperta delle terrecotte di Nok (Nigeria), datate tra il 500 a.C. e il 200 d.C., epoca che esclude qualsiasi contatto con gli Europei. Il fenomeno dei "falsi" oggetti d'arte africana è un problema relativamente recente, esploso soprattutto dagli anni Sessanta, ossia dal momento in cui al saccheggio di questi manufatti strani, esotici e intriganti da parte dei primi viaggiatori, missionari o ufficiali degli eserciti coloniali, si sono sostituiti l'incetta dei mercanti e il crescente interesse dei turisti. Accanto a innegabili esempi di falsificazione deliberata, è necessario distinguere ciò che F. Willet (1976) definì "un continuum piuttosto che una dicotomia" tra vero e falso nella produzione artistica africana. Di fatto, sebbene la conquista e l'occupazione coloniale abbiano svuotato di potere regni, chefferies e sedi di culti tradizionali, razziando gli oggetti simbolo d'autorità e di prestigio, poteri e oggetti si sono in seguito ricostruiti e, nell'ambito socioculturale che le ha prodotte, queste "copie" sono indiscutibilmente vere, mentre falsi vengono ritenuti gli esemplari esposti nei musei d'Europa e d'America, perché decontestualizzati e desacralizzati. Il criterio ufficialmente accettato per definire l'autenticità di un oggetto d'arte africana specifica che esso "deve essere stato realizzato da un artista tradizionale, per uno scopo tradizionale e in conformità a forme tradizionali" (Cornet 1975). In quest'ottica si dovrebbe dunque ritenere falsa anche la mirabile saliera in avorio, oggi presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma, proveniente dalla Sierra Leone ed eseguita da un artigiano Bulom nel XV-XVI secolo probabilmente su ordinazione dei Portoghesi approdati in quell'epoca sulle coste del Golfo di Guinea. Ciò porterebbe anche a negare all'arte africana qualunque forma d'innovazione, mentre nuove influenze e apporti hanno da sempre caratterizzato le espressioni culturali di ogni società. Esistono inoltre numerosi esempi del passaggio da una produzione artistica vera a una falsa e viceversa. La comunità religiosa Bwani del popolo Lega (Repubblica Democratica del Congo), bandita nel 1948, all'avvento dell'indipendenza riprese a celebrare le cerimonie tradizionali e a produrre oggetti rituali; tuttavia, memore dell'interesse dimostrato dagli Europei per quei manufatti, si impegnò in una produzione parallela destinata al commercio. Un processo contrario è rilevabile, sempre nella Repubblica Democratica del Congo, per crocifissi, statue o medaglie importati dai missionari cristiani alla fine del XV secolo; dapprima riprodotti localmente come copie più o meno fedeli degli originali, questi manufatti acquistarono via via maggiore indipendenza stilistica, tanto da essere considerati oggetti tipicamente africani e come tali esposti nei maggiori musei: un falso divenuto autentico. Sul mercato interno, sculture, maschere, terrecotte, oggetti in bronzo o pietra hanno maggiore valore se nuovi, perché ritenuti "più forti" e non contaminati da precedenti usi, all'opposto della domanda dei collezionisti stranieri, che identificano nell'aspetto usato un segno di autenticità. In Africa molti artigiani vendono ancora oggi le loro opere come arte contemporanea eseguita secondo stili e modelli tradizionali, ma i compratori le immettono sui mercati stranieri come merce d'antiquariato, adeguando i prezzi alla falsa attribuzione; questo ha indotto a falsificare localmente manufatti spesso di buona o eccellente qualità invecchiandoli artificialmente. Una patina convincente può essere ottenuta sul bronzo o sul legno con un impasto d'argilla, acido solforico e latte, mentre l'interno di maschere assume un aspetto usato attraverso l'utilizzo di sostanze grasse miste a materie organiche. Le tracce di animali xilofagi possono essere riprodotte sparando sull'oggetto con un fucile caricato con minuscoli pallini o sabbia; spesso il manufatto viene in seguito seppellito perché umidità e abrasione cancellino l'eccessiva precisione dei fori. Altre comuni tecniche di invecchiamento consistono nel graffiare le superfici degli oggetti con strumenti appuntiti, nel seppellirli all'interno di termitai o nel riporli in sacche di pelle appese nei recinti degli animali: il continuo sfregamento leviga in breve tempo superfici ruvide o parti spigolose. Allo stesso modo le superfici dei pesi Asante, anticamente usati per la polvere d'oro, o di piccole figure in leghe di metallo diventano piacevolmente polite dopo essere state lungamente agitate dentro barattoli riempiti di sabbia. Ai falsi di riproduzione locale si aggiungono quelli europei, come le maschere Chokwe fabbricate a Lisbona con legno importato dall'Angola, le antilopi Bambara scolpite in Italia, le scatole e le coppe Kuba in finto avorio realizzate in Belgio sin dagli anni Trenta. Un ulteriore ostacolo all'individuazione dei falsi è rappresentato dalla mancanza di documentazione scientifica dei primi reperti ritrovati; ad esempio, per le celebri statue funerarie in steatite dei Kissi (Guinea, Sierra Leone), mancando un'analisi del rapporto tra materiale e contesto geologico della zona di estrazione, è assai arduo distinguere i veri dai falsi, pur se può insospettire l'eccesso di produzione, specie a partire dagli anni Trenta, periodo in cui l'occupazione coloniale ha certamente ridotto l'esercizio delle pratiche culturali e di conseguenza la fabbricazione degli oggetti connessi. Sono ormai ben noti i limiti sia della datazione mediante termoluminescenza (la necessità di prelevare campioni di materiale da diverse parti dell'oggetto e la variazione delle radiazioni dovuta all'affossamento progressivo del reperto) sia del metodo ¹⁴C, possibile solo su organismi che partecipano al ciclo del carbonio. Data la complessità e l'ambiguità dei criteri volti a stabilire l'autenticità di un oggetto d'arte africana, le soluzioni adottate possono solo tentare di arginare il fenomeno. A questo scopo nel 1975 la College Art Association of America ha adottato un codice etico che, insieme ad altri obblighi, invita esperti e storici dell'arte a pubblicare le fotografie degli oggetti dichiarati non autentici, così da escluderli dal mercato.
L. Frobenius, Und Afrika sprach, Berlin 1912-13; J. Cornet, African Art and Authenticity, in AfrArts, 1 (1975); F. Willet, True or False? The False Dichotomy, ibid., 3 (1976), pp. 8-14; J. Poulet, À propos de thermoluminescence, in ArtsAfrNoire, 76 (1990), pp. 55-59.
di Claude-François Baudez
Molti archeologi tendono a pensare che la contraffazione di oggetti archeologici sia un fenomeno pressoché sconosciuto nel passato: molto preoccupati quando si vedono presentare un manufatto rinvenuto negli ultimi cinquant'anni, confidano invece nell'autenticità di quelli conservati "presso famiglie" o in depositi da più di cento anni. In realtà, la produzione e il commercio di falsi risalgono in Messico e in Perù al XVI secolo. Nel quartiere di Tlatelolco (Città di Messico), laboratori di falsari si dedicavano alla fabbricazione di souvenirs destinati ai conquistadores e successivamente a viaggiatori, militari e funzionari coloniali. Gli artigiani di San Juan Teotihuacan, villaggio nei pressi del sito omonimo, iniziarono molto presto a copiare esemplari "antichi" e a crearne di nuovi. A partire dalla prima metà del XIX secolo, l'industria del falso è stata, in America Centrale come nei Paesi andini, una tra le più fiorenti. Fu in questo periodo che gli oggetti precolombiani, dopo una lunga fase di svalutazione, iniziarono ad essere apprezzati dagli antiquari e i reperti archeologici cominciarono ad essere ricercati dai collezionisti, spesso di origine europea, quali lo svizzero L. Vischer, la cui raccolta è all'origine del museo di Basilea, o il tedesco C. Uhde. Intorno al 1830 quest'ultimo, residente a Città di Messico, aveva alle sue dipendenze operai dediti esclusivamente allo scavo delle rovine preispaniche. L'inglese H. Christy, durante i suoi viaggi in Messico tra il 1856 e il 1857, riunì anch'egli una fra le più importanti collezioni dell'epoca. Vi era in quel periodo interesse e dunque richiesta di materiali archeologici, ma l'offerta rimaneva limitata a rinvenimenti occasionali o a qualche saccheggio. I falsari trovavano buone possibilità di piazzare i loro prodotti, dal momento che i pezzi autentici erano rari e le conoscenze degli acquirenti non adeguate. Accanto a una produzione intensiva di falsi in ceramica, proposti a chiunque per pochi pesos, alcuni falsari più ambiziosi fabbricavano raffinati oggetti in pietra o in oro, l'elevato prezzo dei quali li risarciva ampiamente del lavoro compiuto. Così l'autenticità di oggetti quali le maschere di pietra dura di Xipe Totec o i teschi di cristallo di rocca acquisiti tra il 1850 e il 1870, orgoglio di alcuni musei europei, è oggi contestata; da allora, infatti, nessun esemplare comparabile è stato rinvenuto negli scavi o è apparso sul mercato antiquario. Nel 1878 D. Charnay fece realizzare copie di alcuni oggetti del museo di Città di Messico, per rendersi infine conto che tutti gli "originali" erano falsi; nel 1889 W.H. Holmes calcolò che i tre quarti degli esemplari presenti nelle collezioni messicane erano anch'essi falsi. Numerosi sono inoltre i falsi raffigurati in buona fede nei disegni di illustri amatori, quali ad esempio F. Waldeck. In Perù la storia è stata del tutto simile; i musei europei e americani possiedono falsi vasi-ritratto Moche, risalenti alla prima metà del XIX secolo, realizzati sulla base di stampi originali. In epoca moderna le falsificazioni si sono verificate ogni qual volta l'offerta di oggetti autentici non è riuscita a coprire la domanda: così nel 1969 la riforma agraria in Perù, ostacolando l'attività dei saccheggiatori (huaqueros) di oggetti archeologici, ha stimolato quella dei falsari. Il restauro, campo nel quale i numerosi falsari hanno fatto le loro prime esperienze, è sovente all'origine stessa della falsificazione. Le ricerche dell'archeologo M. Uhle lungo la costa meridionale del Perù nel 1901 determinarono una considerevole domanda di ceramiche Nazca, alla quale i huaqueros risposero con un massiccio saccheggio. Innumerevoli vasi vennero rotti durante queste spoliazioni, ma molti furono recuperati e restaurati per essere venduti. Non sempre ci si limitava a incollare i frammenti di uno stesso vaso o a colmarne le lacune; spesso si assemblavano anche parti provenienti da manufatti diversi, creando ibridi dalle strane forme in cui motivi decorativi di periodi diversi si presentavano associati. Come risposta all'infatuazione per le ceramiche Huari, verificatasi tra gli anni Venti e gli anni Trenta, un illustre falsario arrivò a ridipingere interamente vasi antropomorfi Moche nello stile in voga e, più tardi, a fabbricare egli stesso ceramiche e a decorarle con motivi iconografici "originali". In Mesoamerica numerosi vasi Maya hanno subito l'intervento di restauratori poco scrupolosi che hanno completato o sostituito pitture scomparse. In Perù i vasi erotici sono molto ricercati, insieme alle imitazioni di vasi delle culture Chavín e Paracas, i cui originali sono molto rari, mentre in Colombia sono copiati frequentemente i fischiettieffigie Tairona. Per scoprire un falso si può fare ricorso ad analisi fisico-chimiche: le frodi possono infatti essere accertate attraverso l'analisi della composizione metallica degli oggetti di oreficeria e la comparazione con quella di oggetti autentici dello stesso stile. Ma i falsari eludono questo metodo fondendo gli oggetti metallici frammentati o schiacciati (e dunque invendibili) rinvenuti nelle sepolture e fabbricando, spesso mediante stampi di oggetti autentici, monili con la stessa composizione di quelli originali. In caso di dubbi sull'autenticità di una ceramica, si ricorre alla datazione per termoluminescenza, che offre buoni risultati a condizione che il prelievo venga effettuato su parti diverse dell'oggetto, di cui solo alcune zone potrebbero essere originali. I falsari hanno acquisito oggi una tale abilità tecnica che il miglior mezzo per accertare una falsificazione è quello di individuare eventuali errori stilistici o iconografici. In Perù accade frequentemente che i falsari si ispirino a un vaso di ceramica per fabbricarne uno di rame, o riproducano su un vaso il motivo di un pendente in oro. Si è giunti addirittura a riprodurre su un vaso alcune pitture murali di Mitla (Messico): le parti mancanti dell'originale erano assenti anche nella copia. Le incoerenze iconografiche possono consistere in un'errata interpretazione dell'originale: il falsario può ad esempio copiare in forma identica un elemento che la mancanza di spazio nell'originale fa apparire deformato. L'errore può anche risiedere nell'introduzione in una determinata composizione di elementi provenienti da un contesto diverso, come nel rappresentare prigionieri in un rituale con cui essi non hanno nulla a che fare; o ancora possono venire associate azioni e ambientazioni che sugli originali non si presentano mai insieme.
E. Boone (ed.), Falsifications and Misreconstructions of Pre-Columbian Art, Washington 1982; F. Solis, Vasijas y figuras de barro hechas en Tlatelolco en el siglo XIX, in RevAMex, 21 (1996), pp. 54-55; L. Batres, Antigüedades mexicanas falsificadas, falsificación y falsificadores, México s.d.
di Guido Devoto
L'accertamento dell'autenticità di un manufatto archeologico, vale a dire della sua provenienza certa da paleosuoli, sepolture o ripostigli d'epoca, a sostegno della sua coerenza cronologicotipologica e stilistica, non può oggi assolutamente più prescindere dall'applicazione ai reperti (o presunti tali) dei metodi fisici e chimici in grado di fornire elementi di valutazione oggettivi e, quando possibile, misure quantificabili. Quasi tutte le diverse discipline scientifiche sono coinvolte nell'impresa non facile di fornire all'archeologia contributi più "esatti" di caratterizzazione e datazione dei materiali e dei manufatti, elementi fondamentali in prima istanza per smascherare una falsificazione totale o parziale o, viceversa, riabilitare talora un autentico reperto "stilisticamente anomalo". Appare comunque indispensabile la collaborazione non soltanto tra archeologi, storici, critici dell'arte e specialisti delle diverse discipline scientifiche, ma anche all'interno dei vari filoni di indagine fisica, chimica, biologica, antropologica e delle scienze della Terra, allo scopo di integrare, confrontare o confutare i dati ottenuti.
Il primo passo per l'accertamento o la verifica tecnico-scientifica dell'autenticità di un presunto manufatto archeologico riguarda il controllo del materiale che lo costituisce. L'analisi della composizione fondamentale è già talora di per se stessa significativa al fine di selezionare i falsi più grossolani o ingenui. Tuttavia le vere "impronte digitali" dei manufatti archeologici si devono spesso ricercare nei cosiddetti "elementi in tracce", vale a dire nelle impurezze presenti in concentrazioni estremamente ridotte, in parti per milione (ppm) o addirittura parti per miliardo (ppb). La ricerca degli elementi in tracce consente non soltanto di caratterizzare in modo ben più preciso un materiale di uso archeologico (e di indagare meglio sui processi di fabbricazione del manufatto), ma anche di stimarne spesso la provenienza. Ad esempio, sarà possibile valutare, ai fini di un'eventuale falsificazione, anche solo parziale, se un berillo smeraldo sia di origine egizia o scitica (il che lo può rendere accettabile sotto il profilo geoarcheologico in un gioiello greco ellenistico o romano), oppure provenga dal Sudamerica, ossia da miniere conosciute in Eurasia solo dopo il XVI secolo. Gli elementi in tracce possono rivelarsi preziosi nel campo minato della falsificazione postantica e moderna per accertare se frammenti oggi combacianti di un monumento marmoreo, di una terracotta o di un carro bronzeo siano realmente appartenuti in antico al manufatto originale e non siano invece il frutto di abili puzzles realizzati utilizzando porzioni eterogenee di oggetti d'epoca disparati (pastiches ottocenteschi). Si conoscono almeno due "bighe etrusche", la prima e più nota al British Museum, la seconda al Museo Etrusco di Villa Giulia in Roma, che sono veri e propri assemblaggi dei più svariati frammenti archeologici in bronzo, dai piatti ai bacili e persino alle grattugie, pazientemente rimodellati salvando le patine originali e fissati su scheletri lignei moderni. Le analisi isotopiche sono un metodo di ricerca degli elementi in tracce capace di offrire un valido aiuto nella caratterizzazione di marmi, metalli e vetri di interesse archeologico e quindi di fornire, sia pure indirettamente, dati preziosi in merito all'autenticità o meno di molti manufatti. I diversi rapporti tra gli isotopi del piombo ²⁰⁸Pb/²⁰⁶Pb nelle monete greche d'argento, rispetto al ²⁰⁷Pb/²⁰⁶Pb, hanno consentito di riconoscere diverse aree geografiche di produzione mineraria della galena argentifera, separando sotto questo profilo le monete di Atene da quelle di Egina e Corinto. Anche la caratterizzazione e la provenienza delle ossidiane precolombiane centroamerinde è stata resa possibile con l'analisi comparata degli isotopi del sodio, del disprosio e del manganese. È noto da tempo che i differenti rapporti tra gli isotopi del carbonio (¹³C e ¹²C) e dell'ossigeno (¹⁸O e ¹⁶O) possono permettere di individuare le principali cave di marmi greci antichi e di conseguenza il tipo utilizzato nelle varie sculture archeologiche. Le analisi composizionali chimiche, o meglio microchimiche, in quanto si valgono di campioni microscopici (anche meno di 1/10 di mm di diametro), sfruttano sempre più spesso la fluorescenza a raggi X (XRF), che tuttavia fornisce soltanto dati relativi alle superfici esposte del materiale che costituisce l'oggetto; sono proprio queste le aree sulle quali l'opera del falsificatore si concentra con i trattamenti più svariati, le patine artificiali, gli arricchimenti e gli esaurimenti intenzionali di metalli e leghe. Anche il metodo dell'attivazione neutronica (AAN) si può considerare non distruttivo, fornendo tra l'altro dati composizionali interni mediati del materiale analizzato; tuttavia il campione può rimanere contaminato. Le analisi microchimiche "interne", che superano le barriere imposte da trattamenti di antichizzazione deliberata, devono utilizzare campioni, sia pure ridottissimi, prelevati dall'interno del manufatto. Rientrano tra queste metodiche la microsonda elettronica (SEM-EDS), che tra l'altro consente controlli puntiformi di particolari microinclusioni ed è in grado di apprezzare variazioni localizzate della composizione (ad es., nelle saldature di un gioiello o di un bronzo, nei punti di applicazione di placcature e dorature, in corrispondenza di restauri o camuffamenti antichi e moderni, ecc.). Altri metodi, come la spettrometria di massa (MS), la spettrometria di assorbimento infrarosso (IR), la spettrometria di emissione ottica con plasma accoppiato induttivamente, l'emissione di raggi X a dispersione di energia, forniscono dati precisi su un larghissimo ventaglio di elementi chimici, spesso diagnostici al fine di smascherare una falsificazione integrale o parziale. Tutti i metalli sono oggi molto più puri che in antico e le leghe, tra cui quelle di oro e di argento, appaiono rigorosamente standardizzate e dosate rispetto a quelle in uso nell'antichità classica e preclassica, oltre che nei differenti ambienti culturali; in particolare non contengono quegli elementi accidentali che molto spesso compaiono nei manufatti archeologici. Tuttavia bisogna procedere con estrema cautela nell'attribuire ad alcuni elementi in tracce ruoli decisivi ai fini dell'autenticazione di un determinato oggetto metallico. Ai metodi chimici di caratterizzazione dei vari materiali di uso archeologico si affiancano le metodologie di indagine mineralogico- petrologica, indispensabili per tutti i manufatti di natura litica, litoide e metallica. L'indagine ottica allo steromicroscopio dei diversi oggetti rappresenta l'intervento preliminare prima di procedere ad ulteriori approfondimenti; spesso una falsificazione risalta già con palmare evidenza da un semplice esame ottico a bassi ingrandimenti (da 10 a 50). Non bisogna infatti dimenticare che un manufatto archeologico autentico conserva sulle sue superfici, in quanto oggetto sepolto ed interrato per molti secoli o millenni, non soltanto i "segni" di un'eventuale usura d'uso selettiva in vita, ma soprattutto le strutture micromorfoscopiche e le tracce di alterazioni meccaniche e chimiche che soltanto il tempo e la giacitura ipogea possono imprimere. Per quanto il falsario possa sforzarsi di imitare con trattamenti chimici, meccanici e termici quanto la natura produce spontaneamente nei differenti ambienti geopedologici e deposizionali, egli non potrà riprodurre particolari impronte sedimentarie, segni da trasporto, rimaneggiamento, creeping e soliflusso, strutture da corrosione e dissoluzione chimica spontanee e selettive, guidate e condizionate dalle tessiture e dalla composizione dei materiali stessi, oltre che dal tempo intercorso. I metodi di indagine microscopica ottica ed elettronica a scansione (SEM) sono completati da esami a luce polarizzata, infrarossa e ultravioletta, che hanno un largo campo di applicabilità nella ricerca di falsi archeologici, con una particolare versatilità per quanto concerne i raggi UV filtrati. Incrostazioni minerali naturali e patine artificiali su manufatti litici, organici, ceramici e vitrei; lesioni nascoste, restauri metallici, integrazioni e rimaneggiamenti occulti; collages e "pasticci" recenti o postantichi con uso di colle e mastici; trattamenti termici e rivelazioni recenti di superfici originali di scavo possono essere evidenziati attraverso un esame attento delle risposte di luminescenza ultravioletta. Persino alcuni bronzi di scavo archeologico sono riconoscibili per la fluorescenza rossa o viola delle patine mineralizzate naturali, rispetto a falsi bronzi patinati o ripatinati che reagiscono con fluorescenze arancioni, gialle o biancastre. Tra le tecniche che sfruttano la radiazione ultravioletta si pone oggi in evidenza la catodoluminescenza microscopica, che permette di caratterizzare i marmi cristallini antichi. La microscopia metallografica ottica ed elettronica è strumento di indagine insostituibile per la ricerca di falsificazioni metalliche integrali e parziali. La struttura cristallina di un metallo o di una lega può rivelare processi di lavorazione metallurgica e metallotecnica specifici e caratteristici (a caldo e a freddo, forgiatura, ricottura, incrudimento, rinvenimento, tempre, ecc.) di determinati manufatti originali d'epoca; fusione o coniazione di monete, uso di laminatoi e trafile, saldature, riparazioni e restauri antichi e moderni. La metallografia è in grado di evidenziare fenomenologie da invecchiamento spontaneo di metalli e leghe, tramite l'acquisizione di microtessiture "lacunose" per corrosione selettiva intergranulare di precipitati intermetallici, nel corso dei secoli o dei millenni, associate a ricristallizzazione. Anche eventuali difetti strutturali e micromineralizzazioni interne neoformate (caratteristiche di bronzi e argenti di scavo archeologico) possono essere individuati, contribuendo spesso a smascherare numerose falsificazioni. L'analisi metallografica si pone infine come metodo risolutivo per l'accertamento di "copie" galvanoplastiche, pressofuse e di elettroformatura in oro, elettro e argento. Alle metodologie di indagine microscopica si associano nella ricerca di falsificazioni archeologiche le tecniche radiologiche che sfruttano i raggi X (radiografia) o, nel caso in cui occorra maggiore penetrazione, i raggi γ (gammagrafia). È noto il caso della falsa fibula merovingia (Londra, British Museum), dove l'esame radiografico ha rivelato una struttura occulta autentica ad agemina in argento, rivestita da una lamina moderna in lega di rame, con la scena della Crocifissione. La diffrattometria a raggi X, utilizzata per l'indagine della struttura cristallina dei minerali, può rivelarsi anch'essa utile sia nella caratterizzazione di materiali di uso archeogemmologico (ad es., le giade di varie provenienze), sia nel campo specifico della falsificazione, per l'accertamento di materiali di sintesi spesso utilizzati dai falsari moderni nelle loro creazioni. Anche i diversi elementi minerali contenuti in pigmenti e smalti su pitture vascolari, affreschi, encausti, manufatti di arte orafa, sono riconoscibili con questo metodo, contribuendo validamente all'individuazione di falsi postantichi e moderni. Nel settore della caratterizzazione dei manufatti ceramici, oltre alle tecniche analitiche micromorfoscopiche, chimiche, fisiche e petrologiche (petrologia ceramica), assume oggi particolare interesse ai fini dell'individuazione di falsi l'analisi micropaleontologica degli impasti di terrecotte e vasellame per la localizzazione dei luoghi d'origine delle argille utilizzate, in base alle associazioni di microfossili tipici ed esclusivi di precisi orizzonti e formazioni geologiche. In maniera simile sono applicabili le analisi dei minerali pesanti (zircone, granati, tormaline, spinelli, topazio, olivina, corindoni, ecc.) riscontrabili nei diversi prodotti fittili. Anche l'analisi termica differenziale, che consente in primo luogo di determinare la composizione e le temperature di cottura delle argille dei diversi manufatti ceramici, può essere utilizzata per distinguere una terracotta autentica antica di scavo da imitazioni o falsificazioni recenti, sulla base delle significative differenze di porosità.
Nel campo della falsificazione di oggetti d'arte, il problema della datazione dei diversi manufatti presenta almeno un duplice aspetto: la determinazione dell'età del materiale e quella della fabbricazione dell'oggetto. La certezza che una qualsiasi sostanza litica, organica, metallica, ceramica o vitrea sia "antica", o perlomeno presenti determinate caratteristiche di antichità, rappresenta soltanto un elemento indiziario ai fini dell'autenticità di produzione del manufatto in predicato. Anche il falsario meno agguerrito sa, e ha sempre saputo, che, utilizzando per il proprio prodotto una "base" materiale autentica e ‒ per gli oggetti archeologici ‒ di scavo, aumenta le proprie probabilità di trarre in inganno l'eventuale acquirente. Una sentenza di falsità o di autenticità perciò emergerà obbligatoriamente da un insieme di elementi che tengano conto delle caratteristiche globali dell'oggetto in causa: composizionali, tecnico-costruttive, geopedologiche giaciturali e alterative, cronologiche, tipologico-stilistiche. Il metodo di datazione oggi più utile per i materiali archeologici di origine organica è quello fondato sul decadimento radioattivo del radiocarbonio (¹⁴C), che copre l'intervallo temporale relativo agli ultimi 50.000 anni circa. Legno, carboni, semi, osso, avorio, resine (ambra), corno, tessuti sono databili; tra l'altro, utilizzando la spettrometria di massa con acceleratore (AMS), è possibile operare su campioni minimi di materiale (5÷10 mg), tali da rendere il metodo praticamente non distruttivo. Con questo sistema si possono datare persino metalli e leghe che contengano microinclusioni di carbone di legna (ad es., acciai di armi e armature antiche). I limiti del metodo, particolarmente negativi nel campo dell'autenticazione di materiali e manufatti archeologici, possono sorgere soprattutto da contaminazioni dell'oggetto prima, durante o dopo il prelievo, da restauri e trattamenti con mastici, collanti e impregnanti a base organica, da prelievi su manufatti compositi costruiti o ricostruiti con porzioni o frammenti autentici d'epoca inseriti su un substrato moderno. Un altro metodo di datazione che presenta alcuni vantaggi rispetto al radiocarbonio è la termoluminescenza (TL), che permette di datare la ceramica vascolare, le terrecotte e i nuclei fittili conservati entro fusioni metalliche, oltre ad altri materiali inorganici quali le selci bruciate, le stalattiti e gli alabastri spelei. Tuttavia la sua precisione è minore rispetto a quella fornita dal ¹⁴C. Con la TL è stato possibile smascherare numerosi falsi ceramici, oltre a riabilitare manufatti ritenuti falsi in base a soggettivi criteri stilistici e a caratteristiche tecnico-costruttive ancora ignorate; fa testo il famoso cavallino bronzeo di arte greca del Metropolitan Museum di New York. I limiti attuali del metodo nel campo delle falsificazioni derivano non tanto dalla scarsa precisione delle date ottenibili e dalla possibilità non remota che una ceramica autentica abbia subito in tempi molto successivi alla sua cottura i danni del fuoco, quanto da trattamenti radianti a cui i falsari più preparati sottopongono sistematicamente i loro prodotti fittili stilisticamente perfetti. La lettura della termoluminescenza viene così alterata, simulando una datazione "antica". Anche l'uso di ceramiche autentiche di scavo, che vengano abilmente ridipinte senza un'ulteriore ricottura, è spesso causa di errori. Recentemente è stato introdotto un nuovo metodo di datazione cronometrica, la risonanza di spin elettronico (ESR), che permette di ricavare date tra alcune centinaia di anni e 10⁷ anni, su campioni di rocce calcaree (alabastriti), ossa e denti, al di là della portata di datazione del ¹⁴C. Il metodo delle tracce di fissione può essere utilizzato nel settore della falsificazione archeologica, non tanto per la datazione, quanto per distinguere i vetri naturali (ossidiana, impattiti, folgoriti) dai vetri artificiali che non contengono di solito quantitativi confrontabili di uranio fissionabile. La datazione archeomagnetica comprende anche il paleomagnetismo termorimanente (TRM), che fino ad oggi si è dimostrato di scarsa utilità per l'individuazione di falsi archeologici. Più vantaggiosa risulta invece la misura della paleointensità di magnetismo applicabile ai manufatti ceramici.
Da quanto brevemente sintetizzato, si evince che sulla base dei soli metodi di caratterizzazione e datazione, per quanto congiunti, può essere talora difficile, se non impossibile, pervenire ad un giudizio certo di falsità o di autenticità per un qualsiasi manufatto archeologico presunto. Un aiuto fondamentale può venire dallo studio macro- e microscopico delle tecniche costruttive e di fabbricazione dei diversi oggetti, delle modalità e sequenze di lavorazione, dei segni di particolari strumenti utilizzati, dei procedimenti di assemblaggio, finitura e ritocco, degli eventuali interventi di modifica e restauro (antichi o moderni), delle tracce di particolari sostanze e composti adoperati per pitture, smalti, vernici; per dorature, saldature, finissaggi lucidi, intarsi, agemine, nielli, invetriature, ecc. Anche l'identificazione di una funzione che un manufatto doveva svolgere e la presenza di precise "strutture" che ne consentivano o ne caratterizzavano l'uso possono talora risultare utili per rivelare o far sospettare una falsificazione. È il caso, sempre esemplificando, di falsi specchi bronzei o argentei a valve incernierate, con cerniere fuse in blocco unico e prive di fori per i perni; di manufatti litici con "scheggiature d'uso" regolari e identiche, oltre che situate in posizioni anomale prive di significato pratico; di monumenti esposti a pubblica venerazione e continuamente sottoposti a manipolazioni tattili in punti particolari, che presentino usure incompatibili; di pitture, placcature e dorature conservate proprio nei punti più soggetti a logorio (manici di situle e di specchi, maniglie di cofanetti e reliquiari, anse di vasi, ecc.). Lo studio sistematico delle tecniche costruttive e la verifica dell'utilizzazione di oggetti d'uso e d'ornamento presumibilmente antichi si collega direttamente all'analisi dei processi alterativi che dovrebbero obbligatoriamente interessare i manufatti archeologici, specie se di scavo, e che possono fornire indicazioni preziose nell'identificazione di falsi postantichi e moderni. In campo strettamente archeologico, si può affermare che un manufatto di qualsiasi natura si carica durante il seppellimento prolungato di tutta una gamma di elementi e di strutture diagnostiche che, correttamente accertati e interpretati, dovrebbero condurre senza equivoci, almeno nel caso di oggetti integri, a smascherare una falsificazione anche magistralmente antichizzata. I manufatti litici, realizzati cioè utilizzando minerali, rocce, materiali di origine organica (osso, avorio, corallo, conchiglia, perle, ambra, giaietto, corno) e talora persino fossili (legno silicizzato, denti, ecc.) rivelano sistematicamente alle analisi micromorfoscopiche lo stato di conservazione delle superfici lavorate. Per tutti i manufatti metallici in rame e bronzo il controllo analitico dello stato di conservazione- alterazione delle superfici è imprescindibile ai fini del riconoscimento di falsificazioni postantiche e moderne. I processi di corrosione spontanea nel tempo su rami e bronzi archeologici generano sistematicamente composti cristallini minerali di neoformazione, che presentano una stratigrafia caratteristica dall'interno verso l'esterno del manufatto. Questa sequenza stratigrafica non è mai riproducibile intenzionalmente, anche se i diversi prodotti di corrosione deliberata artificiale possono presentarsi ingannevolmente simili a quelli naturali con semplici esami autoptici. Si evince da ciò ancora una volta che il falsario può riprodurre aspetti superficiali apparentemente identici a quelli di genesi spontanea, ma non può interferire con le modalità deposizionali di mineralizzazioni neoformate, le quali seguono costantemente regole di paragenesi distributiva condizionate dalle situazioni di giacitura geopedologica, oltre che dal tempo intercorso. Anche oggetti in argento (o leghe di argento) di scavo archeologico subiscono nel tempo profonde e inconfondibili modificazioni e alterazioni interne ed esterne, mineralizzandosi di regola in acantite (solfuro di Ag) e clorargirite (cloruro di Ag), stratigraficamente sovrapposte e microimplicate a livello della struttura metallica ampiamente ricristallizzata. La presenza di elevate percentuali di rame negli argenti archeologici può produrre caratteristiche patine minerali miste di neoformazione, con colorazioni verde-grigio e rossastre. Sotto questi profili geoarcheologici le monete greche false d'argento di Christodoulos non avrebbero la minima possibilità di superare oggi un esame geomineralogico. Per quanto concerne gli oggetti archeologici d'oro, che contengano anche modeste aliquote di metalli meno nobili a bassa inerzia chimica (argento, rame, ferro, zinco, antimonio, bismuto, ecc.), la presenza di mineralizzazioni spontanee neoformate da parte dei diversi composti ossidati affioranti in superficie può essere talora diagnostica ai fini dell'autenticità di scavo di numerosi manufatti. Moltissimi manufatti ceramici rivelano ad esami micromorfoscopici e microchimici paralleli le alterazioni e le modificazioni spontanee delle superfici che ne caratterizzano lo stato di conservazione. Strutture da devetrificazione di vernici, segni d'uso ed erosione localizzata, neomineralizzazioni selettive guidate dalla porosità differenziata, concrezioni minerali e biologiche, microfratture da termo- e crioclastismo, ecc. sono evidenze che spesso permettono la distinzione immediata da prodotti spuri stilisticamente perfetti e abilmente camuffati. Un'altra categoria di manufatti archeologici largamente falsificati, sui quali il controllo dello stato di conservazionealterazione superficiale si rivela spesso decisivo, riguarda gli oggetti in vetro, in smalto e in faïence. La microcorrosione selettiva, le microlaminazioni desquamate e mineralizzate da devetrificazione lentissima spontanea e le microimpronte tensionali da sforzo degradate sono solo esteriormente confondibili con i trattamenti intenzionali usati dai falsari.
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