La domesticazione delle piante e l'agricoltura: mondo etrusco-italico
L'analisi delle attività produttive dell'Italia preromana, ivi compresa l'agricoltura, è abbastanza recente nella storia degli studi e risente di un ruolo privilegiato riservato agli Etruschi rispetto alle altre popolazioni preromane, riflettendo, da un lato, una loro oggettiva maggiore rilevanza nel panorama della penisola, ma risentendo anche di condizionamenti imposti dalle interpretazioni degli autori greci e latini e di una ricerca archeologica più orientata, a partire dai suoi inizi, verso l'area tirrenica dell'Italia centrale. Alla documentazione archeologica tradizionale, costituita da oggetti (strumenti, contenitori per derrate, ecc.) e dai resti degli edifici rurali, negli ultimi decenni si sono aggiunti i dati paleobotanici recuperati attraverso tecniche d'indagine più sofisticate. Nelle fonti letterarie è ricordata una particolare feracità delle terre controllate dagli Etruschi: il rapporto fra seminato e raccolto, nelle produzioni cerealicole, è indicato da Varrone (Rust., I, 44) in 1:15, mentre la media ‒ secondo calcoli effettuati ‒ sarebbe oscillata tra 1:3 e 1:5. Testimonianza indiretta della fertilità dei terreni dell'Etruria, ma anche della perizia dell'agricoltore etrusco (si rammentino i sistemi di cunicoli scavati nel sottosuolo al fine di drenare il terreno e le numerose arature effettuate prima della semina), può essere costituita dalla notizia di rifornimenti di grano (Liv., II, 34, 3-5 e IV, 42, 5) inviati a Roma da Velzna (Orvieto) durante il V sec. a.C. (Colonna 1985). A Velzna, Plinio il Vecchio (Nat. hist., XXXVI, 135), riportando un'affermazione di Varrone, attribuisce l'invenzione delle molae versatiles, ovvero delle macine a movimento rotatorio (a mano o a trazione animale), opposte alle molae trusatiles, a movimento oscillante esclusivamente manuale. Le prime si affermarono pressoché universalmente nel mondo romano, mentre le seconde furono proprie della tradizione greca. Sempre per il mondo etrusco, nelle fonti vengono suggeriti un particolare sviluppo delle tecniche agrimensorie e una profonda attenzione per il rispetto dei termini di proprietà fissati. La "profezia di Vegoia" (datata ora tra la fine del IV sec. e la prima metà del III sec. a.C.) ne fornisce una testimonianza sul piano ideologico, mentre il cippo di Perugia, con norme di divisione dei terreni fra gli Afuna e i Velthina, ne costituisce una prova materiale. Le tecniche agrimensorie, secondo una recente ipotesi (Peroni 1996), sarebbero state sperimentate e applicate anche all'interno dei centri protourbani su pianoro dell'Italia tirrenica, i quali avrebbero compreso ampie aree destinate alla produzione agricola. Un notevole salto di qualità nei procedimenti di coltivazione dei cereali fu costituito dall'avvento del sistema a maggese; esso si sostituì a sistemi più antichi, come quello "a campo d'erba", che prevedeva l'abbandono del lotto di terra dopo il raccolto, o quello a "debbio", che sfruttava i suoli disboscati, il cui legname veniva bruciato. Il sistema a maggese, che prevedeva l'uso dell'aratro (rappresentato spesso nella produzione artigianale: ad es., quello presente nella decorazione plastica di un carrello in bronzo da Bisenzio del 700 a.C. ca.) e il riposo annuale del campo con una sua utilizzazione secondaria (coltivazione di legumi, pascolo), si accompagnò all'affermazione di un regime di proprietà ben definito. Nell'introduzione delle colture intensive della vite e dell'ulivo in Italia non è agevole determinare il reale influsso esercitato dai coloni greci; il termine etrusco vinum (documentato nel tardo VI sec. a.C.) non sembra derivare dal greco oinos e trova piuttosto confronto nell'identica parola latina, mentre eleiva, olio in etrusco, appare derivato dal greco (dorico ?) elaiwa, come sempre dal greco amorghe (morchia) deriva il latino amurca. Tali considerazioni hanno fatto ipotizzare che la coltivazione della vite e dell'ulivo, con il conseguente consumo di vino e di olio, si sia affermata in due fasi differenti (Cristofani 1986): la seconda in maggiore connessione con la colonizzazione greca. Per il mondo latino, e segnatamente per Roma, l'introduzione del vino nei culti si attribuisce al regno di Numa Pompilio (Plut., Num., 3), mentre quella dell'olio ai tempi di Tarquinio Prisco, figlio, secondo la tradizione, del corinzio Demarato (Plin., Nat. hist., XV, 1). L'archeologia documenta bene il successo del vino: la diffusione delle anfore vinarie etrusche nel Lazio, in Campania, nella Sicilia orientale, in Sardegna, in Corsica, lungo le coste mediterranee della Francia e della Spagna, durante il VI sec. a.C., testimonia con chiarezza che la coltura della vite doveva avere assunto presto caratteri speculativi. Il distretto vulcente appare in tal senso il più dinamico. La coltivazione degli ulivi non sembra avere raggiunto la dimensione di quella della vite, ma le olive erano considerate un alimento particolarmente proteico e l'olio era utilizzato anche come componente importante nei balsami (in proposito va richiamata l'ampia distribuzione degli unguentari in bucchero o in argilla figulina imitanti la produzione corinzia) e come liquido per l'illuminazione. In passato si è proposta ripetutamente una divisione schematica tra un'area italica dedita alla pastorizia e una etrusco-laziale incline all'agricoltura e ai commerci. La contrapposizione è stata ridimensionata negli ultimi anni, pur riconoscendo diverse vocazioni per le singole aree; è stato notato, ad esempio, che Varrone vedeva l'agricoltura romana delle origini come una sapiente unione tra coltivazione dei campi, pastorizia e pastio villatica (Traina 1990).
G. Colonna, Società e cultura a Volsinii, in AnnFaina, 2 (1985), pp. 101-15; M. Cristofani, Economia e società, in Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, Milano 1986, pp. 79-121; G. Traina, Ambiente e paesaggi di Roma antica, Roma 1990, pp. 13-46; L. Castelletti et al., Analisi morfometrica dei vinaccioli di vite (Vitis vinifera L.) provenienti da scavi archeologici, in L. Castelletti - M. Cremaschi (edd.), XIII International Congress of Prehistoric and Protohistoric Sciences (Forlì, 8-14 September 1996), Section 3. Colloquium V, Forlì 1996, pp. 11-16; R. Peroni, L'Italia alle soglie della storia, Roma - Bari 1996, pp. 37-43, 478-79.
Nell'antichità gli Etruschi erano considerati maestri di idraulica e la tradizione letteraria è stata confermata dalla ricerca archeologica, che ha iniziato, in particolare dal secondo dopoguerra, a investigare l'articolato sistema di canali di irrigazione presente nel territorio etrusco. Dietro ai notevoli risultati ottenuti dagli agricoltori etruschi (Varrone parla con ammirazione di terreni che arrivavano a produrre quindici volte il seminato) vi erano salde conoscenze teoriche, fra cui quelle necessarie a regolamentare le risorse idriche. Una rete di cunicoli lunga circa 25 km è stata individuata nella campagna di Veio, fra la città e il Tevere. L'imponente realizzazione, datata al V sec. a.C., venne portata a termine presumibilmente da manodopera al servizio della comunità e su iniziativa statale. Ulteriori tracce di gallerie sono state scoperte nei territori di Chiusi e di Caere. Recente è l'individuazione di un cunicolo in località Botto, a circa 10 km di distanza da Orvieto e quindi nell'agro dell'etrusca Velzna. Il cunicolo, simile a quelli dell'agro veiente e della Campagna Romana, venne scavato in corrispondenza di una valle non ampia, che s'intendeva drenare per renderla più fertile. Lo scopritore lo ha ricollegato convincentemente, sulla base di dati scaturiti da una ricognizione sul terreno, a un sistema di drenaggio su larga scala realizzato in epoca arcaica e voluto, anche in questo caso, da un'autorità centrale in grado di regolare la suddivisione agronomica del territorio (Bizzarri 1991). Interventi idraulici non si limitarono alla sola Etruria propria, ma interessarono anche l'Etruria padana dove le esigenze idromorfologiche quasi li imponevano. Plinio il Vecchio (Nat. hist., III, 120) ricorda espressamente canali scavati per modificare la situazione attorno ad Adria e per migliorare la funzionalità del suo porto. L'intervento servì probabilmente anche per collegare tramite vie d'acqua interne le città di Adria e di Spina (Uggeri 1991).
C. Bizzarri, Bonifica idraulica ed opere di canalizzazione nel territorio orvietano, in M. Bergamini (ed.), Gli Etruschi maestri di idraulica, Perugia 1991, pp. 61-65; G. Uggeri, Interventi idraulici nell'Etruria padana, ibid., pp. 69-71; R. Peretto, Uomini e acque nel territorio di Adria, ibid., pp. 87- 96; M. Cristofani, Agricoltura e allevamento, in Gli Etruschi. Una nuova immagine, Firenze 1993, pp. 78-80.