La discussione sui ‘precursori’ di Costantino
Eziologia storico-religiosa della cosiddetta svolta costantiniana
Il titolo di questo paragrafo introduttivo1 evoca il testo della comunicazione offerta nel 1986 da Robert Turcan ai membri dell’Associazione “Guillaume Budé” di Lione. Turcan esordiva con questa domanda: «Héliogabale précurseur de Constantin?»; per concludere, dopo attenta disamina, che Elagabalo non fu monoteista, come non fu – propriamente parlando – ‘un precursore di Costantino’. Tuttavia il privilegio da lui accordato al Sol Invictus, Baal di Emesa di cui egli stesso era il sacerdote circonciso, prefigurava in qualche modo ‘l’imperatore-vescovo’, cioè – a dire di Turcan – quel ‘cesaropapismo’ che avrebbe gravato pesantemente sull’Impero cristiano. Un anno prima, nella tavola rotonda di inaugurazione dell’anno accademico 1985-1986 presso l’Istituto patristico Augustinianum, Raffaele Farina osservava che «le radici della cosiddetta epoca costantiniana sono da ricercarsi più indietro nel tempo», e che, di conseguenza, l’alleanza tra Impero romano e religione cristiana realizzata da Costantino «non possiede quel carattere esplosivo rivoluzionario che le viene attribuito».
Oggi, a venticinque anni di distanza, è possibile riconoscere la validità delle intuizioni – diversificate, e tra loro indipendenti – di Turcan e di Farina. Molti storici delle origini cristiane, come gli studiosi della letteratura cristiana antica, ritengono ormai che la cosiddetta svolta costantiniana, con le sue enormi conseguenze, fu anticipata di oltre un secolo dalla politica religiosa di Commodo e dei Severi. Ad esempio, nel caso di un recente studio collettivo2, si è cercato di mostrare come già il regno di Adriano (117-138) avesse segnato una prima, significativa svolta nel rapporto tra il cristianesimo e l’Impero3. Nel suo progetto di ristrutturazione dei rapporti di potere fra centro e periferia, l’imperatore avrebbe favorito la piena integrazione delle élite orientali e della loro cultura nel sistema ideologico e valoriale di Roma, come mostrerebbe il filoellenismo e la diffusione del movimento politico-culturale della cosiddetta seconda sofistica. In questo modo, la centralizzazione autocratica del potere si accompagnava a un pluralismo sociale e culturale, entro cui trovavano spazio anche le più diverse esperienze religiose. In simile contesto i gruppi cristiani – includendo tra loro le varie scuole gnostiche e altri movimenti che non si riconoscevano nella ‘grande Chiesa’ – avrebbero colto l’opportunità per proiettarsi più marcatamente nello spazio pubblico. Proprio in relazione al regno di Adriano, Eusebio di Cesarea4 ricorda il contemporaneo fiorire dell’eresia gnostica e le prime manifestazioni dell’apologetica cristiana con Aristide e Quadrato. È lecito pensare che una simile proiezione all’esterno fosse segno di una maggiore sicurezza dei cristiani circa le proprie posizioni, e soprattutto circa le mutate condizioni esterne che ne rendevano possibile la manifestazione pubblica, anche sul piano della produzione letteraria. Inoltre, in questo modo i gruppi cristiani si sarebbero nettamente differenziati dalle comunità giudaiche palestinesi che, dopo essersi divise e scontrate sulla proposta politico-religiosa di Adriano, furono gravemente provate dalla repressione della rivolta di Bar Kochba e dalla distruzione di Gerusalemme del 135 d.C.
Ovviamente, la portata della politica adrianea rimase limitata; ma la repressione accesasi verso gli ultimi decenni del II secolo, in concomitanza con le prime crepe della crisi politico-militare sotto Marco Aurelio, mostra la preoccupazione del potere romano verso un fenomeno che doveva essere sensibilmente cresciuto.
È paradigmatica la radicalizzazione di Santo Mazzarino: a suo parere, «non esiste epoca, in tutta la storia della nostra cultura, la quale sia così densa di assurdità, pressoché paradossali, come questa sconvolta epoca di Commodo e dei Severi»5.
Sul versante politico-istituzionale, la crisi è ritardata appunto dall’avvento della dinastia severiana (193-235), vistosamente impegnata nel consolidamento e nella propaganda religiosa della monarchia; mentre l’adesione ormai palese al cristianesimo dell’entourage di corte e delle clarissimae famiglie senatorie prefigura l’atto definitivo della conquista dell’Impero da parte della Chiesa. Allo stesso tempo, i molteplici contatti fra le due istituzioni si riflettono anche nella consonanza tra l’ideologia religiosa della corte imperiale e l’egemonia monarchiana nella Chiesa di Roma.
Conviene rivisitare in tale prospettiva la cristologia prenicena, a partire da due fondamentali considerazioni, che è opportuno anticipare qui di seguito, per poi svilupparle nei paragrafi successivi.
1. Dopo gli apologisti e Ireneo, in età severiana il problema cristologico appare definitivamente impostato nei suoi fondamentali quesiti: qual è il rapporto del Logos con il Padre nella Trinità divina? E qual è il rapporto tra l’umano e il divino nell’unico Cristo? Proprio Celso, estremo portavoce degli Antonini, aveva lucidamente formulato il noto dilemma: «O davvero Dio si muta in un corpo mortale [...], oppure Dio non si muta, ma fa sembrare così a quelli che guardano»6. In altri termini, o negazione dell’unità di Dio o docetismo7.
2. In età severiana la risposta della Chiesa di Roma al dilemma di Celso si muove senza dubbio sulla linea di una rivendicazione monarchiana dell’unità di Dio8. Ma esattamente per ciò che concerne la dottrina della ‘monarchia’ appare adeguato il riferimento di Mazzarino a un’«analogia di circostanze» tra l’Impero e la Chiesa nell’epoca dei Severi9.
Di fatto, nel ‘credo religioso’ della dinastia regnante la critica opportunamente rileva due fondamentali articoli, designandoli talvolta con i termini rispettivi di ‘monarchianesimo’ (o ‘monarchianismo’) e di ‘sincretismo’10. Più precisamente la tendenza – che appunto con il regno di Elagabalo raggiunge l’acme – pare per un verso quella di affermare un unico Baal come dio supremo dell’Impero e, per altro verso, quella di associare in un culto comune tutte le divinità del mondo romano, ‘subordinandole’ rigorosamente al dio supremo. Così, affermandosi per la prima volta in Roma a opera dell’autorità politica il fondamentale ‘enoteismo’ dei popoli semitici, si realizzava insieme l’aspirazione ‘monarchiana’ del III secolo: come la monarchia regnava in terra, una specie di monoteismo era stabilito in cielo11. Da una parte dunque il monarchiam tenemus, parola d’ordine della Chiesa di Roma nel dibattito cristologico, sembra trovare un oggettivo riscontro nell’ideologia religiosa imperiale e negli affannosi tentativi di mantenere un potere politico unitario12; dall’altra parte le diverse tendenze subordinazioniste – sia quelle di tipo radicale-gnostico sia quelle più moderate della cosiddetta Logoschristologie – possono rinvenire nel sincretismo severiano una sorta di consonanza culturale.
Nella grecità profana il termine monarchia ha il significato etimologico di ‘governo di uno solo’, come anche Aristotele esplicitamente testimonia: «È monarchia, secondo il nome, quella in cui uno solo è signore di ogni cosa»13. Si tratta dunque anzitutto di un termine tecnico, proprio del linguaggio politico, atto a designare una precisa forma di governo. In età ellenistica gli ebrei di Alessandria iniziano a usare monarchia per esprimere l’unità di Dio in opposizione al politeismo. Precisamente con tale significato Giustino introduce il termine nella letteratura cristiana. La monarchia è la credenza in un unico Dio, e monarchiani sono coloro che pongono come principio la monarchia, cioè la fede in un unico Dio14. Più tardi – proprio nell’età dei Severi, alla quale probabilmente va ricondotto anche il De Monarchia dello Pseudo-Giustino – tale vocabolo diventa il vessillo di coloro che, in nome di una concezione rigidamente monoteista di Dio, concedono poco o nessuno spazio alla sussistenza personale delle tre entità divine15. In quest’ultimo ampio significato useremo qui i termini ‘monarchia’, ‘monarchiano’, ‘monarchianesimo’ alludendo a una vasta gamma di posizioni sia estremiste sia moderate, e disposti a riconoscere una mappa di teologie monarchiane ben più articolata rispetto a un esclusivo riferimento al modalismo sabelliano e patripassiano. Che la Chiesa di Roma dinanzi al dilemma di Celso si sia sbilanciata in età severiana su posizioni monarchiane, è tra l’altro la fondamentale acquisizione delle più recenti ricerche sul problema dell’unità di Dio nei primi tre secoli cristiani. Manlio Simonetti in particolare – mentre rileva la dovizia, ma anche il taglio per lo più «frammentato» degli studi relativi alle controversie trinitarie e cristologiche tra la fine del II e la prima metà del III secolo – denuncia il rischio di «smarrire il filo»16 che collega tra loro fatti e persone in una vicenda che è dottrinalmente unitaria. E precisamente nell’intento di ritessere almeno un lembo di tale trama unitaria, egli visita gli autori romani che – da papa Clemente a papa Dionigi – sono intervenuti nel dibattito sull’unità di Dio. Il risultato ultimo delle ricerche giunge a ridimensionare l’impostazione generalmente recepita nei manuali, e certifica che – ancora dopo la metà del III secolo – la teologia del Logos era costretta pure in Oriente a segnare il passo. Anche se destinata, non senza compromessi, a trionfare nel IV secolo e nella controversia ariana, nel III secolo la Logoschristologie appare perdente soprattutto a Roma, dove a qualsiasi sospetto di cedimento in senso diteistico (sospetto che fascia appunto la teologia del Logos) viene opposta una rivendicazione decisamente monarchiana dell’unità di Dio17.
Resta emblematico in tale prospettiva il ‘caso’ di papa Callisto (217-222: l’imperatore di Roma è Elagabalo), sul conto del quale si conoscono vicende romanzesche relative alla figura del liberto-pontefice, trasmesse dalla testimonianza tutt’altro che imparziale dell’autore dell’Elenchos. Meno note, e almeno in parte incerte, sono le notizie relative alla morte e al primissimo culto del pontefice. Noi vi facciamo riferimento, in quanto esse permettono di confermare in età severiana precisi contatti tra i massimi vertici della Chiesa e dell’Impero. È opportuno infine premettere che gli Acta Martyrii di Callisto sono probabilmente gli unici, fra i tanti ricondotti al regno di Alessandro Severo, che contengono un nucleo storicamente accettabile e un corretto riferimento cronologico agli imperatori in questione. Ora, a quanto risulta dalla fonte, pare che nel 222 – dunque nel medesimo contesto cronologico delle crudeli agitazioni che accompagnarono la tragica fine di Elagabalo e di sua madre Soemia – il pontefice fu precipitato dalla casa ch’egli abitava a Trastevere, gettato in un pozzo e qui lapidato18. Commenta in proposito Marta Sordi:
La coincidenza del modo e della data della morte del capo della Chiesa con quella dell’imperatore [...] sembra suggerire un accostamento fra il tumulto popolare nel quale Callisto e i due sacerdoti [Calepodio a Asclepiade] furono uccisi e quello seguito all’uccisione di Eliogabalo e di Soemiade: agli occhi della folla infuriata i cristiani, che Eliogabalo aveva favorito, potevano apparire probabili fautori dell’imperatore defunto19.
Ma il ‘pericoloso favore’ concesso dalla dinastia regnante a papa Callisto non venne meno neppure dopo la morte del pontefice, se i cristiani, in lite con i popinarii di Trastevere, adirono le vie legali pur di usufruire, per l’esercizio del culto, del medesimo luogo santificato da papa Callisto e dal suo martirio: e l’imperatore Alessandro Severo, successo nel 222 a Elagabalo, prese ufficialmente posizione affinché la contesa venisse risolta a favore dei cristiani. «Rescripsit» – recita testualmente la Historia Augusta – «melius esse, ut quemammodumcumque illic deus colatur, quam popinariis dedatur»20. Ebbene, proprio Callisto – destinatario, per così dire, dei favori della dinastia severiana – sancisce ufficialmente lo sbilanciamento monarchiano della cristologia romana. È pur vero che il pontefice s’impegna nella ricerca di mediazioni fra teologi del Logos e teologi della monarchia. Di qui l’emarginazione delle due frange estremiste, qualche concessione non sostanziale alla Logoschristologie e la correzione della tesi patripassiana nel ‘compatire’ del Padre con il Figlio: cosicché la formula di Callisto appare – almeno a prima vista – l’esito di un compromesso. Concorre a determinare questa impressione l’impiego del concetto di ‘pneuma’, espressamente identificato con il Logos. Ma, a ben guardare, l’utilizzazione del termine Logos costituisce una concessione meramente formale. Di fatto resta ben lontana la concezione platonica di Dio, ed è manifesto il rivestimento stoico-monarchiano, tendenzialmente panteista, della dottrina cristologica. E l’ulteriore, ripetuta identificazione del Logos con il Padre e il Figlio, unico prosopon, svela l’intenzione polemica di Callisto, al di là dell’apparente compromesso. In definitiva – giova ripeterlo – la professione di fede del pontefice non ne smentisce il fondamentale sbilanciamento monarchiano: del resto è noto che Callisto, come già prima di lui Zefirino, accusava di ‘diteismo’ i sostenitori della teologia del Logos21.
La fonte di queste notizie è il nono libro dell’Elenchos: un testo gravemente inquinato dalla passionalità dell’autore, soprattutto per ciò che concerne il giudizio sulle persone. Benché sul versante dottrinale esso appaia bene informato, e per molti riguardi attendibile, non sarà fuori luogo avanzare qualche riserva sull’esatta ricostruzione delle posizioni callistiane. Callisto, vi si legge, dopo la morte di Zefirino, ritenendo di aver conseguito ciò che bramava, scomunicò Sabellio come eterodosso, temendo me e pensando così di poter allontanare da se stesso l’accusa di eterodossia da parte della Chiesa: in effetti era un imbroglione senza scrupoli, e per qualche tempo guadagnò molti dalla sua parte. Aveva il cuore pieno di veleno e la mente vuota di idee. Si vergognava perfino di dire la verità, perché ci aveva pubblicamente insultati come diteisti, e d’altra parte era continuamente accusato da Sabellio di aver tradito la prima fede. Allora inventò questa eresia, dicendo che il Logos è il Figlio, e lo stesso è chiamato anche Padre, uno solo essendo lo Spirito indiviso. Non è altra cosa il Padre e altra cosa il Figlio: essi sono una sola e medesima cosa. E tutto è pieno dello Spirito divino, in alto e in basso. E lo Spirito che si è fatto carne nella vergine non è un altro rispetto al Padre, ma uno solo e lo stesso. Questo significano le parole: «Non credi che io sono nel Padre, e il Padre è in me?». Ciò che si vede, cioè un uomo, questi è il Figlio, mentre lo Spirito che dimora nel Figlio, questi è il Padre. «Io non parlerò mai di due dei», diceva Callisto, «il Padre e il Figlio, ma di un solo Dio». Il Padre, venuto nel Figlio e assunta la carne, lo ha reso Dio unendolo a se stesso, e ne ha fatto una cosa sola, così da essere chiamati Padre e Figlio un unico Dio. E questa, che è un’unica persona [prosopon], non può essere duplice: così il Padre ha patito insieme con il Figlio22.
Ferma restando la riserva sull’obiettività della fonte, occorre riconoscere che la testimonianza citata assume un posto di eccezionale rilievo per ciò che riguarda la cristologia in età severiana: non si dimentichi che ci troviamo dinanzi alla professione di fede del vescovo di Roma, cioè della Chiesa già da tempo riconosciuta come la più importante della cristianità23. Del resto, le tendenze monarchiane erano ampiamente diffuse anche fuori dalle Chiese d’Occidente. «Non è un caso che proprio l’Asia, che era stata la culla della teologia del Logos, abbia dato anche i natali al monarchianesimo radicale di Teodoto da una parte e di Noeto dall’altra»24.
Né si potrà dimenticare che, dopo la condanna da parte di Callisto, il sabellianismo si diffuse in Libia e in Egitto, e di qui in modo vario nell’Oriente. I termini geografici e cronologici di tale diffusione non sono esattamente definibili, ma è certo che il fenomeno costituisce, fino all’inizio del IV secolo, un ostacolo notevole per i teologi del Logos.
Se poi si pensa alla tradizione monarchiana antiochena da Paolo di Samosata a Eustazio, e alle complesse vicende di Marcello d’Ancira e del suo discepolo Fotino, si ha un’idea di quanto fosse radicata in Oriente la variegata gamma delle teologie monarchiane, e a prezzo di quanti compromessi e controversie si sarebbe affermata finalmente nel IV secolo l’egemonia della Logoschristologie25.
Passando infine a considerare l’area africana, bisognerà tener conto anzitutto della testimonianza di Tertulliano, il quale afferma che la «zizzania monarchiana» di Prassea era germogliata pure a Cartagine e aveva sparso ovunque la sua semente26. Ma è altrettanto significativo il riferimento a Cipriano, vescovo di Cartagine nella generazione immediatamente successiva alla dinastia severiana. È vero che Cipriano – attenendosi rigorosamente al Credo battesimale – salva un mirabile equilibrio tra monarchia ed oeconomia27; ma è altrettanto vero che Cipriano – pur non usando mai nei suoi Trattati il termine monarchia (né, del resto, il termine oeconomia) – coltiva una riflessione teologica rigidamente centrata sul tema dell’unità di Dio, quale indispensabile condizione dell’unità della Chiesa28.
Qual è dunque la nota peculiare dell’ideologia religiosa pagana al tempo di papa Callisto? Quale lo sfondo culturale, politico, istituzionale degli enunciati monarchiani? Il tratto peculiare di novità è fornito dall’avvento della dinastia afro-orientale dei Severi e dalla conseguente massiccia penetrazione nell’Urbe di nuove divinità e di nuovi culti. Agli dei di Roma e della Grecia si affiancano e si sovrappongono le divinità dell’oriente asiatico e dell’occidente africano: esse, già da tempo conosciute, assurgono ora a dignità nuova. E su tutte, elemento catalizzante e unificatore, domina il Sole, il dio dai molti nomi29. In rapporto a tale divinità suprema, una chiara tendenza monarchiana è riscontrabile già nella Vita di Apollonio di Tiana, il documento fondamentale della politica religiosa di Settimio Severo e di Giulia Domna. Apollonio crede in un unico dio supremo, che nella Vita è identificato da Filostrato con il Sole. Di fatto, la religiosità attribuita ad Apollonio dall’autore della Vita è quella di Filostrato stesso e del circolo di intellettuali che si raccoglieva attorno ai Severi e alle loro donne: ne fa fede l’insanabile disaccordo tra il frammento di Apollonio trasmesso da Eusebio nella sua Praeparatio e le notizie tramandate da Filostrato nella Vita. Nel frammento eusebiano Apollonio afferma che al dio unico, distinto da tutti gli altri, non è lecito sacrificare primizie, né accendere il fuoco, né dare alcun nome tratto dal mondo sensibile; viceversa Filostrato identifica il dio apolloniano con il Sole, al quale Apollonio stesso non esita a sacrificare pubblicamente, pur evitando di prendere parte a sacrifici di sangue. In realtà Filostrato dovette in qualche modo snaturare il pensiero del suo eroe, in omaggio alla propaganda religiosa di cui la Vita è espressione30.
Pure nella Constitutio di Caracalla si è voluto sottolineare un nucleo religioso radicato nell’originale concezione teologica della dinastia. Ma è l’imperatore Elagabalo che con la sua riforma del culto evidenzia fino all’esasperazione le linee maestre della politica religiosa severiana31. In particolare Elagabalo esaudisce la fondamentale aspirazione all’enoteismo, ampiamente diffusa nel clima culturale e filosofico del II-III secolo, nel tardo stoicismo come nel medioplatonismo.
Su questo sfondo lo sbilanciamento monarchiano di papa Callisto sembra rispondere, almeno per certi aspetti, ai segni dei tempi, non meno che a precise istanze dottrinali.
Il cosiddetto monoteismo dei Severi va ampiamente relativizzato in considerazione dell’altra, fondamentale caratteristica della religiosità severiana: precisamente il sincretismo, cui più volte abbiamo accennato. Entro simili prospettive la sintesi del credo religioso di Elagabalo, abbozzata da Léon Homo negli anni Trenta del secolo scorso, resta ancora valida. Secondo Homo, l’obiettivo dell’imperatore era duplice: da una parte egli doveva «subordonner» qualsiasi devozione «à son Baal érigé ainsi au rang de dieu suprême de l’Empire», e d’altra parte gli spettava «associer en culte commun toutes les religions du monde romain»32. Neppure il culto di Cristo doveva sfuggire al disegno sincretistico della dinastia. Lo dimostrano in maniera eloquente le testimonianze fornite dalla Historia Augusta. Si tratta, è vero, di fonte sospetta, che va controllata con estrema attenzione. Tuttavia le testimonianze in oggetto ben si collocano nello sviluppo della tradizione storiografica dei rapporti tra i Severi e il cristianesimo, mentre non esistono argomenti irrefutabili per negarne la veridicità.
«Appena entrato in città», attesta l’autore della Vita di Elagabalo, l’imperatore consacrò a Elagabalo un tempio sul Palatino, accanto all’abitazione imperiale. Fece di tutto perché vi fossero trasferiti l’immagine della dea madre, il fuoco di Vesta, il Palladio, gli scudi sacri e i tradizionali oggetti di culto dei romani. Faceva così perché soltanto Elagabalo fosse venerato come dio a Roma. Affermava inoltre che le religioni dei giudei e dei samaritani e il culto dei cristiani dovevano essere trasferiti là, affinché i sacerdoti di Elagabalo potessero custodire i misteri di tutti i culti33.
Nella Vita di Alessandro Severo la personale disponibilità dell’imperatore a riconoscere il culto cristiano è ancora più marcata. L’ultimo Severo non soltanto coltivò il disegno di accogliere Cristo fra gli altri dei, ma addirittura avrebbe voluto edificargli un tempio: «Volle edificare un tempio a Cristo e accoglierlo tra gli dei», assicura Lampridio. «Ma gli fu sconsigliato da coloro che, consultando gli oracoli, vaticinarono che se avesse fatto ciò tutti sarebbero diventati cristiani, e gli altri templi avrebbero dovuto essere abbandonati»34.
Del resto – ed è questa la terza notizia in questione – lo stesso imperatore aveva accolto l’immagine di Cristo nel suo larario. Così testimonia infatti la medesima fonte:
Il regime di vita di Alessandro era il seguente. Per prima cosa, se poteva farlo, cioè se non aveva dormito con la moglie, celebrava il culto divino nelle prime ore del mattino nel suo larario, in cui teneva, insieme ai ritratti degli antenati, le immagini degli imperatori divinizzati – ma aveva scelto i migliori – e delle anime più sante, tra cui Apollonio e, secondo quanto dice uno storico a lui contemporaneo, Cristo, Abramo, Orfeo e altri di questo genere35.
Riguardo al sincretismo tipico dell’ideologia religiosa severiana, nel riferimento al larario di Alessandro, troviamo qualche cosa di più36. L’elenco delle quattro animae sanctiores, con al primo posto Apollonio di Tiana, indica che il sincretismo dominante si coniuga nell’età dei Severi con la precisa esigenza di individuare validi modelli etici – una sorta di «galleria di personaggi esemplari» per la meditazione e per la vita. È significativo, dal nostro punto di vista, l’accostamento tra Apollonio di Tiana e Gesù Cristo. Al riguardo, è fuori luogo ipotizzare in Alessandro un’intenzione polemica contro i cristiani: è noto che tale doveva essere invece l’intenzione di Sossiano Ierocle nel pamphlet confutato da Eusebio37. Semmai l’accostamento tra Apollonio e Gesù denuncia la tendenza del Severo e della sua corte ad assimilare il Cristo a un θεὸς ἀνήρ, e a interpretare in chiave filosofica la sua opera e il suo insegnamento38. Il che, ancora una volta, può trovare riscontro in ambienti cristiani. Si pensi anzitutto ai ‘carpocraziani’ che, a detta di Ireneo, allineavano il ritratto di Cristo «cum imaginibus mundi philosophorum»39. Si pensi altresì, fra le sette gnostiche più cristianizzate, agli ofiti e a una parte dei valentiniani; nonché ai vari rigurgiti del giudeocristianesimo ebionita, segnatamente ai due Teodoti e ad Artemone. È vero che questi ultimi tre gruppi menzionati appaiono tra loro ben distinti dal punto di vista culturale e morfologico: tuttavia – stando ancora a Ireneo e all’autore dell’Elenchos – in ciascuno di essi risulta radicalmente compromessa l’affermazione della preesistenza divina di Gesù. Egli sarebbe nato semplice uomo, benché concepito verginalmente da Maria40. Infine, all’interno della grande Chiesa e lungi da affermazioni riduttive della divinità e della preesistenza del Cristo, si pensi anche – dopo le antiche rappresentazioni giudaizzanti del Cristo-angelo o del Cristo-pneuma41 – alle tendenze subordinazioniste della Logoschristologie e degli ambienti più aperti agli influssi medioplatonici.
A tale proposito è notevole il fatto che proprio in età severiana la cristologia del Logos abbia incontrato in Clemente Alessandrino e in Origene più matura elaborazione teologica, dopo Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo e Ireneo42.
Ma si è voluto vedere il subordinazionismo43 operante in età severiana anche nell’ambiente africano: con specifico riferimento a Tertulliano, si afferma che vi si può parlare già di subordinazionismo tanto a proposito dell’‘origine’, quanto della ‘sostanza’ del Verbo: così che «il Cristo di Tertulliano è Dio allo stesso modo del Padre, ma non nella stessa misura»44.
Coerentemente alle riflessioni svolte, sembra possibile affermare che le fondamentali tendenze della cristologia patristica (di solito ricondotte, secondo una dialettica fin troppo scontata, l’una – il monarchianesimo – all’‘anima giudaica’, l’altra – il subordinazionismo – all’‘anima ellenistica’ del cristianesimo primitivo) trovano riscontri degni di nota nei fondamentali articoli dell’ideologia religiosa severiana, precisamente nel tendenziale monoteismo e nel reale sincretismo della dinastia45.
Costantino, invece – rispetto alla religiosità sincretistica severiana –, vide nei cristiani una minoranza sociale ben organizzata, capace di vantaggiose, e addirittura necessarie alternative nei confronti della tradizione religiosa precedente.
Come si vede, bisogna approfondire ancora il concetto di religio, per cogliere il punto di vista degli imperatori – prima e dopo i Severi – verso la religione cristiana. Il ricorso all’etimo di religio non è decisivo per la nostra analisi. Si tratta in effetti di un’etimologia controversa47. Tuttavia, a prescindere dalla questione dell’etimo, il modo di intendere la religione nel mondo romano si accorda di più con l’orientazione semantica di religere/relegere che con quella di religare. «Ricominciare una scelta già fatta (retractare, dice Cicerone), rivedere la decisione che ne risulta, tale è il senso proprio di religio. Indica una disposizione interiore, e non una proprietà oggettiva di certe cose, o un insieme di fede e di pratiche»48.
Così nell’età classica religio indica anzitutto un atteggiamento fatto di scrupoloso rispetto verso le istituzioni, ed è questo il senso che mantiene lungo il tragitto della latinità. In rapporto all’identità del cittadino, impegnato per la sua stessa sopravvivenza a conservare la polis, la religio è ciò che dà forza alle istituzioni civili, e ne garantisce la durata.
Dentro queste prospettive, la nozione di religio rimane sempre connessa con la diligentia e con la scrupolosa osservanza del culto.
Nella medesima direzione, Virgilio giunge a identificare religio con rito, e a ‘oggettivarne’ – almeno per qualche aspetto – la soggettività originaria. Quando, nel secondo libro dell’Eneide, Priamo chiede a Sinone quae religio sottenda la costruzione del cavallo, egli si riferisce evidentemente a una pratica cultuale. La risposta di Sinone – secondo cui il cavallo sarebbe stato di così ampie dimensioni per impedirne il passaggio entro porte nemiche neu populum antiqua sub religione tueri (possit) – ribadisce il medesimo significato, nel senso che il culto, una volta acquisito dalla città nemica, avrebbe recato con sé la protezione del dio dedicatario.
D’altra parte, Virgilio usa il termine religio anche nel senso di «timore reverenziale»: tuttavia rimane da stabilire se ciò dipenda o meno da una sua ‘ricostruzione antiquaria’. Il problema da risolvere – e non è questione di poco conto – è se sussista nella memoria storica dei romani uno ‘strato primitivo’ permanente legato al «timore reverenziale», ovvero se questo uso debba riferirsi a una rielaborazione poetica (antiquaria, appunto) di Virgilio stesso.
«Ci fu un contributo cristiano al costituirsi di una tradizione interpretativa della religione?», si è chiesto, ai nostri giorni, Giovanni Filoramo49. A questa domanda egli stesso risponde:
La risposta sembrerebbe negativa. I polemisti cristiani, da Arnobio a Lattanzio, da Eusebio ad Agostino, nel loro confronto con gli dei pagani utilizzarono senza alcuna novità l’armamentario ideologico che secoli di critica filosofica alle tradizioni mitico-religiose [da Senofane e da Democrito in poi] avevano elaborato50.
Sul versante della critica filosofica, dunque, l’‘incontro’ tra cristiani e pagani appare sicuramente attestato. Ma, se una qualche novità si vuole trovare [ed è questa l’area dello ‘scontro’], essa va individuata nella diversa prospettiva con cui gli autori cristiani guardarono, per altro sulla scia dell’apologetica giudaico-ellenistica, al mondo delle tradizioni religiose. Per un verso, infatti, il confronto con l’idolatria pose il problema di individuare la ‘vera’ religione, di contro a quelle religiones che si rivelavano invenzione umana o, peggio, creazione diabolica; per un altro, un’incipiente teologia naturale, innestata su un modo nuovo di concepire e strutturare la storia, doveva fornire quel quadro generale di storia sacra al cui interno per secoli si sarebbe collocata l’interpretazione della religione e delle religioni51.
Partiamo da questo secondo elemento dello ‘scontro’. L’alfiere delle relative argomentazioni è Tertulliano. Il suo ragionamento è semplice, mentre coniuga la natura delle cose con il primo articolo della fede cristiana:
Quello che noi adoriamo è il Dio unico, che trasse dal nulla questa gigantesca mole. Se dunque i vostri dei non esistono, è altrettanto vero che la vostra religio non esiste; e se non vi è religio, perché non vi sono gli dei, neppure noi possiamo essere ritenuti colpevoli di lesa religione (lesae religionis). Al contrario, ricadrà tale rimprovero su di voi, che adorate la menzogna, non solo negligendo la vera religio del vero Dio (veram religionem veri Dei non modo negligendo), ma per di più combattendola, cadendo in tal modo in un delitto di autentica irreligiosità (crimen verae irreligiositatis)52.
Da parte sua Minucio Felice, contemporaneo di Tertulliano, ne completa il colpo di mano semantico applicando il sintagma vera religio alla realtà cristiana, mentre superstitio e impietas giungono a definire la religio romana e le altre religiones.
Si torna così al primo argomento dello ‘scontro’, cioè al dibattito sulla vera religio. A questo riguardo uno dei testi più interessanti della letteratura cristiana antica è il famoso scritto indirizzato A Diogneto verso la fine del II secolo. I cristiani, scrive l’anonimo autore, «sono avversati dai giudei come un altro popolo, e dai greci sono perseguitati, e coloro che li odiano non sanno dire la causa del loro odio»53. È qui accennata una tripartizione religiosa, per cui i cristiani figurano come tertium genus rispetto ai giudei e ai greci (si noti che nelle fonti patristiche parallele questi ultimi sono intercambiabili con i romani). La «terza stirpe» si caratterizza come tale proprio per il suo «discorso» (logos) assolutamente nuovo nei confronti della religione.
Su, dunque, purìfícati da tutti i pregiudizi che ti imprigionano lo spirito, spogliati dalla consuetudine acquisita che trae in inganno, diventa un uomo nuovo, quasi appena nato, così come nuovo (tu stesso l’hai riconosciuto) è il discorso (logos) che ti appresti ad ascoltare, e osserva – non solo con gli occhi, ma anche con l’intelligenza – quale sia la sostanza o quale la forma di quelli che continuate a chiamare e a ritenere dei54.
Un’eco di simili espressioni si trova negli Stromati di Clemente Alessandrino, che cita a sua volta le Predicazioni apocrife di Pietro: «Le cose dei greci e dei giudei», vi si legge nel sesto libro, «sono ormai vecchie (παλαιά); noi cristiani, invece, adoriamo Dio in modo nuovo (καινῶς), come una terza stirpe»55.
Ecco dunque la tipologia fondamentale dello ‘scontro’. I cristiani con il loro logos religioso assolutamente nuovo sfidano i pagani a valutare la consistenza dei miti tradizionali. Di fatto, per quanto la critica filosofica ne avesse ormai smantellato la credibilità, i romani vi restavano abbarbicati per consuetudine, nel timore che l’abbandono della religione tradizionale dovesse coincidere con il caos delle istituzioni.
Contestualmente i cristiani investono il termine religio di una valenza nuova. Nel linguaggio cristiano, infatti, la voce religio rinvia a contenuti oggettivi che originariamente le erano estranei, se davvero – come abbiamo già visto – religio presso i pagani indicava prima di tutto una disposizione soggettiva, uno «scrupoloso rispetto verso le istituzioni»56, piuttosto che un insieme di credenze oggettive.
Tuttavia, come abbiamo accennato, non è il termine religio quello privilegiato dai nostri Padri per definire il loro logos radicalmente nuovo nei confronti della religione. Neppure theologhia – termine eccessivamente compromesso con la triplice teologia descritta da Varrone e dai suoi epigoni – era in grado di appagarli.
Rimaneva piuttosto la voce philosophia, che rappresentava pur sempre l’area dell’«incontro» tra paganesimo, giudaismo e cristianesimo sul piano della critica alla religione tradizionale e ai suoi falsi miti.
«La nostra filosofia»: così in effetti definisce la nuova religione il vescovo di Sardi, Melitone, nell’Apologia da lui indirizzata a Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, verosimilmente nei medesimi anni in cui l’anonimo autore dell’A Diogneto assimilava il cristiano al filosofo (inteso platonicamente come «re nel cuore della città»), e per questa via poteva affermare che i cristiani, pur ubbidendo alle leggi, «con la loro vita superano le leggi»57.
In tal modo – precisamente optando per la filosofia e rinnegando la falsa religio, identificata con irreligiositas e superstitio – i cristiani intendevano rassicurare i romani del loro lealismo verso le istituzioni civili, e si difendevano – ritorcendola contro i pagani – dalle accuse di «ateismo» e di «empietà».
È su questo ampio sfondo storico-religioso che va collocata la cosiddetta svolta costantiniana58, ai fini di una sua corretta interpretazione. Come recita l’aggettivo stesso, protagonista indiscusso di questa svolta fu Costantino il Grande. Egli rimane, nello stesso tempo, il depositario coerente della tradizione storico-religiosa fin qui rivisitata. Alla stregua già di Diocleziano e Galerio, e di tutti gli imperatori prima di loro, egli vedeva nella religione l’unica garanzia di prosperità dell’Impero e della sua unità. Costantino però – a differenza dei suoi predecessori – si rese conto lucidamente che, per diversi motivi, la religio tradizionale non era più in grado di assolvere il suo compito, e che occorreva ‘sostituire’ gli dei dell’Olimpo con il Deus christianorum, senza intaccare per questo il nodo saldo che univa tra loro religione e politica.
In tale prospettiva si comprende quello che abbiamo anticipato fin dall’inizio: cioè che la svolta costantiniana è nella realtà assai meno rivoluzionaria di quanto molto spesso si voglia credere; e si capisce anche il grave equivoco con cui la nuova religione veniva accolta e riconosciuta fra le istituzioni dell’Impero.
Da Costantino, infatti, essa fu compresa anzitutto come un’etica: per lui, Gesù Cristo non era tanto il Logos, quanto piuttosto il Nomos, e la religione dei cristiani aveva essenzialmente lo scopo di propiziare, mediante un culto esatto, il favore della Divinità, senza la quale era impossibile la sopravvivenza e la prosperità dell’Impero. La novità era che – mentre prima il giusto culto della divinità sembrava esigere necessariamente la repressione della religione cristiana, non integrabile nel culto tradizionale – ora invece la Divinità da cui si attendeva protezione, l’unica capace di garantire l’unità e la durata dell’Impero, era quella dei cristiani.
La ‘svolta’ fondamentale, che inaugura i nuovi rapporti tra la Chiesa e l’Impero, è segnata dalla conversione dell’imperatore nel 312 e dalla pubblicazione del cosiddetto editto di Milano del 313. Così all’inizio del IV secolo si verifica una delle rivoluzioni più importanti che la Chiesa abbia mai conosciuto: ignorata e perseguitata nel periodo precedente, quasi all’improvviso essa acquista completa libertà, fino a godere privilegi sempre più ampi sotto la ‘cura’ e la ‘sollecitudine previdente’ di Costantino e dei suoi successori.
Stando a Eusebio di Cesarea, suo entusiasta biografo, Costantino definiva se stesso episkopos ton ektos59, cioè ‘vescovo di quelli di fuori’, ‘vescovo al di fuori della gerarchia’. Santo Mazzarino ha tradotto Eusebio in modo singolare, ma certo efficace, definendo Costantino «vescovo dei laici»60. In ogni caso, pare più verosimile ciò che lo stesso Mazzarino annota nel medesimo contesto.
Eliminato Licinio dopo la battaglia di Crisopoli del 18 settembre 324, l’imperatore diventa l’unico Augusto. Così Costantino attuava la monarchia politica universale; e un anno dopo, nel 325, in occasione del concilio di Nicea – da lui stesso convocato e presieduto – partecipava alla definizione del concetto cattolico di monarchia, nel quadro del dogma trinitario. Come sulla terra si realizzava l’unità assoluta di governo – la monarchia costantiniana dell’oikoumene –, così nel cielo trionfava la monarchia divina, l’unico vero Dio dei cristiani.
Coerentemente, Costantino favorì in tutti i modi l’episcopato, adottando misure di protezione, elargendo privilegi e donazioni, e facendo edificare basiliche in molte città dell’Impero. Per lo stesso motivo egli intervenne attivamente nelle dispute teologiche che laceravano le comunità cristiane, segnatamente nella controversia ariana e nella crisi donatista. In tutti questi casi la politica religiosa di Costantino inaugurava quell’atteggiamento, che sarebbe diventato caratteristico dell’imperatore cristiano: una politica religiosa ispirata alla ricerca non tanto dell’ortodossia, quanto piuttosto di formule conciliative, sulle quali l’imperatore imponeva concordia e unità. Proprio per questo motivo l’imperatore cristiano giunse a perseguitare i cristiani, facendosi protettore potente di non poche eresie. È questa politica religiosa che dà il suo vero contenuto alla formula sopra citata di episkopos ton ektos. Di fatto l’imperatore – soprattutto nell’Oriente bizantino, dove assai più a lungo si mantenne il sistema politico-religioso inaugurato da Costantino – non smise mai di sentirsi coerente depositario di quella tradizione, che da sempre aveva riconosciuto all’Augusto la funzione di mediatore tra il divino e l’umano.
Il vero ‘capovolgimento’ dei rapporti tra la Chiesa e l’Impero fu sancito dall’editto Cunctos populos dell’imperatore Teodosio (379-395), pubblicato a Tessalonica il 27 febbraio 380, che prescriveva a tutti i sudditi dell’Impero di «perseverare nella religione trasmessa dall’apostolo Pietro ai romani», «professata dal pontefice Damaso, e da Pietro, vescovo di Alessandria».
In realtà anche l’editto di Tessalonica – come già la svolta costantiniana – obbediva puntualmente alla logica che la repressione religiosa aveva sempre assunto nella tradizione romana, non solo durante l’‘impero cristiano’, ma anche e soprattutto durante l’‘impero pagano’ e la repubblica: il culto da reprimere era assimilato, a seconda dei casi, al sacrilegio, all’empietà, alla magia o all’ateismo. La repressione non si dichiarava mai diretta contro la religione, ma contro una perversione della religione, contro una sua profanazione colpevole e pericolosa per la respublica. La politica religiosa dell’Impero, infatti, voleva garantirsi in ogni caso la protezione della divinità, presentando a essa la sottomissione di un culto senza impedimenti.
Gli interventi legislativi – dall’editto di Galerio a quello di Teodosio –, mentre gradualmente riconoscevano ai cristiani la piena libertà religiosa e, all’inverso, limitavano l’esercizio del culto pagano, si mantenevano sempre, paradossalmente, sulla linea della tradizione romana, una volta decisa, dopo Galerio, l’inopportunità della persecuzione contro i cristiani. Di fatto, la sostituzione degli dei dell’Olimpo con il Deus christianorum, definitivamente sancita dall’imperatore Teodosio, non intendeva minimamente scalfire il sistema tradizionale del raccordo tra religione e politica – sistema sul quale poggiava la stabilità della polis nell’antica Grecia e della respublica a Roma. In definitiva, il passaggio dell’Impero al cristianesimo abolì i riti pagani, ma non la mentalità che questi riti esprimevano.
Vi sono evidenti ambiguità in questo processo di ‘sostituzione’, come pure ampi spazi di ingerenza ecclesiale che l’imperatore si riservava, sempre attento da parte sua – giova ripeterlo – alla concordia religiosa e all’unità dei sudditi per la salvezza dell’Impero, molto di più che all’ortodossia della fede. Non si devono dimenticare tuttavia le enormi possibilità che la svolta costantiniana assicurava alla Chiesa. Essa poteva finalmente definire le sue strutture interne – a partire dai vari gradi gerarchici e dalla formazione dei sacri ministri –, e organizzare vantaggiosamente la propria ‘azione missionaria’.
In definitiva, il sacerdozio dell’imperatore cristiano, inaugurato dalla svolta costantiniana, fondava nella teologia politica il modello teocratico ‘eusebiano-bizantino’ del rapporto tra sacerdotium e imperium61.
1 Nel campo sterminato della relativa bibliografia ci si limiterà – qui, e di seguito – allo stretto essenziale. Per questo paragrafo e per la sua documentazione si rinvia a un bilancio di studi: E. dal Covolo, I Severi e il cristianesimo. Un decennio di ricerche (1986-1996), in Anuario de Historia de la Iglesia, 8 (1999), pp. 43-51 (anche in Tempus implendi promissa. Homenaje al Prof. Dr. Domingo Ramos-Lissón, a cura di E. Reinhardt, Pamplona 2000, pp. 97-108). Per i paragrafi successivi si segnala un altro studio più recente: E. dal Covolo, La religione a Roma tra il II e il III secolo. “Monoteismo” solare e sincretismo a confronto con il coevo dibattito cristologico, in L’ipogeo degli Aureli in viale Manzoni. Restauri, tutela, valorizzazione e aggiornamenti interpretativi, a cura di F. Bisconti, Roma 2011, pp. 21-29.
2 Hadrian and the Christians, ed. by M. Rizzi, Berlin 2010.
3 Ivi pp. 19-20.
4 Eus., h.e. IV 3-9.
5 S. Mazzarino, L’Impero romano, II, Bari 1973, p. 483.
6 Or., Cels. IV 18. M. Simonetti, Le controversie cristologiche nel secondo e nel terzo secolo, in La Cristologia nei Padri della Chiesa. Le due culture, I, Roma 1981, pp. 25-44, offre una sintesi pressoché completa della problematica teologica sottesa al dilemma di Celso; indaga altresì sugli sviluppi successivi al dibattito cristologico, fino alla crisi ariana e al concilio di Nicea.
7 A. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, 1/1, Dall’età apostolica al concilio di Calcedonia (451), Brescia 1982, p. 289.
8 M. Simonetti, Il problema dell’unità di Dio da Giustino a Ireneo, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 22 (1986), pp. 201-240; Id., Il problema dell’unità di Dio a Roma da Clemente a Dionigi, ivi, pp. 439-474.
9 Si veda S. Mazzarino, L’Impero romano, II, cit., pp. 437-438; anche l’intero capitolo dedicato a «monarchianismo e monarchia», pp. 433-490 e pp. 658 segg.
10 Cfr. soprattutto L. Homo, Les empereurs romains et le Christianisme, Paris 1931, p. 97.
11 È appena il caso di notare che ‘monoteismo’ riferito alla religiosità severiana è termine improprio, più che altro allusivo di una tendenza. Vale al riguardo ciò che osserva Robert Turcan: «Héliogabale n’était pas monothéiste. Il subordonnait seulement à son dieu le culte de tous les autres [...]. Mais cette façon de majorer la puissance d’une divinité et de lui vouer un hommage privilégié scandalisait les païens», R. Turcan, Héliogabale précurseur de Constantin?, in Bulletin de l’Association Guillaume Budé, 1 (1988), pp. 38-52, in partic. 52. Si veda anche F. Cumont, Les religions orientales dans le paganisme romain, Paris 19294, p. 106. Per un’inquadratura critica dell’opera di Franz Cumont, cfr. R. Beck, Mithraism since Franz Cumont, in ANRW II,17,4, 1984, pp. 2002-2115 (con bibliografia).
12 Sull’ideale monarchiano come presupposto religioso dell’accentramento imperiale, si veda il discorso che – stando a Erodiano – Caracalla rivolge ai senatori dopo il fratricidio di Geta (Hdn., IV 5,7). Cfr. M. Mazza, Il principe e il potere. Rivoluzione e legittimismo costituzionale nel III sec. d.C., in Istituzioni giuridiche e realtà politiche nel tardo impero romano (III-V sec. d.C.), Atti di un incontro tra storici e giuristi (Firenze 2-4 maggio 1974), Milano 1976, pp. 1-62.
13 Arist., Rh. 1365B.
14 Iust., dial. 1,3.
15 Sulla storia del termine monarchia si veda l’introduzione di Giuseppe Scarpat a Q.S.F. Tertulliano, Adversus Praxean, Torino 1985, pp. 48-53; sulla storia del monarchianesimo («Una storia del movimento è ancora da scrivere [...]. Ma una storia dalle linee sicure è impresa disperata»: p. 14 nota 1), cfr. ivi, pp. 14-25; sulla sua rilevanza nella storia del dogma trinitario si veda F. Courth, Handbuch der Dogmengeschichte, II, Der Trinitärische Gott, 1a, Trinität in der Schrift und Patristik, Freiburg-Basel-Wien 1988, pp. 52-59.
16 M. Simonetti, Il problema dell’unità di Dio da Giustino a Ireneo, cit., p. 201.
17 M. Simonetti, Il problema dell’unità di Dio a Roma, cit., pp. 470-474.
18 Acta Sanctorum, octobris VI 441: «[...] per fenestram domus praecipitari, ligatoque ad collum eius saxo, in puteum demergi et in eo rudera cumulari». Cfr. Liber Pontificalis, éd. par L.M.O. Duchesne, Paris 19552, I, pp. 141 segg.
19 M. Sordi, I cristiani e l’impero romano, Milano 1984, p. 98.
20 Lampr., Alex. 49,6.
21 Cfr. Ps.Hipp., elench. IX 12,16 e IX 11,3; Tert., adv. Prax. 13,1 e 19,8.
22 Ps.Hipp., elench. IX 12,15-18.
23 Cfr. H. Kraft, Dalla «chiesa» originaria all’episcopato monarchico, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 22 (1986), pp. 411-438 (interessa per ciò che riguarda gli inizi del primato romano: pp. 423-425); P. Stockmeier, Papstum und Petrus-Dienst in der frühen Kirche, in Münchener Theologische Zeitschrift, 38 (1987), pp. 19-29.
24 M. Simonetti, Il problema dell’unità di Dio a Roma, cit., p. 473.
25 M. Simonetti, Sabellio e il sabellianismo, in Studi storico-religiosi, 4 (1980), pp. 7-28; Id., Per la rivalutazione di alcune testimonianze su Paolo di Samosata, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 24 (1988), pp. 177-210 (soprattutto le pagine conclusive, 208 segg.).
26 Tert., adv. Prax. 1,6-7: «Fruticaverunt avenae Praxeanae hic quoque superseminatae [...]. Avenae vero illae ubique tunc semen excusserant».
27 Cfr. A. d’Alès, La Théologie de Saint Cyprien, Paris 1922, p. 11.
28 Lo stesso Adhémar d’Alès riporta la documentazione relativa: cfr. ivi, pp. 10-11. Il discorso sulla diffusione del monarchianesimo e sulla sua posizione dialettica nei confronti della Logoschristologie richiederebbe uno spazio ben più ampio, ma ne soffrirebbe l’equilibrio complessivo dell’esposizione. Viceversa, ne risulterebbe meglio articolata qualche affermazione che rischia di apparire – qui e più avanti – un po’ rigida e schematica. Si tenga conto però che l’area privilegiata della nostra analisi è la comunità romana, dove il dialogo tra Cristo e Cesare registra una particolare intensità. In ogni caso si rinvia alla bibliografia di volta in volta citata, cui aggiungo almeno il contributo di C. Moreschini, Monoteismo cristiano e monoteismo platonico nella cultura latina dell’età imperiale, in Platonismus und Christentum. Festschrift für Heinrich Dörrie, Münster 1983, pp. 133-161. Tale contributo, dichiaratamente rivolto all’età degli Antonini, inquadra le coeve aspirazioni monarchiane nel contesto filosofico e retorico-letterario del medioplatonismo (particolare riferimento ad Apuleio, De Platone eiusque dogmate); ma ne risulta illuminata altrettanto bene l’età dei Severi.
29 M. Sordi, Il cristianesimo e Roma, Bologna 1965, p. 212. Sulla religione a Roma sotto i Severi resta valido J. Réville, La religion à Rome sous le Sévères, Paris 1886. Si vedano anche i contributi raccolti nella sezione «Principat-Religion» (II,16-25) dell’opera collettiva ANRW, segnatamente R. Turcan, Le culte impérial au III siècle, in ANRW II,16,2, pp. 996-1084.
30 Cfr. Eus., p.e. IV 13,1 (parallelo a d.e. III 3,11), contra Philostr., VA I 31-32. Dell’ingente bibliografia su Apollonio di Tiana si è tenuta presente soprattutto l’introduzione di Dario Del Corno a Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, Milano 1978, pp. 9-57. Si veda poi E.L. Bowie, Apollonius of Tyana: Tradition and Reality, in ANRW II,16,2, pp. 1652-1699 (cfr. la relativa bibliografia dal 1870 al 1976, pp. 1692 segg.); M. Dzielska, Apollonius of Tyana in Legend and History, Roma 1986 (altra bibliografia); G. Anderson, Philostratus. Biography and Belles Lettres in the third Century A.D., London-Sydney-Dover (NH) 1986.
31 F. Altheim, Il dio invitto. Cristianesimo e culti solari, Milano 1960, p. 58. Sul culto solare nel III secolo e sulla politica religiosa di Elagabalo, si veda – dopo K. Gross, Elagabal, in RAC, IV, cc. 987-1000, e T. Optendrenk, Die Religionspolitik des Kaisers Elagabal im Spiegel der Historia Augusta, Bonn 1969 – G.H. Halsberghe, Le culte de Deus Sol Invictus à Rome au 3e siècle après J.-C., in ANRW II,17,4, pp. 2181-2201; M. Pietrzykowski, Die Religionspolitik des Kaisers Elagabal, in ANRW II,16,3, pp. 1806-1825; R. Turcan, Héliogabale et le sacre du soleil, Paris 1985.
32 Cfr. L. Homo, Les empereurs romains, cit., p. 97.
33 Lampr., Heliog. 3,4-5; 6,7-7,1 e 7,4.
34 Lampr., Alex. 43,6-7.
35 Lampr., Alex. 29,2.
36 S. Settis, Severo Alessandro e i suoi lari (S.H.A., S.A., 29,2-3), in Athenaeum, 50 (1972), pp. 237-251.
37 Eus., Hierocl. (cfr. Eusèbe de Césarée, Contre Hiéroclès, éd. par M. Forrat, É. des Places, Paris 1986, pp. 11-55, parte relativa alle circostanze e all’oggetto della polemica tra Eusebio e Ierocle; e pp. 91-95, sulla bibliografia circa Apollonio, Filostrato, Ierocle, Eusebio).
38 S. Settis, Severo Alessandro e i suoi lari, cit., pp. 245-247.
39 Iren., haer. I 25,6; P. Corby Finney, Alcune note a proposito delle immagini carpocraziane di Gesù, in Rivista di Archeologia Cristiana, 57 (1981), pp. 35-41.
40 Cfr. Iren., haer. I 30,12 (ofiti) e I 7,2 (valentiniani); Ps.Hipp., elench. VII 35,2 e X 23,2 (Teodoto). La prospettiva critica qui recepita è quella di A. Orbe, Cristología gnóstica. Introducción a la soteriología de los siglos II y III, I, Madrid 1976, pp. 13-54; cfr. anche Id., Introducción a la teología de los siglos II y III, II, Roma 1987, pp. 513-517.
41 B. Studer, Dio salvatore nei Padri della Chiesa. Trinità-cristologia-soteriologia, Roma 1986, pp. 53-68 (con bibliografia).
42 Si veda la sintesi di R. Cantalamessa, La cristologia patristica come soluzione del problema della trascendenza e immanenza di Dio in Cristo, in Teologia, 1 (1976), pp. 338-354; e l’analisi di A. Orbe, Il Cristo, I, Testi teologici e spirituali dal I al IV secolo, Milano 1985, pp. VII-XCIX.
43 Sulla problematica subordinazionista e sulla dialettica tra oikonomia, theologia, monarchia, resta fondamentale W. Marcus, Der Subordinatianismus als historiologisches Phänom en. Ein Beitrag zu unserer Kenntnis von der Entstehung der altchristlichen “Theologie” und Kultur unter besonderer Berücksichtigung der Begriffe OIKONOMIA und THEOLOGIA, München 1963.
44 R. Cantalamessa, La Cristologia di Tertulliano, Fribourg 1962, pp. 25-27; l’espressione ritorna in J. Moingt, Théologie trinitaire de Tertullien, II, Substantialité et individualité, Paris 1966, pp. 399-404 (invero tale contesto giunge a ridimensionare, almeno per certi aspetti, l’affermazione di Cantalamessa). Tuttavia, riguardo al subordinazionismo di Tertulliano, occorre tener conto se non altro della critica di Moreschini a Peterson: cfr. C. Moreschini, Monoteismo, cit., p. 139: «Non ci sentiamo di seguire il Peterson là ove egli rimprovera Tertulliano di aver applicato alla teologia cristiana, per respingere il monarchianesimo di Prassea, la stessa gerarchia tra dio sommo e dei minori che i pagani credevano si potesse istituire».
45 È pur vero che le convergenze tra la ‘religione’ dei Severi e la comunità cristiana di Roma interessavano soprattutto ‘una minoranza intellettuale’, che amava definire la propria fede con il termine ‘filosofia’, piuttosto che con quelli di ‘religione’ o di ‘teologia’.
46 Per questo paragrafo, per il successivo e la relativa documentazione si rinvia a: E. dal Covolo, Religio e pietas in età classica, in La natura della religione in contesto teologico, Atti del X Convegno internazionale della Facoltà di Teologia (Roma 9-10 marzo 2006), a cura di S. Sanz Sanchez, G. Maspero, Roma 2008, pp. 35-46. Cfr. anche E. dal Covolo, Cristianesimo e filosofia nei primi tre secoli, in Le religioni del Mediterraneo. Filosofia, religione, cultura, a cura di A. Ales Bello, P. Manganaro, Milano-Udine 2008, pp. 61-72.
47 Secondo alcuni, il vocabolo va connesso con religere/relegere («raccogliere di nuovo», «rileggere»); secondo altri, si riallaccia invece a religare («riunire», «legare», «riannodare»).
48 Così afferma Émile Benveniste nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee. A suo dire, «religio è un’esitazione che trattiene, uno scrupolo, e non un sentimento che dirige verso un’azione, o che incita a praticare il culto» (cfr. É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II, Torino 1976, pp. 419-496, in partic. 489-490).
49 G. Filoramo, Che cos’è la religione. Temi metodi problemi, Torino 2004, p. 37.
50 Ivi.
51 Ivi.
52 Tert., Apol. 17,1; 24,1-2.
53 Diogn. 5,17.
54 Diogn. 2,1.
55 Clem., str. VI 5,41,6-7.
56 Cfr. É Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, cit., pp. 489-490.
57 Su tutto questo vedi E. dal Covolo, Chiesa Società Politica. Aree di ‘laicità’ nel cristianesimo delle origini, Roma 1994, pp. 107-109.
58 Per una trattazione diffusa e documentata di questo paragrafo e del successivo si possono vedere i seguenti contributi: E. dal Covolo, Vicende postcalcedonesi. Il potere imperiale tra scismi e eresie, in Annuarium Historiae Conciliorum, 38 (2006), pp. 255-264; e Id. Il «capovolgimento» dei rapporti tra la Chiesa e l’impero nel IV secolo, in Diritto e Storia, 8 (2009), consultabile on line: http://www.dirittoestoria.it/ 8/Memorie/Roma_Terza_Roma/Dal-Covolo-Chiesa-Impero-IV-Secolo.htm (10 mar. 2013). Vi si trovano citati i seguenti studi: per le relazioni tra Chiesa e Impero nel IV secolo, E. dal Covolo, Il «capovolgimento» dei rapporti tra la Chiesa e l’impero, in Chiesa e impero. Da Augusto a Giustiniano, a cura di E. dal Covolo, R. Uglione, Roma 2001, pp. 199-208; sulla svolta costantiniana, G. Bonamente, La “svolta costantiniana”, ivi, pp. 145-170; sulla conversione di Costantino, A. Baldini, Il dibattito contemporaneo sulla conversione di Costantino, in Salesianum, 67 (2005), pp. 701-735; per un ampio quadro dei rapporti tra la Chiesa e l’Impero, dal I secolo fino all’imperatore Teodosio, cfr. R. Lizzi Testa, Chiesa e Impero, in Letteratura patristica, a cura di A. Di Berardino, G. Fedalto, M. Simonetti, Cinisello Balsamo 2007, pp. 263-281, con bibliografia (che però – inspiegabilmente – non contempla nessuno dei titoli qui sopra indicati).
59 Cfr. Eus., v.C. IV 24.
60 S. Mazzarino, L’Impero romano, III, Bari 1973, pp. 658-659.
61 Volendo adottare la tipologia interpretativa della teologia politica disegnata da Marco Rizzi (modello eusebiano-bizantino, modello origeniano-ambrosiano, modello agostiniano), si tratta qui del «modello eusebiano e poi bizantino del dualismo rappresentativo concorrente, in cui le due istituzioni, quella politica e quella ecclesiale, debbono concorrere nella realizzazione del disegno divino, di cui sono emanazione diretta»: M. Rizzi, Le teologie politiche, in Il Cristianesimo. Grande Atlante, III, Le dottrine, a cura di G. Alberigo, G. Ruggieri, R. Rusconi, Torino 2006, pp. 1045-1060, in partic. 1059. Dello stesso Rizzi si veda anche Cesare e Dio. Potere spirituale e potere secolare in Occidente, Bologna 2009.