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La diffusione del cristianesimo e le conversioni

di Giacomo Di Fiore - Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)
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La diffusione del cristianesimo e le conversioni

Giacomo Di Fiore

Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Dopo la morte di Cristo, i suoi seguaci si posero il problema se la nuova religione dovesse essere confinata ai soli Giudei o se dovesse rivolgersi a tutti gli uomini. A prevalere fu la linea di Paolo di Tarso, il quale non voleva che il cristianesimo si riducesse a una delle tante effimere sette di matrice giudaica ma, coerentemente all’insegnamento di Gesù, rispettasse la sua vocazione universale.

Nella diffusione del cristianesimo vanno distinti due momenti; il primo, quello della persecuzione da parte dell’impero romano, il secondo quello della libertà di culto, seguito dalla sua proclamazione a religione di Stato. Le tappe successive della storia del cristianesimo sono quelle di una graduale avanzata in Oriente come in Occidente, ma anche di ripiegamenti e di battute d’arresto, come nel caso della perdita delle province passate all’islam a cominciare dal VII secolo. La conversione dell’Europa, che si accompagna al progressivo passaggio dalla barbarie alla civiltà (il cristianesimo diventa anche polo d’attrazione in questo senso), si può dire completata solo alla fine del XIV secolo, quando si battezza l’ultimo sovrano pagano, Jogaila di Lituania.

Gli esordi

Nel cosiddetto concilio apostolico di Gerusalemme, tenutosi intorno al 50 – il primo di cui si ha notizia – si pone il problema se i destinatari del nuovo messaggio di salvezza debbano essere solo i Giudei, come pensa Simon Pietro, o piuttosto anche i pagani, come invece ritiene Paolo di Tarso.

Ed è proprio quest’ultimo, dopo che la sua linea prevale, a elaborare la strategia missionaria che gli vale l’appellativo di Apostolo delle genti, dando un impulso decisivo all’evangelizzazione dei pagani (o gentili), che lo vede protagonista in prima persona, per buona parte del bacino del Mediterraneo e non sempre con esiti incoraggianti. A Filippi, in Macedonia, Paolo e i suoi vengono bastonati e incarcerati; a Tessalonica deve parimenti fuggire per scampare alla prigione; quando si reca a Efeso (dove si trova una delle sette meraviglie del mondo, il tempio di Artemide), si verifica una rivolta degli artigiani che costruiscono e vendono modelli d’argento in miniatura del tempio della dea: per costoro il successo dei corifei della nuova religione monoteista avrebbe naturalmente significato la rovina.

Sull’Areopago, una delle colline che sovrastavano la capitale greca, si registra infine il primo dibattito intellettuale fra Paolo e gli ateniesi, accorsi in massa ad ascoltare, incuriositi, il predicatore della nuova religione, che da giorni discuteva per le piazze della città con filosofi stoici ed epicurei; ma quando Paolo inizia a parlare della resurrezione dei morti, la gente, scettica, comincia ad andarsene e a deriderlo, tanto che alla fine l’Apostolo si ritira. A prestar fede agli Atti degli Apostoli (17, 34) vi sono in questa occasione alcuni che si convertono, fra i quali Dionigi, detto l’Aeropagita, che sembra sia stato poi il primo vescovo di Atene, e al quale vengono anche attribuiti testi in realtà molto più tardi (del V sec.).

La diffusione della nuova religione procede tuttavia inarrestabile: comunità cristiane fioriscono un po’ dappertutto, a Corinto come a Filippi, a Tolemaide come ad Antiochia, a Tiro come a Cesarea, a Pozzuoli come a Roma. Oltre alla prospettiva di salvezza eterna, nell’immediato il cristianesimo dà grande rilevanza, diremmo oggi, al sociale (in un passo degli Atti degli Apostoli, per esempio, si accenna al malcontento di alcune vedove trascurate nella distribuzione quotidiana dei viveri), con la gestione, almeno nella comunità retta da Pietro, di un comune patrimonio che non ammette egoismi, come attesta la terribile punizione che colpisce Anania e sua moglie Saffira per aver occultato parte della vendita di un campo che pure apparteneva a loro. Al successo della nuova religione contribuisce in maniera non precisabile, ma certamente significativa, l’attività taumaturgica dei suoi sacerdoti, che sembrano essere in grado di combattere il male, operando guarigioni, cacciando i demoni, praticando esorcismi e, aggiungiamo, dosando a seconda delle circostanze terrore e speranza. Nel De catechizandis rudibus (5, 9), Agostino d’Ippona fa riferimento alla severità di Dio che provoca una salutare paura, matrice della carità (De ipsa etiam severitate Dei, qua corda mortalium saluberrimo terrore quatiuntur, caritas aedificanda est), e conferma senza mezzi termini che di rado accadeva, per non dire mai, che qualcuno volesse farsi cristiano senza essere colto da un sentimento di timore nei confronti di Dio (rarissime quippe accidit, imno vero numquam, ut quisquam veniat volens fieri Christianus, qui non sit aliquo Dei timore perculsus).

Roma e i cristiani

Nella tollerante Roma imperiale l’irriducibilità e la diversità della nuova religione le fanno sulle prime guadagnare più nemici che proseliti. Quasi tutti gli imperatori romani prima di Costantino I, anche quelli nient’affatto sanguinari o crudeli, mettono in atto persecuzioni contro i cristiani.

Le prime cominciano sotto la dinastia giulio-claudia. Un celebre passo di Svetonio – Vite dei dodici Cesari, XXV –, ci informa che l’imperatore Claudio Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes Roma expulit (“cacciò da Roma i Giudei che sobillati da Chresto provocavano continuamente disordini”): e se anche il Chresto del testo non è da identificare con Cristo, ma con un nome all’epoca abbastanza comune, a quanto sembra, di liberto, resta il fatto che il comune sentire non fa tante sottigliezze, e accomuna in un’unica turbolenta genia cristiani e Giudei. Non c’è da meravigliarsi dunque che quando Nerone fa appiccare l’incendio a Roma nel luglio del 64 cerchi di attribuirne la responsabilità ai cristiani, come scrive Tacito negli Annali (XV, 44). I cristiani infatti non solo appartengono alla tumultuosa schiatta cacciata da Roma pochi anni prima, ma sono per giunta malvisti (invisos) dal popolo; la loro setta, aggiunge lo storico, già sbaragliata in Giudea, si era ricostituita non solo nel luogo d’origine “ma anche a Roma, dove si diffonde e si esalta tutto ciò che di abominevole e d’ignobile arriva da ogni parte” (sed per urbem etiam, quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque). Il conservatore Tacito ritiene tuttavia che, per quanto innocenti dall’accusa di aver incendiato Roma, i cristiani siano comunque meritevoli del supplizio, dal momento che a suo avviso formano una setta nemica del genere umano. Buona parte dei Romani la pensa come lui: si diffonde la credenza che i cristiani, oltre a provocare disordini, siano dediti a orge e pratiche nefande nelle loro segrete adunanze, e che mangino i bambini (Dodds E. R., Pagani e cristiani in un’epoca d’angoscia, 1970).

Nonostante i cristiani tentino di accreditarsi come sudditi fedeli e morigerati – “Siate sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore, sia al re come al sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati; […] vi esorto, come stranieri e pellegrini, ad astenervi dai desideri della carne […] la vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere giungano a glorificare Dio […]”, si legge nella prima lettera di Pietro – i pagani, anche i più illuminati, non si fidano – come emerge dalla celebre lettera di Plinio il Giovane a Traiano nella quale il primo, allora governatore della Bitinia, chiede istruzioni su come comportarsi nei confronti dei cristiani, ricevendo una umana risposta dall’imperatore –, e vedono nella nuova religione, non senza fondamento, un fattore eversivo del loro mondo: “Ma non s’ingannava Marco Aurelio, lo stoico imperatore filosofo, quando non prestava ascolto alle loro parole; non s’ingannava, nella sua malvagia brutalità la plebe, che lapidava, che chiamava ai circhi e alle fiere questi eversori di altari e di venerati simulacri, che s’erano fatti una patria in Cielo, che si straniavano quanto era possibile dalla vita civile – dagli spettacoli, dalle cerimonie del culto, dalla milizia, dalle magistrature –, che spiavano nelle pubbliche, universali calamità i segni dei tempi profetizzati […]” (Falco G., La santa romana repubblica, 1986).

Ciò non impedisce alla nuova religione di reclutare a poco a poco sempre nuovi proseliti in tutti gli strati sociali, e nonostante le ricorrenti persecuzioni, da Nerone a Domiziano, da Decio a Valeriano e a Diocleziano, i cristiani diventano così numerosi che riescono a ottenere da Costantino e Licinio nel 313 la libertà di culto con l’editto di Milano. Da allora la religione perseguitata si trasforma in religione persecutrice: nel 346 viene emanato un editto che punisce con la morte chi sacrifica agli dei (codificato nel 438 nel Codice Teodosiano, 16.10.4); nel 380 Teodosio I stabilisce con l’editto di Tessalonica che il cristianesimo è l’unica religione riconosciuta dell’impero. In un’orazione indirizzata a Teodosio (In difesa dei templi) il retore Libanio di Antiochia denuncia la contraddittoria condotta dei fedeli di una religione che predica la fraternità e che invece distrugge i templi pagani nelle campagne e nelle città. Non va trascurato inoltre che i templi e il culto – non diversamente dalla cosiddetta economia sacra che si sarebbe poi sviluppata attorno a chiese e monasteri – danno da vivere a un variegato entourage, che un altro aspetto dei sacrifici di animali offerti dal devoto al dio è il banchetto a cui prendono parte molte persone, e, quando si tratta di ecatombi, sfama addirittura interi quartieri o tutta la comunità (Macmullen R. , La diffusione del cristianesimo nell’impero romano, 1989).

Il cristianesimo e il declino dell’impero

Diventato religione di Stato quando l’impero è ormai in declino, il cristianesimo ne accompagna le sorti; e per parecchi storici, oltre al concorso di altri fattori – come le invasioni barbariche, l’anarchia militare, la rilassatezza dei costumi e delle virtù civili, la frammentazione del potere – è proprio la nuova religione a dare il colpo di grazia a Roma, insediandosi a poco a poco sulle ceneri del decrepito impero ed ereditandone in qualche modo l’autorità, mentre in Oriente deve fare i conti con una struttura statale accentrata ed efficiente che tiene sotto controllo la Chiesa (cesaropapismo).

Anche le popolazioni barbariche cominciano a essere guadagnate al nuovo credo: si inizia coi Goti, convertiti dal vescovo ariano Wulfila, per passare via a via nel corso dei secoli a quasi tutta l’Europa. In realtà, sono i cattolici per primi a tentare di convertire i Goti, ma quelli che aderiscono alla nuova religione vengono perseguitati dai loro connazionali – ricordiamo, fra i primi martiri Goti, san Saba –, come afferma nella Historia de regibus Gothorum Isidoro di Siviglia. Del resto l’incertezza dottrinaria dei primi secoli fa sì che alcuni imperatori appoggino l’arianesimo. Ariani divengono dunque non solo Visigoti e Ostrogoti, ma anche Gepidi, Vandali, Alani, Rugi, Alemanni, Turingi e Longobardi, mentre altri popoli, come gli Svevi, allora stanziati in Spagna, e che pure hanno avuto un re cattolico, Rechiaro, passano all’arianesimo pochi anni dopo, per tornare infine nel secolo successivo al cattolicesimo; la guarigione da una grave malattia del figlio del loro re Cararico, a opera delle reliquie di san Martino, appositamente speditegli da Tours, determina la conversione di suo padre e di tutto il popolo. In questo stesso periodo anche i Visigoti passano al cattolicesimo per opera di san Leandro di Siviglia – fratello maggiore del più noto Isidoro – che riesce a convertire i loro sovrani.

Anche se l’appartenenza religiosa ariana rafforza il sentimento di identità nazionale dei popoli barbari nei confronti del papa di Roma e dell’imperatore di Costantinopoli, la storia attesta che la convivenza tra cattolici e ariani, si trattasse degli Ostrogoti o dei Longobardi, è possibile e, almeno per un certo periodo, anche proficua. Basterà ricordare il tentativo assimilazionista del primo Teodorico, re degli Ostrogoti, e dello stesso sovrano longobardo Agilulfo, il quale favorisce l’edificazione del monastero di Bobbio a opera di san Colombano e, pur non convertendosi personalmente, fa battezzare il figlio accontentando la regina sua consorte, la cattolica Teodolinda, che intrattiene una fitta corrispondenza con papa Gregorio Magno; perfino quest’ultimo riconosce che non c’erano state persecuzioni da parte dei “sacrileghi sacerdoti ariani contro i cattolici”. D’altra parte, è ben vero che “di quest’area, tagliata fuori e isolata da una selva di spade longobarde, Gregorio non sapeva quasi nulla” (Cracco C., “Dai Longobardi ai Carolingi”, in Storia dell’Italia religiosa. L’antichità e il medioevo, 1993).

L’Europa è teatro di un’intensa attività evangelizzatrice. San Patrizio inizia la conversione dell’Irlanda, che diverrà una roccaforte del cattolicesimo; a lui seguono san Colomba, san Colombano, san Gallo, vissuto a cavallo fra il VI e il VII secolo. Diverso è il caso dell’Inghilterra, dove un’invasione di Sassoni e Angli, entrambi popoli pagani, determina, a metà del V secolo, l’isolamento e la chiusura del Paese, fino a che, su sollecitazione di Gregorio Magno, il monaco (e successivamente vescovo e santo) Agostino di Canterbury, con 40 compagni, inizia nel 595 la rievangelizzazione della patria di Pelagio, partendo dal Regno del Kent. Le turbolente e a volte efferate vicende che accompagnano la progressiva affermazione del cattolicesimo nei vari regni in cui era allora divisa l’isola, sono narrate da Beda il Venerabile nella sua Historia ecclesiastica Anglorum; tutto comincia allorché Gregorio Magno, passando a Roma per il Foro, e rimasto colpito dalla quasi angelica bellezza di alcuni schiavi della Britannia, esclama, con un gioco di parole fra Angli e Angeli: Anglicam habent faciem, et tales Angelorum in coelis decet esse coheredes ”, (Hist. eccl., II, 1), decidendo di inviare missionari.

Il baricentro della storia politica e religiosa futura gravita tuttavia sui Franchi, un popolo di origine germanica che occupa la Gallia, e che diviene protagonista del processo di unificazione del paese e di una grandiosa simbiosi culturale. Nella ex provincia romana sono stanziate diverse etnie: oltre agli autoctoni Galli ormai romanizzati ed evangelizzati da san Martino di Tours, si trovano fianco a fianco Visigoti, Burgundi, Alamanni e, appunto, Franchi. Il re di questi ultimi, Clodoveo, avendo ingaggiato nel 498 una battaglia dall’esito incerto contro gli Alamanni, invoca il Dio che la moglie Clotilde, educata nel cristianesimo, già adora, con queste parole tramandate nel rozzo latino medievale da Gregorio di Tours: Si mihi victuriam super hos hostes indulseris […] credam tibi et in nomine tuo baptizer e, uscito vincitore, si fa battezzare dal vescovo di Reims, san Remigio, insieme con 3000 soldati della sua guardia (Gregorio di Tours, Historia Francorum, II, 29 e 31). In pochi decenni i successori di Clodoveo si impadroniscono di tutta la Gallia, assimilando le altre popolazioni in unico crogiuolo; e anche dopo la scomparsa dei Merovingi, quando il potere viene usurpato dai maggiordomi di palazzo che, attraverso vari passaggi, da Carlo Martello a Pipino il Breve, avrebbero determinato la nascita dell’impero carolingio, l’asse privilegiato fra Roma e i re dei Franchi, fondato sul reciproco interesse – legittimazione da un lato, appoggio militare dall’altro –, non conosce incrinature.

In quel periodo una nuova religione, l’islam, sta a poco a poco imponendosi attraverso una travolgente serie di campagne militari in territori già cristianizzati, dalla Palestina alla Siria, dall’Africa settentrionale alla Spagna; sono proprio i Franchi a impedire l’ulteriore avanzata dei musulmani (battaglia di Poitiers, 732), e sarà a un sovrano franco che verrà affidato lo scettro del Sacro Romano Impero da papa Leone III nel Natale dell’800.

In queste fasi storiche troviamo di frequente conversioni in massa, non di rado sotto la minaccia della spada. Nella vittoriosa campagna contro i Sassoni, Carlo Magno impone ai vinti un diktat senza appello, la Capitulatio de partibus Saxoniae: o la conversione al cattolicesimo o la morte. Nel 782 si verifica il massacro di Verden: 4500 Sassoni che si sono ribellati all’imposizione di Carlo, vengono giustiziati. Analoga sorte tocca una dozzina d’anni dopo alle tribù razziatrici degli Avari, stanziate lungo il corso del Danubio, protagoniste di saccheggi e invasioni, che sono decimate da una spedizione punitiva organizzata dallo stesso Carlo; i pochi superstiti che non vengono dispersi passano, non sappiamo con quanto genuino fervore, al cristianesimo.

Nella conversione dei barbari, sia nella stessa Inghilterra che sul continente, un ruolo preminente è svolto dai monaci: “I missionari o i capi-missione erano tutti monaci […] dalle stazioni missionarie si svilupparono spesso dei monasteri”, (Jedin H., Storia della Chiesa, III, 1977); ma dobbiamo aggiungere che non di rado troviamo vescovi missionari itineranti, come sant’Amando delle Fiandre, o Marciano, che esplica la sua azione nei pressi di Grado, o lo stesso san Bonifacio, il quale, originario di una nobile famiglia del Devonshire, percorre col suo seguito di monaci la Sassonia, la Turingia, la Frisia, distruggendo querce sacre e edificando cappelle con le travi da loro ricavate. Bonifacio consegue parecchie, ma non sempre durature, conversioni, fonda monasteri, tra cui l’abbazia di Fulda e, nel corso di una missione nel 754, quando è ormai intorno agli 80 anni, viene decapitato dai Frisoni pagani. Va sottolineato che la conversione senza un saldo e capillare controllo del territorio non è duratura; si hanno varie testimonianze non solo di persistenze dei culti pagani accanto a quello cristiano, ma anche di ritorno alle vecchie pratiche idolatriche di popolazioni apparentemente convertite. Si narra che il re dei Frisoni Radbod, contemporaneo di Carlo Martello, dicesse di preferire, al paradiso, l’inferno, perché qui avrebbe ritrovato genitori, parenti e antenati; a sua volta un certo Agila, ambasciatore del re visigoto Leovigildo, era convinto che non vi fosse contraddizione se si offrissero contemporaneamente sacrifici a una divinità pagana e al dio dei cristiani, in modo da propiziarsi entrambi.

Dopo il colpo di mano di papa Leone, che incorona nell’800 Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero, gli immensi territori ai confini degli ormai due imperi rivali sono oggetto di concorrenza anche nell’evangelizzazione. Esemplare è il caso della Bulgaria, dove sono stanziate popolazioni di origini turche, che per un certo periodo oscilla tra Oriente e Occidente. Nell’862 il sovrano Boris I accetta il clero bavarese nelle sue terre, ma qualche anno dopo (865), minacciato da un esercito inviato da Costantinopoli, si fa battezzare da un vescovo di rito greco, accogliendo anche il clero bizantino. L’anno successivo intavola trattative con l’imperatore Ludovico II il Germanico e con Roma per l’istituzione di un patriarcato in Bulgaria, con l’intenzione di rendere più autonoma la nascente Chiesa nazionale, ma non si giunge a nessun accordo. Alla fine manda i suoi rappresentanti al quarto concilio di Costantinopoli per domandare a quella suprema assemblea ecclesiastica se la Bulgaria dovesse richiedere la propria guida spirituale a Roma o a Costantinopoli. In un concilio dove la maggioranza dei vescovi erano orientali, non potevano esserci dubbi sulla risposta.

Il passaggio al cristianesimo dei popoli slavi e in particolare degli Slavi del Nord, i cosiddetti Vendi (che si convertiranno solo dopo il primo millennio), subisce un percorso molto più lungo e accidentato. Alcune popolazioni richiedono esse stesse di entrare a far parte della grande famiglia cristiana, come nel caso di Serbi, Croati, Zaclumiti, Terbunioti, Canaliti, Diocleziani e Arentani, per citare solo i primi di un lungo elenco. Costoro, stanziati ai confini del grande impero cristiano, con propria autonoma iniziativa, come osserva l’imperatore Costantino VII Porfirogenito nel X secolo, richiedono a Costantinopoli l’invio di evangelizzatori. In realtà questi popoli cercano non solo l’amicizia di un potente vicino, ma anche quello che potremmo definire l’accesso a un maggior livello di civiltà: è l’insieme economico, culturale e religioso, così indissolubilmente connesso, dell’impero a esercitare attrazione e desiderio di partecipazione. Il cristianesimo dunque, religione di popoli evoluti contrapposto a popoli barbari e pagani, si caratterizza anche come elemento di superiore civiltà.

Nel corso del IX secolo due fratelli originari di Tessalonica, Cirillo,, inventore dell’alfabeto che porta il suo nome, e Metodio, chiamati dal re Rastislav per contrastare l’influenza tedesca, si dedicano a evangelizzare la Moravia, la Pannonia, la Bulgaria. Alla fine del primo millennio sono entrati a far parte della grande famiglia cristiana quasi contemporaneamente i Rus’ di Kiev e i Polacchi. I primi si legano a Costantinopoli, dove nel 957 si reca la regina Olga per ricevere il battesimo e intrattenere rapporti commerciali; i secondi sono sotto l’influenza germanica e dunque gravitano nell’orbita del cattolicesimo latino a partire dal 966, data ritenuta comunemente di inizio della loro conversione. Per completare il quadro, registriamo che si deve alla tenacia di un prete sassone, Thangbrand l’evangelizzazione della lontana Islanda intorno al 997.

All’aprirsi del nuovo millennio restano ancora fuori dalla respublica christiana le popolazioni dell’Europa settentrionale (Vendi, Scandinavi, Lituani), che tuttavia finiranno anche loro per essere assorbite a poco a poco; il Medioevo cristiano, per usare il titolo di un celebre libro di Raffaello Morghen, è ormai una realtà diffusa.

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