Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il riconoscimento di un ordine del mondo è, da sempre, uno dei più solidi fondamenti per le ipotesi in merito all’esistenza di un Creatore. La struttura dell’universo, e la sua regolarità, infatti, vengono lette come la manifestazione dell’esistenza divina, della sua potenza e dell’opera perfetta della sua libera azione. La tradizione medievale non è esente da questa lettura, che si traduce nella storia delle immagini di Dio, del suo modo e potere di agire sul mondo.
Giovanni Duns Scoto
In ogni agente che agisce attraverso l’intelletto e la volontà, con il potere di agire in conformità con una legi rectae ed eppure con il potere di non agire necessariamente in conformità con quella legge, si distingue un potere ordinato da un potere assoluto; il motivo sta nel fatto che l’agente può agire in conformità con la legge in vigore (potere ordinato), e può agire al di fuori di questa legge o contro di essa (potere assoluto che eccede il potere ordinato). [Questo vale] non solo in Dio ma in ogni agente libero [...]; quindi i giuristi dicono che si può agire de facto (potere assoluto) o de jure (potere ordinato, secondo la legge stabilita).
Guglielmo di Ockham
Questa distinzione non va intesa come se si ponessero in Dio due potenze realmente distinte, di cui l’una è ordinata e l’altra assoluta, dato che in Dio c’è un’unica potenza che riguarda l’agire esterno a Dio (ad extra), e tale potenza da ogni punto di vista coincide con Dio stesso. La distinzione non va intesa nemmeno come se si dicesse che Dio può fare alcune cose ordinatamente, mentre può fare altre cose assolutamente e in un modo non ordinato, poiché Dio non può fare nulla in modo non ordinato. La distinzione va intesa così: “potere qualcosa” talvolta viene preso facendo riferimento alle leggi ordinate ed istituite da Dio; si dice allora che Dio può fare quelle cose in base alla potenza ordinata. Altre volte “potere” viene preso facendo riferimento a tutto ciò che non include contraddizione essere prodotto, sia che Dio abbia stabilito di produrre in seguito quelle cose, sia che non l’abbia stabilito, dal momento che Dio può fare molte cose che pure non vuole fare […]: in riferimento a queste cose si dice che Dio le può produrre in base alla potenza assoluta.
Gugliemo di Ockham, Quodlibet
La distinzione tra potentia Dei absoluta e ordinata si fonda sui modi di concepire la dialettica tra l’infinito potere divino, la sua perfezione e l’onniscienza, e l’ordine delle leggi attraverso le quali Dio garantisce la stabilità e la regolarità del mondo. In questo senso, essa riguarda anche il ruolo, la libertà, nonché il tipo di relazione con la divinità, di chi, sotto queste leggi, si trova a vivere.
Sancendo l’unicità del patto tra Creatore e uomo (Gn. 9 e Gn. 15-17) la tradizione biblica si apre con l’immagine di un Dio, sovrano assoluto, il quale ordina a proprio piacimento le cose del mondo. Nella Bibbia (Gn. 18, 10-14), Dio si esibisce ad esempio in tutta la sua onnipotenza nel momento in cui si mostra ad Abramo per annunciargli la sua imminente paternità – nonostante l’età avanzata sua e della consorte Sara (“e Sara rise dentro di sé…”); così facendo, egli infrange a suo piacimento le regole stabilite e dimostra così come la sua potenza sia “assoluta” poiché libera da ogni vincolo e legge.
Questa tradizione si fa dottrina nel Credo di Nicea (credo in unum Deum patrem omnipotentem).
Dato che “a Dio tutto è possibile” (Mt. 19, 26), egli può scegliere quale mondo creare tra la serie degli infiniti possibili e, non pago può, volendo, sconvolgerne l’ordine senza sentirsi minimamente vincolato: “Non crediate di poter dire tra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre” (Mt. 3, 9).
La relazione tra Creatore e creature, attraverso la quale passa la stabilità dell’ordine del mondo, assume la dimensione di un patto fra due esseri, dei quali uno è totalmente incondizionato, e può essere dotata di senso soltanto se dall’assoluto viene proposto un accordo con la sua libera e imperscrutabile iniziativa. Tale concezione si arricchisce, nel corso del pensiero medievale, del dialogo con la tradizione filosofica, in particolare quella legata alla riscoperta di Aristotele nell’Occidente latino avvenuta grazie alle traduzioni e ai commenti greco-arabi. L’ordine del mondo assume un deciso carattere di necessità e il patto tra uomo e divinità si muta nel vincolo delle leggi naturali. Il Dio sovrano e onnipotente deve conciliare la propria immagine con quella, classica e tardo antica, del Pantocrator, cioè di colui che garantisce il regolare ordine degli accadimenti. Per usare una felice espressione di Eugenio Randi (Il sovrano e l’orologiaio, 1987) “Dio si troverà legato al mondo non meno del mondo a lui stesso” e, date certe condizioni che dipendono da una sua libera scelta, egli, per usare le parole di Einstein, “non potrà giocare a dadi” ma si vedrà costretto a conciliare il suo potere con le norme che reggono il mondo attuale.
Il pensiero medievale si è fatto specchio di questo mutamento d’immagine e, a partire dalle riflessioni sulla onnipotenza divina, ha sviluppato il tema della potentia absoluta Dei, cioè la serie di tutte le possibilità inizialmente aperte a Dio, nella sua relazione con la potentia ordinata, cioè con l’ordine attuale degli accadimenti. In questo contesto, la distinzione agisce come cardine in grado di fare emergere il variare degli schemi concettuali attraverso i quali leggere la relazione con la divinità e, più estesamente, la natura e la giustificazione delle credenze circa la stabilità, o l’indeterminatezza, del creato.
Tra i temi più affascinanti del pensiero occidentale, quello della dialettica tra potentia absoluta e ordinata deve la sua specifica originalità medievale anche al fatto di essere la storia di un argomento che diventa strumento d’indagine per altri argomenti filosofici.
All’inizio il problema concerne l’onnipotenza e, in particolare, la relazione tra volontà, e potenza/impotenza di Dio.
Nell’XI secolo, Pier Damiani nel suo trattato De divina omnipotentia attribuisce a Desiderio, abate di Montecassino, un’opinione secondo la quale l’onnipotenza sarebbe il potere di fare ciò che si vuole. Tale posizione comporta che la non potenza venga a coincidere con la non volontà. Dio, quindi, vedrebbe la sua potenza coincidere con la volontà. Il che significherebbe limitare il potere divino: Dio non può fare qualunque cosa voglia, ma solo quello che vuole.
A questa concezione si oppone una linea teologica, appoggiata da Pier Damiani, per il quale Dio può fare un maggior numero di cose di quante voglia realmente fare o faccia.
Non si può limitare l’assoluto potere divino alla libertà di compiere la propria libertà; esso va piuttosto concepito come piena e totale libertà di scelta di un ordine del mondo, al di là dei limiti temporali della nostra conoscenza (De Div. Omn., XVI). Una posizione simile viene sostenuta da Anselmo d’Aosta, secondo il quale Dio sceglie di agire in seguito a un atto di volontaria, e non imposta, limitazione del proprio assoluto potere. Il non potere – non poter mentire, ad esempio – riguarda la stessa natura divina che vuole porre dei limiti alla propria astratta onnipotenza e non, invece, una mancata volizione (Cur Deus Homo, II). Dio può dunque fare qualunque cosa abbia capacità, cioè può non volere e “non potere”, in questo contesto, non viene più a coincidere con “non volere”.
Diversa è la posizione di Abelardo. Se è vero, come è vero, che le azioni divine sono espressione della natura di Dio e seguono il principio della sua bontà, non si vede come Dio possa agire diversamente da come fa e ha fatto. A meno di non ammettere che si stia parlando di accadimenti, prodotti da Dio, differenti rispetto alla stessa natura divina che li ha ingenerati. La contingenza della scelta è, per Abelardo, del tutto subordinata alla responsabilità del volere divino e l’onnipotenza si restringe sulla conformità alla natura: “Dio non poteva in alcun modo fare un mondo migliore di quello che ha fatto [...] Dio non fa né omette di fare alcunché se non per qualche ragione razionale ed estremamente buona, anche se a noi recondita” (Intr. ad Theologiam, III).
Due sono le cose da sottolineare in questa concezione di Abelardo: la prima è che non è Dio a essere limitato ma è il linguaggio dell’uomo che non riesce a descrivere in modo completo una capacità divina; la seconda è che, proprio a partire dalle norme che regolano il nostro linguaggio, l’onnipotenza divina si può già intendere come potentia absoluta, cioè come assoluta libertà da ogni vincolo normativo ordinato.
La posizione di Abelardo fu, come al solito, isolata e la maggior parte dei teologi, tra cui Ugo di san Vittore, da Martin Grabmann considerato il padre della distinzione, e persino Pietro Lombardo, si attennero alla formula del potuit sed noluit (“Dio poté ma non volle”) che divenne quella canonica.
A partire dal XIII secolo, la storia della divina onnipotenza si trasforma in quella tra potentia absoluta e ordinata.
La distinzione si trova codificata, seppure espressa in modo lievemente diverso (potentia absoluta e potentia conditionata, cioè soggetta alla necessità restrittiva di un ordine temporale) in Ugo di Saint Chér e Alessandro di Hales, per poi diventare di uso comune, al punto che si può parlare di una sorta di locus classicus per la discussione sul tema identificabile nelle distinzioni 42-44 del I libro delle Sentenze di Pietro Lombardo. Nel primo caso, con potentia absoluta, si intende una riserva infinita di potere divino (o di possibilità); nel secondo, parlando di potentia ordinata, si fa riferimento a un potere che viene riconosciuto nell’ordine al quale Dio dà origine e nelle possibilità che mette in atto.
Non si tratta tuttavia di due poteri in Dio, ma di due modi di parlare della potenza divina. Il primo è quello di discutere del potere divino in modo puramente logico, senza riferimento alla volontà di Dio e alle azioni nell’ordine attuale; l’altro modo è quello che si pone nella prospettiva di ciò che Dio ha effettivamente scelto, e sceglie, di fare. Ne deriva che certe cose che sono presenti a Dio nella serie logica delle possibilità (de potentia absoluta), possono non esserlo alla luce dell’ordine scelto (de potentia ordinata).
In altri termini, se il potere di Dio si estende ad ogni azione congruente con la sua perfezione, egli realizza però solo una parte di quanto il suo infinito potere sarebbe logicamente in grado di produrre. Ed ecco che accadimenti che sono possibili de potentia absoluta, sono effettivamente impossibili se considerati dal punto di vista dell’ordine realizzato, cioè de potentia ordinata. Ma la cosa non porta a contraddizione: secondo il primo modo Dio non può agire perché l’azione e la volizione divine sono confinate, per così dire, esclusivamente nell’ambito del secondo. In questo modo si salva la possibilità puramente logica e, contemporaneamente, si mantiene la contingenza e la stabilità di un mondo creato per libera scelta divina.
In più di un caso, sapienza, bontà, e giustizia divine vengono fatte coincidere con l’ordine esistente, indebolendo così la forza della prima distinzione (potentia absoluta) e gli aspetti maggiormente legati al libero volere divino nella seconda (potentia ordinata) e accentuando, per contro, la necessità dell’equivalenza tra bontà, sapienza e giustizia divine, e attuale ordine del mondo. Si collocano su questa linea i maggiori pensatori della seconda metà del XIII secolo, da Alberto Magno a Bonaventura il quale proprio sulla base dell’identificazione tra sapienza divina e ordine delle cose, giunge a rifiutare, in quanto fonte di incoerenza, la potentia absoluta. Come rileva William Courtenay (Capacity and Volition, Lubrina, 1988) Tommaso d’Aquino, invece, nega l’identificazione tra l’attuale ordine del mondo e gli attributi divini: sapienza, bontà e giustizia possono infatti trovarsi anche in un altro ordine, liberamente scelto da Dio (Summa Theol.).
Sul volgere del XIII secolo è possibile, tra le differenti letture, isolare due grandi categorie all’interno delle quali interpretare la distinzione tra le due forme di potentia divina: la prima interpretazione è quella nella quale il potere assoluto di Dio descrive una capacità totale di volere molte possibilità, mentre il sistema ordinato riflette le scelte reali ed effettive della volontà divina; la seconda interpretazione è quella nella quale il sistema ordinato riflette la scelta divina di un ordine abituale, ma il suo potere assoluto riflette la sua capacità di sospendere tale ordine nel caso in cui volesse agire al di fuori di esso.
Questa linea, che sarà in parte rielaborata da Giovanni Duns Scoto, ha radici giuridiche e in particolare canonistiche: a partire dalla seconda metà del XIII secolo, la distinzione infatti viene applicata anche per definire il ruolo del potere papale. Se da un lato il papa deve attenersi alle leggi della Chiesa, dall’altro egli gode della plenitudo potestatis, grazie alla quale alcune leggi possono essere sospese per il bene della Chiesa stessa (ratio ecclesiae). Enrico di Susa è il primo ad applicare la distinzione teologica per esaminare la capacità papale (In Decretalium libros Commentaria). La questione riguardava il seguente problema: può il papa sollevare un monaco dal suo voto di povertà? Mentre Innocenzo III sosteneva che non rientrasse nel potere del papa questo tipo di azione, Enrico risponde che, attraverso la plenitudo potestatis (e de potentia absoluta) il papa può modificare la natura dello stato monastico, benché non possa farlo di potenza ordinata. Nei casi in cui, per il bene della Chiesa, vi siano delle circostanze eccezionali, il papa ha il diritto di esercitare questo potere assoluto. Così, benché de potentia absoluta sia libero da qualsiasi rispetto della legge, de potentia ordinata egli ha deciso di rispettarla e agire secondo il suo dettato.
Oltre il timore di un uso arbitrario della plenitudo potestatis, questa lettura sottrae la potentia absoluta all’ambito della serie delle pure possibilità logiche, inserendola nella sfera dell’azione. La distinzione non riguarda più due modi di intendere lo stesso potere di Dio ma due differenti poteri di agire, uno regolare e ordinato e l’altro occasionale, eccezionale e svincolato dal rispetto dell’ordine. Di questi problemi, e dei rischi che comportano, ben si avvede Guglielmo di Ockham, il quale, in polemica con il papa Giovanni XXII, difende l’intepretazione per cui la potentia absoluta concerne solo l’ambito della pura possibilità logica (Summa Logicae, III). Se decide di agire, Dio agisce solo e soltanto in modo ordinato.
L’utilizzo della potenza assoluta come modo di agire da parte di Dio e non solo come pura possibilità di scelta logica viene impiegato, seppure in modo molto originale, anche da Giovanni Duns Scoto.
Per Scoto, la potenza assoluta coincide con l’ordine attuale delle cose, che Dio deve seguire solo in relazione a questo particolare ordine da lui scelto e instanziato (potentia ordinata). Ma Dio potrebbe agire, e aver agito, in modo diverso (potest aliter agire) anche se ogni azione deve necessariamente entrare in un ordine il quale, per quanto contingente, è giusto e buono, proprio in quanto liberamente scelto da Dio tra infinite altre possibilità (Ordinatio, d. 44, Qaest. unica).
La potentia absoluta viene considerata come un intervento divino straordinario, non solo extra legem ma addirittura supra legem. Per Scoto agire de potentia ordinata significa pertanto agire de jure; mentre con potentia absoluta si indica l’azione indipendentemente (e quindi anche in contrasto) dalla legge, ossia de facto.
Nonostante l’uso del linguaggio canonico adottato da Scoto, quest’ultimo non sposa del tutto la posizione canonica: Dio non agisce direttamente nel mondo de potentia absoluta senza avere una mediazione da parte della sua volontà ordinata. Le due parti della distinzione lavorano piuttosto una sull’altra: la prima permette la sospensione dello statuto emanato e la seconda, nel contempo, assicura che Dio non agisca mai in modo disordinato. La potentia absoluta trascende l’ordine della legge creata e può così stabilire un altro ordine legale. Quindi, a ben vedere, il potere assoluto di Dio non è l’effetto di un’operazione diretta sul mondo, ma la capacità che gli permette di sospendere un ordine e di sostituirlo con un altro (Rep. Par., I, d. 17, q.2).
Altra interpretazione fondamentale della distinzione è quella di Ockham (Quodlibet, VI, q. 1, art. 1). Secondo uno dei suoi più autorevoli interpreti, William Courtenay, Ockham fa propria la posizione tradizionale, quella cioè che fonda la distinzione sui due modi di intendere lo stesso potere. Se Dio decide di agire, deve agire de potentia ordinata. Mentre il potere assoluto divino è il potere di poter agire diversamente, e non il potere di provocare una radicale e improvvisa sostituzione di un ordine con un altro. Si delineerebbe così una linea cui sarebbe estranea la posizione di Scoto. Di recente alcuni studi, (Ester Gelber, It Could Have Been Otherwise, Brill, 2004) hanno criticato questa lettura sulla base della concezione ockhamista della necessaria conoscenza nel tempo degli eventi.
La tesi tradizionale secondo la quale il potere assoluto di Dio coincide con cosa Dio potrebbe fare diversamente, è strettamente associata alla concezione della conoscenza divina del tempo. Dio, che vive in un eterno presente, conosce tutti gli eventi situati nel tempo come presenti ed esistenti, piuttosto che come passati e futuri. Ne segue che gli eventi che sono adesso presenti avrebbero potuto essere diversamente, ma essendo ora, proprio in questo momento, essi non possono essere diversamente da come sono. Dunque il potere assoluto di Dio coincide con l’ipotesi che Dio avrebbe potuto realizzare qualcosa di diverso, ma non è il potere di rendere ciò che è differente da ciò che è.
Ora, le leggi ordinate da Dio possono cambiare, altrimenti la Creazione non sarebbe un esercizio libero della volontà divina, se la conservazione dello stato attuale del mondo fosse necessaria. Anche Ockham crede che Dio potrebbe aver operato diversamente e che quello che Dio sta facendo nel momento presente non possa essere modificato; ma il futuro è aperto e disponibile all’applicazione della potenza assoluta divina. Esso cioè è il potere di fare tutto ciò che non include contraddizione. Dio può scegliere per il futuro di non conservare e di cessare ciò che sta facendo nel momento attuale e di creare così qualcosa di nuovo e ciò avviene anche per gli agenti creati. La potentia absoluta è semplicemente la possibilità di agire nel futuro contingente e aperto ed è dunque dipendente dalla contingenza del futuro stesso.
Come per Duns Scoto, anche per Ockham potenza assoluta e potenza ordinata sono inseparabili. La capacità divina di fare più di quanto Dio vuole fare significa per Ockham che Dio ha il potere, per il tempo futuro, di mettere da parte il sistema ordinato di leggi che governa il presente e di sostituirlo con un altro sistema ordinato. Per questo, non è possibile agire de potentia absoluta direttamente sul mondo: in ogni momento del tempo dato, l’ordine posto rimane; solamente il futuro contingente porta con sé la possibilità che in un altro successivo momento del tempo il potere assoluto divino possa rendere possibile un altro sistema di leggi.
Va tuttavia ribadito che per Ockham essenza, intelletto e volontà sono, in Dio, la stessa cosa; pertanto il potere assoluto e il potere ordinato appartengono al medesimo atto della volontà divina e non, come avviene per Scoto, a due istanti logici differenti all’interno della volontà stessa. Differenti sono inoltre i fondamenti ontologici della contingenza: se per Scoto essa si trova nella volontà divina, per Ockham essa è da relazionarsi all’indeterminatezza del futuro.
Nel XIV secolo questa distinzione diviene sempre più uno strumento di analisi di argomenti teologici e filosofici. Muta il nesso tra potentia absoluta e ordinata. La distinzione si allontana sempre più dal riferimento all’attore delle azioni (Dio) e al suo potere di scelta e si concentra sempre più, come in Gregorio da Rimini, sull’oggetto di tali azioni, cioè la natura e l’uomo (Super I Sent., d. III).
Potentia ordinata e absoluta vengono sempre più utilizzate per costruire veri e propri esperimenti mentali, in base ai quali interrogarsi sul tipo di necessità che lega le azioni e le loro cause; sulle distinzioni tra l’ambito delle possibilità realizzate e quelle non realizzate; sui controfattuali; sulla irruzione lungo la linea temporale di interruzioni che sono in grado di sconvolgere il valore di verità e la certezza circa gli eventi naturali che vi si susseguono.
La lettura della distinzione diviene anche trasversale rispetto all’appartenenza agli ordini monastici. Il domenicano Robert Holcot, ad esempio, nega la linea dei due poteri divini e, muovendosi nella tradizione del francescano Ockham, identifica il potere divino con Dio stesso. Dio ha un solo potere, coincidente con se stesso, che può essere inteso dagli esseri umani in due modi differenti (Quodlibet I, q. 8). Thomas Buckingham (attivo a Oxford nella prima metà del XIV secolo), si serve della distinzione per garantire la completa indeterminazione del futuro e del passato: perché l’uomo sia libero, il futuro deve poter essere modificato. Tacciato, come del resto anche Ockham e Adam Wodeham di pelagianesimo, Buckingham viene duramente attaccato da Thomas Bradwardine. Operando su una duplice lettura della nozione logica di necessità, puramente logica e fattuale, Bradwardine sostiene che la volontà divina è libera perché non c’è necessità precedente che la costringe logicamente a volere in un modo oppure in un altro. Per questo, de potentia absoluta, Dio può altro rispetto a ciò che vuole e conosce. D’altro canto, se considerata in relazione agli eventi fattuali, la sua capacità è necessariamente vincolata a quanto da egli stesso stabilito, così che non può volere in modo diverso da come vuole. Così la volontà divina è eternamente presente, de potentia ordinata, negli effetti delle sue conseguenze causali e Dio conosce perfettamente il mondo attraverso la conoscenza delle proprie intenzioni (De Causa Dei, III).
Anche l’uomo rientra in questa concezione. Legata in modo necessario all’imprescrutabilità divina, infatti, la libertà umana è garantita dal fatto che Dio vuole che la sua volontà sia tale: pensare che l’uomo possa salvarsi con i suoi mezzi e la sua libera iniziativa significa condannarsi alla disperazione.
Ormai del tutto trasformata in strumento logico-epistemologico, e applicata alla relazione tra ciò che è possibile e ciò che è reale, la distinzione subisce, intorno alla metà del secolo XIV interessanti interpretazioni. Secondo il domenicano inglese Hugh Lawton, essa va interpretata come se in Dio vi fosse un potere sufficiente per realizzare tante cose che mai farà, in quanto non ha ordinato di farle; William Crathorn (attivo intorno al 1330) evita invece di utilizzare la terminologia classica. Più che al termine potentia absoluta Dei, si deve fare riferimento alla capacità di Dio di far posto alle possibilità controfattuali (per cui le cose potrebbero e/o sarebbero potute andare diversamente da come sono). Dato che Dio può distruggere ogni cosa causata e prodotta senza distruggere ogni altra cosa che non le è essenziale, non è più centrale l’analisi della possibilità che Dio ha di agire assolutamente o ordinatamente, ma la capacità divina di cambiare una parte della sua creazione senza che questo comporti cambiamenti in ciò che è estraneo alla parte mutata.
Mondi possibili, situazioni controfattuali, pura possibilità e realtà fattuale, indeterminatezza del futuro e della libera azione dell’uomo. Si tratta di argomenti che riguardano la certezza del mondo, le condizioni della sua conoscibilità, la regolarità e la imprescrutabilità dei suoi accadimenti e la prescienza divina. Se, ad esempio, il fondamento della contingenza si colloca nella volontà divina e la realtà e l’indeterminatezza nei confronti di due risultati può coesistere nello stesso momento, ne deriva che, per quanto solo in relazione a un modello mentale, il nostro mondo, con le sue leggi, può essere uno tra i tanti scelto in base a un assoluto arbitrio divino. E che la regolarità del suo ordine può venire di continuo interrotta dall’irruzione di eventi straordinari, come i miracoli. Preda della sua contingenza e di quella del mondo, l’uomo è sempre più legato all’arbitrio del potere divino (ma non solo di quello) e all’imperscrutabilità della grazia.
Dopo quella dell’Onnipotente signore degli eserciti dell’Antico Testamento e quella di “Colui che tutto muove” (Dante, Paradiso, I), la distinzione tra i poteri di Dio fa affiorare altre, possibili immagini della potenza divina. Si tratta delle ben note immagini su cui ragiona Descartes (Resp. II Obiectiones e Medit. I): quella di un Dio volubile e capriccioso, se non maligno, che può interrompere a proprio piacimento la regolarità degli accadimenti e sospendere la reale esistenza delle cose; e quella di un Dio ingannatore che revoca in dubbio la veridicità stessa della ragione (Tullio Gregory, “Dio ingannatore e genio maligno” in Mundana Sapientia, 1992).
La ricchezza del dibattito medievale sulla distinzione tra i due poteri di Dio sta tuttavia a dimostrare che tale lettura non è generalizzabile. Inoltre, anche nei casi più estremi (che non paiono essere quelli di Duns Scoto né, soprattutto, di Ockham) la capacità divina di esercitare un’assoluta libertà nei confronti della sua creazione non è compensata dal suo sistema ordinato, ma da una norma etica, basata sulla natura di Dio: la bontà divina è garanzia cioè restrizione sufficiente dell’applicazione del potere divino sul mondo. Infine, la storia della potentia absoluta e ordinata – contrariamente all’immagine che si ha del pensiero teologico e filosofico medievale – ha permesso di mostrare come l’evoluzione in senso strumentale della distinzione sia stata decisiva per l’elaborazione di molteplici letture del reale se non addirittura per formulare ipotesi teoriche su mondi possibili e sulla rigorosa immaginazione delle loro regole di esistenza.