Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Cinquecento il sistema demografico europeo è ancora caratterizzato da tassi di natalità e di mortalità elevati. A limitare la natalità contribuisce un’età al matrimonio relativamente tardiva. A ridurre la durata media di vita sono soprattutto l’altissima mortalità infantile e le ricorrenti crisi di mortalità dovute a epidemie e carestie. Nel corso del secolo la popolazione europea fa comunque registrare un forte aumento recuperando il livello precedente la peste del Trecento. La popolazione urbana aumenta soprattutto nelle città capitali e nei porti interessati alle nuove vie commerciali.
Natalità, mortalità, nuzialità
Il comportamento demografico degli Europei del Cinquecento presenta significative diversità a seconda dei contesti territoriali, del tipo di insediamento, delle condizioni sociali. I contadini polacchi, i patrizi veneziani, gli artigiani di Parigi non nascono, si sposano e muoiono allo stesso modo. È comunque possibile individuare alcuni tratti comuni che ci consentono di parlare di un sistema demografico europeo stabilizzatosi durante il secolo successivo alla Peste Nera del 1348-1351 e rimasto in vigore fino alle grandi trasformazioni sociali ed economiche del Settecento e dell’Ottocento. La prima caratteristica di questo sistema sono i tassi di natalità e di mortalità piuttosto elevati, almeno in confronto a quelli odierni. Intorno al 37 per mille il primo e di poco inferiore il secondo. Osserviamo però questi due dati più da vicino.
Le coppie erano certamente più feconde di quanto non accada oggi, ma non così feconde come si pensava in passato. Dopotutto, contrariamente a un mito persistente, gli Europei, soprattutto nella parte occidentale del continente, si sposavano a un’età relativamente avanzata, tra i 23 e i 26 anni, un po’ prima le donne, un po’ più tardi gli uomini. Questo è un tratto caratteristico di quello che è stato definito “il modello matrimoniale europeo” e implica una riduzione della vita riproduttiva delle donne di una decina d’anni. Inoltre una porzione rilevante della popolazione non si sposava affatto, per ragioni economiche o religiose. In assenza di metodi contraccettivi efficaci e data la ridotta incidenza delle nascite al di fuori della vita coniugale, l’età al matrimonio era il vero regolatore della demografia europea. Anticipando o ritardando il momento del matrimonio, soprattutto in relazione alla congiuntura economica, gli Europei potevano in qualche misura controllare la loro fecondità.
A ridurre ulteriormente il numero di figli che una coppia poteva sperare di avere concorreva anche l’altissima mortalità delle donne durante e dopo il parte, soprattutto a causa delle setticemie provocate dalle cattive condizioni igieniche. Anche la mortalità infantile era molto elevata. Quasi un quarto dei bambini moriva entro il primo anno e poco meno entro il decimo anno. Poco più della metà dei nati quindi raggiungeva l’età fertile e poteva aspirare a diventare a sua volta genitore.
Questa elevatissima mortalità contribuiva ad abbassare notevolmente la speranza di vita media. In realtà, anche se la morte riscuoteva un pesante tributo anche dalle classi d’età adulta, una volta superato il rischioso periodo dell’infanzia, uomini e donne avevano una ragionevole probabilità di giungere a un’età avanzata se non proprio alla vecchiaia.
In tempi normali dunque la pur modesta differenza tra nascite e morti consentiva un discreto aumento demografico. Solo i tempi normali erano, paradossalmente, l’eccezione. Le carestie dovute a imprevisti climatici, le epidemie, le guerre o, spesso, una combinazione di questi tre fattori, potevano tradursi in catastrofiche crisi di mortalità, ovvero in innalzamenti del tasso di mortalità molto al di sopra del livello abituale. Anche se dopo il Trecento l’Europa non conobbe più tragiche pandemie continentali, a livello locale, in una città o in una regione, una crisi di mortalità poteva spazzar via, in pochi mesi o anche poche settimane, fino a un terzo della popolazione.
La crescita demografica
Eppure, nonostante la fragilità biologica ed economica delle popolazioni europee come di tutto il mondo, prima della rivoluzione industriale, nel Cinquecento, la crescita c’è. Già nella seconda metà del Quattrocento, dopo un secolo di ristagno seguito alla catastrofe della peste, la popolazione ricomincia a crescere. Certo non si tratta di un aumento esplosivo come quello cui abbiamo assistito nel corso degli ultimi due secoli, ma è pur sempre un progresso consistente, che porta il totale degli Europei da circa 85-90 milioni di abitanti a 110 milioni del 1600. Gran parte degli spazi perduti nel corso della seconda metà del Trecento vengono riconquistati. I boschi e le foreste si restringono a favore dei campi coltivati e per far fronte alla sempre maggiore domanda di legna, da ardere e da opera. Ovunque, dall’Olanda al Veneto, nuove terre vengono bonificate, strappando nuovi campi alle paludi o al mare.
La crescita demografica è a un tempo il risultato e la causa del miglioramento delle condizioni economiche. Nel corso del Quattrocento, la diminuzione della popolazione a causa delle epidemie ricorrenti aveva condotto a una scarsità di lavoro e a una momentanea abbondanza di terreni disponibili, e quindi a un incremento del reddito e a un certo progresso nelle condizioni di vita dei lavoratori. Questa evoluzione aveva favorito matrimoni più precoci e dunque la crescita demografica. Inoltre la peste, in parte grazie alla diffusione di misure di profilassi come la quarantena, in parte probabilmente grazie all’acquisizione di una maggiore resistenza immunitaria da parte delle popolazioni, perde in parte la sua virulenza. Gravissime epidemie locali continueranno a verificarsi fino alla prima metà del Settecento, ma non si avrà più una pandemia europea come quella del Trecento.
A sua volta l’aumento degli uomini porta a un aumento della domanda e dei prezzi dei generi alimentari e spinge ad accrescere la produzione. Anche l’attività commerciale, sia quella locale e regionale, che quella su lunghe distanze, si intensifica, favorita anche dall’apertura di nuovi itinerari commerciali e di nuove rotte che collegano l’Europa all’Asia e all’America.
Verso la fine del Cinquecento comunque la crescita rallenta. La pressione demografica sulla terra e sulle altre risorse è nuovamente vicino al massimo consentito dal livello tecnologico e quindi dalla produttività dell’epoca. Negli anni ’90 del Cinquecento, l’Europa, soprattutto quella mediterranea, è colpita da frequenti, gravi carestie. I redditi e di conseguenza i livelli di vita dei ceti popolari in campagna e nelle città cominciano nuovamente a declinare.
Le città
Le città hanno un regime demografico particolare. Il loro andamento non dipende in primo luogo dal saldo naturale fra le nascite e le morti quanto piuttosto dalla loro capacità di attrarre immigrati da località più o meno remote, offrendo opportunità economiche e sociali.
Le città “divorano gli uomini”, si dice, e spesso, in effetti, nelle città dell’Europa moderna le morti superano le nascite. Questo dipende in parte dalle condizioni igieniche in genere precarie che favoriscono la diffusione di malattie infettive, ma dipende anche dalla struttura stessa della popolazione urbana. Questa popolazione si può dividere approssimativamente in due gruppi: i residenti permanenti e gli immigrati recenti. Mentre i primi hanno un comportamento demografico sostanzialmente normale, gli immigrati sono spesso giovani celibi o nubili, che lavorano come apprendisti, manovali, facchini, servitori e domestiche. La loro presenza in città può essere solo temporanea, giusto il tempo per accumulare un piccolo gruzzolo e tornare al paese per metter su famiglia. Ma anche quando rimangono in città, questi cittadini di recente acquisizione trovano maggiori difficoltà a sposarsi, anche perché la loro struttura demografica è sbilanciata a favore delle donne. Per queste ragioni nelle città la natalità è minore che nelle campagne.
E tuttavia le città crescono. Nel complesso il tasso di urbanizzazione, cioè la percentuale di coloro che vivono nei centri urbani rispetto al totale della popolazione, non aumenta troppo, dall’10 al 12 percento circa. Del resto, in mancanza di progressi sensibili nella produttività dell’agricoltura, una quota assolutamente preponderante della popolazione deve continuare a dedicarsi al lavoro dei campi.
Alcuni centri però sono protagonisti di progressi vistosi. Parigi, ad esempio, nel corso del secolo passa da poco più di 220 mila a 300 mila abitanti. Spettacolare il decollo di Londra, che dai 50 mila abitanti del 1500 passa ai 200 mila del 1600. Altre success stories urbane sono quelle di Madrid, capitale della Spagna imperiale di Filippo II a partire dal 1561, che sale da circa 13 a più di 65 mila abitanti, o Amsterdam, che all’inizio del Cinquecento è una piccola cittadina con poco più di 15 residenti e che nel 1600 è un centro di 60 mila abitanti, in piena espansione e proiettato verso traguardi ancora più alti. In Italia Roma, Napoli e Palermo approssimativamente raddoppiano la loro popolazione.
L’ascesa di queste città ci fornisce utili indizi per comprendere i fattori propulsivi della crescita urbana. Innanzitutto fondamentale è il ruolo di capitale. Il rafforzamento degli apparati centrali di governo e l’espansione delle corti fa affluire in queste città una quota crescente della ricchezza generata nei rispettivi Stati. Le imposte riscosse dai funzionari regi nelle province o le rendite che gli aristocratici ricavano dalle loro terre confluiscono a Parigi, Londra, Madrid o a Napoli e Palermo, dove risiedono la corte e il governo e dove molti nobili si trasferiscono per essere più vicini al centro del potere e al cuore della vita sociale e culturale. Queste risorse si traducono in una maggiore domanda di beni e servizi – tessitori, sarti, orefici, fabbricanti di carrozze, prostitute, attori, domestici… – e questa domanda attira un flusso di immigrati.
Ma alcune città – ed è il caso di Siviglia (da 45 a 135 mila abitanti) o Anversa (da 40 a 95 mila abitanti nel 1550) nella prima metà del secolo, o di Amsterdam nella seconda – devono il loro sviluppo, anche demografico, al ruolo giocato in un sistema di scambi economici che ha ormai assunto dimensioni planetarie. Sono le vecchie nuove capitali dell’economia-mondo atlantica in via di edificazione.
L’Europa delle differenze
Nel complesso, nell’Europa del Cinquecento, la densità di popolamento diminuisce man mano che ci si sposta verso nord o verso est. La Scandinavia, ad esempio, alla fine del Cinquecento, conta circa un milione e mezzo di abitanti dispersi su un territorio vastissimo, coperto in gran parte da foreste e ghiacci. La Polonia, che comprende allora anche gran parte dell’attuale territorio della Lituania e della Bielorussia, arriva a stento a quattro milioni di abitanti. In questa parte d’Europa anche lo sviluppo urbano è molto minore, perché meno forti sono gli apparati statali e meno dinamica l’economia.
Soprattutto durante la prima metà del Cinquecento, la parte più densamente popolata, più urbanizzata, e in definitiva economicamente più avanzata d’Europa, è costituita dall’asse che unisce l’Italia centro-settentrionale ai Paesi Bassi, passando per la Svizzera, la Germania meridionale e la Renania. Qui si addensano le città più grandi, quelle italiane innanzitutto, ma anche i grandi centri manifatturieri, commerciali o finanziari come Augusta, Bruges (già in declino), Gand, Colonia, Anversa. E anche Parigi e Londra, i due giganti urbani di fine Cinquecento, rientrano in fondo in quest’area.
Nel corso del Cinquecento le differenze sono il sintomo di un progressivo mutamento degli equilibri interni all’Europa e la crescita è generalizzata ma non uniforme. Essa infatti è più rapida e intensa nell’Europa atlantica e settentrionale. L’Inghilterra, ad esempio, tra 1500 e 1600 raddoppia la sua popolazione, mentre Italia e Spagna fanno registrare aumenti molto più contenuti, intorno al 10-20 percento. In particolare, la demografia delle città reagisce con molta sensibilità ai mutamenti degli equilibri economici e delle fortune politiche. È qui che emerge con evidenza il dinamismo della fascia atlantica, da Siviglia ad Amburgo, passando per Nantes, La Rochelle, Bristol e, naturalmente, Anversa, Londra e Amsterdam. Si tratta della porzione d’Europa meglio posizionata per approfittare delle opportunità offerte dai nuovi orizzonti oceanici aperti dalle scoperte. In Italia la crescita dei centri manifatturieri e commerciali tradizionali –Milano, Genova, Firenze, Venezia – segna sostanzialmente il passo. Nel corso del secolo questi centri recuperano solo in parte i livelli di popolamento precedenti alla peste e in ogni caso vengono raggiunti o anche distaccati dalle città emergenti dell’Europa del nord. Le città medie e piccole, che costituiscono l’ossatura del sistema urbano italiano, come Siena, Pisa, Bologna, Verona, Cremona e tante altre, crescono molto poco o addirittura declinano. In Germania l’andamento è significativamente contrastato. Alla stagnazione di alcuni centri tradizionali, come Colonia o Norimberga, più legate agli scambi con l’Italia e il Mediterraneo, fa riscontro il forte aumento di alcune città che meglio hanno saputo inserirsi nei nuovi circuiti: tra queste Amburgo e Danzica, strettamente legate all’economia dei Paesi Bassi e ai flussi commerciali sempre più intensi fra l’Europa nord-occidentale e i Paesi che si affacciano sul Baltico.
Questo diverso ritmo della crescita demografica riflette dunque un incipiente spostamento verso ovest, verso l’Atlantico, del baricentro economico del continente. Ma questo baricentro si sposta anche verso nord e qui anche la congiuntura politica ha il suo peso. Nella seconda parte del secolo, le due città più legate all’espansione atlantica della monarchia spagnola, Siviglia e Anversa, declinano, anche in conseguenza dell’indebolimento della potenza marittima spagnola rispetto alle rivali protestanti, Inghilterra e Olanda.