Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
All’inizio del XX secolo, il principio dell’uguaglianza politica comincia ad affermarsi negli ordinamenti costituzionali degli Stati europei imperniati sul sistema di governo parlamentare. Con l’allargamento del suffragio alla totalità dei cittadini adulti nasce la democrazia contemporanea, basata sulla rappresentanza politica, sulla libertà di voto, sulla competizione elettorale e sul principio di maggioranza. Dopo l’esperienza dei totalitarismi, la struttura e il funzionamento della democrazia subiscono una profonda trasformazione, prodotta dal rinnovamento del paradigma costituzionale degli Stati liberaldemocratici.
L’affermarsi di un valore
Jean-Jacques Rousseau
Critica alla democrazia rappresentativa
La sovranità non può essere rappresentata per la medesima ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta: o è essa stessa o è diversa, non c’é una via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque, né possono essere, i suoi rappresentanti, ma soltanto i suoi commissari: non possono concludere nulla in maniera definitiva. Ogni legge che il popolo in persona non abbia ratificata è nulla, non è una legge. Il popolo inglese ritiene di esser libero: si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento. Appena questi sono eletti, esso è schiavo, non è nulla. Nei brevi momenti della sua libertà, l’uso che ne fa giustifica davvero che esso la perda.
in Grande antologia filosofica, diretta da M.F. Sciacca e M. Schiavone, Milano, Marzorati, 1968
La parola “democrazia” appartiene al linguaggio politico europeo da più di due millenni. Con essa, nel V secolo a.C., i Greci denominano il regime politico vigente in Atene, dove i diritti di cittadinanza sono attribuiti a tutti i maschi adulti, liberi e nati da genitori ateniesi. Da allora, e fino a tempi molto recenti, l’idea di democrazia, carica del suo significato etimologico di “potere del popolo”, non ha affatto goduto del favore e del consenso che oggi tanto diffusamente la circondano, ma anzi ha suscitato avversione ed esecrazione. La critica antidemocratica di Platone e Aristotele resiste a lungo nella cultura politica occidentale. Alle soglie del XIX secolo, per fare un solo esempio, Immanuel Kant – non certo un reazionario – condanna la democrazia come un regime dispotico. È soltanto nel secondo dopoguerra che la democrazia diventa un “valore” largamente condiviso e progressivamente si afferma come l’ordinamento politico prevalente sul continente europeo. Un ordinamento politico che, a parte il nome, ha ben poco in comune con la democrazia dell’antica Grecia, oltre al principio di legittimità del potere, che in entrambi i casi è la sovranità popolare. I cittadini dell’Atene democratica, infatti, prendono parte direttamente all’ekklesía, che si riunisce nell’agorá per deliberare su tutte le materie relative al governo della pólis: la democrazia degli antichi è una democrazia diretta. La democrazia contemporanea, invece, è basata sulla rappresentanza politica, cioè sul conferimento della delega del potere di gestire la cosa pubblica e di decidere a maggioranza per l’intera collettività a un esiguo numero di cittadini, eletti come membri degli organi politici dello Stato, in base ai liberi suffragi espressi da quanti esercitano il proprio diritto di voto, che (salvo il caso del referendum) è un diritto a eleggere e non a deliberare.
Nel Novecento, tuttavia, la democrazia diretta, già esaltata nel XVIII secolo da Jean-Jacques Rousseau, risorge come ideale politico dei partiti rivoluzionari di ispirazione marxista, in opposizione alla democrazia rappresentativa “borghese”, a partire dalla riflessione di Lenin sull’esperienza dei soviet, i consigli dei lavoratori, apparsi sulla scena durante le rivoluzioni russe del 1905 e del 1917. Intorno ai soviet si struttura, dopo la rivoluzione di ottobre e la susseguente guerra civile, l’articolazione politica della Russia e delle repubbliche federate nell’Unione Sovietica, senza che, tuttavia, le potenzialità democratiche di queste assemblee riescano a esprimersi effettivamente, a causa della totale concentrazione dei reali poteri di governo in capo ai vertici del Partito Comunista.
Verso il suffragio universale
Caduti i regimi comunisti, al principio degli anni Novanta, anche i Paesi dell’Est accolgono le istituzioni e gli ordinamenti giuridici tipici del modello di democrazia rappresentativa di matrice liberale. Tale modello, basato sul suffragio universale, sulla libertà di voto, sulla competizione elettorale e sul principio di maggioranza, è il prodotto dell’evoluzione storica del sistema di governo rappresentativo scaturito dalle rivoluzioni inglesi del XVII secolo, in seguito alle quali l’esigenza di libertà personale e sicurezza patrimoniale, minacciata dalle tendenze assolutistiche della monarchia, trova espressione in un assetto di potere che rende l’assemblea rappresentativa dei ceti sociali più elevati partecipe dell’autorità legislativa. Il parlamento acquisisce così un ruolo centrale nella vita politica inglese e progressivamente impone la sua volontà anche nella formazione dell’organo esecutivo. Edificato per garantire la libertà e la proprietà dei soggetti dell’ordinamento, il regime politico parlamentare conquista rapidamente moltissimi estimatori sul continente europeo tra quanti contestano l’autoritarismo oppressivo delle monarchie assolute, e diventa, dalla rivoluzione francese in avanti, il modello istituzionale di riferimento per la classe borghese. Dalla Francia alla Svezia, dal Belgio all’Italia, durante il XIX secolo il governo rappresentativo comincia a mettere radici in Europa, sotto la spinta dei mutamenti economici e culturali, attraverso i quali si afferma l’egemonia sociale della borghesia, che, imponendo o “contrattando” la codificazione costituzionale di profonde trasformazioni istituzionali in senso liberale, strappa ai monarchi ampi spazi di autorità politica, a tutela dei propri interessi.
Il paradigma statuale all’interno del quale, nel XX secolo, si esprime concretamente il principio democratico nasce dunque come un regime politico marcatamente classista, che esclude la massa del demos dal recinto privilegiato del kratos. I diritti di elettorato attivo e passivo sono infatti conferiti sulla base dello status patrimoniale degli individui. Le soglie di censo stabilite dalle costituzioni e dalle leggi per accedere al circuito della rappresentanza sono, in molti casi, tanto elevate da assicurare la guida dello Stato a una ristretta oligarchia della ricchezza. Contro questa oligarchia si battono, fuori dalle istituzioni, nella società civile, attraverso le organizzazioni e la stampa politica (quando non direttamente nelle piazze e dietro le barricate), i fautori della democrazia, appartenenti ai ceti inferiori politicamente discriminati.
La democrazia resta dunque, ben oltre la nascita e la diffusione dei governi rappresentativi e delle costituzioni liberali, un ideale rivoluzionario, osteggiato dai detentori del potere politico ed economico. Nella durissima lotta di classe che scandisce la storia europea del XIX secolo, la battaglia per l’uguaglianza politica e per il suffragio universale, inaugurata dai rivoluzionari giacobini dopo il 1789, entra ben presto a far parte degli obiettivi prioritari del movimento operaio, trovando un primo effimero successo nella Francia del 1848, più tardi consolidato, dopo la stagione autoritaria del bonapartismo, con la nascita della terza Repubblica, le cui leggi costituzionali continuano però a escludere dal circuito della rappresentanza politica un’intera categoria di soggetti: le donne. Con l’eccezione della Spagna, i cui cittadini maschi ottengono il diritto di voto nel 1890 (dopo un breve esperimento tra il 1869 e il 1874), e della Germania, dove l’elezione del Reichstag avviene a suffragio universale maschile fin dal 1871 (ma in un quadro costituzionale che emargina il parlamento dalla formazione dell’indirizzo politico), soltanto nel corso dei primi due decenni del Novecento i principali Stati dell’Europa occidentale pervengono all’adozione del suffragio universale maschile, con voto uguale e segreto: nel 1900 la Norvegia, nel 1909 la Svezia, nel 1912 l’Italia, nel 1918 l’Inghilterra (dove però l’istituto del voto plurimo perdura fino al 1948), nel 1919 il Belgio e l’Olanda.
La conquista dei diritti di cittadinanza da parte delle donne avviene anch’essa a seguito di lotte sociali e politiche, come quelle organizzate dalla Women’s Social and Political Union, fondata da Emmeline Pankhurst in Inghilterra nel 1903. Tre anni dopo, in Finlandia, le donne ottengono il diritto di voto, e lo stesso accade, entro il quindicennio successivo, in tutti i Paesi scandinavi. L’immediato primo dopoguerra segna l’abbattimento della discriminazione sessuale nei diritti politici anche in Russia, Germania, Austria e Cecoslovacchia (1918). Nello stesso anno il parlamento inglese estende i diritti politici alle donne ultratrentenni, proprietarie di beni immobili (requisito che scompare con la riforma elettorale del 1928). L’Italia, invece, perviene al suffragio universale soltanto nel secondo dopoguerra, così come la Francia, tanto precoce nel giungere all’uguaglianza politica dei cittadini maschi adulti, quanto lenta nel riconoscere pari dignità politica alle donne.
I partiti di massa e il duro colpo inflitto dalle guerre
L’accesso alla piena cittadinanza aperto dal suffragio universale a milioni di persone, trasforma i regimi politici europei. Se nello Stato monoclasse del XIX secolo il rapporto tra elettori ed eletti, quando non è diretto e personale, passa attraverso semplici associazioni a base notabiliare, spesso funzionanti esclusivamente come comitati elettorali, la democrazia rappresentativa novecentesca esige nuove forme di organizzazione e mobilitazione politica. L’ingresso della totalità della popolazione adulta nei meccanismi di selezione dei governanti porta alla nascita dei partiti di massa, associazioni politiche permanenti e strutturate, dotate di grandi apparati organizzativi e propagandistici, capaci di orientare i comportamenti elettorali di interi gruppi sociali. I partiti politici diventano i protagonisti della sfera pubblica, tanto nella società civile, come agenti di acculturazione e partecipazione politica, quanto nelle istituzioni rappresentative, condizionandone strutturalmente l’organizzazione e le dinamiche decisionali.
La democrazia del Novecento si configura così come governo della cosa pubblica basato sui partiti, che se da un lato consentono l’integrazione delle masse nella vita dello Stato, accorciando la distanza tra la realtà empirica del funzionamento delle istituzioni e l’ideale normativo del governo del popolo, dall’altro si trasformano in strutture burocratiche verticistiche a tendenza autoreferenziale. Tendenza subito rilevata dai contemporanei e tematizzata, in sede scientifica, nella “teoria dell’élite”, con la quale pensatori come Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto si propongono di demistificare la retorica democratica, sottolineando l’ineffettività del principio della sovranità popolare e il carattere oligarchico della gestione del potere. La delusione suscitata nelle masse politicizzate dalla sperimentata non coincidenza tra diritto di votare e potere di decidere accresce, all’indomani dell’allargamento del suffragio, la forza eversiva dei partiti e dei movimenti che, da destra e da sinistra, si battono per un sovvertimento radicale dell’ordine politico.
In crisi di consenso pressoché in tutto il continente, la democrazia rappresentativa non regge alle scosse della prima guerra mondiale e della grande depressione in quei Paesi dove più debole è il radicamento sociale e culturale delle istituzioni liberali. Negli anni Venti, precipitano in regimi autoritari la maggior parte delle neonate democrazie dell’Europa centro-orientale. In Italia, Benito Mussolini, elevato al governo nel 1922 per decisione del re, instaura in pochi anni la dittatura fascista. Nel 1926, in Portogallo, un colpo di Stato militare rovescia la repubblica. All’inizio degli anni Trenta, la crisi economica che dagli Stati Uniti si comunica all’Europa colpisce con particolare violenza la Germania, favorendo l’ascesa del Partito Nazionalsocialista, il cui capo carismatico, Adolf Hitler, sale al potere per via elettorale nel 1933, ponendo termine immediatamente all’esistenza della Repubblica di Weimar e avviando la costruzione di un regime totalitario a vocazione imperialistica, la cui potenza militare provocherà, prima e durante la seconda guerra mondiale, un’ulteriore riduzione del numero dei Paesi europei governati a democrazia.
Le nuove carte costituzionali: una garanzia di democrazia
La rinascita liberaldemocratica dell’Europa occidentale nel secondo dopoguerra avviene nel segno di importanti evoluzioni giuridico-istituzionali dei regimi politici. Innanzitutto le nuove carte costituzionali riflettono le aspirazioni alla giustizia sociale delle classi meno abbienti, statuendo come diritti fondamentali alcune delle più pressanti rivendicazioni del movimento operaio, che nell’Europa dell’Est trovano espressione nei progetti di democrazia sostanziale dei sistemi comunistici.
Ai diritti di libertà e ai diritti politici, i costituenti del secondo Novecento aggiungono una serie di diritti sociali, finalizzati al miglioramento delle condizioni materiali degli individui (tutela del lavoro dipendente, diritto al riposo settimanale e alle ferie retribuite, diritto all’assistenza sociale per determinate categorie di soggetti, diritto all’istruzione ecc.) e alla rimozione degli ostacoli di natura socio-economica che impediscono il concreto godimento soggettivo delle libertà civili e politiche. Il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta favorisce il perseguimento di politiche pubbliche che tendono ad approssimare le democrazie euro-occidentali agli ideali della socialdemocrazia.
In secondo luogo, a partire dalle costituzioni elaborate in Italia e Germania Ovest dopo la liberazione, è il paradigma stesso della democrazia che si rinnova in senso garantistico, per allontanare la minaccia di nuove derive illiberali e autocratiche. È la rigidità delle costituzioni, garantita dal controllo giurisdizionale di costituzionalità delle leggi e dalla previsione di un procedura speciale per la revisione del dettato costituzionale, a determinare questo mutamento di paradigma. La superiorità ordinamentale delle costituzioni rigide assoggetta anche i supremi poteri al diritto, trasformando lo Stato legislativo di diritto in uno Stato costituzionale di diritto.
La sovranità del popolo (o, in concreto, della maggioranza dei suoi rappresentanti) cessa di esistere in forma assoluta e viene circoscritta da norme costituzionali che stabiliscono una serie di diritti fondamentali, civili, politici e sociali, che si pongono come altrettanti limiti e vincoli del potere. Così, alla dimensione procedurale della democrazia, consistente nei meccanismi di rappresentanza e nelle tecniche deliberative, si aggiunge una dimensione sostanziale, formata dai valori e dai principi costituzionalmente positivizzati, che condiziona i contenuti delle scelte politiche.
Nelle contemporanee democrazie costituzionali, i diritti fondamentali segnano, dunque, il confine del potere discrezionale della maggioranza. Anche i Paesi dell’Europa occidentale giunti più tardi a darsi istituzioni democratiche, la Grecia (1975), il Portogallo (1976) e la Spagna (1978), uscendo dal tunnel della dittatura, optano per la tecnica garantistica della rigidità costituzionale, così come seguono, nel definire costituzionalmente i rapporti tra gli organi dello Stato, la tendenza dominante nell’universo democratico del secondo Novecento alla razionalizzazione del funzionamento delle istituzioni politiche in vista del rafforzamento della stabilità e dell’efficienza dei governi.
Modelli europei di istituzioni politiche
Nella ricerca di soluzioni istituzionali idonee a rendere gli esecutivi meno dipendenti dalle assemblee rappresentative, le democrazie europee intraprendono due diverse strade. La prima, percorsa con successo innanzitutto dalla Germania (con la Costituzione del 1949), resta sul terreno del governo parlamentare, eliminando i rischi di degenerazioni assembleari, con l’introduzione di norme costituzionali che consolidano la posizione del capo dell’esecutivo (per esempio l’istituto della sfiducia costruttiva). La seconda, aperta dalla Francia gaullista con la Costituzione del 1958, supera le frontiere del parlamentarismo, conferendo ampi poteri, attinenti anche all’indirizzo politico, a un capo dello Stato eletto dal popolo, che coesiste con un governo, da lui distinto, legato dal rapporto di fiducia a un’Assemblea rappresentativa, dotata di deboli prerogative. Questa nuova forma di governo, battezzata dai politologi “semipresidenzialismo” (strutturalmente molto diversa dal presidenzialismo statunitense) si diffonde soprattutto tra le democrazie nate dopo la caduta del comunismo e, alla fine del XX secolo, rappresenta in Europa la sola alternativa al governo parlamentare, eccettuato il caso della Svizzera, dove vige una forma di governo direttoriale.
Al di là dei differenti modi in cui ciascun ordinamento è formalmente organizzato nei suoi meccanismi di decisione collettiva, le democrazie europee contemporanee rivelano, sotto il profilo delle reali dinamiche di potere, fondamentali caratteri comuni, determinati dal contesto socio-economico capitalistico in cui sono calate. La globalizzazione del sistema di mercato pone le grandi corporazioni produttive e finanziarie nella facoltà di condizionare, con le loro decisioni economiche, relative all’impiego dei capitali e influenti sull’occupazione, sui prezzi e sulla crescita, il livello di benessere della società e la sicurezza materiale degli individui. L’agenda politica dei governi democratici è perciò rigidamente costretta entro lo spettro delle decisioni favorevoli ai detentori di capitale, il cui potere di pressione (nonché di condizionamento dell’opinione pubblica attraverso la proprietà dei mezzi di informazione) è superiore a quello di ogni altro gruppo sociale. La possibilità di incidere sull’indirizzo politico del governo, che l’ordinamento costituzionale assegna in modo uguale a tutti i cittadini adulti, viene dunque a dipendere dalla posizione socio-economica dei soggetti, cosicché il principio dell’uguaglianza politica subisce un sostanziale svuotamento. Questa è l’immagine delle democrazie del tardo Novecento che emerge dalle analisi empiriche degli scienziati politici contemporanei e che getta, sul luminoso scenario del trionfo europeo della democrazia (in quanto principio di legittimità, in quanto ideale e in quanto regime politico), l’ombra degli interrogativi sullo stato di salute degli odierni sistemi democratici.