La decadenza delle citta
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Molte città romane, nei secoli che vedono il passaggio dall’antichità al Medioevo, scompaiono, cambiano di sede o si riducono di superficie; non si tratta però solo di un fenomeno di crisi, ma anche di cambiamenti di posizione nelle gerarchie urbane dei vari ambiti regionali e di modalità diverse di occupazione dello spazio urbano rispetto all’età classica, sotto la spinta di bisogni nuovi.
Nei secoli IV-VI una profonda trasformazione interessa la rete urbana della parte occidentale dell’Impero romano. Essa, in verità, non costituiva una realtà unitaria, essendo stata l’urbanizzazione in età antica di intensità assai varia: massima in Italia, grande nella Francia meridionale e in Spagna, ma via via minore con il progredire della distanza dalle coste del Mediterraneo, fino all’Inghilterra, dove fu quasi inesistente.
Mentre perciò nelle aree marginali dell’antico impero le città scompaiono quasi del tutto, altrove perlopiù sopravvivono, pur fortemente ridimensionate per estensione e popolosità, poche essendo quelle che nei secoli VIII-IX superano i 30 ettari di superficie e i 5000 abitanti; del tutto eccezionale è il caso di Roma, con 15/20 mila abitanti (rispetto al milione che aveva avuto in età imperiale). Un esempio emblematico della riduzione della superficie delle città romane (e poi della ripresa nel corso del pieno Medioevo) è Bologna, ridottasi in età longobarda da 70 a 25 ettari, ma già avviata a raggiungere i 100 ettari sul finire del secolo XI.
Le cause del fenomeno generalmente individuate sono molteplici e varie da una regione all’altra. Dappertutto giocano un ruolo importante, sia pur in misura diversa, i disastri causati dalle invasioni germaniche, che investono principalmente le città, vale a dire i luoghi nei quali si è venuta accumulando la ricchezza.
In Italia le aree più colpite sono quelle che si trovano lungo la frontiera tra i territori conquistati dai Longobardi e quelli rimasti sotto il controllo di Bisanzio: territori a lungo contesi e perciò soggetti a una continua pressione militare. È quel che accade alle città emiliano-romagnole, peraltro già in crisi da tempo, se nel 387 il vescovo di Milano, Ambrogio, le descrive in una lettera all’amico Faustino come cadaveri di città semidistrutte (“semirutarum urbium cadavera”). Analogo destino conoscono quelle della Liguria marittima, di cui nel 643 il re longobardo Rotari ordina la distruzione e la riduzione al rango di villaggi per avergli opposto strenua resistenza, quelle della Campania nell’area compresa tra Napoli e Capua, e quelle della Puglia centro-settentrionale.
Un peso non irrilevante è stato assegnato anche alle epidemie di peste, tra le quali particolarmente gravi quelle del 165, del 262 e del 542-543, quest’ultima proveniente dall’Etiopia e abbattutasi sull’Italia nel pieno della già devastante guerra greco-gotica. A essa seguono almeno una ventina di ondate epidemiche tra VI e VIII secolo.
In alcuni contesti territoriali giocano un ruolo più o meno importante i movimenti idrogeologici e altri fenomeni naturali, quali terremoti (Benevento), alluvioni (Liguria, Veneto, Emilia, Roma), impaludamenti (Paestum), eruzioni vulcaniche (Nola), innalzamenti del suolo (Pozzuoli), anche se è da credere che abbiano solo accelerato processi di destrutturazione urbana già in corso più che innescarli, e in ogni caso esercitano la loro azione distruttiva in quanto non più frenati dall’intervento dell’uomo.
La riduzione del numero degli abitanti determina, oltre che il restringimento dell’area urbana, protetta ora da mura che tagliano fuori i quartieri periferici, anche la formazione al suo interno di spazi aperti destinati all’agricoltura e finanche alla pastorizia. È quel che accade soprattutto a Roma, il cui tessuto urbanistico va disgregandosi in isole insediative intervallate da aree paludose e malariche, e che utilizzano i resti di antichi monumenti, come il Colosseo e il teatro di Marcello.
Sempre Roma fornisce l’esempio più vistoso di un fenomeno largamente diffuso un po’ ovunque in Italia: il recupero e la riutilizzazione di colonne, capitelli, marmi e altri materiali degli edifici antichi, inseriti a blocchi nei nuovi, soprattutto quelli a destinazione religiosa, o triturati e utilizzati come materiale cementizio. Ma casi analoghi sono ampiamente documentati a Pavia e a Verona. Essi sono stati considerati nel passato principalmente come prove del degrado delle città antiche e del peggioramento delle tecniche costruttive. Oggi però si tende a considerarli anche come espressione della creatività di una società capace di riorganizzare il proprio spazio sotto la spinta di bisogni nuovi e dell’emergere di potenti elementi di aggregazione territoriale, tra cui gli impianti difensivi, le sepolture dei santi e le nuove chiese vescovili: riorganizzazione che si viene compiendo con modalità e con ritmi molto più vari di quanto non si sia pensato finora, per effetto della consueta deformazione prospettica cui è esposto lo storico, il quale, considerando gli eventi sulla scala lunga del tempo, tende ad attribuirgli una linearità e una regolarità che non sempre corrispondono alla realtà.
Oggi le cose cominciano ad apparire più chiare grazie all’apporto dell’archeologia, e i processi di decadimento che, visti in prospettiva, sembrano lunghi e inarrestabili, sono a volte intervallati da più o meno lunghe battute d’arresto, o anche da periodi di ripresa (Cuma, Nola, Paestum), e comunque si snodano nel contesto di una continuità di vita delle città, generalmente fino al secolo VI, se non sempre sul piano materiale, almeno su quello ideologico: ancora nel VI secolo è attestato ad Avellino l’uso di titoli legati a istituzioni che avevano sede in edifici in abbandono fin dal IV.
Gli studi più recenti hanno evidenziato come, parallelamente ai processi di vero e proprio abbandono e di ridimensionamento dell’area urbana, si manifestino diverse modalità di occupazione dello spazio rispetto all’età classica. I casi più frequenti e visibili di trasformazioni funzionali sono l’utilizzazione degli edifici e degli spazi precedentemente destinati all’uso pubblico per fortificazioni e abitazioni, nonché del foro, delle terme, degli anfiteatri o di altre aree per le sepolture.
Il paesaggio urbano ha spesso la sua nota di maggiore novità nella fondazione di luoghi di culto cristiani e in particolare della chiesa vescovile, la quale, sia che sorga nell’area del foro sia che si dislochi in altra parte della città, non si pone in alternativa a essa, anche se contribuisce a volte alla sua destrutturazione. La chiesa vescovile fa sì che la città continui a essere, almeno nella fase più antica, il punto di riferimento delle popolazioni contadine dei dintorni, dato che l’organizzazione ecclesiastica delle campagne fa capo alla chiesa cittadina, dove in ogni caso bisogna recarsi per ricevere alcuni sacramenti, tra cui, non di rado, anche il battesimo. Alla lunga però questo non riesce a evitare ad alcune di esse la scomparsa o la perdita della funzione di riferimento religioso del territorio (Luni, Roselle, Paestum, Cuma, Locri).
In Italia, dopo l’invasione dei Longobardi, risulta maggiore, sia nelle aree da essi conquistate sia in quelle rimaste sotto il controllo dei Bizantini, la continuità di vita, sia pur con nuove funzioni, delle città, che per la loro posizione geografica sono considerate importanti ai fini del controllo del territorio e perciò munite di cinte murarie e di altre strutture difensive più o meno imponenti, che le qualificano più come fortezze che come centri della vita civile; il che non impedisce tuttavia la loro successiva distruzione (Brescello, Cuma).
In ogni caso, sia in età antica che nell’alto Medioevo, le trasformazioni dei tessuti urbani risultano comprensibili solo su scala territoriale più grande, la sola che consenta di cogliere da un lato i mutamenti della rete delle comunicazioni regionali in connessione con la crisi delle relazioni commerciali, dall’altro i cambiamenti, in seguito alla nuova dislocazione delle sedi del potere, delle gerarchie dei centri abitati.
Per quest’ultimo fenomeno i casi più significativi sembrano quelli di Capua e di Napoli. L’ascesa della prima, da ricondurre alla sua promozione a sede del governatore (corrector) della nuova provincia della Campania, creata nel contesto della riorganizzazione amministrativa attuata da Diocleziano, comporta un riassetto della gerarchia dei centri urbani dell’area, penalizzante per quelli minori, il cui declino coincide proprio con l’ascesa di Capua. Questa però nei secoli seguenti conosce a sua volta un inarrestabile declino e un definitivo abbandono nell’841, e risorge poi nell’856 in un’ansa del Volturno, sito considerato più sicuro. Il caso di Napoli è più complesso, ma non può non essere considerato paradigmatico il provvedimento di Narsete, che nel 535, per ripopolare la città dopo i massacri provocati dalle operazioni belliche nell’ambito della guerra greco-gotica, vi deporta gli abitanti di Cuma, Pozzuoli, Nola, Stabia, Sorrento, con conseguenze sul popolamento di quei centri che è facile immaginare in un periodo di generalizzato calo demografico. Altri esempi di mutamenti di posizione nella gerarchia urbana delle varie aree regionali sono rappresentati da Aosta, Aquileia, Cervia, Chiusi, Formia, che perdono di importanza rispetto al passato romano, e di Lucca, Firenze, Salerno, Bari, che invece ne acquistano.
Ne deriva il quadro generale di una realtà urbana molto complessa e articolata, oltre che mutevole nel corso del tempo: ogni città è un caso a sé, con vicende che possono essere capite non solo nel contesto dei vari ambiti territoriali, ma anche nel panorama generale dell’Italia, dove continua pur sempre a esistere, sebbene con caratteri e ruoli diversi, una rete urbana, sia nei territori conquistati dai Longobardi sia in quelli rimasti sotto il controllo dei Bizantini: gli uni e gli altri destinati ad essere investiti tra VIII e IX secolo da processi che sembrano decisamente espressione di creatività e che pongono le premesse del formarsi dell’urbanesimo medievale, incentrato sul ruolo della città come centro non più di consumo (come era avvenuto in età romana), ma di produzione e di scambi, per cui, anche se continuano a risiedervi i proprietari terrieri dei dintorni, sono sempre più numerosi gli esponenti dei ceti produttivi, i quali danno progressivamente vita a nuove attività economiche.