Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Là dove la parola non arriva subentra il movimento corporeo, come manifestazione di giubilo ispirato dal divino, gaudio soverchiante e gioia incontenibile che si riversa, appunto, nella gestualità e nel moto: sono i “giullari di Dio” francescani a porre l’accento proprio sull’aspetto emozionale della loro predicazione. Mentre il ballo in tondo, la carola, trasmette per tutto il Medioevo e fino al Rinascimento l’eco dell’armonia dell’universo neoplatonica, insediandosi però anche nei romanzi cortesi e sviluppando una valenza narrativa.
Nel corso del Medioevo il difficile incontro tra l’esperienza psicofisica cui rimanda il sentimento di gaudio e la parola che dovrebbe testimoniarla comincia a essere affrontato già da sant’Agostino, che nell’esposizione al salmo 32 (Enarratio II, I, 8), annunciando la necessità di un “cantico nuovo” espresso però “non con le labbra ma con la vita” (Cantet canticum novum, non lingua, sed vita), parla dello “stato di giubilo” come l’unico capace di sovrastare i confini delle sillabe (immensa latitudo gaudiorum metas non habeat syllabarum), poiché il giubilo è abbandono al suono e a una dimensione ineffabile: “una gioia senza parole” (gaudeat cor sine verbis) che non si può spiegare verbalmente. Anche per san Gregorio Magno, nell’omelia per la festa di san Sebastiano martire (Homilia XXXVII, 1), nessuna lingua può dire il gaudio della partecipazione al tripudio, e alle danze, dei cori degli angeli. Questi concetti, legati all’espressione fisica del giubilo e dell’incontenibile letizia nella lode divina, nel corso del Medioevo si trasfondono direttamente in poesia, divenendo un tema significativo soprattutto nel contesto della spiritualità francescana.
In particolare se ne fa portavoce Iacopone da Todi nella sua lauda nota come Ballata del Paradiso (Quod omnes sancti faciunt Baladam in Paradiso, amore Domini nostri Jesu Christi). Tutti i termini passivi dell’invito all’ascolto sembrano, in questa lauda, approdare a un’unione con Dio attraverso l’azione attiva della danza, “tutti van ad una danza / per amor del Salvatore”, secondo l’idea teologica (agostiniana e mistica) di una performatività capace di trasformare. La danza in Iacopone è addirittura metafora negativa della pazzia e della dismisura dell’amore per Dio: “Chi vòle entrare en questa danza trova amor d’esmesuranza” (De stultitia perfectorum, “Como è somma sapientia essere reputato pazo per l’amor de Christo”, 87, 19-20).
Non a caso Antonio Attisani descrive la teatralità francescana come un’azione poetica che trasforma il corpo-mente di attori e spettatori rilevando nel comportamento performativo di san Francesco un’idea dell’agire scenico che, pur essendo stata storicamente sconfitta e marginalizzata, è rimasta comunque attiva nell’ambito del teatro occidentale, in particolar modo riapparendo con alcune delle maggiori avanguardie del XX secolo. Nonostante nell’anonima opera latina Speculum perfectionis (IX, 100) si racconti di un Francesco seduto (“Sedette e si mise a riflettere”) mentre ispirato compone una lauda, è piuttosto difficile immaginare, come ricorda Renato Torniai, un cantore tutto preso dai ritmi d’un mondo superiore restare a sedere pressoché fermo e immobile.Graditi a Francesco sono i ritmi ondulati, come quelli raccontati nella danza mistica che riprende i ritmi del volo “a ruota” delle allodole, anch’esse da lui molto amate, che “facevano come un cerchio intorno al tetto e, cantando dolcemente, parevano lodare il Signore” (Speculum, XI, 113). Se ne trovano inoltre di analoghi in Tommaso da Celano, nel Trattato dei miracoli (IV, 32).
Ma l’episodio più noto che meglio esemplifica la trasformazione di Francesco da personaggio storico in mito icona dell’eterodossia e della ribellione è quello narrato nella Vita Beati Francisci di Tommaso da Celano (73, 5), quando davanti al papa Onorio III e ai suoi cardinali, ““non riuscendo a contenersi dalla gioia, mentre pronunciava le parole muoveva i piedi come se saltasse”” (pedes quasi saliendo movebat). Testimonianza, questa, della gestualità anomala di Francesco, alimentata dalla gioia che in lui è intimo (dunque emozionale) colloquio con Dio. E, soprattutto, precisazione delle ragioni spirituali di tale recupero del corporeo all’interno della sua predicazione, per influsso certamente della tradizione trobadorica, da cui anche trae l’idea dei frati evangelizzatori come “giullari di Dio” secondo il modello della predicazione itinerante che deve commuovere (e convertire) i cuori attraverso la dimensione emozionale della letizia e della lode.
Infine, nella parte più moderata del francescanesimo, tra conformismo religioso e interessi borghesi, come nei versi che narrano la conversione (per convenzione datata nel 1265) di Guittone del Viva di Michele d’Arezzo, dell’ordine chiamato con spregio da Dante (in Inf. XXXIII, 103) dei “Frati godenti”, la danza è ancora invito all’unione mistica con Dio (Canzoni ascetiche e morali , XXXIX, Invito alla mistica danza). Ma il ripiego dottrinale sembra convertire l’esortazione alla gioia ineffabile come recupero (anche per via negativa) del corporeo, in una lauda il cui rigore metrico e il tono solenne convertono la danza in metafora positiva dell’amore esclusivo per il Signore.
In Italia, prima dell’affermarsi all’interno delle corti di una cultura di danza dei trattati e delle scuole, resiste soprattutto in sede poetica l’idea neoplatonica della danza come metafora dell’armonia dell’universo e del moto degli astri, dominata da un ideale pitagorico mai sopito nel corso del Medioevo, la cui ripresa da parte del neoplatonismo rinascimentale, come esemplato da Alessandro Arcangeli, si fa sentire chiaramente nel simbolismo numerico che fra Quattrocento e Seicento permea di sé tanto la riflessione teorica sull’arte quanto la prassi coreografica.
In Dante, nel canto XVIII (vv. 73-81) del Paradiso, è possibile contemplare lo spettacolo di alcune anime beate che si dispongono in cielo danzando in volo e cantando, formando infine in sequenza alcune lettere dell’alfabeto, anticipando di fatto un procedimento tipico del balletto barocco: la formazione planimetrica di parole in figure, da leggere come dall’alto. Ma nel Paradiso dantesco la danza è citata sempre come reale manifestazione di letizia spirituale, nella forma perfetta del circolo (VII, 4-7), nel fermo-istante che, durante il ballo, separa una strofa dall’altra, in una tensione molto fisica, che concentra l’attenzione sull’accordo delle note che nell’attimo successivo farà riprendere la musica e la danza (X, 75-81), e nella «doppia danza» (che descrive il moto in due cerchi concentrici) come indicazione di movimento ultrareale (XIII, 19-21). Nel Purgatorio (XXIX, 121-9), nella danza delle tre virtù teologali che accompagnano il carro della Chiesa, legata al rituale simbolico della processione mistica (come poi anche in XXXI, 131-2), Dante conferma il ruolo determinante del solista dal cui solo canto è scandito l’andamento ritmico del ballo (“e dal canto di questa / l’altre toglien l’andare e tarde e ratte”). Mentre ancora in Paradiso (XXIV, 17), la carola (ossia il ballo in tondo) descritta come manifestazione del fervore mistico dei beati si trasfonde direttamente nel ritmo del verso, riprodotta anche graficamente nella spezzatura dell’avverbio che la determina: “così quelle carole, differente- | mente danzando ”.
La carola è la danza alla quale fanno più frequentemente riferimento anche i romanzi cortesi, dal Roman de Renard al Roman de la Rose (dove il protagonista assiste a un ballo in tondo di Amore, Bellezza e altre virtù che si tengono per mano). Questa danza alterna il ritmo del canto del conduttore, che guida il movimento, al ritmo del canto del coro, che gli risponde con un ritornello, secondo uno schema di ripetizione che implica un’alta possibilità di socializzazione dei partecipanti, e con una potenziale funzione rappresentativa, sia sacra che profana. Dalla Chronique de Saint -Martial di Limoges sappiamo che, nel 1215, una carola è organizzata per salutare la partenza dei crociati, e che vi partecipa tutta la comunità. Ma è soprattutto nell’ambito della nuova concezione dell’amor cortese, ricorda Maurizio Padovan, che la danza assume nelle fonti trecentesche una nuova collocazione sociale in seno alla corte, alla nobiltà e ai nascenti circoli legati alla borghesia mercantile. Ed è il binomio di canto e danza che viene normato nei trattati sulla metrica volgare, rispettivamente di Antonio da Tempo e di Gidino da Sommacampagna, ma senza alcuna informazione circa l’esecuzione performativa delle ballate.
È invece soprattutto nelle opere di Boccaccio – principalmente nel Decameron – che la danza guadagna la sua più vera cittadinanza narrativa all’interno della letteratura italiana, trasformandosi in un tema/cornice la cui presenza è sempre fortemente simbolica, con una sua propria retorica (di apertura o di chiusura dei racconti), e con un’identità che è culturalmente costruita quale segno della modernità di una società nella quale è inserita (manifestazione d’arte o di educazione al comportamento). Nello stesso tempo essa viene però inscritta, di fatto, in una realtà sociale molto più transitoria (intrattenimento e/o corteggiamento). Proprio nel Decameron è citato uno dei più antichi documenti italiani della danza, una canzone a ballo del Duecento, L’acqua corre alla borrana, ricordata nella seconda novella dell’ottava giornata. Padovan ricorda che, grazie alla testimonianza lasciata sui margini del testo da un possessore anonimo della cosiddetta ventisettana (ossia l’edizione fiorentina per Giunti del 1527), sappiamo che nel 1552 era ancora praticata a Rovezzano, in Toscana, e che lo svolgimento implicava sorprese e reazioni maliziose tra i partecipanti, dovendo il danzatore di volta in volta scegliere fra le accompagnatrici, non senza prefigurare già un vero e proprio disegno coreografico come ad esempio accade anche nella tripartizione danzata nel discordo (canzone di origine provenzale le cui stanze discordano tra loro) di “Messer lo re” di Jean de Brienne, Donna, audite como, presente unicamente nel Vaticano lat. 3793.
È comunque soprattutto all’interno delle corti rinascimentali che la danza comincia a funzionare come un’istituzione e come spazio di assoggettamento del desiderio attraverso l’idea condivisa di armonia e di controllo del comportamento. Sullo sfondo resta, come in un passo importante dell’Arcadia di Jacopo Sannazaro, il racconto della memoria della danza nel tempo mitico dell’età dell’oro che, allo stesso modo del dialogo quale forma letteraria più propria della rinascenza, concilia i contrasti e riconduce a unità le passioni: “Non era gelosia, ma sollacciandosi | movean i dolci balli a suon di cetera, | e ‘n guisa di colombi ognor basciandosi” (VI, 106-8).