Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La Danimarca mantiene inalterate, nel corso del Novecento, le sue aperture alla modernizzazione politica da parte della monarchia già costituzionale. Il suffragio universale, il voto alle donne, la formazione di un sistema dei partiti al cui centro si situa la socialdemocrazia e un forte movimento sindacale, avviano esperienze di Stato sociale. Nel secondo dopoguerra, i suoi rapporti assai stretti con la Gran Bretagna la situano, in una prima fase, distante dalla CEE, a cui in seguito progressivamente si avvicina, entrando nella UE, ma non nella zona euro e manifestando, come il resto del mondo scandinavo, perplessità verso una più ampia integrazione politica.
La monarchia diventa costituzionale
Il Regno di Danimarca entra nel novero degli Stati a regime costituzionale sulla scia delle rivoluzioni europee del 1848, quando l’opinione pubblica chiede e ottiene dal re la Costituzione, che subisce una revisione in senso conservatore nel 1866. Si instaurano due Camere, il Landsting, eletto a suffragio ristretto in cui predominano i conservatori, e il Folketing, eletto a suffragio universale in cui prevalgono i partiti popolari. Di conseguenza, si assiste a una lunga diatriba fra le due Camere a proposito delle somme da destinare alla difesa nazionale, in particolare i partiti di sinistra e quello dei contadini sostengono che il Paese non sia in grado di affrontare da solo queste spese e debba servirsi degli aiuti promessi dalle grandi potenze. Il sovrano si appoggia al Landsting e sostiene il governo retto dal conservatore Jakob Brønnum Scavenius Estrup (1825-1913), il quale riesce a reggere le sorti del Paese avvalendosi di leggi provvisorie sulla finanza pubblica per una ventina di anni e vanificando, perciò, il ruolo del parlamento. Il nuovo secolo si apre con una svolta politica, perché alle elezioni del 1901 i conservatori vengono sconfitti. Il re è costretto a inchinarsi di fronte al regime parlamentare e affida ai partiti di sinistra la formazione di un ministero. Nella maggioranza parlamentare confluiscono “la Sinistra moderata” e i radicali: la prima propende per l’organizzazione di una difesa nazionale, mentre la seconda è contraria. Sono necessari altri anni di lotte e rivendicazioni per poter ottenere nel 1915 una nuova revisione della Costituzione, che pone le due Camere sullo stesso piano e concede alle donne il diritto di voto. La Danimarca non viene coinvolta nello scoppio del primo conflitto mondiale e sotto la guida del re Cristiano X (1912-1947), riesce a preservare la sua neutralità per l’intera durata del conflitto. Se, nonostante la sua posizione di Paese non belligerante, trae vantaggi dal trattato di Versailles, in cui si prevede che nello Schleswig si dovrà tenere un plebiscito per decidere le sorti della regione (e proprio i risultati della consultazione popolare del 1920 stabiliscono che la parte settentrionale deve essere restituita alla Danimarca), d’altra parte, come conseguenza del principio di nazionalità fissato dalla dottrina Wilson nell’intervento degli Stati Uniti in guerra, l’Islanda dal 1918 si proclama Stato indipendente e mantiene con la Danimarca un semplice legame personale nella figura del sovrano, legame che nel 1944 sarà soppresso del tutto.
Dal punto di vista del sistema produttivo, il primo trentennio del Novecento, si presenta come una felice stagione economica. Evidenti progressi investono il settore agricolo grazie allo sviluppo del sistema cooperativo, che porta a una razionalizzazione delle colture, mentre una vera e propria rivoluzione interessa il sistema dell’allevamento del bestiame e delle attività di trasformazione a esso connesse. Notevoli progressi si riscontrano, altresì, nel settore commerciale, industriale e della navigazione. La modernizzazione economica ha inevitabili ricadute sul sistema politico, soprattutto perché il Partito Socialdemocratico Danese ha forti presenze nel movimento sindacale e in quello delle cooperative.
Per la prima volta i socialdemocratici ottengono la guida del governo del Paese a partire dal 1924 e, dopo un breve intervallo tra il 1926 e il 1929, guidati dal loro leader Thorwald Stauning (1873-1942), vi restano fino al 1940, usufruendo della collaborazione politica del Partito Radicale. I risultati politici della gestione socialdemocratica non sono, tuttavia esaltanti, perché la loro lunga stagione di governo coincide, per gran parte con la grave crisi economica mondiale avviatasi negli Stati Uniti nel 1929, che ha serie ripercussioni anche nella Danimarca. Le difficoltà in cui si imbatte l’esecutivo sono molte, soprattutto quella nel settore delle esportazioni dei prodotti danesi che subiscono una forte contrazione, a causa delle misure protezionistiche adottate dai principali mercati, in particolare delle restrizioni applicate dal governo di Londra, mentre la Germania impone il principio degli accordi di scambio. Molto più efficaci, secondo la tradizione della socialdemocrazia scandinava, le riforme che introducono in Danimarca lo Stato sociale, in particolare nel settore dell’educazione scolastica, che pongono la Danimarca all’avanguardia in questo campo.
La seconda guerra mondiale: tra volontà di non belligeranza e movimenti di resistenza
L’avvio della seconda guerra mondiale si presenta per il Paese assai diverso da quello della prima. Il governo danese proclama la sua volontà di non belligeranza e ottiene, nel corso del 1939, la promessa formale del rispetto della neutralità da parte di Hitler attraverso la firma di un patto di non aggressione. Ma tutto ciò non salvaguarda la nazione dall’attacco tedesco del 9 aprile 1940, che coglie il Paese di sorpresa. Dopo poche ore di combattimento, il governo si vede costretto a cedere alle pretese dei nazisti e, dal punto di vista strategico, l’occupazione della Danimarca, durata cinque anni, assicura a Hitler le comunicazioni con le basi sottomarine stanziate in Norvegia. Anche alla Danimarca il dittatore riserva il privilegio di autogovernarsi, in effetti il re rimane sul suo trono, le istituzioni parlamentari e il suo primo ministro socialdemocratico continuano a svolgere il loro compito. Quando nell’estate del 1941 Hitler decide di stracciare il patto di non aggressione con la Russia, anche la Danimarca subisce la volontà politica dei Tedeschi che, nell’autunno dello stesso anno, impongono al governo l’adesione al patto anticomunista. I Danesi reagiscono organizzando movimenti di resistenza, mentre il capo dei conservatori, Christmas Muller, preferisce partire per l’Inghilterra. Anche se nel marzo 1943 si svolgono in Danimarca libere elezioni, la situazione si inasprisce ulteriormente come conseguenza di un’azione sempre più fattiva della Resistenza, incoraggiata dallo stesso sovrano, che provoca una dura reazione del commissario tedesco Werner Best (1903-1989), il quale nell’agosto 1943 abolisce ogni libertà politica. La Danimarca viene liberata il 4 maggio 1945 e viene occupata dagli Inglesi, mentre i Russi si insediano nell’isola di Bornholm.
I rapporti con il resto d’Europa e l’alternanza dei governi
Con la liberazione la vita politica riassume le stesse caratteristiche della passata monarchia costituzionale parlamentare su base democratica, in cui il monarca ha funzioni prevalentemente di rappresentanza, ma le vicende della guerra mondiale hanno profondamente mutato gli indirizzi già neutralistici della politica estera del Paese. Dal 1945 la Danimarca entra a far parte dell’ONU e nel 1949 aderisce alla NATO; nel 1955 si conclude la vicenda riguardante la sovranità sulle isole Faer Oer, grazie a una consultazione che manifesta la volontà degli isolani di un’unificazione con la Danimarca. Con la nascita del Mercato Comune (MEC), di cui la Danimarca non fa parte, le protezioni della CEE non facilitano le esportazioni del burro, del latte e delle uova, tradizionali prodotti danesi, verso la Germania Federale, determinando evidenti difficoltà all’economia danese. Perciò, verso la fine degli anni Cinquanta si avvicina agli altri Paesi scandinavi e questa politica di solidarietà nordica porta la nazione ad aderire nel 1959 alla zona di libero scambio (EFTA) sotto la guida britannica.
Dal punto di vista della politica interna, nel corso del 1947 il re Federico IX (1899-1972) succede al padre e i liberali, al governo durante il conflitto mondiale, cedono la guida del governo ai socialdemocratici. Il partito conserva la direzione del governo fino alla sconfitta nelle elezioni del 1968 e realizza, il 5 giugno 1953, un’importante modifica costituzionale, la Grundlov: la Camera alta, il Landsting, viene soppressa e il parlamento, il Rigsdag, è ora formato da una sola Camera, che ha mantenuto il nome della Camera bassa già esistente, Folketing, composto da 179 membri, eletti a suffragio universale ogni quattro anni. Dal punto di vista della monarchia, il diritto di successione viene di nuovo riconosciuto alle donne e, in effetti, alla scomparsa di re Federico IX, nel 1972, gli succede sul trono la figlia maggiore Margrethe II (1940-). L’usura politica del modello socialdemocratico scandinavo, produce, come negli altri Paesi dell’area, la sconfitta alle elezioni del 1968. Una coalizione di centrodestra guidata da Hilmar Baunsgaard (1920-1989) costituisce il nuovo governo, ma dopo soli tre anni, nel 1971, viene scalzata dai socialdemocratici, che si fanno sostenitori di nuove svolte politiche: coerentemente con l’orientamento della Gran Bretagna, il Paese aderisce alla CEE e, dopo la sanzione formale del referendum dell’ottobre 1972, la Danimarca entra a far parte del Mercato Comune Europeo. Gli anni Settanta, pur con una sostanziale continuità di presenza socialdemocratica alla guida dell’esecutivo, esprimono significative tendenze all’instabilità. Così, nel dicembre 1973, alle legislative i socialdemocratici subiscono una battuta d’arresto e i liberali si aggiudicano la vittoria. A distanza di soli due anni i socialdemocratici si riappropriano della guida del governo, anche se all’inizio possono formare solo un governo minoritario monocolore guidato da Anker Jorgensen (1922-), che mantiene la stessa carica nel 1978, dirigendo un governo di coalizione.
In realtà, l’ingresso nella CEE coincide con le conseguenze in tutta Europa della crisi petrolifera e il governo socialdemocratico è costretto ad adottare una rigida politica di austerità, unica via percorribile per arginare il crescente debito estero, in gran parte dovuto all’importazione di petrolio. La difficile congiuntura economica scatena malumori e sviluppa fra la popolazione tendenze anticomunitarie, largamente condivise dai Paesi dell’area scandinava. Nelle elezioni del 1981 l’elettorato premia, così, una coalizione in cui confluiscono conservatori, liberali, democratici di centro e cristiano popolari, alla cui guida si trova il conservatore Poul Schlüter (1929-). Coerentemente con il nuovo orientamento conservatore, il parlamento danese respinge l’Atto unico europeo, ma la popolazione, facendo riemergere una linea di rifiuto dell’isolazionismo che risale, come si è visto, al secondo conflitto mondiale, approva l’adesione al nuovo documento programmatico con il referendum del febbraio 1986, che nello stesso mese viene sottoscritto. Le elezioni del settembre 1987 riconfermano la precedente coalizione di governo, che si attesta sulle stesse posizioni, senza significativi spostamenti di voti e ancora una volta Schlüter assume la carica di primo ministro. Il felice momento politico della compagine di governo ha breve durata, poiché l’adozione di misure restrittive, rivolte in particolare alle spese statali e al pubblico impiego, suscitano malumori nell’opinione pubblica, che spingono il primo ministro a rassegnare le dimissioni. Nonostante l’esito tendenzialmente negativo delle elezioni anticipate del 1988, in cui i conservatori registrano una perdita di voti, Schlüter riesce a varare una nuova coalizione di governo.
Nel 1992 la nazione, in significativa controtendenza rispetto agli ultimi dieci anni, essendosi ormai dissolto lo spettro della superpotenza sovietica, con un referendum respinge l’adesione al trattato di Maastricht. Nel contempo, Schluter è costretto a dare le dimissioni e cede il posto al socialdemocratico Poul Rasmussen (1943-), che guida una coalizione di centrosinistra. Il premier grazie a un “compromesso nazionale”, nonostante il risultato negativo del primo referendum, riprende i negoziati per l’integrazione europea e un secondo referendum del maggio 1993, con il 58 percento dei consensi, approva la partecipazione al processo di Maastricht. Essa diviene una priorità della politica estera, insieme all’altra dell’impegno nella promozione della democrazia, dei diritti umani, dello sviluppo sostenibile, della stabilità economica e della pace e della sicurezza internazionale. Non casualmente la Danimarca figura tra i maggiori contribuenti mondiali (in termini pro capite) per gli aiuti umanitari e destinati allo sviluppo, nonché nell’ambito delle iniziative di pace dell’ONU. Quanto all’Unione Europea, invece, nel corso degli anni Novanta, se il Paese accetta di rispettare i parametri di Maastricht, decide di non aderire alla fase finale e non entra a far parte dell’Unione monetaria europea, realizzata con l’euro moneta unica dal 1° gennaio 2000. In coerenza con le linee del loro programma politico, nel maggio 2000, i socialdemocratici si esprimono favorevolmente all’adesione alla zona euro, scelta che, sottoposta a referendum nel settembre successivo, viene respinta dall’elettorato. Secondo gli analisti, tale scelta è condizionata dalla preoccupazione che l’adozione della moneta unica possa incidere negativamente sull’economia del Paese, che in questa fase attraversa un felice momento di crescita, con un basso tasso di disoccupazione. La sconfitta al referendum indebolisce il primo ministro e il Partito Socialdemocratico, mentre favorisce notevolmente il Partito Popolare, formazione di estrema destra guidata da Pia Kjærsgaard (1947-), dichiaratamente razzista e xenofobo. Alle elezioni anticipate del novembre 2001 l’elettorato si lascia convincere dal programma della coalizione di centrodestra, incentrato sui temi della sicurezza e dell’immigrazione e attribuisce la vittoria alla coalizione formata dal Partito Liberale e dal partito conservatore. Il governo, guidato dal primo ministro Anders Fogh Rasmussen (1953-) del Partito Liberale, usufruisce dell’appoggio esterno del Partito Popolare.