La cultura greca della mousike: occasioni e contesti della pratica musicale
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Quella greca è, fin dai suoi primordi, una civiltà musicale. La pratica musicale pubblica nasce e vive nel contesto della festa religiosa, salvo allontanarsene in alcuni casi, come gli spettacoli teatrali o gli agoni. La dimensione privata comprende invece una quantità di contesti differenti, dai canti di lavoro a quelli eseguiti durante l’allenamento degli atleti o nei simposi degli aristocratici. Un contesto a parte, con caratteri suoi propri, è infine rappresentato dalla musica per usi militari.
Sin dal III millennio a.C. la pratica musicale pubblica è connessa all’eccezionalità del tempo festivo, tanto che Sofocle nell’Edipo a Colono (1222-1223), definisce la negazione assoluta della festa, ossia la morte, anymenaios alyros achoros (“senza canti, senza suono di lira, senza danze”).
In epoca arcaica, pur nella grande varietà di tradizioni e contesti di una civiltà plurale e policentrica come quella greca, questo tipo di performance trova la sua naturale occasione nella festa religiosa o talvolta nelle celebrazioni private che, quando si svolgono all’esterno della casa, assumono dimensione pubblica, come il rito nuziale. Il legame tra musica ed evento religioso rimarrà saldo ed evidente, specie nelle feste religiose pubbliche, fino all’età ellenistica; lo dimostrano i riferimenti a specifiche prassi esecutive negli Inni di un autore come Callimaco. In altri contesti, come vedremo, tale legame tenderà invece ad affievolirsi. Tracce di musica cultuale si scorgono già nell’epos omerico (si pensi al peana per placare Apollo o alle esecuzioni di canti religiosi raffigurate sullo scudo di Achille). La mousike, intesa come totalità dell’espressione strumentale, orchestica, canora, segue le diverse fasi del rito: la processione verso il luogo sacro (un tempio, un altare o la tomba d’un eroe) e i successivi momenti, come la rievocazione di un’azione mitica, il sacrificio, la libagione e il banchetto rituale, sono sottolineati da particolari forme musicali, sostanzialmente riconducibili alle due tipologie del canto processionale (prosodion) e statico (con o senza danza). Si tratta di contesti fortemente ritualizzati, in cui i cori hanno una struttura ben determinata per il numero, per il sesso e l’età dei membri. Anche la musica è soggetta a norme precise: non a caso, le antiche melodie sono chiamate nomoi (“leggi, consuetudini”). Inoltre alcuni strumenti sono rigidamente associati ad alcuni riti particolari: è il caso dell’aulos detto elymos, usato nei culti della dea Cibele, o dell’aulos gamelios, con una canna più lunga dell’altra, impiegato nei riti nuziali a significare, secondo il lessicografo Polluce (Onomasticon liber, 4, 80), la superiorità dell’uomo sulla donna.
Al contesto religioso appartengono, almeno all’origine, anche gli agoni musicali, che spesso costituiscono la parte conclusiva del rito. I giochi pitici di Delfi, uno dei quattro appuntamenti sportivi panellenici insieme alle gare olimpiche, nemee e istmiche, comprendono fin dai tempi più antichi una sezione musicale che prevede la kitharodia (canto solistico accompagnato dalla kithara), la psile kitharisis (assolo di kithara), l’aulesis (aulos solista) e, pare fino al primo quarto del VI secolo a.C., l’aulodia (canto accompagnato dall’aulos, l’unica specialità che richiede due esecutori). Gli agoni musicali fungono da “vetrina” per le novità stilistiche, espressive e organologiche introdotte dalle scuole musicali delle poleis o dai singoli artisti, cosicché i resoconti di quelle occasioni, con i cataloghi dei vincitori e delle loro innovazioni, costituiscono il primo abbozzo delle storie della musica greca (poi confluite, per esempio, nel De musica pseudoplutarcheo); il che può forse spiegare la forte presenza, in quelle trattazioni, del tema del protos heuretes (la ricerca del primo artista cui si deve una data innovazione).
Accanto all’agone si sviluppa, nel periodo classico, la performance teatrale, in cui l’aspetto religioso convive con quello politico. A dispetto della sua tradizionale ostilità verso l’aulos, sentito come barbaro e pericolosamente volgare, il teatro ateniese classico, tragico e comico, ricorre largamente ai servigi degli auletai. Il musicista è fondamentale nella preparazione del coro, quasi come un moderno maestro concertatore. Inoltre il suono auletico aiuta la mimesi tragica sottolineando con diversi timbri e regioni di altezze il sesso e l’età dei personaggi interpretati da attori e coreuti, che sono sempre uomini.
Durante l’età classica si indebolisce il legame dell’evento musicale con la sua origine cultuale. Tanto lo spettacolo teatrale quanto il concorso musicale si fondano sul gradimento del pubblico; il musicista mutua atteggiamenti e posture dalla tecnica dell’attore e l’esecuzione si arricchisce di elementi paramusicali, ma non per questo meno significativi della stessa musica. La magnificenza delle vesti e degli strumenti, che in epoca arcaica marcava la sacralità dell’occasione e sanciva l’eccezionalità del tempo rituale rispetto al tempo quotidiano, marca ora soprattutto lo status e la fama del musicista e distingue, specialmente nel caso dell’auleta, il grande virtuoso “da concerto” dalla massa degli schiavi o dei prezzolati impiegati in contesti più ordinari.
Questo processo di laicizzazione continua con Alessandro Magno, che fa degli spettacoli musicali un elemento essenziale della sua propaganda. Le numerose vittorie dell’esercito macedone in Oriente sono sottolineate da festival e agoni in cui vengono rappresentati tutti i generi musicali, dall’aulodia alla citarodia ai cori tragici e ditirambici, sicché la grandiosità degli spettacoli è specchio della forza del re. I sovrani ellenistici fanno tesoro di questa lezione: Ateneo di Naucrati nei Sofisti a banchetto, 5, 33 riferisce di una monumentale processione (pompe) voluta in Alessandria da Tolemeo II Filadelfo, in cui avrebbero suonato ben 300 kitharistai con strumenti placcati in oro. Performances pletoriche come queste hanno luogo in una civiltà ormai abbondantemente urbanizzata; e se il numero esagerato di musicisti si può leggere come uno sfoggio di regale munificenza, una tale potenza di suono era forse necessaria, d’altro canto, per vincere il frastuono di una metropoli come Alessandria, in cui doveva già porsi il problema dell’inquinamento acustico – si pensi alla descrizione della folla tumultuante nelle Siracusane di Teocrito.
Vi sono poi contesti in cui la pratica musicale assume una dimensione diversa, che per comodità si può definire “privata”, ma che comprende diversi gradi di privatezza.
Le fonti letterarie alludono spesso a vari tipi di canti di lavoro, come quelli delle donne al telaio o nei campi. Anche gli artigiani alleviano la fatica con delle melodie che possiamo immaginare abbastanza ripetitive come i movimenti richiesti dal lavoro: nelle Rane di Aristofane (v. 1297), Euripide paragona i canti di Eschilo alle cantilene dei cordai. La musica dei pastori e i loro agoni poetico-canori improvvisati sono all’origine della poesia bucolica a cui Teocrito avrebbe dato dignità letteraria. Capita anche che i lavoratori non eseguano da sé la musica, ma siano accompagnati da musicisti: è il caso del rito della vendemmia, rappresentato sullo scudo di Achille come una vera pompe, con tanto di suonatore di phorminx alla testa del corteo (la descrizione si legge nell’Iliade, XVIII, 569-572).
Il suono corposo e penetrante dell’aulos accompagna invece attività che richiedono sforzi intensi e ripetuti, per le quali l’uomo moderno si aspetterebbe probabilmente l’uso delle percussioni. È significativo che esso sia impiegato non soltanto in occasione di sforzi collettivi, che impongono il lavoro coordinato di grandi gruppi di lavoratori (la costruzione delle mura d’una città, il varo d’una nave o i ritmi massacranti dei rematori sulle navi da guerra), ma anche per accompagnare sforzi individuali come quelli degli atleti, sia in allenamento sia in gara. Ciò deve far riflettere sulla reale forza del suono auletico e sulle sue capacità psicagogiche, ben maggiori di quelle dei cordofoni.
Anche i ceti più elevati hanno la loro musica privata. La capacità di suonare uno strumento è considerata fin dall’epoca arcaica segno distintivo della buona educazione aristocratica: sanno suonare la cetra tanto Achille quanto Paride. Tuttavia non sembra appartenere al mondo greco l’idea di una fruizione solipsistica della musica, in cui l’esecutore suona solo per sé: persino nella celebre scena omerica del nono libro dell’Iliade (vv. 186-193) in cui Achille canta versi epici accompagnandosi con la phorminx per alleviare la sua rabbia dopo il litigio con Agamennone, ad ascoltare l’eroe c’è il fido Patroclo. Anche la dimensione privata del far musica, quindi, presuppone sempre un pubblico, sia pure ristretto. Teatro della performance del poeta-compositore aristocratico è abitualmente il simposio, in cui vengono eseguiti canti in forma strofica (le strofe brevi della cosiddetta lirica monodica) sia da un singolo commensale, sia da tutti a turno (i cosiddetti skolia).
Il poeta-compositore ha sempre presenti gli ideali di vita e i progetti politici del gruppo cui appartiene – la hetairia: si pensi ai celebri canti politici di Alceo –, mentre le comunità femminili (thiasoi) utilizzano forme molto simili, ma per scopi cultuali – emblematico il caso di Saffo. L’ideale arcaico del poeta-musicista, che padroneggia il suo strumento a livello non specialistico e non virtuosistico e che con la sua musica cementa il legame identitario tra i membri della comunità, è destinato però a tramontare con la supremazia dei regimi democratici nel V secolo a.C. La musica per le feste private viene sempre più demandata a musicisti d’estrazione servile e i papiri di età ellenistica restituiscono esempi di contratti in cui l’ingaggio di suonatori e danzatori viene affidato a intermediari.
Il contesto delle operazioni militari è forse quello in cui più si misura la distanza tra l’esperienza musicale degli antichi Greci e la nostra, spesso legata all’idea di un esercito che marcia al ritmo delle percussioni: idea estranea all’orizzonte sonoro ellenico, che invece associa il suono dei membranofoni a contesti quali i riti per Cibele o per Dioniso. È l’aulos a dare il ritmo ai soldati in marcia, come ai rematori, almeno fino all’età classica (Tucidide, La guerra del Peloponneso, 5, 70). Con l’ampliamento dei ranghi dell’esercito sotto Alessandro Magno, i vari ordini sono impartiti con le trombe (salpinges), impiegate di norma all’unisono per eseguire differenti formule melodiche e ritmiche.
D’altra parte, la pratica musicale in contesti militari appare complessivamente liminare rispetto al concetto greco di mousike. Sia la lingua greca sia la latina associano quasi invariabilmente al suono della tromba non l’idea del “suonare” o della “melodia”, bensì quella del “comunicare” o “dire” (lat. dicere, gr. semainein), segno che i frammenti melodici eseguiti con la salpinx avevano una funzione più pratica che espressiva.