La croce in Occidente
Il simbolo e il monogramma
«Vexilla regis prodeunt, fulget crucis mysterium, quo carne carnis conditor, suspensus est patibulo»1. Lo splendido inno, ancor oggi di uso, seppur rarefatto, liturgico, fu composto da Venanzio Fortunato (530 circa-607 circa), vescovo di Poitiers, di origini venete ma attivo soprattutto presso la corte dei sovrani della Gallia merovingia2, in particolar modo nella cerchia della santa regina Radegonda (518-587)3, della quale fu anche biografo4. L’inno fu composto per accompagnare l’arrivo a Poitiers di una reliquia della vera croce, il 19 novembre 569, inviata in dono alla regina stessa da Giustino II (565-578), imperatore dei Romani, e destinata proprio a un monastero fondato da Radegonda e intitolato alla santa croce.
L’imperatore bizantino, d’altronde, inviò più o meno in quegli anni, che corrispondono a quelli della conquista longobarda di gran parte della penisola italiana, una reliquia della croce, in una superba stauroteca in forma di croce, in dono anche al papa: è la preziosa Crux Vaticana, gemmata sulla fronte e sul retro sbalzata con i ritratti del sovrano e della moglie Sofia, conservata ancora oggi nel Tesoro di San Pietro in Vaticano5. D’altronde, fin dall’età immediatamente post costantiniana siffatti frammenti avevano iniziato a diffondersi ampiamente nella cristianità, come testimoniato, già nel IV-V secolo, per l’Oriente, da Cirillo, vescovo di Gerusalemme («Testimonia il santo legno della croce, visibile ancora oggi presso di noi, e che a partire da qui ha già quasi riempito tutta la terra abitata, per mezzo di coloro che con fede ne prendono un frammento») e, per l’Occidente, da Paolino, vescovo di Nola («Questa croce, poi, possedendo forza viva nella materia inanimata, dal tempo della sua scoperta, quasi ogni giorno offre particelle del suo legno alle innumerevoli richieste degli uomini senza subire alcun danno e rimanendo come integra, divisa ogni giorno fra quelli che ne prendono e sempre integra per chi la venera»6).
La vicenda della vera croce non può, in effetti, non essere legata a Gerusalemme7, ove, secondo la versione che dovette essere più nota in Occidente, quella di Sant’Ambrogio nel De obitu Theodosii – sul quale si ritornerà – viene ritrovata da Sant’Elena, madre di Costantino, che la ripartisce tra la città santa stessa e Costantinopoli8, ove, almeno sin dalla fine del IV secolo, si ritiene che frammenti del sacro legno siano custoditi, anche se non è chiaro il luogo esatto. Frammenti di croce erano indiscutibilmente a disposizione degli imperatori, certamente per il culto, ma anche per il prestigio che deriva dal poterne disporre ed eventualmente, come nel caso di Giustino II, donarne ad altri potentati della cristianità.
La storiografia bizantina ricorda trasferimenti di altri frammenti oltre a quello costantiniano: sotto Teodosio II (408-450), ancora da Gerusalemme, sotto lo stesso Giustino II, nel 574, da Apamea di Siria e, soprattutto, sotto Eraclio, di nuovo da Gerusalemme, nelle more della conquista araba della Terrasanta. Quest’ultimo sovrano conoscerà anche in Occidente grande popolarità, proprio per le sue relazioni con la vera croce: una notorietà che si riassume – e da questo momento si amplia ulteriormente – nella sua prodigiosa vicenda, così come narrata nel XIII secolo nella Legenda aurea di Jacopo di Varazze9.
Gli sviluppi del culto della croce in Occidente, così come si possono riconoscere tra V e VII secolo, parlano di un’immagine ormai strettamente legata al trionfo del sovrano terreno, che è mimesi del trionfo di Cristo, riassunto nel legno della sua passione, morte e resurrezione: la croce è assimilata alle insegne vittoriose del sovrano: «Vexilla regis prodeunt». Questa immagine del trionfo della regalità nel nome e nel simbolo della croce ha, peraltro, origine antica e certamente rispecchia quanto era già presente nei primi biografi di Costantino, e cioè Lattanzio ed Eusebio di Cesarea, che da subito attribuiscono a un simbolo cristologico (non necessariamente una croce propriamente detta) tutti i successi del sovrano, parlando talvolta con le sue stesse parole o riportandone le confidenze. Tale esaltazione della croce, d’altronde, non sembra anteriore, almeno nell’immaginario visivo, proprio all’età costantiniana, mentre nella patristica, anche latina, essa risulta presente già dalla fine del II secolo dell’era cristiana. Si consideri ora brevemente quest’ultimo aspetto.
Le prime testimonianze della croce devono essere cercate nella letteratura cristiana antica10, e già a partire dall’Antico e dal Nuovo Testamento, in particolare nella teologia paolina, che è tutta innervata da questo tema11. Ma si dovrà attendere il III secolo per vedere la nascita della patristica occidentale nelle grandi figure di Tertulliano e di Cipriano di Cartagine12. Molto probabilmente, tali sviluppi saranno stati consentiti dal rapido diffondersi di traduzioni latine delle Scritture greche, approntate per gli ebrei e per i cristiani che – sempre più numerosi e, agli occhi dei romani, ancora non chiaramente distinti – arrivano in Occidente e in particolare a Roma dopo la diaspora: traduzioni poi cancellate dalla Vulgata di Girolamo, ma in parte riconoscibili sotto la tradizione di Vetus Latina, alla cui ricostruzione si dedicano da molti decenni i monaci benedettini dell’abbazia tedesca di Beuron e diverse équipe di studiosi13. Tertulliano, nato a Cartagine14, versato nel latino e molto probabilmente anche nel greco, nel suo Adversos Iudaeos15 – soprattutto nei capitoli dedicati alla passione di Cristo, alla distruzione di Gerusalemme e alla desertificazione della Giudea, poi ripresi nell’Adversus Marcionem – interpreta ampiamente la croce (sulla scia di Giustino Martire e di Ireneo) come prefigurata e adombrata nell’Antico Testamento. Molteplici sarebbero i richiami simbolici alla croce nella Bibbia ebraica (ove pure mai esplicitamente la si menziona): da Isacco a Giuseppe, dal toro, le cui corna possono essere interpretate come i bracci della croce, a Mosè, che nella battaglia contro gli amaleciti prega estendendo le braccia, appunto, in forma di croce (Es 17,10-13), ma anche il serpente bronzeo affisso sul «legno», che lo stesso patriarca realizza per salvare i giudei idolatri dallo sterminio per opera, appunto, dei serpenti (Nm 21,6-9). Molti altri passaggi sono portati dall’esegeta per mostrare quanto la croce e il suo valore salvifico siano più volte prefigurati, o almeno adombrati, nell’Antico Testamento. Importante è anche la sua interpretazione del signum tau di Ezechiele (9,4), nell’Adversos Iudaeos segno escatologico nel giorno del Giudizio, nell’Adversus Marcionem vera e propria species crucis (immagine della croce), con un’interpretazione che avrà grande fortuna nel Medioevo, dal pastorale vescovile16 alla devozione di San Francesco di Assisi, come una delle tante varianti possibili della croce. E questo è anche il periodo in cui i cristiani iniziano a farsi il segno della croce, in ambito battesimale e domestico17.
Di poco successiva è l’esegesi di Cipriano18, che certamente riprende, senza mai citarlo esplicitamente, il pensiero di Tertulliano. Non lo cita, d’altronde, perché Tertulliano era scivolato in quella che sarà poi definita eresia montanista e aveva subito una damnatio memoriae che, tuttavia, non lo aveva fatto cadere in un completo oblio: fu infatti di sicuro richiamato negli autori successivi, seppur con accenti variamente critici19. In Cipriano il rapporto tra battesimo e signum crucis è ancora più stretto; nei Testimoniorum libri tres adversus Iudaeos (II 14-2220) poi si amplifica la relazione tipo-antitipo tra Antico e Nuovo Testamento con l’introduzione di nuove figure relative alla passione di Cristo quali l’agnello o la pietra scartata dai costruttori, ma sempre con grande attenzione a Mosè e al signum tau di Ezechiele.
Contemporaneamente anche a Roma inizia a diffondersi una produzione apologetica cristiana in lingua latina, ma sembrano comunque dominare ancora gli sviluppi del pensiero dell’Africa romana, grazie a personaggi di origini africane o mediorientali quali Giulio Africano o Arnobio, il quale, secondo quanto sostiene Girolamo, sarebbe stato il maestro di Lattanzio, primo esponente di un filone di storici che poi si affermerà nei secoli IV-VI con Eusebio di Cesarea e i suoi continuatori e imitatori. Il De mortibus persecutorum di Lattanzio è importantissimo per gli svolgimenti futuri relativi all’immagine e al culto della croce, perché è il primo testo cristiano a narrare la cosiddetta visione di Costantino ai Saxa Rubra21.
Il passo è breve e sintetico, ma è il primo che mette sotto il simbolo cristiano tutto il corso vittorioso di Costantino.
«Commonitus est in quiete Constantinus ut caeleste signum dei notaret in scutis atque ita proelium committeret. Facit ut iussus est et transversa X littera ‹I› summo capite circumflexo, Christum in scutis notat. Quo signo armatus exercitus capit ferrum»22. Una storia relativamente semplice: un sogno premonitore, una decisione dell’imperatore, gli scudi vengono segnati e la vittoria arride con facilità. Qual è il simbolo che viene apposto sugli scudi? La tradizione, che dipende piuttosto da Eusebio, e ancor di più dagli sviluppi futuri dell’iconografia, dice: una ‘croce’. Ma in cielo apparve un signum dei non meglio definito che è l’imperatore stesso a interpretare come chi-rho, cioè un simbolo formato dalle iniziali del nome di Cristo in greco, X-P, incrociate a formare un monogramma. Questo, in effetti, fu l’unico segno di croce impiegato da Costantino, per esempio, nella monetazione: un segno che non è esattamente una croce, pur essendo una delle sue più diffuse varianti. Ma mentre il nome dell’Unto poteva ben essere considerato segno di trionfo e vittoria, non poteva esserlo altrettanto una vera e propria croce, almeno agli occhi di un autentico generale romano qual era Costantino.
La versione che solo qualche decennio più tardi fornisce Eusebio è, invece, più complessa. Si consideri, peraltro, che il passo che la contiene è di autenticità discussa, visto che lo stesso Eusebio nella Storia ecclesiastica non dà conto dell’episodio, che non è presente nei testi di Cirillo di Gerusalemme, della metà del IV secolo, né nel De obitu Theodosii (395) di Ambrogio, che pure dà ampio spazio all’Inventio della croce. Nonostante ciò, non è possibile affermare con certezza che il passo sia falso23. Si vedano i brani nei quali è addirittura l’imperatore stesso a rivelare a Eusebio l’accaduto e a confermare con solenni giuramenti le sue parole24. Nel giorno precedente la battaglia di ponte Milvio, lui e tutto l’esercito videro «in pieno cielo e al di sopra del sole, il segno luminoso di una croce, unita alla quale c’era un’iscrizione che diceva: Con questa vinci!»25. Bisogna certamente notare che l’apparizione del segno segue la preghiera che Costantino rivolge allo sconosciuto, per lui, «dio paterno», cioè al dio venerato da Costanzo Cloro, che sembra così diventare un cristiano ante litteram, seppur non dichiarato26. Nel racconto tutti rimangono colpiti dalla visione e incerti sul significato da attribuire ad essa, significato che è rivelato al solo imperatore27:
allora gli si mostrò in sogno Cristo, figlio di Dio, con il segno che era apparso nel cielo, e gli ingiunse di costruire un’immagine simile a quella del segno osservato in cielo e di servirsene come difesa nelle battaglie contro i nemici. Non appena spuntò l’alba, si levò e raccontò agli amici l’arcano: convocò poi presso di sé orefici e artigiani esperti in pietre preziose, si mise a sedere in mezzo ad essi ed illustrò la forma del segno, che ordinò di riprodurre in oro e pietre preziose28.
L’immediatezza narrativa della scena, che restituisce con vivacità uno squarcio di vita vissuta del sovrano, segue un procedimento non rarissimo in Eusebio, che talvolta presenta l’imperatore non come un essere semidivino o comunque assolutamente superiore, secondo gli usi dell’epoca alla corte imperiale, ma come un uomo tra gli uomini – seppur divinamente ispirato –, intento ad attività anche prosaiche29. Tale vivacità, che si penserebbe autentica, certo un po’ contrasta con il clima miracolistico dell’intero passo, che presenta non una ma due apparizioni, la seconda addirittura di Cristo in persona. Tale aspetto miracolistico potrebbe indurre a rifiutare l’autenticità del brano, tuttavia non bisogna applicare categorie contemporanee nel giudizio di opere appartenenti a un passato in cui si era molto più propensi ad accettare il soprannaturale come un dato di fatto: di conseguenza è possibile affermare che niente effettivamente osti all’autenticità del passo in oggetto30. Eusebio così descrive l’insegna che gli mostra Costantino, realizzata qualche tempo dopo dagli orefici sul modello del segno celeste:
In un’alta asta ricoperta d’oro s’innestava un braccio trasversale in modo da formare una croce; in cima a tutto era fissata una corona intessuta di pietre preziose ed oro; su questa corona due segni, indicanti il nome di Cristo, mostravano, per mezzo delle prime lettere (con il rho che si incrociava giusto nel mezzo), il simbolo della formula salvifica: l’imperatore prese poi l’abitudine di portare anche in seguito questo monogramma inciso sul suo elmo. Al braccio trasversale, che era infisso nell’asta, si trovava sospesa una tela di gran pregio; si trattava di un manto regale ricoperto di una grande varietà di pietre preziose, intrecciate tra loro e sfavillanti come i raggi della luce, tutto trapunto d’oro, che a quanti l’osservavano offriva uno spettacolo di una bellezza indescrivibile. Questo tessuto, legato al braccio trasversale, aveva uguale misura sia in lunghezza che in larghezza; l’asta verticale, che dalla base si allungava di molto verso l’alto, proprio sotto il segno della croce, lungo l’orlo superiore del drappo, recava disegnato in oro il busto dell’imperatore caro a Dio insieme con quello dei suoi figli. Di questo segno salvifico l’imperatore si servì sempre come difesa contro tutte le forze avversarie e nemiche, e ordinò che altri oggetti simili ad esso fossero messi alla testa di tutti i suoi eserciti31.
Questo è dunque il famoso labarum costantiniano destinato a tanta fortuna: bisogna ricordare almeno Prudenzio, che nel suo Contra Simmachum (fine IV secolo) così si esprime:
Testis christicolae ducis adventantis ad Urbem, Mulvius, exceptum Tiberina in stagna tyrannum praecipitans, quam victricia viderit armam, maiestate regi, quod signum dextera vindex praetulerit, quali radiarint stemmate pila. Christus purpureo gemmanti textus in auro signabat labarum, clypeorum insigna Christus scripserat, ardebat summis crux addita cristis32.
Al di là degli sforzi di Eusebio, non è propriamente una croce, anzi: il simbolo cristologico vero e proprio è il chrismon, il chi-rho, che diventa simbolo trionfale grazie alla tradizionale corona del vincitore all’interno della quale è collocato. L’asta lunga e quella breve certamente si incrociano a una certa altezza, ma la croce che ne risulta è nascosta dal drappo preziosissimo ricamato con le effigi dei sovrani (il braccio corto sembra servire solo a supportare il tessuto). In forma trionfale e imperiale, conforme alle tipiche insegne militari romane, tale labaro non sembra essere stato realizzato in tempi brevi se si considera la cronologia della nascita dei ‘figli’ di Costantino: nel 312 è nato solo Crispo, Costantino II non nasce prima del 316, e dopo di lui tutti gli altri.
È però certo che quanto Eusebio afferma in merito alla diffusione del labaro e all’uso, da parte di Costantino, del monogramma cristologico trova conferma nella monetazione imperiale e in un certo numero di testimonianze artistiche.
Per quel che riguarda la monetazione, se in passato si è ipotizzata una precoce e amplissima diffusione del chrismon e del labarum nei vari tipi (se non addirittura della croce vera e propria)33, oggi si tende a pensare piuttosto a un uso limitato, tardo, e spesso su tipi non destinati ad ampia circolazione. Secondo la recente puntualizzazione di Lucia Travaini34, la prima apparizione del chrismon su un conio è proprio quella sull’elmo dell’imperatore, in un medaglione battuto dalla zecca di Pavia (la romana Ticinum) nel 315-316, pezzo celebrativo del decennale del regno e non certo destinato ad ampia circolazione35. Esso ricompare su un bronzo del 319 della zecca di Siscia, sempre sull’elmo, mentre dal 330 è segno di una delle sei emissioni della zecca di Arles; dal 335 è presente con maggiore assiduità anche presso altre zecche. Rarissimo è anche un bronzo del 327 con il labarum sul verso, probabilmente mai più ripreso in seguito, battuto a Costantinopoli. Pure è indubbio che ambedue le immagini ‘cristiane’ sono state presenti, seppur sporadicamente, sulle diverse emissioni. In seguito, chrismon e labarum compaiono estensivamente nella monetazione di Costante I (337-350), degli usurpatori Vetranione (350) e Magnenzio (350-353), nonché nelle emissioni della dinastia di Valentiniano. Al tempo stesso, si noti che nessuna delle emissioni di Elena presenta simboli cristiani e che per veder comparire una vera e propria croce, seppur ancora in mano a una Nike, si dovrà aspettare Teodosio II (408-450) in una emissione aurea del 420-421.
In ambito più propriamente artistico, sono più frequenti, invece, le testimonianze del chrismon nella pittura monumentale. Un’ampia campionatura, seppur non esaustiva, è stata presentata di recente, anche se in riferimento soprattutto all’ambito funerario e alla periferia dell’Impero: si può quindi valutare la diffusione del monogramma cristologico costantiniano in tutto l’orbe romano36. Il simbolo appare di norma sulla parete principale dell’insieme o sulla volta, quasi sempre all’interno di una corona ben riconoscibile, e questo sia nella tomba di Nicea che in quelle di Aquincum, Serdica, Tessalonica, Siracusa. Un caso a parte è rappresentato dalla cosiddetta cappella di Lullingstone nel Kent, in Inghilterra, le cui pitture murali sono state recuperate in uno stato frammentario nel sottosuolo e solo parzialmente ricostruite. È stata proposta la restituzione di quella che poteva essere una ‘chiesa domestica’ all’interno di una villa tardo-romana, costituita da un vestibolo e da due aule: in tutti gli ambienti compare, in posizione autorevole, il chrismon, e in tutti e tre i casi esso presenta il chi-rho e l’alfa e l’omega, all’interno di una ghirlanda allusiva alla corona trionfale, in un caso lemniscata. Nel presunto atrio doveva essere posizionato all’interno di una lunetta, come nel caso di alcune delle tombe citate; nelle aule si trovava al centro di una parete che era articolata secondo un decoro complesso che includeva una zoccolatura a finti marmi, una quadratura architettonica, dei personaggi, forse uniti a raffigurare delle scene (tre fanciulli ebrei nella fornace, o vergini sagge e stolte, o pie donne al sepolcro?)37. Anche la datazione è discussa, ma sembra possibile attestarla intorno al 380-385, periodo in cui è certa una nuova occupazione della villa, che aveva conosciuto abbandoni e cambi di destinazione tra la fine del II e la metà del III secolo. Di recente è stata proposta l’identificazione degli ambienti con un battistero38.
Certamente l’importanza di tale testimonianza è notevole perché dimostra l’uso del simbolo cristologico anche in contesti non sepolcrali (seppur ancora alla periferia dell’Impero e in ambito privato) e soprattutto nell’ambito della decorazione monumentale, nel quale gli esempi conservati sono rarissimi.
Un altro ambito in cui il chrismon, il labarum e, progressivamente, la croce monogrammatica o staurogramma (con l’asta verticale arricciolata in alto in forma di rho)39 e la vera e propria croce appaiono di frequente è quello della produzione dei sarcofagi a tematiche cristiane. Senza entrare nelle complesse problematiche di questi manufatti, conservati a centinaia, e in particolar modo in quelle relative alla cronologia e al luogo di fabbricazione, si può comunque osservare che le attestazioni dei simboli suddetti sono frequentissime, soprattutto in un contesto cronologico di IV-V secolo. Al di là delle semplici iscrizioni tombali, in cui pure il chrismon è attestato precocemente, esso si può vedere spesso sui coperchi, al centro o sui lati di essi, ma anche sulle fronti, il più delle volte isolato o affiancato da candelabre o all’interno di elaborate decorazioni vegetali, prettamente aniconiche. Anche la croce vera e propria è molto presente, sulle fronti e sui coperchi, isolata al centro, ripetuta paratatticamente due o tre volte, all’interno di clipei, corone, corone lemniscate, affiancata da personaggi e da figure animali (pecore, pavoni, etc.), ma anche in mano a Pietro nella Maiestas Domini o nelle scene narrative dedicate alla Passione di Cristo. Ed è nell’ambito di queste ultime che può essere riscontrata l’apparizione del vero e proprio labarum, in un’accezione, però, cristianizzata, e cioè senza il drappo purpureo ricamato con le effigi imperiali. Così la croce appare finalmente con chiarezza e piena visibilità, ed è sormontata dal monogramma all’interno della corona trionfale. Tale immagine appare sempre al centro del sarcofago, con due soldati romani svenuti ai piedi e, spesso, sole e luna in alto e, forse, la fenice. Si contano numerosi testimoni di questa tipologia, che può essere o no al centro di un sarcofago ‘della Passione’: molti si trovano a Roma, dove probabilmente essa ha avuto origine, ma anche in Francia e a Gerusalemme40. André Grabar41 vi vide un tentativo, di modesto successo, di raffigurare in immagine la Resurrezione di Cristo attraverso uno schema visuale ben noto agli osservatori del IV-V secolo, e cioè quello dell’insegna militare imperiale romana, quale, infine, il labarum è. Anzi, il simbolo doveva essere ancora più familiare in quell’epoca, viste le deliberate riprese dell’arte trionfale dell’età classica, volute soprattutto da Teodosio I (374-395), Arcadio (395-408), Teodosio II (408-450), in particolare nell’edilizia costantinopolitana. Si pensi soprattutto alle colonne coclidi su modello di quelle romane del II secolo fatte costruire nella capitale dell’Impero d’Oriente da questi sovrani.
Si può forse chiudere qui questa trattazione sulle origini e sulla diffusione dei primi simboli cristiani in forma, anche latamente, di croce, ricordando un’altra considerazione dello stesso Grabar relativa proprio al chi-rho: secondo lo studioso, questa è l’unica creazione iconografica cristiana di cui si conoscano il creatore (Costantino e la sua cerchia), la data (312) e il luogo in cui si è originata (i dintorni di Roma); Grabar lamenta però la «pochezza», o, se si vuole, la modestia dell’invenzione, che dipenderebbe dal modo di esprimersi visivamente dei primi cristiani – e cioè attraverso segni semplicissimi – o, anche, dal desiderio dell’imperatore, ora cristiano, di staccarsi completamente dalla figuratività trionfante del paganesimo ripudiando le immagini42. Non si può, però, essere del tutto d’accordo con lo studioso: visto il seguito che questa immagine avrà nell’arte, nella dottrina, nella tradizione dei cristiani, l’idea costantiniana di unire insieme cristologia e dottrina imperiale, strumento del sacrificio e insegna di vittoria, nome magico ed effigi imperiali – insomma un compendio del mondo che era e una prefigurazione di quello che sarebbe diventato – è idea tutt’altro che modesta ma, invero, straordinaria: «In hoc [signo] vinces».
Per qualche motivo, la questione di Roma è stata appena sfiorata nel repertorio citato sopra43, e questo nonostante il fatto che il monogramma cristologico, unitamente ad altre forme di croce, appaia in questo contesto con una certa frequenza, e fin dall’arte cristiana delle origini. Se ne possono riscontrare esempi nel cimitero degli Aureli, in Calepodio, Callisto, Cimitero Maggiore (dove però i due chi-rho che inquadrano una figura femminile di orante con un bambino davanti sembrano essere elementi decorativi piuttosto che apotropaici), Commodilla, Domitilla, Nunziatella, Panfilo, Pietro e Marcellino, Ponziano, Pretestato, Priscilla, Santa Croce, Sebastiano, via Anapo, ex-Vigna Chiaraviglio, cioè praticamente ovunque, per un totale di trentasei testimonianze44. Singolarmente, nella campionatura sopracitata non appare neanche un esempio precoce, musivo e all’interno di un mausoleo imperiale di età costantiniana qual è il chrismon frammentario, ma riconoscibile con certezza, che orna la nicchia destinata a contenere il sarcofago porfiretico, oggi ai Musei Vaticani, di Costantina (morta nel 354), figlia di Costantino, nel suo stesso mausoleo, oggi noto come chiesa di S. Costanza. Campito sullo sfondo di un cielo bianco con stelle nere a otto punte, il chrismon, in lettere auree, era inserito all’interno di un clipeo a cerchi concentrici neri e rossi45.
Si direbbe questa la prima attestazione conservata di un simbolo cristologico in ambito monumentale, sia pure ancora nell’accezione trionfale del monogramma costantiniano, e, comunque, è un segno della predilezione che la casa imperiale dei secondi Flavi riservò all’‘invenzione iconografica’ del suo fondatore, nonché della sua possibile collocazione tra le decorazioni di edifici a carattere ufficiale (qual era un mausoleo): una collocazione che le sole fonti attestano in altri contesti costantiniani, ad esempio il palazzo di Costantinopoli46. Ed è effettivamente la prima conservata se si esclude la criptica o sincretica ‘croce’ che fa da corona raggiata a Cristo(?)-Helios sulla voltina musiva dell’Ipogeo dei Giuli, nella necropoli sotto la basilica di San Pietro.
Qui, i tre mosaici parietali che rappresentano un pescatore da un lato, Giona dall’altro (o forse Arione, che vive una vicenda simile a quella del personaggio biblico), e un presumibile Buon pastore sulla terza parete, inseriti all’interno di una rigogliosa vegetazione a intrecci vitinei che tutto ricopre, dalle pareti alla volta, in tessere verdi su sfondo giallo allusivo dell’oro (tessere auree sono utilizzate solo per l’aureola e per la veste dell’auriga), possono far pensare a un contesto cristiano – e i più autorevoli studiosi l’hanno effettivamente ipotizzato, seppure con una certa cautela47. In effetti, il parallelismo Cristo-Sole è tutt’altro che estraneo al sentire del momento paleocristiano. Tuttavia, la probabile datazione del mosaico nella seconda metà del III secolo appare ancora problematica per un’immagine di Cristo con il nimbo crucigero, seppur in vesti apollinee, mentre tutte e tre le immagini parietali potrebbero essere anche lette in termini di tradizione iconografica classica, pastorale e mitologica.
Costantino è all’origine di una nutrita serie di fondazioni religiose cristiane in tutto il suo Impero e nella sola Roma il Liber Pontificalis gli assegna ben otto edifici, di fatto i più importanti della città, tra cui le basiliche maggiori di S. Giovanni in Laterano e il suo battistero, S. Pietro in Vaticano, S. Paolo fuori le mura, la Hierusalem (Santa Croce in Gerusalemme); le basiliche cimiteriali di S. Lorenzo, dei Ss. Marcellino e Pietro e forse quella di S. Sebastiano48. Solo alcune di esse si sono conservate, e fra queste nessuna ha mantenuto l’aspetto originario. La ricerca odierna tende a problematizzare le testimonianze del Liber Pontificalis, la cui redazione non è anteriore al VI secolo, e che è dunque una testimonianza di due secoli più tarda rispetto all’età costantiniana; per alcune fondazioni si può pensare a Elena, madre dell’imperatore, per altre ai figli dello stesso49, ma il clima è, comunque, certamente quello. Poco o nulla si sa di certo della decorazione primitiva di queste fondazioni, anche se si è diffuso il senso di un qualche aniconismo di fondo (che certamente contrasta con la straordinaria fioritura della pittura catacombale50, che non può prescindere, in molti casi, da prototipi monumentali). In un contesto aniconico molto probabilmente avranno avuto un ruolo di primo piano i simboli cristiani, innanzitutto quelli allora assimilabili alla croce, o che comunque contenevano una croce. Prescindendo dalla data – le ipotesi oscillano fra la collocazione in un momento costantiniano, immediatamente post-costantiniano o a metà del V secolo circa (quest’ultima datazione è quella favorita dagli studiosi, tuttavia è altamente improbabile che per quasi centocinquanta anni l’abside si sia presentata completamente spoglia)51 – l’unica decorazione monumentale che poteva ragionevolmente includere una croce era quella del catino absidale di S. Giovanni in Laterano, almeno a giudicare dal programma iconografico del mosaico di Jacopo Torriti della fine del Duecento, purtroppo barbaramente distrutto alla fine dell’Ottocento (1874-1886) al fine di ampliare la zona presbiterale52, senza prima avere eseguito una significativa campagna documentaria.
Il programma iconografico è stato però ricalcato pedissequamente dai mosaicisti ottocenteschi53 e mostra dunque ancor oggi quello schema, che si incentra proprio su una monumentale croce: è ben plausibile che una croce, secondo l’ipotesi relativamente recente di Yves Christe, fosse al centro già del primo programma iconografico dell’abside lateranense54. Secondo tale ricostruzione, si sarebbe avuta una croce gemmata al centro, affiancata da tre figure di apostoli su ogni lato. Originario era poi anche il busto di Cristo che si posizionava tra le nubi, al di sopra della croce ma non a contatto con essa e non clipeato. Anzi, la suddetta proposta fa del nucleo ‘busto di Cristo collegato alla croce’ l’elemento di rilievo dell’intera decorazione, che peraltro si è mantenuto nei secoli nel contesto lateranense ed è stato riproposto, seppur con varianti anche di rilievo, in altri contesti absidali romani dei quali si tratterà più sotto.
Per quel che si può vedere oggi, la croce in questione è molto complessa e inserita in uno scenario altrettanto articolato. Si tratta di una croce dorata e gemmata, i cui bracci sono composti di più sezioni (forse un ricordo di una croce-albero della vita), ciascuna terminante all’estremità con perle. All’incrocio dei bracci si trova un simil-cammeo con il Battesimo di Cristo. La croce è posizionata su un piccolo monte e da essa sgorgano i quattro fiumi del paradiso, ai quali si abbeverano due cervi e due agnelli, su sfondo d’oro; al centro della base si trova il modellino di Gerusalemme. In alto, in asse, su sfondo blu, c’è il volto di Cristo55; al di sotto di esso si libra una colomba dello Spirito Santo dalla quale si diparte un raggio di luce (o una cascata d’acqua) che isola e fa da sfondo alla sottostante croce. Nessuno di questi motivi, presi isolatamente o anche nelle loro possibili combinazioni, stonerebbe se collocato agli inizi dell’arte paleocristiana. Rispetto a questo nucleo originale, i santi potrebbero essere stati aggiunti in seguito, da ultima la Vergine che, in pendant con il Battista, forma la tipica iconografia bizantina della Deesis, o preghiera di intercessione.
Come che sia, questo indirizzo altamente simbolico non sembra aver avuto un grande seguito a Roma, anche se il nesso Cristo-croce è presente in altre decorazioni absidali romane; né saranno mai troppo forti, in città, le tentazioni aniconiche56. Pure, una croce ha ruolo di spicco in almeno tre casi: S. Pudenziana, la cappella dei Ss. Primo e Feliciano in S. Stefano Rotondo, Ss. Nereo e Achilleo.
La complessa immagine che decora il catino della piccola chiesa di S. Pudenziana ha il suo centro in una solenne figura del Cristo, in abiti dorati, assiso su un trono gemmato con cuscino purpureo; gli fanno ala gli apostoli. Pietro e Paolo vengono incoronati da due figure femminili. La scena si imposta su uno sfondo altrettanto complesso: in basso vi è una raffigurazione di città, in alto un cielo apocalittico. Il Cristo, in pratica, occupa ambedue gli spazi: la sua testa si staglia sul monte e su questo si erge una magnifica, monumentale croce gemmata, con estremità leggermente patenti. Una composizione a carattere trionfale che diventerà prettamente romana, ma ciò che qui interessa è il nesso Cristo-croce, anche in questo caso molto forte. Se la città, come sembra probabile, è Gerusalemme, allora il monte è il Golgota e la croce gemmata quella postavi da Teodosio II. Il rapporto Cristo-Golgota-croce non ha bisogno di spiegazioni nella sua evidenza salvifica, e qui la croce è ormai già pienamente insegna di vittoria. La decorazione della chiesa è stata condotta, in ultimo, da papa Innocenzo I (402-417), e il rifacimento può essere stato causato dai danni inferti alla città dai visigoti di Alarico nel 410. La data della posa della croce gemmata sul Golgota non è nota con certezza57; secondo una recente ipotesi, questa deve essere fissata al 41658, e quindi anche il mosaico dovrebbe essere datato al 416-41759. Tale data appare precoce, ancorché sufficientemente certa, se si pensa a una datazione di metà V secolo per la basilica lateranense, che quindi avrebbe ripetuto e rielaborato, in qualche modo, l’invenzione del nesso Cristo-croce, avvenuta, nella migliore delle ipotesi, in una chiesetta marginale: un argomento in più, forse, per immaginare una data più alta per la decorazione absidale della mater et caput omnium orbis ecclesiarum, in base al principio per cui il massimo di concentrazione intellettuale e programmatica si dà in contesti di massima frequentazione e visibilità. In tal caso, l’abside pudenziana dipenderebbe da quella lateranense e non il contrario, anche se il rapporto tra il Cristo e la croce appare, comunque, molto diverso.
Ancora diverso è l’uso che si fa della croce nel mosaico conservatosi in una delle due absidiole dell’atrio a forcipe del battistero lateranense60, la cui datazione sembra solidamente ancorata al pontificato di papa Sisto III (432-440). La composizione si articola su un elemento (vegetale?) centrale piuttosto rigido; sullo sfondo blu si svolgono ai lati otto carnosi girali d’acanto in due tonalità di verde e lumeggiati in oro. All’interno del più piccolo girale superiore, pendono sei crocette d’oro e gemme, con gocce di perle. In alto, nel coronamento, l’Agnello e le colombe. Qui la croce non è evidentemente al centro del programma, ma si pone come elemento squisitamente decorativo, seppur a far da tramite tra il mistico Agnello (Cristo) e il mondo naturale. Sebbene in maniera altamente simbolica, in qualche modo il nesso Cristo-croce potrebbe essere identificato anche in questo mosaico absidale.
Nessun dubbio, invece, che il nesso Cristo-croce nel catino absidale della piccola cappella dei Ss. Primo e Feliciano in S. Stefano Rotondo sia in qualche modo dipendente dal contesto lateranense. In questo mosaico, eseguito sotto il papa di origine palestinese Teodoro (642-649), si adotta infatti uno schema di estrema sobrietà, che vede al centro la grande croce gemmata sormontata dal busto di Cristo nel clipeo, eseguito in gesso, di restauro antico61 ma iconograficamente certo. Negli spazi di risulta, solennemente isolati e rigorosamente frontali, appaiono i santi titolari negli abiti caratteristici degli alti funzionari della corte imperiale, clamide bianca con tablion purpureo. Per spiegare questa immagine, singolare nell’orizzonte romano, si è fatto ricorso soprattutto alle origini gerosolimitane del papa: ricordo della croce gemmata del Golgota; rimpianto per la caduta di Gerusalemme in mano araba nel 638; confronti con le ampolle palestinesi di Monza e Bobbio, che pure presentano di sovente il nesso Cristo nel clipeo-croce sottostante. Ma a Roma è sempre più forte la tradizione locale ed è meglio pensare al mosaico dell’abside lateranense per l’elemento centrale; al mosaico della cappella di S. Venanzio62, presso il battistero lateranense, committenza del papa Giovanni IV (640-642), per le figure dei santi in abito di corte; al mosaico di Sant’Agnese63 del tempo di Onorio I (625-638), per lo schema generale della composizione (solo per citare complessi conservatisi), tutti, peraltro, di poco precedenti. Anche un rapporto con lo schema centrale dei menzionati sarcofagi ‘della Passione’ è certamente possibile. Pure, quest’abside mostra innegabilmente forti punti di contatto con le tradizioni figurative dell’Oriente cristiano, forse i più stretti rapporti riscontrabili nell’arte musiva romana.
Ancora più singolare è il caso della chiesa dei Ss. Nereo e Achilleo64 nei pressi delle terme di Caracalla. Qui si è conservato il mosaico originale del IX secolo (sotto Leone III, 795-816) solo sull’arco absidale, mentre per il catino ci si deve affidare all’attuale affresco di fine XVI secolo, che almeno in parte riprende il concetto centrale della decorazione originale, e, soprattutto, al dipinto realizzato prima della distruzione della decorazione carolingia, oggi nella Biblioteca Apostolica Vaticana65. Coesistevano in questo contesto absidale due tendenze opposte, una iconica e l’altra fortemente aniconica e simbolica. Sull’arco trionfale appaiono raffigurate al centro la Trasfigurazione, ai lati la Theotokos e l’Annunciazione; nel catino invece, su sfondo blu, era campita una croce d’oro a placche, che forse sarà stata, nell’originale, gemmata. La croce, che si ergeva da un monte, si stagliava sopra un drappo purpureo e verso di lei convergevano sei agnelli. L’immagine è davvero particolare, anche se, singolarmente presi, gli elementi che compongono la scena, totalmente aniconica, si recuperano nella tradizione romana: innanzitutto la croce (e questa sembra dipendere dal tipo del Laterano quale è, sia chiaro, per certo a partire dal XIII secolo, ma è probabile che essa riprenda l’iconografia più antica); poi gli agnelli, spesso presenti nei contesti absidali romani, seppur mai all’interno dei catini stessi. Poiché Leone III restaurò la chiesa di S. Apollinare in Classe a Ravenna, e forse addirittura rifece i mosaici della parte alta dell’arco absidale, che hanno un’intonazione apocalittica fortemente romana, si è voluto vedere nella decorazione dei Santi Nereo e Achilleo una sorta di parafrasi del programma ravennate, e probabilmente a ragione: anche a Ravenna è presente la Trasfigurazione, una grande croce gemmata è al centro della composizione, sono presenti gli agnelli all’interno del catino stesso e sull’arco absidale (anzi, un incredibile gregge di ben ventisette ovini!)66. Si vedrà oltre che notevoli sono, però, anche le differenze. Certo la singolarità di scelta appare ancora più evidente se si considera il momento storico: dal 730 in poi gli iconoclasti bizantini, scomunicati dal papa di Roma, pongono croci in tutti i catini absidali (il più celebre caso conservato è quello della Santa Irene di Costantinopoli); nel 787 il II concilio di Nicea ristabilisce il culto delle immagini ma le sue decisioni vengono, curiosamente, osteggiate e condannate nei Libri carolini, ratificati nel concilio di Francoforte del 79467; nell’815 inizia una nuova ondata iconoclasta. In questo clima di lotta, che vedeva certamente coinvolti anche il papa e l’imperatore d’Occidente, la comparsa di un monumento simile, raro se non anomalo nel contesto romano, fa certamente pensare: la croce, in questo momento, è veramente al centro di un intensissimo dibattito teologico e, circostanza ancora più interessante, lo è in qualità di soggetto iconografico, da preferirsi o meno alle immagini figurative. Il fatto che nella Roma da sempre favorevole alle immagini, proprio a questo punto, nel primo quindicennio del IX secolo, si scelga una decorazione sostanzialmente aniconica per una fondazione papale di una qualche importanza, è una decisione che fa pensare e la cui spiegazione non è ancora stata effettivamente data; si noti che nulla ostava alla presentazione della Trasfigurazione nel catino absidale, come ne restano a S. Caterina al Monte Sinai, a S. Apollinare in Classe e nel complesso cattedralizio di Napoli (nota dalle fonti)68: tutte e tre sono testimonianze di età giustinianea.
In seguito non si trovano più riproposizioni del soggetto ‘croce’ nei catini absidali delle chiese romane fino alla ripresa, intorno al 1118, nel clima del cosiddetto «renouveau paléochrétien»69, in S. Clemente; ma qui, sulla croce blu campita al centro del catino, si dispongono il Crocifisso e dodici colombe70. Quindi si direbbe che il carattere della composizione sia diverso e che ci si rifaccia piuttosto alle più antiche raffigurazioni della crocifissione, nella zona absidale di S. Maria Antiqua nel Foro ad esempio (ma già interrata in quel momento), o nelle basiliche maggiori, sulle pareti della navata centrale.
Ma un qualche uso della croce come decorazione della volta pure appare documentato in ambiente romano, e si segnala in particolare, per l’interesse complessivo del perduto monumento, il caso dell’oratorio della Santa Croce annesso al battistero lateranense71. Questo, come gli altri due ancor oggi esistenti, dedicati al Battista e all’Evangelista, fu realizzato su committenza del papa Ilaro (461-468). Dopo il saccheggio dei vandali (455) si erano resi necessari molti restauri e donativi alle diverse chiese spogliate e danneggiate; si rese anche necessario il riordino della liturgia stazionale e, in quest’ambito, la nuova cappella fu immaginata quale sostituzione della Hierusalem (odierna Santa Croce in Gerusalemme), luogo fin dai tempi costantiniani ritenuto atto alla custodia delle principali reliquie cristologiche (Elena, d’altronde, certamente risiedette nel palazzo del Sessorium all’interno del quale fu ricavata la Hierusalem)72. Tale cappella, in particolare, fu destinata a ospitare una reliquia della vera croce, proveniente appunto dalla Hierusalem, per la quale il papa fece approntare una stauroteca d’oro e gemme, a sua volta contenuta in una confessio con porte d’argento e arcum aureum, secondo quanto documentato nel Liber Pontificalis (48,3,11-16). Anche per l’edificio fu approntata un’idonea pianta a croce, in quello che appare un progetto di magnificazione visuale che dal frammento del lignum, attraverso la stauroteca e la confessio, giunge fino alle forme architettoniche dell’edificio stesso che, infine, si configura come reliquiario monumentale della croce. E la croce era anche centrale nella decorazione dell’edificio: «interstitia absidarum crustis marmoreis cooperta cum quattuor Sanctae Crucis opere vermiculato signis», sulle pareti del vano centrale pannelli in opus sectile con al centro le croci; «tectum est testitudinatum et elegantissimo aureo musivo pictum, cum quatuor angelis Sanctam Crucem tenentibus», al centro della volta una croce nel clipeo portata da quattro angeli.
E, a riprova dell’ampia diffusione del tema della croce e dei simboli a lei rapportabili nei contesti monumentali legati alla liturgia battesimale, si possono certamente citare i casi dei battisteri di Napoli e di Albenga. Nel primo, più celebre, tutto il programma figurativo e decorativo sembra culminare, nell’ampia volta, con una sorta di glorificazione del simbolo cristiano, nelle forme del chi-rho con alfa-omega, sopra il quale la manus dei porge la corona trionfale del martirio, il tutto campito su di un cielo stellato racchiuso da una spettacolare bordura con uccelli e frutti, a sua volta guarnita da drappi azzurri e oro, verso la quale convergono le bordure, analogamente decorate, che inquadrano le scene maiestatiche, vetero e neotestamentarie, e i simboli degli evangelisti73.
Nel battistero di Albenga, datato agli inizi del VI secolo74, nell’unica nicchia in cui si è conservato, il mosaico mostra nella lunetta una croce gemmata, in un ambiente paradisiaco, verso la quale convergono due agnelli; nella volta, invece, un’immagine assai più complessa nella quale, su tre cerchi di luce di diversi azzurri, si trovano campiti tre chi-rho dorati, singolarmente sovrapposti in profondità, e con l’alfa-omega del pari moltiplicato per tre, circondato da dodici colombe e da un cielo stellato di aspetto assai rigido, quasi che le stelle fossero dei soldati schierati in battaglia. Sembra difficile escludere un’interpretazione trinitaria della singolare immagine, che a suo modo concilia i tre con l’uno, anche se certamente l’utilizzo del chrismon pone l’accento sulla seconda Persona, d’altronde centrale per i cristiani. Sembrerebbe quasi uno di quei tentativi – tutti destinati, come questo, a scarsa fortuna – di raffigurare il dogma della Trinità, che sempre ha stimolato gli iconografi nell’invenzione di immagini originali ma che si armonizzassero con i dettami della fede75.
Un programma analogo, semplificato ma di maggior rilevanza visiva, perché collocato sulla volta della cupola del presbiterio, si può ancora vedere nella chiesa di S. Maria di Casaranello, in provincia di Lecce, databile al V secolo76. Qui campeggia al centro una vera e propria croce d’oro, su tre cerchi concentrici di azzurri diversi campiti di grandi stelle, racchiusi in una cornice di arcobaleno. La decorazione musiva conservatasi è sostanzialmente aniconica (compaiono però piccoli animali, uccelli, pesci), ma nell’abside rimane traccia di un’aureola, segno che vi si doveva trovare una figura, fosse essa di Cristo o della Theotokos. Dunque anche qui, come nei casi romani, ma anche a Ravenna, come si dirà, si ritrova una decorazione che unisce l’immagine iconica a istanze, piuttosto forti, aniconiche e simboliche.
Non devono stupire questi programmi incentrati sul simbolismo della croce e con forte caratterizzazione aniconica. Infatti, tra IV e VI secolo, essi dovevano essere ampiamente diffusi nella cristianità, anche se non necessariamente in conflitto con quelli che, invece, propendevano per composizioni affollate di figure; talora, anzi, le due tendenze confluivano pacificamente in un medesimo contesto decorativo, come in S. Apollinare in Classe a Ravenna, su cui si tornerà. Tendenze certamente aniconiche e simboliche mostrano i due programmi absidali, per le chiese di Cimitile, presso Nola, e di Fondi, fatti eseguire agli inizi del V secolo e descritti da Paolino di Nola nella sua Epistula 32 a Sulpicio Severo. Il linguaggio oscuro, teologico e simbolico, ha fatto sì che molteplici siano state negli studi le interpretazioni e le ricostruzioni, ma una serie di elementi che vi dovevano essere presenti è sicura, così come sicuro è lo sfondo trinitario del programma.
Cimitile è il caso più dibattuto, anche perché il complesso si è conservato in ampie parti, anche con decorazioni musive aniconiche e pitture di epoca tardoantica e altomedievale77. Purtroppo non si è conservato il mosaico absidale della basilica nova, detta anche Apostolorum, che il santo così descrive:
Pleno coruscat trinitas mysterio/stat Christus agno, vox patris coelo tonat/et per columbam spiritus sanctus fluit/crucem coronam lucido cingit globo/cui coronae sunt corona apostoli/ quorum figura est in columbarum choro/pia trinitatis unitas Christo coit/habente et ipsa trinitate insignia/Deum revelat vox paterna et spiritus sancta fatentur crux et agnus victimam/ regum et triumphum purpura et palma indicant/petram superstat ipse petra ecclesiae/de qua sorori quattuor fontes meant/evangeliste viva Christi flumina78.
I problemi di interpretazione sono evidentemente notevoli, ma non c’è dubbio che in posizione di rilievo nell’ambito della composizione doveva trovarsi proprio una croce in clipeo a carattere cosmologico, presumibilmente stellato, racchiuso in una corona di colombe che raffiguravano gli apostoli, che, anzi, in tutte le ricostruzioni sembra assumere una rilevanza particolare, quasi centro della composizione, dalla quale dipendono tutti gli altri simboli e allegorie79. Ma importantissimo, e molto raramente menzionato, è anche il successivo titulus riportato da Paolino, che si trovava sulla fascia che separava il catino dal cilindro absidale:
Hic pietas, hic alma fides, hic gloria Christi/hic est martyribus crux sociata suis/nam crucis e ligno magnum brevis astula pignus/totate in exiguo segmine vis crucis est/hoc Melani sancte delatum munere Nolam/summum Hierosolymae venit ab urbe bonum/sancta Deo geminum velant altaria honorem/cum cruce apostolicos quae sociant cineres/quam bene juguntur ligno crucis ossa piorum/pro cruce ut occisis in cruce sit requies!80
Qui si descrivono le reliquie venerate negli altari, che sono le spoglie dei martiri «uccisi per la croce», che però trovano riposo nella ‘croce’, e questa croce altro non è che un frammento della vera croce inviato da Gerusalemme da Santa Melania e donato a Nola81. Ciò rende ancora più evidente il perché della simbologia trinitaria e cristologica, incentrata però sulla croce, del soprastante catino.
Anche la decorazione della più piccola chiesa di Fondi («basiliculam») presentava uno spiccato carattere simbolico e aniconico; così la spiegava Paolino di Nola a Sulpicio Severo:
Sanctorum labor et merces sibi rite cohaerent/ardua crux pretiumque crucis sublime corona/ipse Deus, nobiles princeps crucis atque coronae/inter floriferi caeleste nemus paradisi/sub cruce sanguinea niveo stat Christus in agno/- agnus ut innocua iniusto datus hostia leto-/alite quem placida sanctus perfundit biantem/spiritus et rutila genitor de nube coronat/et quia praecelsa quasi iudex rupe superstat/bis gemine peculi discors agnis genus haedi/circumstat solium laevos avertitur aedo/pastor et emeritos dextra complecitur agnos82.
Anche in questo caso, al di là dei problemi interpretativi, si può essere ragionevolmente certi che al centro della composizione spiccasse una croce, rossa e gemmata, e che questa fosse posizionata in una sedes crucis et agni in qualche modo rilevata: il monte paradisiaco o, più probabilmente, il trono dell’Etimasia sul monte stesso. Il contesto, come a Cimitile, è comunque trinitario, e la croce assume qui, evidentemente, carattere di mediatrice per il divino, che si sacrifica nel suo farsi anche umano e redimere così l’umanità, attraverso la passione dell’agnello, che è, infine, il trionfo del cristianesimo. In talune ricostruzioni dei programmi absidali paoliniani sono state anche inserite delle figure, cosa improbabile visto il tono generale dei due tituli e dei monumenti conservatisi a Cimitile83.
Il tono generale delle ricostruzioni sembrerebbe dipendere molto dal confronto con un mosaico ancor oggi esistente, il catino absidale di Sant’Apollinare in Classe, della metà del VI secolo, già menzionato. Questa straordinaria immagine concilia istanze fortemente aniconiche con altre che favoriscono la raffigurazione dei personaggi, e coniuga le esigenze terrene dell’episcopato ravennate con i misteri della vita di Cristo. Il catino risulta nettamente distinto in due metà: quella inferiore, terrena, è uno splendido paesaggio di piante, fiori e animali al centro del quale, stante e in atteggiamento da orante, si può vedere il ritratto di Apollinare, proto-vescovo locale, assistito da un gregge di dodici agnelli. Nella metà superiore si può invece scorgere il soggetto principale del catino, la Trasfigurazione di Cristo, presentata anch’essa attraverso un singolare rapporto tra immagini figurative e simboliche. Al centro, che peraltro è centro dell’intera macchina decorativa, termine medio tra terra e cielo, appare una monumentale croce gemmata, dalle estremità patenti, su uno sfondo stellato e in un clipeo anch’esso gemmato: è il Cristo trasfigurato, rappresentato attraverso il simbolo ormai trionfale del suo martirio. Ma poiché le tendenze aniconiche, forti nel IV-VI secolo, mostrano di essersi ormai molto indebolite, pur esprimendosi con il simbolo, gli iconografi non rinunciano del tutto alla figura e il ‘vero ritratto’ del Salvatore è posizionato, quale cammeo, all’incrocio dei bracci della croce, ove risalta con una certa evidenza. In questo rapporto busto di Cristo-croce è difficile non ravvisare una eco di quello stesso rapporto già rilevato nei casi romani, trattati più sopra. La duplice valenza, figurativa e antifigurativa, si riverbera anche sugli altri personaggi della scena evangelica: Mosè ed Elia sono in figura umana, Pietro, Giacomo e Giovanni sono sotto le specie di agnelli. Ma, al di là di questi elementi di complessità, indubbiamente il centro emotivo della composizione è e resta la grande croce d’oro su sfondo azzurro: croce d’oro su sfondo azzurro stellato che già era stata utilizzata a Ravenna per la volta del cosiddetto mausoleo di Galla Placidia della metà del V secolo, una vera e propria croce gemmata, e per la volta della cappella arcivescovile degli inizi del VI secolo, un monogramma cristologico nel clipeo azzurro su sfondo aureo, portato da quattro angeli (come nell’oratorio della Santa Croce presso il battistero lateranense, di poco precedente).
Indubbiamente in Occidente, come d’altronde in Oriente, il culto e lo sviluppo dell’immagine della croce come simbolo di trionfo devono molto alla cosiddetta inventio del santo legno, o di quello che si ritenne essere tale. L’inventio è già ricordata sotto Costantino da Cirillo di Gerusalemme in una lettera inviata a Costanzo II, pur senza molti particolari84.
È difficile che simili testi fossero ampiamente noti in Occidente, mentre di sicuro una certa diffusione dovette avere il De obitu Theodosii, l’orazione funebre dedicata da Ambrogio di Milano all’imperatore defunto nel 395. È in questo testo che si trova un primo, elaborato racconto, in latino, della vicenda gerosolimitana che vede protagonista l’imperatrice Elena e, in secondo ordine, Costantino stesso85, quale destinatario e fruitore delle reliquie che sua madre gli invia dopo averle recuperate, si deve immaginare, in seguito agli sterri del Golgota finalizzati alla costruzione del grande complesso detto Anastasis. A circa settant’anni dal viaggio di Elena in Terrasanta, e tralasciando che il biografo di Costantino, Eusebio di Cesarea, che scrive subito dopo il 337, non fa menzione di questa vicenda, la storia è ormai ben consolidata nelle sue linee essenziali (ma molti dettagli differiscono, anche radicalmente), e la si può verificare nella letteratura storica successiva, sia in lingua greca che in lingua latina:
41. Beato fu Costantino per una tale madre, che volle assicurare al figlio imperatore l’aiuto della protezione divina, perché potesse prendere parte persino alle battaglie in piena sicurezza senza temere i pericoli. Grande donna, che trovò molto di più da offrire all’imperatore di quello che ricevette da lui! Madre in ansia per il figliuolo, nelle cui mani era venuta la sovranità del mondo romano, si recò frettolosa a Gerusalemme e cercò il luogo della passione del Signore. 42. Dicono che dapprima ella fosse una locandiera, conosciuta per la sua professione da Costanzo I, divenuto poi imperatore. Buona locandiera davvero, poiché cercò con tanta diligenza la stalla dove era nato il Signore. Buona locandiera, perché non ignorò l’albergatore che aveva curato le piaghe dell’uomo ferito dai briganti. Buona locandiera, perché preferì essere stimata spazzatura per guadagnare Cristo. Perciò Cristo la elevò dal letame all’impero, conforme a quello che sta scritto: Solleva dalla terra il bisognoso e dal letamaio rialza il povero. 43. Venne dunque Elena, cominciò a passare in rassegna i luoghi santi e dallo Spirito Santo ebbe l’ispirazione di cercare il legno della croce. Si recò sul Golgota e disse: «Ecco il luogo della battaglia, dov’è la vittoria? Cerco il vessillo della salvezza e non lo trovo. Io sono sul trono, disse, e la croce del Signore è nella polvere? Io in mezzo all’oro e il trionfo di Cristo tra le rovine? 44. Vedo cosa hai fatto, o Diavolo, perché fosse seppellita la spada che ti ha annientato. Ma Isacco svuotò i pozzi ostruiti dagli stranieri e non permise che l’acqua restasse nascosta. Si tolgano le macerie perché appaia la vita; si riporti in luce la spada con cui fu mozzato il capo del vero Golia; si squarci la terra perché la salvezza rifulga. Che hai ottenuto, diavolo, nascondendo il legno, se non di essere vinto una seconda volta? Ti ha vinto Maria, che generò il trionfatore, che, senza pregiudizio della sua verginità, diede alla luce Colui che, crocifisso, doveva vincerti e, morto, soggiogarti. Sarai vinto anche oggi, così che una donna scopra le tue insidie. Ella, perché santa, portò nel suo seno il Signore; io, invece, ne ricercherò la croce. Ella ci insegnò che era nato, io dimostrerò che è risuscitato. Ella fece sì che apparisse Dio tra gli uomini, io, quale medicina dei nostri peccati, innalzerò dai ruderi il vessillo divino». 45. Fa scavare il terreno, sgombra il materiale, trova tre patiboli alla rinfusa che le macerie avevano coperto e il Nemico aveva nascosto. Ma il trionfo di Cristo non poteva essere dimenticato. Nel dubbio esita, esita perché donna; ma lo Spirito Santo le suggerisce un’indagine sicura, perché col Signore erano stati crocifissi due briganti. Cerca dunque la croce di mezzo. Ma poteva darsi che le macerie avessero confuso i patiboli, che una caduta ne avesse alterato l’ordine. Ricorre al verso evangelico e trova che sul patibolo di mezzo stava l’iscrizione: Gesù Nazareno, re dei Giudei. Di qui si argomentò l’autentico succedersi degli avvenimenti, mediante l’iscrizione fu chiaro qual era la croce della salvezza. Ciò spiega perché alle richieste dei Giudei Pilato rispose: «Quello che ho scritto, ho scritto», cioè: non ho scritto così per far piacere a voi, ma perché ne avesse conoscenza l’età futura, non ho scritto per voi ma per i posteri; come se avesse detto: Elena possa leggere un testo dal quale riconoscere la croce del Signore. 46. Trovò dunque l’iscrizione, adorò il Re, non il legno, naturalmente, perché questo è un errore dei pagani e una stoltezza degli empi, ma adorò Colui che, nominato dall’iscrizione, era stato appeso a quel legno, Colui che levò la sua voce come uno scarabeo, perché il Padre perdonasse quel peccato ai suoi persecutori. Quella donna ardeva dal desiderio di toccare il rimedio dell’immortalità, ma temeva di calpestare il sacramento della salvezza. Lieta in cuore, ma trepidante nei suoi passi, non sapeva che cosa fare; raggiunse tuttavia la sede della verità. Il legno rifulse e la grazia brillò, sicché, dato che Cristo aveva già visitato la donna in Maria, lo Spirito la visitò in Elena. Le insegnò quello che una donna non poteva sapere e la condusse su una via che un mortale non poteva conoscere. 47. Cercò i chiodi con i quali era stato crocifisso il Signore, e li trovò. Da un chiodo fece fare un morso, un altro fu inserito in un diadema; ne impiegò uno per ornamento, un altro per devozione. Maria fu visitata perché liberasse Eva, Elena fu visitata perché fossero salvati gli imperatori. Mandò dunque a suo figlio Costantino il diadema tempestato di gemme, tenute insieme dalla gemma più preziosa della croce della divina redenzione, connessa al ferro; gli mandò anche il morso. Costantino usò entrambi gli oggetti e trasmise la fede ai suoi successori. Il principio degli imperatori cristiani è una cosa santa che sta sul morso; da esso venne la fede, perché cessasse la persecuzione e ne prendesse il posto la devozione. 48. Agì con saggezza Elena, che ha posto la croce sulla testa dei re, affinché nei re sia adorata la croce di Cristo. Questa non è superbia, ma devozione, perché si rende omaggio alla redenzione santa. Prezioso è dunque un tale timone dell’Impero romano, che governa il mondo intero e riveste la fronte dei principi, affinché siano banditori della fede quelli che solevano perseguitarla. Giustamente il timone sta sul capo, perché, dove ha sede l’intelligenza, ivi sia la tutela. Sul capo la corona, nelle mani le briglie; la corona è formata dalla croce, perché risplenda la fede; anche le briglie sono formate dalla croce, affinché l’autorità governi usando una giusta moderazione, non un’imposizione ingiusta. Anche i principi per concessione della generosità di Cristo ottengano che, ad imitazione del capo del Signore, si dica dell’imperatore romano: Hai posto sul suo capo una corona di pietre preziose. 49. Per tale fatto la Chiesa si rallegra, si vergogna il Giudeo, ma anche si tormenta, perché egli stesso è la causa della propria confusione. Insultando Cristo, in lui ha riconosciuto il re; chiamandolo re dei Giudei, ha confessato il proprio sacrilegio per non aver creduto. «Ecco, dicono, siamo arrivati al punto di crocifiggere Gesù, perché i cristiani risorgano dopo la morte e i morti regnino. Noi abbiamo crocifisso Colui che i re adorano; essi adorano Colui che noi non adoriamo. Ecco, anche un chiodo è oggetto di onore, e quel chiodo che abbiamo piantato perché fosse causa di morte, è rimedio di salvezza e col suo misterioso potere tormenta i demoni. Pensavamo di aver vinto, ma ci confessiamo vinti. Cristo è risorto per la seconda volta, e i principi hanno riconosciuto la sua risurrezione. Vive nuovamente, sebbene invisibile. Ora la lotta contro di Lui è per noi più difficile, più accanito il combattimento. Abbiamo disprezzato uno cui si sottomettono i regni, cui serve il potere. Come resisteremo ai re? E i re si inchinano al chiodo dei suoi piedi». I re lo adorano, i Fotiniani negano la sua divinità! Gli imperatori mettono in onore col loro diadema il chiodo della sua croce, e gli Ariani ne riducono la potenza!86
Come si nota, Elena è la protagonista assoluta della vicenda: venuta in Terrasanta per sostenere il figlio imperatore, riceve dallo Spirito Santo stesso l’ispirazione di cercare la croce; giunta sul Golgota pronuncia una stupenda preghiera, sulla quale si tornerà; fa scavare il terreno, cerca tra le macerie e trova tre croci. Per ispirazione, di nuovo, dello Spirito Santo, si indirizza sulla croce di mezzo e trova il cartiglio con su scritto Iesus Nazarenus rex Iudaeorum; la vera croce viene riconosciuta semplicemente così, per divina ispirazione e grazie al cartiglio, che lì era stato posto non per i Giudei, ma per Elena, che un giorno l’avrebbe trovato. Trova poi i chiodi: uno viene inserito in un diadema gemmato (nel quale, forse, viene inserito anche un frammento della croce), con l’altro fa realizzare un morso di cavallo e invia ambedue gli oggetti a Costantino che, pio sovrano, subito se ne fregia.
Sul diadema e sul morso Ambrogio apre due digressioni. Quella sul diadema è certamente più ovvia: il gioiello, che racchiude la croce, è il timone che guida lo Stato cingendone la testa, sede dell’intelligenza. Quello, però, che sembra stare più a cuore al vescovo milanese è certamente il morso. Il passo citato è introdotto, al capoverso che precede il racconto dell’Inventio, da queste parole:
[…] poiché non si separa da Costantino. E sebbene a costui la grazia del battesimo abbia rimesso tutti i peccati solo in punto di morte, tuttavia, siccome fu il primo imperatore a credere e lasciò dopo di sé ai suoi successori l’eredità della fede, ottenne un posto degno dell’insigne suo merito. Ai suoi tempi si adempì la nota profezia: In quel giorno ciò che sta sopra il morso del cavallo sarà sacro al Signore onnipotente. Lo rivelò sua madre Elena di santa memoria, illuminata dallo spirito di Dio.
La frase in corsivo è citazione biblica e viene poi ripresa ancora al paragrafo 47. Il racconto dell’Inventio è chiuso da queste parole:
50. Domando però: Per quale motivo una cosa santa sul morso, se non perché frenasse l’arroganza degli imperatori, reprimesse la dissolutezza dei tiranni, che, come cavalli, nitrivano smaniosi di piaceri, perché potevano impunemente commettere adulteri? Quali turpitudini conosciamo dei Neroni e dei Caligola e di tutti gli altri che non ebbero una cosa santa sul morso. 51. Quale altro risultato ottenne l’intervento di Elena per guidare il morso se non quello che sembrasse dire per divina ispirazione agli imperatori: Non siate come il cavallo e il mulo e stringesse invece col morso e la museruola le loro mascelle perché governassero i loro sudditi, mentre prima non si riconoscevano responsabilità di governanti? Il potere, infatti, si abbandonava senza ritegno al vizio e, come bestie, i sovrani si contaminavano in sfrenate libidini e ignoravano Dio. La croce del Signore li frenò e li distolse dalle cadute dell’empietà, fece loro alzare gli occhi perché cercassero in cielo Cristo. Deposero la museruola dell’incredulità, accolsero il morso della devozione e della fede, seguendo Colui che dice: Prendete sopra di voi il mio giogo; il mio giogo, infatti, è dolce, e il mio carico leggero. Perciò abbiamo avuto gli altri principi cristiani – con l’eccezione di Giuliano, che lasciò l’Autore della sua salvezza, abbandonandosi all’inganno della filosofia –, perciò abbiamo avuto un Graziano e un Teodosio.
È di certo il morso che interessa al santo vescovo e molto probabilmente la ragione, alla quale pur non si accenna, deve vedersi nella presenza, a Milano, di un analogo oggetto: ancora oggi, d’altronde, il Santo Chiodo – in realtà proprio il morso metallico di un cavallo – è reliquia celeberrima del duomo cittadino, venerata in un solenne triduo (che ha il suo centro nel sabato più vicino al 14 settembre). Le testimonianze storiche della presenza in città di questo oggetto sono certamente molto più recenti, risalgono infatti agli anni Ottanta del XIV secolo87, ma tutto il brano ambrosiano sembra convergere proprio in questa direzione, e d’altronde la tradizione milanese ricorda che esso era stato un dono di Teodosio al vescovo, che, per di più, era già montato in un reliquiario aureo in forma di croce gemmata, seppur di forme, più probabilmente, medio-bizantine.
Ma Ambrogio, oltre a creare la santità di Elena – da cui ancora sarebbero dipese le scelte degli a lui contemporanei Graziano e Teodosio, di cui sta tessendo l’elogio funebre, e la devozione al Santo Chiodo della cattedrale milanese –, innalza, per bocca dell’imperatrice, una vera e propria laus sanctae crucis. Nella preghiera che l’imperatrice rivolge al Cielo affinché le faccia recuperare la croce, questa è: «vittoria», «vessillo della salvezza», «trionfo di Cristo», «spada» che ha annientato il diavolo, «pozzo» di Isacco, pieno d’acqua, «vita», «spada» con cui fu mozzato il capo a Golia, «salvezza» e, infine, «vessillo divino»: dunque, quasi una summa di quella che era, e sarà, la teologia della croce a sostegno di molte fra le immagini, in buona sostanza tutte trionfali, della croce nei secoli a venire fino a oggi88.
1 «Le insegne del re avanzano, risplende il mistero della croce, dove il creatore della carne è sospeso sul patibolo, nella carne» (Venance Fortunat, Poèmes, Livres I-IV, éd. par M. Reydellet, Paris 1994, lib. II, 6, Hymnus in honore sanctae crucis, pp. 57-58).
2 Venanzio Fortunato tra Italia e Francia, Atti del Convegno internazionale di studi (Valdobbiadene-Treviso 17-19 maggio 1990), a cura di T. Ragusa, B. Termite, Treviso 1993.
3 Radegonde de la couronne au cloître, éd. par R. Favreau, Poitiers 2005.
4 Venanzio Fortunato, Vita dei santi Ilario e Radegonda di Poitiers, a cura di G. Palermo, Roma 1989. Per la reliquia della croce si veda in partic. pp. 30-32, con menzione delle altre fonti.
5 V. Pace, G. Sante, P. Radiciotti, La Crux Vaticana o Croce di Giustino II. Museo Storico Artistico del Tesoro di San Pietro, Città del Vaticano 2009.
6 Un vero tour de force intellettuale questo di Paolino. Si veda una discussione in E. Cattaneo, L’encomio della croce nell’omiletica greca (IV-VII sec.), in La croce. Iconografia e interpretazione (secoli inizio XVI), Atti del Convegno internazionale di studi (Napoli, 6-11 dicembre 1999), 3 voll., a cura di B. Ulianich, U. Parente, Napoli 2007, I, pp. 153-221, in partic. 153-154.
7 A. Frolow, La relique de la vraie croix. Recherches sur le développement d’un culte, Paris 1961, pp. 55-72.
8 La seconda ‘capitale’ della croce, si potrebbe dire: cfr. ivi, pp. 73-94.
9 Cfr. M. della Valle, La croce in Oriente, in questa stessa opera.
10 M. Simonetti, E. Prinzivalli, Storia della letteratura cristiana antica, Bologna 20112.
11 A. Pitta, Lo “scandalo della croce” (Gal 5, 11). La centralità della croce nel pensiero paolino, in La croce. Iconografia e interpretazione, cit., I, pp. 97-117.
12 Per una bibliografia recente degli studi su entrambi i padri si veda M. Simonetti, E. Prinzivalli, Storia della letteratura cristiana antica, cit., p. 600.
13 Si veda il grande progetto di pubblicazione integrale dei documenti esistenti in corso presso l’editore Herder di Freiburg im Breisgau: Vetus latina: die Reste der altlateinischen Bibel, hrsg. von R. Gryson.
14 Si vedano le poche notizie sulla sua vita e una presentazione del suo pensiero in M. Simonetti, E. Prinzivalli, Storia della letteratura cristiana antica, cit., pp. 187-201.
15 Tertulliano, Polemica con i Giudei, a cura di I. Aulisa, Roma 1998.
16 Ancora oggi nella Chiesa ortodossa si usano pastorali a forma di Tau.
17 Si veda T. Piscitelli Carpino, La croce nell’esegesi patristica del II e III secolo, in La croce. Iconografia e interpretazione, cit., I, pp. 129-152, in partic. 141-145.
18 Si vedano le notizie intorno alla sua vita e una presentazione del suo pensiero in M. Simonetti, E. Prinzivalli, Storia della letteratura cristiana antica, cit., pp. 201-211.
19 C. Mohrmann, Saint Jérôme et Saint Augustin sur Tertullien, in Vigiliae christianae, 5 (1951), pp. 111-112.
20 Si tratta di una sorta di raccolta di citazioni bibliche a supporto e interpretazione di tesi cristiane, da 14. Quod ipse sit iustus quem Iudaeai occisuri sunt, a 22. Quod in hoc signo crucis salus sit omnibus qui in frontibus notentur.
21 C’è però da tenere presente che tale testo non dovette godere di grande circolazione ai suoi tempi, almeno considerando che ne esiste un solo testimone medievale manoscritto, e per di più dell’XI secolo. Difficile però immaginare che non fosse noto a Eusebio di Cesarea: ambedue avevano vissuto alla corte imperiale, Lattanzio come precettore del primogenito dell’imperatore, lo sfortunato Crispo, fino a poco prima del 326, il secondo come collaboratore e biografo di Costantino stesso negli anni Trenta del IV secolo.
22 Lact., mort. pers. XIV 5-6: «Costantino viene avvertito in sogno di fare mettere sugli scudi il segno celeste e poi di iniziare il combattimento. Egli obbedisce e fa scrivere sugli scudi il nome di Cristo: una X attraversata da una I con l’estremità superiore a forma di riccio. Armato l’esercito di tale segno, si sguainano le spade».
23 Si veda la discussione sull’autenticità del passo, in Eusebio di Cesarea, Sulla vita di Costantino, a cura di L. Tartaglia, Napoli 20012, p. 59 seg.
24 Ivi, p. 59.
25 Ivi, p. 60.
26 Ma era Sol Invictus il dio di Costanzo Cloro, che avviava in questo modo la complessa dialettica tra divinità solare unica, unico vero dio, Cristo sole, Costantino Helios, che fa da sfondo alla conversione dell’imperatore: si veda M. Bergmann, Konstantin und der Sonnengott. Die Aussagen der Bildzeugnisse, in Konstantin der Grosse. Kolloquiumsband, Internationales Kolloquium (Trier, 10-15 Oktober 2005), hrsg. von A. Demandt, J. Engemann, Trier 2007, pp. 143-161.
27 Sembra convincente l’ipotesi di G. Calcani, La pratica divinatoria e la visione della croce in Costantino, in La croce. Iconografia e interpretazione, cit., I, pp. 129-152, in partic. 223-230, che vi vede appunto la cristianizzazione, neanche troppo accentuata, delle pratiche divinatorie dell’antichità classica.
28 Eus., v.C. I 29-36, trad. L. Tartaglia, Sulla vita di Costantino, cit., p. 60.
29 Un caso simile nella lettera a Macario sulla costruzione e decorazione del Santo Sepolcro, ivi, pp. 140-141.
30 Si veda un’opinione favorevole all’autenticità in Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, a cura di L. Franco, Milano 2009, pp. 118-119.
31 Eus., v.C. I 31,1-3, trad. L. Tartaglia.
32 «Il Milvio, precipitando nelle acque del Tevere il tiranno, ha ben mostrato quale divinità ha visto guidare le armate vittoriose del re cristiano che avanzava verso l’Urbe, quale insegna la vindice destra brandiva, quale stemma scintillava sulle lance. Era Cristo, il cui nome, tessuto in oro e gemme, era inscritto sul labaro purpureo; il Cristo aveva scritto il segno sugli scudi, sulla cresta degli elmi brillava la croce» (Prudence, III, Psychomachie, Contre Symmaque, éd. par M. Lavarenne, Paris 1948, 481, p. 152).
33 Ad esempio, si veda già A. Alföldi, The Helmet of Constantine with the Christian Monogram, in Journal of Roman Studies, 22,1 (1932), Papers dedicated to Sir George Macdonald K.C.B., pp. 9-23.
34 L. Travaini, La croce sulle monete da Costantino alla fine del Medioevo, in La croce. Iconografia e interpretazione, cit., II, pp. 7-40, in partic. 8-12. Cfr. F. Carlà, Le iconografie monetali, in questa stessa opera.
35 Evidentemente il tipo era noto a Eusebio di Cesarea.
36 A. Barbet, Le chrisme dans la peinture murale romane, in Konstantin der Grosse. Kolloquiumsband, cit., pp. 127-141.
37 Ivi, pp. 131-134.
38 M. Ghilardi, Le pitture della villa di Lullingstone. Quaranta anni dopo lo scavo: note per una rilettura, in Rivista di archeologia cristiana, 79 (2003), pp. 289-312.
39 Sarebbe la contrazione di stauros, croce, appunto, in greco.
40 Si veda il Repertorium der christlich-antiken Sarkophage, hrsg. von F.W. Deichmann, T. Ulbert, et al., 3 voll., Mainz 1967-2003.
41 A. Grabar, Le vie dell’iconografia cristiana. Antichità e Medioevo, a cura di M. della Valle, Milano 2011.
42 Ivi, pp. 42-44.
43 A. Barbet, Le chrisme dans la peinture murale romane, cit.
44 Così in A. Nestori, Repertorio topografico delle pitture delle catacombe romane, Città del Vaticano 19932.
45 S. Piazza, 1c. Un frammento del rivestimento dei sottarchi. Il chrismon fra le stelle, in M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico e le nuove immagini 312-468, Milano 2006, pp. 69-71.
46 Cfr. M. della Valle, La croce in Oriente, in questa stessa opera.
47 Si veda P. Liverani, G. Spinola, P. Zander, Le necropoli vaticane, Milano-Città del Vaticano 2010, pp. 114-119, ove si insiste molto sulla cristianità del ciclo che addirittura «è il primo mosaico cristiano e rappresenta un anello essenziale per la comprensione dello sviluppo iniziale di quest’arte» (p. 119).
48 S. de Blaauw, Konstantin als Kirchenstifter, in Konstantin der Grosse. Kolloquiumsband, cit., pp. 163-171.
49 Sarebbe il caso della basilica di S. Pietro, opera di Costante: G.W. Bowersock, Peter and Constantine, in St. Peter’s in the Vatican, ed. by W. Tronzo, New York-Cambridge 2005, pp. 5-15.
50 Per tale ricchezza si veda di recente F. Bisconti, Le pitture delle catacombe romane. Restauri e interpretazioni, Todi 2011.
51 Opinione completamente diversa e contraria in B. Brenk, The Apse, the Image and the Icon, Wiesbaden 2010, p. 27.
52 Si veda M. Morbidelli, L’abside di S. Giovanni in Laterano, Roma 2010.
53 Come dimostrato dai ben noti calchi che ne furono tratti, recentemente riscoperti: A. Tomei, Iacobus Torriti Pictor. Una vicenda figurativa del tardo Duecento romano, Roma 1990, pp. 77-98.
54 Y. Christe, A propos du décor absidale de Saint-Jean du Latran a Rome, in Cahiers Archéologiques, 20 (1970), pp. 197-206. Il mosaico è datato al V secolo, senza particolari fondamenta documentarie, ma non potrebbe essere possibile, per una decorazione cautamente aniconica, immaginare un’origine più antica, almeno per il suo nucleo centrale? Anche la metà del IV secolo è stata proposta, si veda R. Warland, Das Brustbild Christi. Studien zur Spätantiken und Frühbyzantinischen Bildgeschichte, Rom-Freiburg-Wien 1986, pp. 31-41; e anche M. Andaloro, S. Romano, L’immagine nell’abside, in Id., Arte e iconografia a Roma. Da Costantino a Cola di Rienzo, Milano 2000, pp. 93-132, in partic. 94-96, 100-102.
55 Nel Duecento si inserì in questo punto un mosaico molto più antico, probabilmente quello della decorazione originale; con meno successo, un’operazione simile venne tentata anche alla fine dell’Ottocento. D’altronde il busto di Cristo nelle nubi, secondo tradizione apparso miracolosamente nel catino absidale, è diventato nei secoli il simbolo stesso della basilica lateranense.
56 A. Ballardini, S. Casartelli Novelli, «Aula dei claris radiat speciosa metallis». La politica “iconofila” e lo speciale “génie des images” della Chiesa Apostolica di Roma mater ecclesia catholica nei manifesti absidali PLEBI DEI “inspirés uniquement par l’Apocalypse” (secoli IV-XIII), in Medioevo: immagini e ideologie, Atti del convegno internazionale di studi (Parma 23-27 settembre 2002), a cura di A.C. Quintavalle, Milano 2005, pp. 145-164.
57 E una croce così posizionata doveva esistere già alla fine del IV secolo, almeno secondo i resoconti della cosiddetta pellegrina Egeria.
58 G. Fiaccadori, ΠΡΟΣΟΨΙΣ non ΠΡΟΟΠΙΣ, Efeso, Gerusalemme, Aquileia (nota a IERH 495, 1s.), in La Parola del Passato, 58 (2003), pp. 182-249.
59 Per dubbi, cautele, diverse valutazioni si veda l’ancora fondamentale G. Matthiae, Mosaici medievali delle chiese di Roma, 2 voll., Roma 1967, I, pp. 55-76; di recente H. Brandenburg, Le prime chiese di Roma (IV-VII secolo), Milano 2004, pp. 137-142, 331 (con bibliografia): non è però chiaro da dove scaturisca l’attribuzione della croce gemmata del Golgota a Teodosio I (384-395).
60 G. Matthiae, Mosaici medievali, cit., pp. 83-86.
61 G. Basile, Il restauro del mosaico absidale della Cappella dei Santi Primo e Feliciano in Santo Stefano Rotondo a Roma, in Santo Stefano Rotondo in Roma: archeologia, storia dell’arte, restauro, Atti del Convegno internazionale (Roma 10-13 ottobre 1996), hrsg. von H. Brandenburg, J. Pál, Wiesbaden 2000, pp. 151-153.
62 G. Matthiae, Mosaici medievali, cit., pp. 191-198.
63 Ivi, pp. 169-179.
64 Ivi, pp. 225-233; G. Curzi, La decorazione musiva della basilica dei SS. Nereo e Achilleo in Roma: materiali ed ipotesi, in Arte medievale, s. II, VII,2 (1993), pp. 21-45.
65 A. Herz, Cardinal Cesare Baronio’s Restoration of SS. Nereo ed Achilleo and S. Cesareo de’Appia, in Art Bulletin, 70,4 (1988), pp. 590-620.
66 H. Belting, I mosaici dell’aula leonina come testimonianza della prima “renovatio” nell’arte medievale di Roma, in Roma e l’età carolingia, Atti delle giornate di studio dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Roma (3-8 maggio 1976), Roma 1976, pp. 167-182, in partic. 175-176.
67 In questa assise si condanna anche l’eresia adozionista spagnola dell’VIII secolo: più difficile però vedere gli echi di questa vicenda sul mosaico in oggetto, secondo l’opinione di D. Giunta, I mosaici dell’arco absidale della basilica dei SS. Nereo e Achilleo e l’eresia adozionista del sec. VIII, ivi, pp. 195-200.
68 C. Ihm, Die Programme der christlichen Apsismalerei vom vierten Jahrhundert bis zur Mitte des achten Jahrhunderts, Wiesbaden 1960, p. 178.
69 H. Toubert, Un’arte orientata: riforma gregoriana e iconografia, a cura di L. Speciale, Milano 2001.
70 J. Croisier, I mosaici dell’abside e dell’arco absidale della chiesa superiore di San Clemente, in S. Romano, Riforma e tradizione 1050-1198, Milano 2006, pp. 209-218; S. Riccioni, Il mosaico absidale di San Clemente a Roma. Exemplum della chiesa riformata, Spoleto 2006.
71 S. Pennesi, La decorazione a mosaico e ad opus sectile dell’oratorio perduto della Santa Croce, in M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico, cit., pp. 432-436; D. Senekovic, S. Giovanni in Fonte, in P.C. Claussen, Die Kirchen der Stadt Rom im Mittelalter 1050-1300, II, S. Giovanni in Laterano, Stuttgart 2008, pp. 355-393, in partic. 388-391. Qualcosa di simile fu poi realizzato dal papa Simmaco (498-514) anche presso il battistero di S. Pietro in Vaticano: cfr. A. Frolow, La relique de la vraie croix, cit., p. 173.
72 D. Colli, Il palazzo Sessoriano nell’area archeologica di S. Croce in Gerusalemme: ultima sede imperiale a Roma?, in Mélanges de l’Ecole française de Rome. Antiquité, 108, 2 (1996), pp. 771-815.
73 F. Bisconti, La croce nell’arte paleocristiana in Campania, in La croce. Iconografia e interpretazione, cit., I, pp. 259-270: si veda anche la croce gemmata sul monte da cui sgorgano i quattro fiumi del Paradiso, affiancata dalle colombe, in una perduta lunetta della cappella di S. Matrona nella chiesa di S. Prisco, a San Prisco, in provincia di Caserta, p. 269, fig. 8.
74 M. Marcenaro, Il battistero paleocristiano di Albenga. Le origini del cristianesimo nella Liguria marittima, Recco 1993.
75 Si veda A. Grabar, Le vie dell’iconografia cristiana, cit., pp. 115-129.
76 M. Falla Castelfranchi, La chiesa di Santa Maria della Croce a Casaranello, in Puglia preromanica, a cura di G. Bertelli, Milano 2004, pp. 161-175, con datazione però al VI secolo.
77 T. Lehman, Paulinus Nolanus und die Basilica Nova in Cimitile/Nola, Wiesbaden 2004.
78 «La Trinità risplende nel suo totale mistero. Cristo è rappresentato come un agnello, la voce del Padre tuona dall’alto, lo Spirito Santo scende dal cielo come una colomba. La croce è circondata da una corona che è simile ad uno splendido globo e, intorno a questo cerchio, fanno corona gli apostoli, rappresentati come un coro di colombe. La santa unità della Trinità confluisce nel Cristo ma la Trinità mantiene il suo triplice simbolismo. La voce del Padre rivela Dio e lo Spirito confessa le cose sante. La croce e l’agnello mostrano la vittima, la porpora e la palma mostrano la regalità e il trionfo. La Roccia sta sulla roccia che è la Chiesa, dalla quale scorrono quattro fonti, che sono gli evangelisti, fiumi d’acqua viva di Cristo». Paul. Nol., epist. 32, in PL 61, c. 336.
79 Si veda il confronto delle diverse ricostruzioni in M. Marcenaro, Il battistero paleocristiano di Albenga, cit., p. 157; si veda anche F. Bisconti, Testimonianze iconografiche da Cimitile: monumenti e documenti, in Cimitile e Paolino di Nola. La tomba di San Felice e il centro del pellegrinaggio. Trent’anni di ricerche, Atti della Giornata tematica dei seminari di archeologia cristiana (Roma 9 marzo 2000), a cura di H. Brandenburg, L. Ermini Pani, P. M. Barbini, Città del Vaticano 2003, pp. 229-244.
80 «Qui l’autentica devozione, qui la benefica fede, qui la gloria di Cristo. Qui è la croce associata a coloro che subirono il martirio per essa. Poiché il piccolo frammento del legno della croce è pegno potente; nel piccolo frammento donato da santa Melania, sommo bene che proviene da Gerusalemme, si mantiene intera la potenza della croce. Il santo altare custodisce un duplice onore a Dio, poiché unisce la croce con le ceneri di coloro che per essa ricevettero il martirio. Quanto è giusto che le ossa dei santi riposino sulla croce, acciocché sulla croce riposino coloro che per essa sono morti». Si veda supra, nota 78
81 Per il reliquiario che doveva contenerlo si veda A. Ruggiero, Teologia e simbologia nell’immagine della croce preziosa descritta da Paolino di Nola nel Carm. XIX, 608-609, in Cimitile e Paolino di Nola, cit., pp. 245-266; è un ulteriore segno dell’attenzione precoce che Paolino rivolge alla croce nelle sue complesse varianti iconografiche delle origini: croce che è centrale in gran parte della sua produzione letteraria.
82 «Come è giusto che la fatica e la ricompensa dei santi siano qui riunite. L’ardua croce e la corona che è la ricompensa della croce. Dio stesso, che è stato il primo a portare la croce e a meritare la corona, Cristo, appare come un candido agnello sotto la croce insanguinata in un paradisiaco bosco infiorato. L’agnello, che è stato dato come vittima innocente per una morte ingiusta, con espressione rapita è sormontato dall’uccello della pace che simboleggia lo Spirito Santo ed incoronato dal Padre che esce da una nube risplendente (o fulva?). L’agnello sta quasi come un giudice su di una roccia. Il suo soglio è circondato da due gruppi di animali: alla sua sinistra i capri, alla sua destra gli agnelli meritevoli ai quali fa un gesto di accoglienza». Paul. Nol., epist. 32, in PL 61, c. 339. Interessante è anche la successiva descrizione delle reliquie sottostanti, deposte in una «regia purpureo marmore crusta»; non vi è però la reliquia della croce.
83 Cfr. C. Ihm, Die Programme der christlichen Apsismalerei, cit., pp. 181-182.
84 Cfr. M. della Valle, La croce in Oriente, in questa stessa opera.
85 Al contrario di quanto avviene nelle fonti orientali, ogni riferimento al vescovo Macario è assente.
86 La traduzione è tratta da Sant’Ambrogio, Discorsi e lettere/I, Le orazioni funebri, a cura di G. Banterle, Milano, I, Roma 1985, De obitu Theodosii-In morte di Teodosio, pp. 211-251, in partic. 241-249.
87 M. Schulze-Dörrlamm, Heilige Nägel und heilige Lanzen, in Byzanz – das Römerreich im Mittelalter, I, Welt der Ideen, Welt der Dinge, hrsg. von F. Daim, J. Drauschke, Mainz 2011, pp. 97-172, in partic. 119-128. Il morso dovrebbe essere di fabbricazione sud- o est- Europea tra il V secolo e gli inizi del tardo Medioevo: ivi, p. 125. Curioso che la studiosa non utilizzi qui il De obitu Theodosii, peraltro solo fugacemente citato altrove.
88 Di grande rilievo la mediazione carolingia, già vista in arte con il mosaico absidale dei SS. Nereo e Achilleo in Roma; ma si consideri anche la fondamentale opera letteraria di Rabano Mauro, il Liber sanctae crucis, tutta incentrata sull’esaltazione della croce attraverso la teologia, la poesia, la miniatura: G. d’Onofrio, La teologia della croce in epoca carolingia, in La croce. Iconografia e interpretazione, cit., II, pp. 271-319.