La cristianizzazione dello stato
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La conversione di Costantino, un evento ancor oggi discusso e che probabilmente risultò imprevedibile anche ai contemporanei, apre un periodo nuovo nella storia dell’impero, che soprattutto con i suoi successori si avvia verso la cristianizzazione. L’autorità imperiale si fa garante della retta fede della Chiesa, ma questo, invece di portare a posizioni unitarie, finisce spesso per esasperare le divisioni e gli scismi che si ripercuotono anche sullo stato.
La vulgata comunemente diffusa, sia a livello aneddotico sia artistico (basta pensare al monumentale Ciclo della Croce di Piero della Francesca ad Arezzo), vuole che Costantino abbia mutato il suo atteggiamento verso il cristianesimo in seguito ad una visione che gli appare in cielo il 27 ottobre del 312, alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio. Le testimonianze principali, quelle di Lattanzio ed Eusebio, non collimano perfettamente, ma sembra comunque di poter evincere che l’imperatore abbia creduto di vedere una figura a forma di croce intorno al sole, e che in seguito a ciò abbia deciso di apporre un segno (con ogni verosimiglianza la celebre combinazione delle lettere greche chi e rho, allusione al nome di Cristo) sugli scudi dei suoi soldati. Recentemente è stato sottolineato come questa scelta sia per molti aspetti sorprendente. Una serie di indizi, infatti, lascia dedurre che, almeno fino al 310, Costantino sia senz’altro pagano; agli inizi del IV secolo, inoltre, la Chiesa è profondamente divisa, dopo le persecuzioni di età tetrarchica, tra chi auspica il perdono per coloro che, nell’ora del pericolo, hanno scelto di abiurare (i cosiddetti lapsi), e chi invece adotta una posizione più rigorista. Lo stesso cristianesimo non è affatto una religione maggioritaria: sia in Oriente che in Occidente larghissimi strati della popolazione (sia tra i ceti dirigenti, sia tra quelli più umili) restano indifferenti, se non direttamente ostili, al suo messaggio.
È stato dunque affermato che, nell’affidarsi alla protezione di Cristo, non vi sia un calcolo politico quanto un autentico impulso personale; la successiva (e per molti versi imprevedibile) vittoria di Ponte Milvio non fa che confermare Costantino nelle sue convinzioni e apre la strada a quella cristianizzazione dello stato che giunge a compimento in meno di un secolo. La conversione dell’imperatore, secondo un’interpretazione risalente a Baynes ma diffusa ancor oggi, non è dunque un atto ineluttabile, ma un “masso erratico che ha deviato il corso della storia umana”.
C’è da dire, peraltro, che Costantino non mira affatto a soppiantare il culto pagano; la sua adesione al cristianesimo è innanzitutto personale, anche se, com’è ovvio, questo finirà per avere ripercussioni sempre più pesanti anche a livello pubblico, a partire dal cosiddetto editto di Milano con il quale, in accordo con Licinio, viene ristabilita nell’impero la libertà di culto. Agli anni immediatamente successivi alla vittoria di Ponte Milvio, in particolare, sembra datare la costruzione delle prime due grandi basiliche cristiane della città di Roma, quella del Laterano e la cosiddetta Basilica sessoriana (oggi Santa Croce in Gerusalemme), ricavata da un atrio di un palazzo imperiale. Per quanto dunque oggi spesso si sottolinei come l’adesione dell’imperatore alla nuova religione sia stata più sincera e sentita di quanto si credesse, occorre peraltro ricordare come il suo atteggiamento sia connotato da una serie di tratti molto personalistici, talora quasi ai limiti dell’eterodossia, che i biografi e gli agiografi successivi (a partire dal già citato Eusebio di Cesarea) si sforzano in ogni modo di attenuare.
Per rimanere nell’ambito dell’edilizia, si può ricordare, ad esempio, l’erezione a Costantinopoli di un grande mausoleo imperiale di forma circolare, più tardi annesso alla chiesa dei Santi Apostoli. Le pareti di questo edificio sono scandite da 12 nicchie, un riferimento agli Apostoli, che circondano il sepolcro dell’imperatore. Benché in seguito si sia diffusa l’interpretazione secondo cui con questo allestimento Costantino voleva paragonarsi agli Apostoli (non a caso è ancora oggi definito "isapostolo" dalla Chiesa ortodossa), oggi si suppone che l’imperatore in realtà intendesse piuttosto assimilarsi a Cristo, secondo una prospettiva non certo canonica. Allo stesso modo, sembra che, nell’allestimento delle grandi basiliche romane, nel suo zelo di neofita Costantino abbia commesso qualche passo falso: il Liber Pontificalis, ad esempio, ricorda come San Giovanni in Laterano sia stata sontuosamente decorata da una serie di statue d’argento raffiguranti Cristo, gli Apostoli, angeli e San Giovanni Battista. Questo massiccio uso della statuaria, che ha inquietanti analogie con la prassi pagana, resterà un unicum per molti secoli in ambito cristiano, e sembra significativo che non risulti attestato per le successive fondazioni imperiali, in particolare quelle costantinopolitane.
Per comprendere quale sia la visione del cristianesimo che caratterizza Costantino, inoltre, è stata ultimamente rivalutata un’ulteriore importante testimonianza. Al termine della Vita di Costantino di Eusebio i manoscritti tramandano, a mo’ di appendice, un discorso attribuito allo stesso imperatore e tradizionalmente noto come Orazione ai santi. La sua genuinità è stata recentemente difesa con buone motivazioni dallo studioso britannico Robin Lane Fox, il quale la data al 325 e la identifica con un’allocuzione tenuta da Costantino di fronte ad un concilio tenuto ad Antiochia. Si trattava, si può supporre, di un preludio al più celebre concilio ecumenico di Nicea, nel tentativo di appianare le crescenti controversie che laceravano la Chiesa sul tema dell’arianesimo. Rivolgendosi verbosamente agli ecclesiastici (i "santi") riuniti ad Antiochia, Costantino, tra molte altre considerazioni, lascia trapelare alcune convinzioni personali, come quella, ad esempio, che la venuta di Cristo fosse stata preannunciata non solo dalla Sibilla Eritrea, ma anche da Virgilio nella IV Ecloga (un tema destinato ad avere una grande fortuna, basta pensare a Dante), arrivando per giunta ad affermare che lo stesso mito troiano sarebbe una prefigurazione della storia della Salvezza, nella quale Achille simboleggia Cristo, Ettore il diavolo, e la città di Troia il mondo. Un’interpretazione visionaria, della quale resta qualche traccia anche in oscure opere patristiche del IV secolo, ma condannata rapidamente all’oblio dalla sua carica sincretistica, probabilmente eccessiva.
Se la sua personale interpretazione del cristianesimo può rasentare l’eterodossia, Costantino cionondimeno ha ben presente che il sovrano deve favorire la pace e l’unità della religione prescelta. Con i suoi successori l’unità della Chiesa diviene sempre più un affare di stato, da garantire e imporre con ogni mezzo.
Una delle crisi più gravi, che segna tutto il IV secolo e si trascina anche oltre, è quella ariana, che prende il nome da un presbitero di Alessandria, Ario, il quale, qualche tempo prima del 320, comincia a predicare che il Figlio, ossia la figura di Cristo, essendo una creatura non poteva condividere con Dio Padre l’attributo dell’eternità. Questo comporta che "vi fosse un tempo in cui il Figlio non c’era". Simili asserzioni suscitano scandalo: Ario è condannato e poi scomunicato dal suo vescovo, ma trova anche numerosi sostenitori. Costantino ritiene necessario intervenire per risolvere la questione, e per far ciò si affida al vescovo Osio di Cordova, figura importante che, dall’indomani della battaglia di Ponte Milvio, costituisce una sorta di consigliere spirituale del sovrano. Osio fin dall’inizio manifesta una profonda ostilità verso l’arianesimo, che inizialmente è condivisa da Costantino.
Nel corso del primo concilio ecumenico ("mondiale", perché vi partecipano rappresentanti provenienti da tutto l’impero) di Nicea, significativamente presieduto dall’imperatore, Ario viene condannato ed esiliato. La situazione può sembrare conclusa, ma negli anni successivi qualcosa probabilmente cambia: Osio probabilmente perde la sua influenza, e Costantino presta ascolto ad altri consiglieri, più vicini all’arianesimo. Se è difficile ricostruire esattamente i termini della questione, soprattutto a causa della tradizione agiografica successiva che cerca di minimizzare questo sbandamento del sovrano, risulta invece chiaro che sotto Costanzo II, suo figlio e successore, la situazione si ribalta facendosi nettamente sfavorevole per chi accetta le conclusioni del concilio di Nicea. Soprattutto negli anni Cinquanta del IV secolo ha luogo tutta una serie di concili minori nei quali il sovrano attua, non senza pressioni e lusinghe, una vera e propria campagna a favore dell’arianesimo (o per meglio dire di una sua forma in qualche modo attenuata) che per qualche tempo, nonostante vari focolai di opposizione, sembra addirittura avere la meglio. L’attività filoariana di Costanzo si interrompe con la morte dell’imperatore, e l’intermezzo pagano del suo successore Giuliano permette al partito "niceno" di riprendere fiato e di iniziare ad elaborare (in particolare per merito dei Padri cappadoci) una nuova teologia che reinterpreti e renda più accettabili le formule avanzate durante il concilio di Nicea. È però solo con l’ascesa al trono di Teodosio che la tendenza antiariana fatta propria soprattutto dalle grandi sedi episcopali di Roma ed Alessandria può trionfare definitivamente in occasione del secondo concilio ecumenico, tenuto a Costantinopoli nel 381, nel corso del quale è proclamata la consustanzialità del Padre, del Figlio, e anche della terza persona della Trinità, lo Spirito Santo. Al di fuori del territorio imperiale, peraltro, l’arianesimo si è diffuso – grazie al celebre vescovo Ulfila – tra i Goti, e rimane un tratto distintivo di molte popolazioni germaniche ancora per alcuni secoli.
Benché la pace della Chiesa non sia assoluta nemmeno nei decenni che seguono, è solo nel 427 che scoppia la crisi successiva. In quell’anno l’imperatore d’Oriente Teodosio II nomina vescovo di Costantinopoli un sacerdote antiocheno, Nestorio. Questa mossa suscita immediatamente l’irritazione e la preoccupazione della potente sede patriarcale di Alessandria, tradizionalmente rivale di Antiochia.
Cirillo, patriarca di Alessandria, viene prontamente informato di un passo falso di Nestorio, che nei suoi discorsi, forse senza un reale ragionamento teologico ma con una buona misura di approssimazione, ha definito Maria Christotokos, "Madre di Cristo", invece che Theotokos, "Madre di Dio", come viene tradizionalmente chiamata. Cirillo ha buon gioco nel montare un vero e proprio caso, e nel corso del primo concilio ecumenico di Efeso, nel 431, riesce a trionfare sul suo rivale, deposto ed esiliato. Negli anni successivi, le tendenze teologiche della scuola alessandrina, che tende a privilegiare il lato divino della figura del Cristo, sempre più, al punto che, nel 444, i vescovi di Costantinopoli e Roma lanciano l’allarme sulla natura "monofisita" (ovvero che ammette un’unica natura nel Figlio, quella divina, a scapito di quella umana) di questi sviluppi.
Seguono anni di lotte molto accese, finché nel 451, nel corso del concilio ecumenico di Calcedonia, convocato dagli imperatori Marciano e Pulcheria, il monofisismo alessandrino è definitivamente condannato. Formalmente l’unità del cristianesimo, ormai divenuto a tutti gli effetti religione di stato, viene ristabilita; in realtà, tuttavia, il concilio di Calcedonia, le cui decisioni sono imposte d’autorità, finisce per creare molti problemi all’impero. In molti non lo ratificano, e nei ricchi e popolosi territori orientali (in particolare la Siria e l’Egitto) si sviluppa un tenace movimento d’opposizione che assume anche una dimensione localistica e centrifuga.
Le Chiese locali (quella copta in Egitto, quella giacobita in Siria) iniziano ad osteggiare sempre più apertamente la Chiesa "ufficiale" calcedoniana, identificata con l’autorità statale, verso la quale cresce sempre di più la disaffezione. È stato spesso sostenuto che la facilità con cui gli Arabi, nel VII secolo, conquisteranno le regioni orientali dell’impero potrebbe essere dovuta proprio a questo secolare risentimento dei loro abitanti contro l’autorità di Costantinopoli e la sua teologia di stato, imposta con ogni mezzo e aborrita dal clero locale. Questo collegamento è oggi spesso messo in discussione e considerato troppo semplicistico, ma resta il fatto che Costantino e soprattutto i suoi successori, finendo per creare uno stato pressoché confessionale, rendono la loro autorità direttamente compartecipe delle fratture e delle tensioni che lacerano la religione ufficiale, il che sicuramente ne accresce la vulnerabilità.
Risulta emblematica del crescente intreccio tra autorità statale e cristianesimo anche la cosiddetta crisi priscillianista, che, molto dibattuta già tra i contemporanei, soprattutto è satura di conseguenze, anche nefaste, sul lungo periodo, fino all’età moderna. Intorno al 375 un laico spagnolo di elevata condizione (più tardi verrà nominato vescovo di Avila), Priscilliano, inizia a predicare una forma di ascetismo particolarmente severa, che gli procura vari seguaci in Spagna e Gallia, ma lo espone anche alle critiche dei vescovi locali che si appellano più volte all’autorità imperiale per farlo condannare, in ultima istanza in un concilio tenuto a Bordeaux nel 384.
Priscilliano decide allora di recarsi a Treviri per fare appello presso Magno Massimo, l’usurpatore che in quegli anni controlla le Gallie. Nel processo che segue, Massimo, per cercare di rimarcare la propria stretta ortodossia e ingraziarsi le autorità ecclesiastiche, legittimando così la propria precaria posizione, valica un limite che fino ad allora non è mai stato infranto. Per la prima volta, infatti, una colpa spirituale come l’eresia viene assoggettata in quanto tale ad una punizione secolare inferta da un tribunale ordinario. Priscilliano, infatti, è torturato e poi decapitato insieme ad altri suoi seguaci. C’è da dire che molti esponenti della Chiesa del tempo, in particolare Martino di Tours e Ambrogio di Milano, si oppongono strenuamente a questa fusione tra giustizia ecclesiastica e giustizia statale; ma il precedente viene comunque stabilito, e non mancherà di produrre effetti nefasti.