Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Patriarcato di Costantinopoli, travagliato da una cronica carenza di fondi, si trova a dipendere sempre più dalle sovvenzioni dei fanarioti, i possidenti greci di Istanbul, che peraltro gravitano ideologicamente verso Occidente e finiscono per mettere in discussione il modus vivendi da tempo stabilito con le autorità ottomane. In Russia l’istituzione patriarcale stessa viene abolita da Pietro il Grande che, nel contesto delle sue radicali riforme, sottopone la Chiesa a un Santo Sinodo, equivalente a uno dei tanti collegi in cui si struttura la burocrazia statale.
Il Patriarcato di Costantinopoli: difficoltà economiche e chiusura verso l’esterno
La situazione delle Chiese ortodosse nell’ambito dell’Impero ottomano, all’inizio del XVIII secolo, si pone per molti aspetti in sostanziale continuità con il periodo precedente, soprattutto dal punto di vista dei problemi finanziari e dei rapporti difficili con le altre confessioni cristiane. Apparentemente la sede di Costantinopoli gode di maggiore stabilità: diminuiscono infatti gli avvicendamenti sul trono patriarcale, che a causa del donativo dovuto alle autorità turche si rivelano rovinosi per le finanze della Chiesa. Dal 1695 al 1795 si assiste a trentuno passaggi di consegne: la metà che nel secolo precedente. Questo, peraltro, non significa che la situazione economica del patriarcato sia migliorata: nel 1730 i debiti ammontano ad oltre 100 mila piastre, e questo rende la sede costantinopolitana strettamente dipendente dalla benevolenza e dalla liberalità delle grandi famiglie mercantili greche (quelle dei fanarioti, da Fanar, quartiere di Costantinopoli dove risiedono) e dei sovrani ortodossi. La rapacità del fisco turco mette a dura prova anche le grandi istituzioni monastiche del Monte Athos, in cui la conseguente crisi economica favorisce l’abbandono del modello di vita cenobitico (i monaci vivono una vita strettamente comunitaria e il monastero, nel suo complesso, risulta il titolare di proprietà terriere e rendite) in favore di quello cosiddetto idiorritmico, che nei primi decenni del XVIII secolo si diffonde pressoché ovunque. Nell’idiorritmia il complesso del monastero costituisce solo un guscio che ospita una serie di cellule monastiche autonome, composte ciascuna da pochi membri o anche da singoli eremiti, che possiedono proprietà private e lavorano in proprio, riunendosi in chiesa solo per alcune funzioni comuni. Anche gli igumeni, abati dei monasteri, vengono in genere sostituiti da comitati direttivi composti da più monaci.
Continua ad essere diffusa anche la tendenza, per i giovani greci che vogliano intraprendere la carriera ecclesiastica, di recarsi a studiare teologia nell’Europa occidentale, esponendosi dunque a rischi di “contaminazione” da parte di dottrine cattoliche o protestanti. Del resto, tra le stesse potenze europee è in atto una sorta di rivalità per tentare di estendere la propria influenza in questa sorta di monopolio culturale: interessante il caso del Collegio Greco fondato a Oxford nel 1694, dove ogni anno dovrebbero giungere alcuni giovani greci per seguire un corso di studi della durata di cinque anni, prima di tornare nella madrepatria. Dopo poco più di dieci anni, l’istituzione deve essere chiusa: si teme tra l’altro che i giovani in questione possano essere infiltrati da agenti “papisti” (Luigi XIV, tra l’altro, fonda un’istituzione analoga a Parigi, e sembra che non rifugga dal corrompere i Greci stabiliti a Oxford per convincerli a trasferirsi in Francia), e inoltre si patisce la concorrenza di un seminario analogo fondato in Sassonia, senza contare che le stesse autorità ecclesiastiche greche non sono sempre entusiaste, soprattutto dopo il sinodo di Betlemme che aveva condannato le tendenze calvinistiche, di vedere i propri giovani educati in Paesi protestanti. L’atteggiamento di diffidenza e chiusura verso le altre confessioni cristiane risulta evidente anche nell’irrigidimento dei requisiti richiesti per ammettere nell’ortodossia i neoconvertiti provenienti dal cattolicesimo o dalle Chiese riformate. Mentre fino ai primi decenni del Settecento non è considerato obbligatorio procedere a un nuovo battesimo (per immersione), e si ritiene sufficiente un’unzione con olio crismale, nel sinodo di Costantinopoli del 1722, dove sono presenti i patriarchi Atanasio di Antiochia e Crisanzo di Gerusalemme, si stabilisce che in ogni caso sia necessario procedere a un nuovo battesimo, e la norma viene ribadita in un nuovo sinodo costantinopolitano tenuto nel 1755.
L’ascesa dei fanarioti
D’altro canto, prosegue anche la tendenza, favorita dalle autorità ottomane, a centralizzare il più possibile le gerarchie ortodosse presenti nell’impero sotto l’autorità del solo patriarca di Costantinopoli, ben controllabile, proprio come garanzia contro le possibili “infiltrazioni” da parte dell’Europa occidentale. La tendenza ellenocentrica giunge al culmine nella seconda metà del secolo, quando vengono aboliti nel 1766 il patriarcato serbo di Ipek (che peraltro costituisce un’istituzione relativamente recente, essendo stato fondato nel 1557 per interessamento del gran visir Mehmed Sokolovich, di origine serba, che ne fa insignire il fratello, il monaco Macario), e l’anno successivo l’arciepiscopato bulgaro di Ocrida. Anche nella liturgia si tende a privilegiare l’uso della lingua greca al posto degli idiomi slavi, e le più alte cariche ecclesiastiche divengono quasi sempre appannaggio di Greci, perlopiù provenienti dalle grandi famiglie fanariote. Queste autentiche dinastie, che vantavano spesso una discendenza (a dire il vero non sempre accertata) dalle più importanti casate di Bisanzio, si arricchiscono enormemente esercitando il commercio e, tramite onerosi donativi alle autorità turche, governano i principati feudali di Moldavia e Valacchia. Se all’inizio del secolo la famiglia dei Mavrocordato è quella preminente, più tardi ne emergono altre, come quella degli Ipsilanti. Per quanto i principi fanarioti spremano letteralmente i loro sudditi per racimolare gli esosi tributi richiesti dal governo turco, nella maggior parte dei casi finiscono però per impoverirsi, e in alcuni si rovinano del tutto. Ci si è chiesti cosa li spinga ad assumersi queste cariche così onerose. È stato sostenuto che, alla base di queste scelte decisamente antieconomiche, che possono portare al tracollo di intere casate, ci sia la volontà di ricreare una sorta di microcosmo ellenico in territori che, per quanto nominalmente soggetti al sultano, godono in realtà di ampia autonomia e sono per giunta posti a distanza di sicurezza da Istanbul. I fanarioti costituiscono anche un importantissimo sostegno economico per il patriarcato, che ne asseconda di conseguenza tendenze e ambizioni. I nuovi dinasti greci, in particolare, danno grande importanza all’educazione (molti di loro iniziano le loro vertiginose carriere studiando medicina in Occidente), e per questo favoriscono le accademie esistenti nei loro principati (in particolare a Bucarest e Iasi), e stimolano la fondazione di altre in Grecia, per esempio a Chio, Ioannina, Zagora. Queste istituzioni scolastiche – è stato osservato – somigliano molto di più ai contemporanei modelli occidentali (in particolare all’università di Padova, da sempre punto di riferimento imprescindibile per i Greci) che agli antecedenti bizantini, e lo studio dei Padri della Chiesa tende ad essere costantemente messo in ombra dall’importanza data agli autori classici, alle scienze e alla filosofia. Senza contare che gli insegnanti sempre più spesso condannano apertamente le attitudini “superstiziose” comuni tra la grande massa dei fedeli ortodossi. A loro volta, i rampolli delle grandi dinastie che abbracciano la vita ecclesiastica tendono a fare carriera e a segnare con la loro visione “illuminata” le massime gerarchie della Chiesa greca, che dunque iniziano a perdere contatto con gli strati inferiori, a loro volta sempre più sospettosi nei confronti delle tendenze moderniste. Questa convivenza assai difficile è ben esemplificata dal caso dell’accademia dell’Athos, fondata nel 1753 dal patriarca Cirillo V, che chiama a insegnarvi il celebre filosofo Eugenio Vulgaris, originario di Corfù e imbevuto di cultura tedesca. Il suo “modernismo”, tuttavia, ben presto sconcerta a tal punto i monaci che si decide di trasferirlo a Costantinopoli, da dove poi, in ogni caso, dovrà allontanarsi per tornare in Europa occidentale. Non sembra un caso che il livello di scolarizzazione degli ambienti monastici tocchi probabilmente il fondo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo: vi si è voluto individuare un oscurantismo consapevole, un deliberato rifiuto della cultura profana, vista come patrimonio empio e “alieno” da rigettare per preservare la vera fede. Si va approfondendo, dunque, un divario anche ideologico tra élite ecclesiastiche costantinopolitane e massa dei fedeli, basso clero e monachesimo (soprattutto athonita) che sarebbe stato impensabile fino a pochi decenni prima. La sponda offerta al patriarcato dai “modernisti”, peraltro, si rivela poco sostenibile e l’isolamento dell’istituzione si accresce anche su questo fronte. La sua crescente identificazione con i Greci etnici la pone infatti a rischio crescente di compromissione con le istanze radicali di chi, più o meno clandestinamente, auspica una ribellione contro il potere turco. Soprattutto verso la fine del secolo questi preoccupanti fermenti suscitano l’allarme delle alte gerarchie ecclesiastiche che alla fine, nonostante le “infiltrazioni” moderniste al loro stesso interno, vedono minacciato lo status quo e manifestano apertamente il loro disagio nei confronti delle tendenze nazionalistiche, fomentate anche dai coevi eventi nell’Europa occidentale. Nel 1798 a Costantinopoli viene pubblicato un opuscolo intitolato Esortazione paterna, probabilmente ad opera del patriarca costantinopolitano Gregorio V (anche se come autore è indicato il moribondo Antimo, patriarca di Gerusalemme), che loda il modus vivendi stabilito da secoli tra la Chiesa ortodossa e l’Impero ottomano, e diffida dall’inseguire la chimera della libertà, dipinta come una seduzione diabolica che porterà il popolo alla rovina: come ci si può immaginare viene aspramente criticato dai patrioti, tra i quali cresce la disaffezione verso l’ambiente religioso, visto come oscurantista ed opposto agli antichi ideali ellenici che, tra l’altro, suscitano invece molta simpatia presso le potenze occidentali alle quali si guarda con speranza.
Le tendenze centrifughe nei Balcani e in Medio Oriente
La grecizzazione e la fanariotizzazione del patriarcato, inoltre, ne smorzano la natura ecumenica e finiscono per mettere sempre più ai margini le altre popolazioni ortodosse dell’area ottomana, tra le quali il risentimento cresce sempre più. Godono invece di una ben maggiore autonomia ecclesiastiche le comunità, soprattutto serbe, che vivono nei confini dell’Impero asburgico: un numeroso nucleo di Serbi (forse addirittura 200 mila persone) si stabilisce entro i suoi confini già nel 1689 e una nuova, imponente migrazione si ha in occasione della guerra austro-turca del 1737. Acquisisce di conseguenza importanza la sede di Karlowitz (l’attuale Sremski Karlovci, in Serbia), dove si stabilirà il metropolita della Chiesa ortodossa serba, che avrà giurisdizione su tutto l’Impero asburgico. Nel 1794, tra l’altro, a Karlowitz viene fondato anche un seminario ortodosso.
Tendenze centrifughe, rispetto a Costantinopoli, possono essere individuate anche nel Vicino Oriente, dove vari patriarchi di Antiochia, dalla loro sede di Damasco, intavolano trattative sempre più strette con Roma. Nel 1716 il patriarca Cirillo V fa atto di sottomissione al papa, ma questo gesto divide il suo gregge. Nel 1724 compaiono due patriarchi in competizione, uno filoromano (Cirillo VI, al secolo Serafino Tanas, educato a Roma) e l’altro esponente della fazione avversa (Silvestro). Questo scisma antiocheno dura trent’anni, e al termine si crea una scissione irreversibile tra i fedeli, parte dei quali vanno a costituire una Chiesa uniate, che conserva il rito bizantino pur entrando a far parte della Chiesa cattolica.
La rivoluzione di Pietro il Grande
Se il patriarcato costantinopolitano fatica a convivere con il crescente modernismo che giunge dall’Europa occidentale, quello moscovita, almeno come istituzione, finisce per esserne addirittura annientato. L’artefice di questa rivoluzione ecclesiastica è, naturalmente, lo zar Pietro il Grande, nella sua volontà di fare della Russia una monarchia assolutistica ispirata agli Stati protestanti (e proprio ai protestanti, nel 1702, concede la libertà di culto). Nella visione del sovrano non c’è più posto per la sinergia che, sull’antico modello costantinopolitano, associa indissolubilmente Chiesa e Impero, con una diarchia tra autorità laica e autorità sacra, rappresentata dal patriarca. Nel nuovo Stato vagheggiato da Pietro l’unica autorità dev’essere quella del sovrano e la Chiesa è destinata ad essere direttamente sottoposta al controllo dello zar per divenire, in un certo senso, una delle tante branche dell’apparato amministrativo e, come tale, organizzata in maniera collegiale. Questo fine viene perseguito senza precipitazione, ma con innegabile fermezza. Alla morte del patriarca Adriano, nel 1700, lo zar lascia la sede vacante, nominando un vicario (esarca) ma arrogandosi il controllo di tutte le entrate ecclesiastiche. Più tardi confischerà gran parte dei beni che le generavano.
Il nuovo ordinamento collegiale
L’intento del sovrano è chiaramente quello di eliminare del tutto la figura patriarcale, ma solo nel 1718 incarica Teofane Prokopovich, arcivescovo di Pskov e teologo di vaglia (ma di tendenze, non a caso, luteraneggianti), di impostare un “regolamento spirituale” per il nuovo ordinamento collegiale della Chiesa che, dopo essere stato rivisto e corretto dal sovrano, risulta messo in atto nel 1721. Gli affari ecclesiastici sono adesso posti sotto il controllo di un Santissimo Sinodo permanente di 11 membri (ai quali si aggiunge un procuratore laico a rappresentare la corona), scelti dallo zar e risiedenti a San Pietroburgo, con autorità soprattutto sulle questioni liturgiche e disciplinari all’interno della Chiesa; in ogni caso ogni decisione del Sinodo deve essere avallata dallo zar, che si arroga il diritto di controfirmare ogni decreto di argomento religioso. Negli anni successivi si avvertirà, talora, una certa tendenza ad adeguare ulteriormente la Chiesa russa ad aspettative di tipo protestante, che tuttavia non giungono mai a stravolgerne completamente la fisionomia: Pietro cercherà in qualche modo di arginare il monachesimo (gli uomini non possono entrare nei monasteri prima dei trent’anni, le donne dai cinquanta ai sessanta), e più tardi Caterina II (di cultura protestante), oltre a sopprimere molti monasteri, limiterà anche il culto delle icone. Questa situazione, che riduce la Chiesa a “componente dell’organismo statale”, perdura fino al 1917, quando è reinsediato un patriarca; in ogni caso, ed anche questo rientra nell’ottica assolutista varata da Pietro, sotto il governo del Santissimo Sinodo l’ortodossia russa mantiene la propria autonomia nei confronti di Costantinopoli che, con la sparizione del patriarca di Mosca, potrebbe vantare qualche diritto di ordine giurisdizionale. Ai quattro antichi patriarcati viene richiesta solo una ratifica formale del nuovo ordinamento, che giunge senza sorprese nel 1723: il favore degli zar è una condizione irrinunciabile. Per quanto infatti Pietro sostanzialmente oscuri la tradizionale concezione dell’ortodossia come fondamento del potere monarchico, la munificenza imperiale nei confronti delle “chiese-madri” del cristianesimo orientale è destinata a perdurare: la zarina Anna Petrovna, per esempio, nel 1732 stanzia cifre consistenti per il patriarca di Costantinopoli e per i monasteri del Monte Athos, mentre più tardi Caterina ottiene dal sultano un riconoscimento ufficiale del ruolo della Russia come protettore di tutti gli ortodossi stanziati nell’Impero ottomano: il preludio, del resto, a un coinvolgimento politico sempre più intenso nell’area balcanica.