Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Negli anni Settata del Novecento il sistema economico internazionale è investito da una profonda crisi che ne scuote le fondamenta, dopo una fase di sviluppo ininterrotto durata per circa un ventennio. Si tratta di una crisi di tale intensità da evocare per forza ed effetti quella ancora più drammatica del 1929. A determinare l’inversione del ciclo economico è la crisi petrolifera del 1973-1974 in seguito alla quale l’economia deve fare i conti con un aumento improvviso e sostenuto del prezzo della sua principale materia energetica. Lo sviluppo economico del dopoguerra, infatti, era divenuto sempre più dipendente dal petrolio come fonte privilegiata di energia per l’industria, i trasporti, il riscaldamento, senza contare la sua utilizzazione nella produzione di materie plastiche, fibre, detergenti, coloranti e fertilizzanti.
Da una crisi petrolifera all’altra
Nel 1973, allo scoppio della quarta guerra arabo-israeliana, i Paesi arabi che fanno parte dell’OPEC – l’organizzazione dei Paesi produttori di petrolio, nata nel 1960 con l’accordo tra Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Venezuela, cui negli anni successivi si aggiungono Qatar, Emirati Arabi Uniti, Algeria, Libia, Nigeria, Indonesia, Ecuador e Gabon – decretano l’embargo verso i Paesi occidentali filoisraeliani, in particolare gli Stati Uniti e l’Olanda, riducendo progressivamente la produzione di greggio. In pochi mesi le scorte mondiali scendono del 10 percento mentre il prezzo viene raddoppiato e nel giro di un anno quadruplicato (da 3 a 11,5 dollari). Questo aumento porta al deterioramento delle ragioni di scambio favorevoli che avevano contribuito alla prosperità postbellica dei Paesi sviluppati. Di fatto, la questione economica, intrecciandosi con il problema politico rappresentato dalla recrudescenza della conflittualità tra il mondo arabo e Israele, risolve il braccio di ferro che, con la nascita dell’OPEC e il prevalere di un orientamento nazionalistico dei Paesi arabi, aveva contrapposto i Paesi produttori al cartello delle compagnie occidentali, fino a quel momento inattaccabile controllore del mercato petrolifero. L’impennata del prezzo del petrolio greggio del 1973-1974 è soltanto il punto di partenza di un trend crescente dei costi di approvvigionamento dell’“oro nero”.
Nell’arco di poco meno di un decennio, dal 1973 al 1981, con un picco nel corso del 1979-1980 in seguito alla rivoluzione khomeinista, all’interruzione delle forniture iraniane di petrolio e allo scoppio della guerra tra Iran e Iraq, il prezzo raggiunge i 34 dollari al barile, 19 volte il prezzo di 11 anni prima. Si tratta di una escalation dei valori di scambio che non si rapporta proporzionalmente alla effettiva contrazione dell’estrazione di petrolio. Infatti, nel 1979, i prezzi del greggio raddoppiano nonostante l’offerta mondiale del petrolio non diminuisca più del 4 percento e la produzione OPEC raggiunga quell’anno un nuovo massimo. Tutto ciò è causato dal fatto che le compagnie petrolifere occidentali ormai controllano poco meno della metà del petrolio offerto sui mercati internazionali. La disponibilità di una quota così limitata della produzione complessiva non può arginare manovre speculative né costituisce una base sufficiente per un’efficace politica di razionamento delle scorte in grado di limitare le ripercussioni che la corsa all’accaparramento ha sul livello generale dei prezzi. Gli effetti dell’incessante aumento dei prezzi del petrolio sono talmente importanti da alimentare previsioni catastrofiche sui destini stessi del capitalismo.
La stagflazione
Naturalmente le economie dei Paesi importatori, anche sviluppati, sono pesantemente colpite dal repentino aumento del prezzo di un prodotto che è insieme materia prima e risorsa energetica per usi di consumo e industriali. Per la prima volta nella storia, in tempo di pace, l’inflazione raggiunge valori senza precedenti, con un aumento annuo dei prezzi tra il 1972 e il 1983 del 9,1 percento. Contestualmente, soprattutto per le politiche di austerità e di contrazione dei consumi perseguite dai Paesi più industrializzati, la produzione diminuisce del 10 percento.
Si staglia all’orizzonte una fase di recessione con i caratteri del tutto inediti della stagflazione, un intreccio tra stagnazione e inflazione che cozza contro un livello di benessere e uno standard di vita che sembra difficile mettere in discussione. Per l’intensità di questi processi, le conseguenze cui dà luogo la crisi petrolifera del 1973-1974 si dispiegano a trecentosessanta gradi nella vita economica e sociale di ciascun Paese, promovendo trasformazioni di lungo periodo che modificheranno profondamente il profilo sistemico del moderno capitalismo e le gerarchie economiche mondiali. Innanzitutto alla diminuzione della produzione industriale fa da contrappeso, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, la capacità di attrarre il denaro capitalizzato dai Paesi produttori di petrolio, incapaci di avviare con gli aumentati proventi della vendita della loro principale risorsa lo sviluppo interno e più propensi a dissiparlo in spese militari o a trasformarlo in mero capitale finanziario.
Si crea il cosiddetto fenomeno dei “petrodollari” che se, per un verso, è destinato a riaggiustare le bilance dei pagamenti dei Paesi a cui si rivolgeva questo consistente flusso di capitali, dall’altro crea ulteriori motivi di disordine valutario in un panorama finanziario già in fibrillazione per il superamento, decretato dagli Stati Uniti nel 1971, del sistema dei cambi fissi. La nuova e ingente liquidità internazionale favorisce una ripresa dell’integrazione finanziaria anche per le economie meno sviluppate, in particolare dell’America Latina, destinatarie di gran parte di queste risorse sottoforma di prestiti per sostenere i costi di un oneroso processo di industrializzazione sostitutivo delle importazioni. La spirale del debito e la difficoltà dei Paesi in via di sviluppo a ripagarlo, però, degenera nei primi anni Ottanta in una grave crisi debitoria, costringendo le istituzioni internazionali (Fondo Monetario e Banca Mondiale) a intervenire come prestatori di ultima istanza e a promuovere per i Paesi indebitati piani di sviluppo e di integrazione più orientati al mercato, senza tuttavia risolvere i problemi di instabilità finanziaria nel mercato internazionale.
Dal fordismo al postfordismo
Di diverso segno le conseguenze che si determinano a livello dell’organizzazione produttiva. La crisi del sistema fordista e i processi di deindustrializzazione indotti dall’aumento del prezzo del petrolio, in realtà, faranno da incubatori di un imponente sviluppo tecnologico caratteristico di quella che è stata definita la terza rivoluzione industriale. La ricerca di fonti energetiche alternative o, più semplicemente, la necessità del risparmio energetico impegnano la scienza su terreni come l’elettronica, la chimica e le biotecnologie sfruttandone le potenzialità ai fini industriali. Nella stessa organizzazione del lavoro incominciano a realizzarsi numerosi cambiamenti: già nel corso dei primi anni Settanta è abbandonata la “catena di montaggio” fordista a favore di metodi più flessibili, orientati alle variazioni della domanda, guidati da una forte automazione dei processi produttivi e da un maggiore coinvolgimento dei lavoratori nelle fasi della produzione (toyotismo, just in time, circoli di qualità, ecc.).
In linea con i prevalenti criteri della flessibilità cambia anche l’organizzazione e la dimensione delle unità produttive, facendo emergere la vitalità di reti di piccole e medie imprese (distretti industriali) e in generale di strutture horizontal corporation che abbandonando i rigidi schemi della impresa multidivisionale, verticale e gerarchica individuano un sistema organizzativo più agile basato sulle tre strategie della creazione di nuovi prodotti, della produzione e della assistenza alla clientela. Si tratta di sfide che ricevono risposte diverse a seconda della latitudine geografica. Più timide e incerte le risposte dell’Occidente che concentra gli sforzi nella lotta all’inflazione, ma stenta a rilanciare la produzione e a difendere l’occupazione innestando una nuova fase espansiva. Il Giappone, invece, seguito a ruota da altri Paesi del Sud-Est asiatico, si orienta con rapidità a trasformare i propri obiettivi industriali in direzione dei beni ad alto contenuto tecnologico, implementa una serie di riforme economiche e la riorganizzazione delle imprese e così facendo aumenta di molto l’efficienza dell’industria e trasforma la sua economia in una efficace macchina da esportazioni.
La diversità dei percorsi di fuoriuscita dalla crisi petrolifera crea differenziali in termini di produttività e di competitività per difendersi dai quali soprattutto i Paesi di più vecchia industrializzazione ricorrono a risorgenti forme di protezionismo che alterano i principi liberisti di funzionamento del mercato internazionale creati all’indomani della seconda guerra mondiale. In definitiva, la crisi petrolifera segna un’inversione di tendenza nei rapporti di forza disegnati negli anni della guerra fredda e nel sistema della cooperazione economica creato a Bretton Woods all’indomani del secondo conflitto mondiale. Da lì si dipartono i fili di un più controverso modello di integrazione e internazionalizzazione dell’economia che mentre sembra ritrovarsi nell’abbandono delle teorie keynesiane e dello stato sociale e nell’ampia globalizzazione del mercato finanziario, propone scenari assai più parziali e confliggenti sul piano della redistribuzione della ricchezza e dell’accesso alle nuove opportunità.
Gli shock petroliferi degli anni Settanta sono assorbiti rapidamente. Tra il 1979 ed il 1985 i Paesi dell’OCSE riducono del 20 percento la domanda di greggio proveniente dai Paesi dell’OPEC; nel 1985, l’OPEC soddisfa solo il 40 percento della domanda di greggio del mondo non comunista e le sue entrate in cinque anni si riducono di oltre il 50 percento, mentre il prezzo del petrolio si abbatte del 70 percento. Sopravvive alla paura generata allora dalla contrazione dell’oro nero non soltanto la più netta percezione della sua esauribilità, ma soprattutto i segni di una ripresa squilibrata e difficilmente governabile che ci accompagnano ancora oggi.