La crisi della forma antica al tramonto dell'impero
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Alle profonde mutazioni che interessano, tra il III e il IV secolo, la politica, l’economia e la società dell’Impero di Roma, e che hanno notevoli ripercussioni nella psicologia e nell’immaginario collettivi, si accompagna la metamorfosi del linguaggio artistico, chiamato ad esprimere efficacemente una nuova concezione del potere, ma anche a dare forma visibile ad un diffuso bisogno di spiritualità.
Liberator Urbis, fundator quietis: le enfatiche espressioni con cui è acclamato l’imperatore Costantino sull’arco a lui dedicato nel 315 dal senato sulla via dei trionfi, tra la Velia e il Circo Massimo, mostrano chiaramente quanto, a Roma e nel resto dell’impero, siano diffuse e condivise l’ansia di pacificazione e l’attesa di un salvatore che riporti l’ordine e la stabilità dopo il conflitto sanguinoso che ha contrapposto per più di un lustro Costantino a Massenzio per il controllo dell’impero: un conflitto che ha sancito di fatto il fallimento dell’ambiziosa riforma politica introdotta da Diocleziano con l’istituto della tetrarchia, che avrebbe dovuto assicurare la continuità istituzionale sostanziando la successione al trono con il principio della scelta del migliore in sostituzione a quello della trasmissione dinastica, che troppe volte, nel corso del III secolo, aveva provocato gravi crisi politiche e militari.
Lo scontro tra Costantino e Massenzio, infatti, è solo l’ultimo episodio di una lunghissima fase di instabilità istituzionale, di precarietà, di violenza, che percorre l’intero III secolo: il tormentato, drammatico “secolo della crisi”, nel corso del quale si sbriciola il “mito felice dell’impero delle classi colte e ricche”, come lo chiama lo storico Guido Clemente, e tragicamente mostra tutta la propria fragilità il sogno della pax Augusta, la fiducia nella compattezza, nell’inscalfibilità, nell’eternità dell’impero di Roma. La minaccia dei barbari che premono ai confini è diventata un pericolo quotidiano, che tiene l’esercito romano in uno stato di costante allerta, insufficiente tuttavia a far fronte alle invasioni e alla perdita di territori anche importanti; mentre sono andate rafforzandosi tendenze centrifughe e disgregatrici, che hanno provocato l’insorgere di ribellioni e la costituzione di regni autonomi.
L’onere delle spese militari, sempre più gravoso, si è tradotto in una crescente pressione fiscale, particolarmente vessatoria nei confronti dei ceti più deboli che si sono impoveriti, complice una crisi produttiva di inaudite proporzioni, mentre le risorse economiche si sono progressivamente accumulate nelle mani di pochi privilegiati. In questa situazione di instabilità, l’esercito assume un ruolo determinante anche in ambito politico: e sul trono imperiale si avvicendano rapidamente, acclamati dalle loro legioni, capi militari rozzi e spietati (i cosiddetti “imperatori-soldati”), animati da una sconfinata ambizione e da una insaziabile avidità, del tutto incuranti delle tradizioni formali del principato e lontanissimi, anche fisicamente, dai luoghi simbolici del potere imperiale, dal senato, da Roma stessa.
Da quest’epoca di transizione emerge una nuova concezione dello stato, costruita sull’esigenza di assicurare la sopravvivenza dell’impero gestendolo con il pugno di ferro; ed emerge anche una nuova società, quella tardoantica, rigidamente piramidale e gerarchizzata, immobile e basata su una vistosa sperequazione economica tra ricchi e poveri e sui rapporti di totale dipendenza che legano nelle campagne i coloni ai grandi latifondisti e che conducono al sorgere di potentati locali basati su una gestione autocratica del potere, modellata di fatto su quella imperiale. Una situazione istituzionale, economica e sociale tanto mutata rispetto al passato non può non accompagnarsi ad una metamorfosi altrettanto radicale della mentalità, della psicologia e dell’immaginario collettivi. La paura, l’incertezza del futuro, la precarietà economica, la sensazione di vivere una realtà intessuta di forze misteriose e incontrollabili hanno condotto ad un emergere sempre più netto nella società di tendenze irrazionali e di un bisogno di spiritualità che diventano il brodo di coltura ottimale per la diffusione di religioni misteriche e soteriologiche di origine orientale (tra cui il cristianesimo) che non solo promettono la salvezza dell’anima, ma che offrono al singolo individuo il consolante rifugio in una solidale comunità di uguali; le medesime tendenze sono alla base della rielaborazione della cultura filosofica del passato in sistemi complessi, come il neoplatonismo, che sembrano capaci di giustificare il diffuso desiderio di fuga dalla realtà materiale. Il sentimento più diffuso sembra essere una profonda angoscia morale; e volti dalle espressioni angosciate, dolenti, fortemente patetiche, compaiono sempre più di frequente nelle manifestazioni artistiche del III secolo, sia in quelle di committenza privata, dai drammatici rilievi dei sarcofagi con scene di battaglia ai ritratti, che nell’arte ufficiale, compresa la stessa ritrattistica imperiale. Sono le immagini del “dolore di vivere”, efficace espressione coniata da Ranuccio Bianchi Bandinelli in un saggio bellissimo e di grande importanza (“Dolore di vivere” in Roma. La fine dell’arte antica, 1970): immagini in cui si dissolve la serena, imperturbabile compostezza dell’arte classica negli sguardi severi e tristi dei grandi occhi, dalla pupilla espressa plasticamente, che monopolizzano questi volti, e nel disfacimento della correttezza anatomica della forma plastica, che assume un carattere drammaticamente pittorico nelle superfici sfuggenti e mosse, inquiete, nettamente chiaroscurate tramite profondi solchi di trapano. La diffusione di tendenze irrazionali e di sentimenti di insicurezza e paura determina, infine, lo stimolo essenziale alla definizione di una concezione del potere sempre più autocratica, e del potente come di una figura autoritaria e carismatica, dotata di qualità sovrumane, di origine divina, e perciò capace di gestire il caos che regna nel mondo. È proprio questa concezione del potere a sostanziare, nel periodo che va da Diocleziano a Costantino, il passaggio dal principato alla dominazione, e la conseguente trasformazione dei cittadini dell’impero in sudditi di un sovrano assoluto.
Costantino promette pace, tranquillità, prosperità, un ritorno a quell’aurea aetas rappresentata dalle figure di grandi imperatori del passato, come Traiano, Adriano e Marco Aurelio, un’età che secondo alcuni, come Cassio Dione (Storia Romana, LXX. 36, 4) era finita proprio con la morte di quest’ultimo e con la successione di Commodo, lasciando spazio ad un’epoca “di ferro arrugginito”.
E i ritratti di Costantino si richiamano programmaticamente all’auctoritas distesa ed elegante e all’apparenza pacifica e rasserenante che caratterizzano la ritrattistica dinastica alto-imperiale, ripudiando decisamente tutti quegli elementi che nei ritratti degli imperatori-soldati del III secolo ne enfatizzavano con immediatezza l’energia operativa, il dinamismo volitivo, le doti militari necessarie a difendere l’impero: le espressioni aggressive o ansiose, le mimiche tese, i lineamenti duri, segnati dall’età e dalla fatica, la resa coloristica delle corte barbe e delle capigliature a calotta, espresse con rapidi colpi di scalpello. Un volto sbarbato e giovanile, sereno e dai lineamenti distesi, coronato da una capigliatura elegantemente acconciata (la maniacale attenzione di Costantino per le proprie chiome è del resto ricordata dalle fonti) è ad esempio quello dell’acrolito colossale in marmo rinvenuto in frammenti nel 1487 nell’abside occidentale della Basilica di Massenzio nel Foro Romano, e nel quale è probabilmente da riconoscere il riuso costantiniano di un acrolito più antico, forse raffigurante Adriano divinizzato; così come è probabilmente da vedere il reimpiego di una statua colossale in bronzo più antica (forse il famoso Colosso di Nerone, oppure una statua di Traiano originariamente collocata all’interno del suo Foro) nei frammenti bronzei (la testa, una mano, il globo) oggi conservati ai Musei Capitolini, parti di una statua di Costantino alta tra i dieci e i dodici metri, eretta dopo la sua morte.
Ma nonostante il richiamo al passato, che si esprime anche attraverso una pratica così “fisica” come quella del riuso (frequente in quest’epoca), sul volto di Costantino è possibile leggere l’ampiezza e la complessità del percorso attraverso il quale il princeps della prima e media età imperiale (primus inter pares scelto per la sua auctoritas all’interno del senato nella finzione istituzionale del principato), si è trasformato in un autocrate dal potere assoluto e indiscutibile; un percorso che, parallelamente, ha condotto il ritratto dell’imperatore a diventare una icona spersonalizzata, la maschera stessa dell’augusta maiestas, nella quale l’aderenza alla fisionomia dell’effigiato, la resa della sua personalità, lo sforzo per dare ai suoi tratti l’apparenza della vita non hanno più alcun senso. Nella rigidità ieratica della posa, nell’impassibilità libera di emozioni dell’espressione, nella fissità ipnotica e magica degli enormi occhi spalancati dei ritratti di Costantino, e poi di quelli di molti tra i suoi successori, si concretizza il concetto della natura sovrumana, divina, del potere, che conferisce al volto del dominus un’aura sacrale e carismatica prosciugandone l’individualità; un processo di astrazione che agisce già potentemente nei ritratti dei tetrarchi, in particolare in quelli (come il gruppo scultoreo della Biblioteca Vaticana o quello della Basilica di San Marco a Venezia) realizzati nel duro porfido purpureo, pietra imperiale per eccellenza, in cui le notazioni fisionomiche scompaiono completamente per lasciar posto ad un ruvido espressionismo, finalizzato a mostrare con immediatezza allo spettatore l’energia e l’efficacia operativa dei dominatori, doti necessarie ad affrontare la fatica e la responsabilità che il ruolo imperiale comporta, ma anche la loro natura sovrumana, che li innalza al di sopra dei comuni mortali.
Questa nuova concezione del potere necessita, per esprimersi pienamente, di un linguaggio artistico più netto ed incisivo, di forme che sappiano imporsi allo spettatore con immediatezza, comunicando emozioni e concetti semplici ma di grande potenza: è per questo che anche nelle espressioni dell’arte ufficiale, di corte, per secoli ispirata al razionale naturalismo di tradizione ellenistica, si affermano gli stilemi che già hanno caratterizzato l’arte “plebea” di Roma, e che vengono a sostanziare un linguaggio figurativo di tipo simbolico ed astratto, preludio all’arte allegorica paleocristiana e medievale; un linguaggio in cui le immagini contano assai più come simboli che per la loro qualità artistica o per la loro aderenza alla realtà di natura, una realtà, del resto, che sempre più è percepita come misteriosa e inconoscibile, ma fitta di allusioni e di messaggi da interpretare.
Basta tornare al monumento da cui siamo partiti, l’arco di Costantino, per cogliere la vitalità insita in questa “crisi della forma antica”, troppo spesso considerata soltanto come espressione di decadenza del gusto o delle pratiche di bottega. Nel rilievo che corre lungo il perimetro esterno dell’arco, la narrazione degli episodi salienti che hanno condotto alla sconfitta di Massenzio e dei momenti in cui si esalta la figura dell’imperatore vittorioso (la adlocutio dai Rostri e la liberalitas con la distribuzione di donativi) è trattata in un linguaggio anticlassico e metafisico, che altera le proporzioni naturali tra gli uomini e le cose e gli uomini tra loro in favore dell’uso di proporzioni gerarchiche, funzionali a esprimere il ruolo dei personaggi effigiati, mentre la resa naturalistica dello spazio e della profondità è sostituita da una prospettiva distorta, “sbagliata” dal punto di vista del disegno, ma efficacissima a mostrare nel modo più chiaro tutto ciò che deve essere visto; le figure sono trattate in uno stile disegnativo, nel quale si annulla l’organicità della forma plastica, e che deriva dalla predilezione dell’epoca per l’illusionismo immateriale della pittura, arte che conosce in età tardoantica una nuova fioritura, a noi nota soprattutto grazie al confronto con i mosaici e con le decorazioni in opus sectile.
Nella scena della liberalitas, la centralità della figura dell’imperatore nella composizione organizzata in modo rigidamente simmetrico e ordinato attraverso la disposizione degli elementi lungo direttrici orizzontali e verticali è metafora trasparente dell’essenzialità del suo ruolo; e la sua ieratica, rigida frontalità conferisce alla sua apparizione un carattere di epifania divina, lo stesso che impronta ogni sua uscita pubblica in virtù di un rigido cerimoniale, complesso e puntigliosamente ritualizzato, messo a punto a partire dall’età di Diocleziano, che sarà ereditato dalla corte bizantina e che non mancherà di esercitare un’influenza significativa su quello della corte pontificia in Vaticano. Del resto, gli stessi schemi iconografici funzionali nell’arte tardoantica all’espressione della maiestas divina dell’imperatore vengono significativamente ripresi nell’arte cristiana coeva a rappresentare la maestà del Cristo: ad esempio, il succitato episodio della liberalitas sull’arco, con l’imperatore centrale seduto su un alto trono, circondato da dignitari e protetto tramite delle grate dal contatto con la plebe che si assiepa ai lati trova un confronto assai stringente con una placca in terracotta di poco più tarda, raffigurante Cristo giudice affiancato dagli apostoli e separato, grazie a dei tralicci, dalla folla plaudente. Non è certo l’arco di Costantino il primo monumento ufficiale in cui troviamo l’uso di formule compositive di tipo simbolico: una certa semplificazione nella composizione delle scene (soprattutto attraverso il ripetersi di figure rappresentate in pose stereotipate) allo scopo di agevolarne la comprensibilità si riscontra già sulla colonna di Marco Aurelio, sulla quale l’insistita frontalità dell’imperatore anticipa l’iconografia tardoantica della maestà imperiale; l’esigenza di attribuire all’imperatore un’apparenza ieratica, destinata ad impattare con forza sullo spettatore, detta le formule disegnative disorganiche e scorrette della quadriga imperiale sul pannello con la processione trionfale dell’arco di Settimio Severo nella sua città natale, Leptis Magna, mentre nel piccolo fregio che corre sui fornici minori dell’arco dedicato allo stesso Settimio Severo nell’Urbe tra il 202 e il 203, il susseguirsi delle figure, lavorate in modo sommario, pertinenti alla rappresentazione della cerimonia del trionfo assume un andamento paratattico e disarticolato.
Nei rilievi narrativi e celebrativi dell’arco di Costantino si riscontra un abbandono assoluto della tradizione ellenistica, particolarmente evidente nella raffigurazione della battaglia di Ponte Milvio, che non ha ormai più nulla a che vedere con gli schemi addensati e dinamici, di matrice ellenistica, utilizzati per secoli nell’arte romana per la rappresentazione di combattimenti, e che nella sua schematicità raggiunge una tale efficacia drammatica da diventare rapidamente un modello di riferimento, ad esempio nei rilievi dedicati al soggetto vetero-testamentario dell’attraversamento del Mar Rosso da parte del “popolo eletto”sui primi sarcofagi con iconografie cristiane. Resta un rapporto più diretto con la tradizione figurativa ellenistica, pur in una rielaborazione pervasa dalla sensibilità tardoantica, nell’apparato allegorico-decorativo del monumento: le Vittorie con i barbari prigionieri sugli alti plinti delle colonne, i Geni delle Stagioni (emblemi dell’aeternitas dell’impero) e le Vittorie alate con trofei negli spicchi degli archivolti del fornice centrale, le divinità fluviali nei pennacchi dei fornici minori. La contrapposizione sullo stesso manufatto tra raffigurazioni di carattere celebrativo e propagandistico, rese in uno stile simbolico ed immediato, e immagini di natura allegorico-decorativa (soprattutto personificazioni di stagioni, di divinità fluviali o di concetti astratti), più aderenti al linguaggio formale classicista, resterà una costante della produzione tardoantica di manufatti di committenza imperiale, come dimostra il missorium in argento di Teodosio oggi conservato a Madrid, esempio di quei raffinati oggetti prodotti per essere distribuiti dagli imperatori ai dignitari in occasione di avvenimenti o anniversari importanti: su questo piatto l’imperatore Teodosio I, fulcro della composizione, è rappresentato seduto, ieraticamente frontale e affiancato dai correggenti Arcadio e Valentiniano II, sullo sfondo di un edificio tetrastilo su podio, come la statua di una divinità all’interno del suo tempio, mentre nell’esergo si distende morbidamente la personificazione della Tellus, circondata da eroti che recano fiori e frutti.
Ma è soprattutto nel reimpiego di sculture più antiche che sull’arco di Costantino si concretizza l’omaggio nei confronti di quella tradizione figurativa, ispirata al naturalismo ellenistico, che per secoli ha sostanziato le manifestazioni ufficiali dell’arte romana. Il monumento è infatti una sorta di centone, quasi un museo a cielo aperto nel quale sono rimontati spolia provenienti da monumenti dedicati a grandi imperatori del passato: a Traiano sono riconducibili le statue di Daci prigionieri collocate sulle colonne e i rilievi inseriti sui lati minori dell’attico e sulle pareti interne del fornice centrale, ad Adriano gli otto grandi “tondi” collocati a coppie al di sopra dei fornici minori, a Marco Aurelio, infine, i grandi pannelli a rilievo con episodi di vita civile, religiosa e militare collocati sull’attico. In epoca tardoantica il fenomeno del riuso di manufatti scultorei precedenti, probabilmente recuperati da edifici in rovina, magari interessati in questo periodo da ampi restauri, o che hanno perduto la propria funzione originaria, si configura, oltre che come una pratica dagli indubbi vantaggi di natura economica, come una operazione ideologica, tesa ad una riappropriazione degli ideali del passato capace di rimarcare la continuità tra l’impero di ieri e quello di oggi. Una forma, se si vuole, di classicismo.
Il nuovo tipo di ritratto imperiale, carismatico e distaccato, che si afferma con Costantino avrà una notevole fortuna per circa due secoli, configurandosi come la più efficace rappresentazione dell’imperatore cristiano, il cui potere è emanazione della volontà di Dio. Gli imperatori tardoantichi si faranno spesso rappresentare con volti sempre più esangui ed ascetici, pervasi da una alienante serenità che mette a disagio lo spettatore, e dominati da grandi occhi dalle pupille leggermente sollevate verso l’alto in un continuo, muto colloquio con Dio che esclude i sudditi: i ritratti di alcuni membri della dinastia teodosiana sono tra le testimonianze più impressionanti di queste tendenze, spesso rielaborate da artisti dalla tecnica raffinata e sicura, come nello splendido ritratto al museo di Istanbul nel quale si riconosce generalmente il giovane Arcadio. Non mancano tuttavia esempi di una tipologia di ritratto imperiale dall’aspetto più energico e dinamico: tra questi, basterà ricordare il volto deciso e severo, più da uomo d’azione che da vir spiritualis, del colosso bronzeo di Barletta, nel quale si tende a riconoscere un imperatore della seconda metà del V secolo. Ascetici o energici che siano, i volti degli imperatori tardoantichi conservano comunque ben poco di terreno, sia nei tratti somatici che nella mimica, e tendono a rassomigliarsi un po’ tutti (tanto è vero che le identificazioni sono spesso difficili); mentre sempre meno assomigliano agli imperatori i privati, che nei loro ritratti continuano a voler essere rappresentati nella propria individualità, con i propri tratti somatici, i segni dell’età e con una mimica ben definita che riveli la loro personalità e il loro ruolo sociale. Si esaurisce così il fenomeno definito, nella letteratura archeologica, Zeitgesicht (“volto dell’epoca”), caratteristico dell’età imperiale, che assimila i ritratti privati a quelli imperiali non solo nelle acconciature e nella presenza o meno della barba, ma anche nelle fisionomie e nella mimica, in modo a volte davvero impressionante; e in età tardoantica abbiamo, così, ritratti di privati di qualità notevole e dotati di una fresca vitalità, anche se pervasi dall’aura di intensa spiritualità che è tipica del periodo.
I personaggi raffigurati appartengono senza eccezioni alla classe senatoria e a quella costituita dagli alti funzionari della burocrazia statale; l’impoverimento delle classi medie ha sottratto dalla loro portata la possibilità di autorappresentarsi attraverso l’arte, che è ormai espressione esclusiva, oltre che della stessa casa imperiale, di una élite ristretta ma dotata di possibilità economiche davvero cospicue, e che trova nell’insistita ostentazione di manufatti di gran lusso e nella enfatica rappresentazione del proprio status mezzi idonei per rafforzare il proprio prestigio e quindi il proprio potere. Il modello di riferimento è, naturalmente, l’imperatore; e così, certe formule iconografiche rappresentative della maiestas imperiale, come la frontalità e la tipizzazione ieratica di gesti e pose tornano nelle immagini di privati, come in quelle che immortalano senatori di Roma nell’atto di gettare la mappula (un fazzoletto) per segnare l’inizio delle gare di corsa di cavalli nel circo, la manifestazione sportiva più amata in questo periodo, sia dal popolo di Roma che da quello di Costantinopoli, fino all’ossessione. Le gare circensi assumono un tale peso nella vita delle due capitali dell’impero che lo stesso sovrano non può esimersi dal parteciparvi con assiduità, al punto che a Costantinopoli l’ippodromo costituisce un complesso unico con il palazzo imperiale, dal quale un passaggio diretto consente all’imperatore di apparire maestosamente sul palco reale, come si mostra Teodosio insieme a Valentiniano II, Arcadio e Onorio, circondati da dignitari, nei rilievi che ornano la base del colossale obelisco egiziano di Thutmosi III, fatto erigere nel 390 sulla spina dell’ippodromo della “Roma d’Oriente”.
Nell’Urbe l’obbligo assai oneroso di finanziare giochi sontuosi grava sui senatori che intendono percorrere il cursus honorum, diventando un merito da rimarcare con forza nella rappresentazione di sé: in statue onorarie, in dittici consolari in avorio, come quello dei Lampadii, oggi a Brescia, e anche nell’apparato decorativo della propria dimora privata, come nel caso della sontuosa decorazione parietale in opus sectile (ovvero realizzata ad intarsio con lastrine di preziosi marmi policromi) della cosiddetta Basilica di Giunio Basso sull’Esquilino, probabilmente appartenente all’omonimo console del 331 che compare vestito della toga picta sulla biga (raffigurata di pieno prospetto) circondata dagli aurighi rappresentanti le quattro fazioni del circo su uno dei pannelli che componevano il rivestimento delle pareti; altri due intarsi riproducono tigri che aggrediscono prede e un quarto è dedicato ad un soggetto mitologico, la storia di Ila rapito dalle ninfe.
L’apparato decorava in origine non una basilica pubblica, bensì una di quelle ampie aule di rappresentanza a carattere polifunzionale, a pianta generalmente absidata, che costituiscono un elemento distintivo delle domus urbane riconducibili al ceto senatorio del IV secolo: ambienti dotati di una decorazione di altissimo livello qualitativo (costituita da rivestimenti pavimentali e parietali in opus sectile e in mosaico, cassettoni dorati sul soffitto, pitture e stucchi, colonne in marmi pregiati), di cui costituisce un altro impressionante esempio l’opus sectile dell’edificio scavato nel 1959 fuori Porta Marina ad Ostia, databile agli ultimi anni del IV secolo. La decorazione ostiense, una delle più significative scoperte del XX secolo nell’ambito dell’archeologia tardoromana, è caratterizzata da una straordinaria ricchezza di motivi ornamentali, realizzati con tecnica raffinatissima, nella quale spicca la presenza di due ritratti: quello di un giovane uomo dalla tunica ornata con il clavus purpureo (probabilmente un membro della famiglia proprietaria del complesso) e quello di un uomo barbato, dallo sguardo intenso e con la testa circondata da un nimbo, raffigurato nell’atto dell’adlocutio, frequentemente interpretato come un’icona di Cristo (il che ha condotto ad attribuire all’aula una connotazione cristiana), ma nel quale è forse piuttosto da vedere il ritratto di un filosofo. In effetti il nimbo, emanazione di luce simbolo di forza spirituale, e lo sguardo ispirato e commosso, così come i capelli lunghi fluenti sulle spalle e la barba, sono elementi che accomunano il ritratto di Cristo all’immagine tardoantica del filosofo, una figura che dal III secolo acquisisce un’aura sacrale e carismatica, diventando un theios aner (“uomo divino”): sorta di superuomo ascetico che disprezza il proprio corpo mortale, mortificandolo con purificazioni e digiuni, e che dimostra di possedere poteri sovrumani e taumaturgici attraverso miracoli, fenomeni sovrannaturali (come la levitazione) e profezie.
Si tratta di un uomo privilegiato dall’esperienza del contatto diretto con il divino, un fenomeno mistico che trascende dalle capacità intellettuali e dal raziocinio, differenziando profondamente il filosofo tardoantico da quello di età classica o ellenistica. E i ritratti di questi “uomini divini”, di cui si conservano esemplari di qualità notevole provenienti da Roma, Atene, Costantinopoli e Afrodisia, non sono caratterizzati dalla severa concentrazione e dalla profondità intellettuale che spirano dal volto di Aristotele o da quello di Epicuro, bensì da un’espressione estatica e commossa, con gli occhi rivolti al cielo dallo sguardo esaltato, le sopracciglia sollevate, la fronte aggrottata: espressioni dietro le quali è probabilmente da intravedere, come sostiene Paul Zanker, l’emozione dell’attesa del contatto mistico con il divino. Pagani e cristiani sono in questo momento accomunati da un’esigenza di incarnazione del divino che giustifica i contatti tra l’iconografia del filosofo tardoantico e quella degli apostoli e dello stesso Cristo: ma l’intensità quasi allucinata degli “uomici divini” non ha nulla a che vedere con la sublime serenità che spira dal volto di Cristo, così come è ben diverso il loro aspetto curato (nelle capigliature, nelle barbe, nell’abbigliamento), da cittadini del passato, dall’ascetica semplicità delle vesti degli apostoli. Questi filosofi pagani si sentono gli ultimi difensori di un mondo in dissoluzione, quello urbano, colto e prestigioso delle grandi scuole filosofiche del passato, e si ritengono investiti del compito di perpetuare la cultura classica, in ogni suo aspetto: per questo tra i loro capelli compare spesso la benda che li designa come sacerdoti dei culti pagani, sempre più disertati e infine proibiti dal cristianesimo di stato.
L’esempio del ritratto barbato dall’edificio fuori Porta Marina ad Ostia è emblematico della continuità di linguaggio formale, di iconografie e di schemi compositivi tra l’arte tardoantica e l’arte paleocristiana, continuità che trova la propria ragion d’essere nell’identità del sistema produttivo e della committenza artistica; dopo la liberalizzazione del culto cristiano con l’editto di Milano, da un lato l’esigenza di dotare le prime basiliche di apparati decorativi e dall’altro la libertà di poter caratterizzare la propria sepoltura con immagini di soggetto cristiano comportano di frequente una riappropriazione di schemi iconografici e di soggetti facenti parte del repertorio figurativo tradizionale, che vengono risemantizzati in senso cristiano.
Basti pensare, oltre all’immagine di Cristo barbato e con i capelli lunghi, erede dell’iconografia tardoantica del filosofo “divino”, a quella del Buon Pastore, che illustra la nota pericope dal Vangelo secondo Giovanni (X. 1 sgg.) risemantizzando la figura dell’Hermes kriophoros (“portatore di montone”) dell’arte greca classica: una figura che tra il III e il IV secolo diventa anche allegorica dei concetti di humanitas e philantropia in ambito non segnatamente cristiano, apparendo di frequente in sarcofagi con raffigurazioni dell’otium campestre e bucolico, un soggetto molto amato in quest’epoca travagliata.
Nell’ambito delle arti suntuarie (che conoscono un momento di straordinaria fioritura), destinate ad una élite colta e conservatrice, resiste più a lungo il repertorio iconografico tradizionale, ricco di rappresentazioni mitologiche allusive al piacere di vivere, che decorano anche oggetti sicuramente appartenenti a cristiani: è un esempio notissimo di questo fenomeno il cofanetto di Proiecta, rinvenuto sull’Esquilino con una serie di oggetti in argento di gusto squisito, sul quale un tema pagano come la toeletta di Venere, da secoli allusivo alla bellezza e al potere seduttivo della donna, si accompagna all’iscrizione “Secundo e Proiecta vivete in Cristo”.
In altri casi, però, la presenza di iconografie pagane è indizio di un paganesimo consapevole, ed anzi tenacemente difeso come patrimonio di cultura e di tradizioni in cui la vecchia aristocrazia senatoria riconosce se stessa, i propri valori, la giustificazione del proprio ruolo nella società. Basti pensare all’elegante dittico eburneo dei Simmaci e dei Nicomaci, ornato con due scene di sacrificio pagano; oppure a oggetti di argenteria caratterizzati da iconografie complesse e talvolta di ardua interpretazione, come la patera di Parabiago con il trionfo di Cibele e Attis, la lanx di Corbridge, che presenta un misterioso consesso di divinità, o la splendida anfora di Baratti, ornata di una fitta serie di medaglioni con personaggi mitologici riconducibili ai culti di Dioniso, di Cibele e di Mitra: oggetti di probabile destinazione cultuale, ben inseribili nel clima spirituale dell’effimera rinascita del paganesimo promossa da Giuliano l’Apostata, nella quale grande importanza assumono i culti orientali, e segnatamente quello di Cibele, maggiormente rispondenti, rispetto alla tradizionale religione olimpica romana, ai bisogni spirituali di quest’epoca. In queste immagini si perpetua il raffinato linguaggio figurativo dell’ellenismo, per quanto filtrato attraverso la sensibilità tardoantica, con soluzioni stilistiche e compositive che sembrano (e sono) lontanissime da quelle dei rilievi a carattere narrativo e celebrativo dell’arco di Costantino: tendenze naturalistiche e tendenze all’astrazione si alternano, si affiancano, si sovrappongono in quest’epoca complessa della storia e dell’arte che, come tutti i periodi di transizione, amalgama la nostalgica consapevolezza della fine di un mondo alla potenza irresistibile di un nuovo inizio.