La costruzione della città turistica
Sono passati quarant’anni da quando Hans Magnus Enzensberger scriveva che in un secolo e mezzo di esistenza il turismo non aveva ancora saputo attrarre su di sé l’attenzione degli storici e, sebbene quel giudizio non appaia in generale più riproponibile nei medesimi termini, in parte esso è ancora valido per Venezia, il cui ruolo nella nascita del primo movimento turistico rimane ancora poco conosciuto(1). Paradossalmente ciò è anche dovuto all’usura turistica a cui la città è stata sottoposta in maniera crescente negli ultimi due secoli. Di fronte alla quantità di descrizioni e riproduzioni disponibili, attraverso le quali è possibile risalire fin quasi alle origini della città, una prima, frequente reazione consiste infatti nell’espungere il turismo dalla storia della città, come se si trattasse di un fenomeno sovrastrutturale, estraneo, in grado di celare le reali trasformazioni del sito urbano e della sua popolazione e non, almeno in parte, di spiegarle; la messe delle citazioni è tale da suscitare in alternativa la tentazione di ricostruire il rapporto tra la città e il turismo semplicemente sfrondandole e riordinandole secondo un mero principio cronologico.
Un simile percorso di ricerca corre tuttavia il rischio evidente di incagliarsi nelle secche della soggettività letteraria. Si prenda ad esempio la città svuotata e stremata che accoglie Stendhal e Byron, dopo la definitiva caduta di Napoleone. Per il primo «La vie à la vénitienne» sono «les femmes dans les cafés et les sociétés ne finissant qu’à deux heures du matin»; sebbene prostrata la città gli appare comunque «peut-être la plus gaie de l’Europe». Come è stato osservato, l’idea di Venezia del «milanese» Stendhal segue il cliché dell’«amabilité, gaieté, volupté, plaisir de vivre»(2). Non meno propenso del francese ad apprezzare la vivacità dei costumi locali è anche Byron, ma in lui, almeno nella prima parte del suo soggiorno, sono le note melanconiche e tragiche a prevalere e a nutrire un secondo e speculare mito, quello della città moralmente e fisicamente sul punto di crollare o affondare(3). Sebbene i due autori attingano ad alcuni degli stereotipi più diffusi dell’immagine di Venezia, contribuendo a rafforzarli, seguendo le loro espressioni ci troveremmo in definitiva di fronte ad un itinerario puramente testuale, nel quale sarebbe il rimando degli echi, e non la città storica, ad occupare il centro della riflessione(4).
Ricostruire la storia del turismo in una delle sue capitali contemporanee, e in una delle sue fasi di massima accelerazione come l’Ottocento, è operazione sostanzialmente diversa che inseguire lo sguardo colto ed intellettuale che ne ha via via ritratto particolari inediti o argomenti frusti. Non che questo non sia importante, tanto più per una città come Venezia per la quale la produzione letteraria, figurativa o musicale funzionava già da secoli come uno straordinario battage pubblicitario di perdurante efficacia. Non sarà tuttavia questa la prospettiva adottata nelle pagine che seguono, nelle quali più che inseguire le atmosfere della tragedia I due Foscari, o quelle di un secolo più tarde de La morte a Venezia, ci si chiederà in quali alberghi soggiornavano i lettori della prima, o come mai il protagonista della seconda si abbandoni ai suoi sogni efebici sulle sabbie, fino a pochi decenni prima desolate, del Lido. Più che far parlare i soggetti del viaggio, normalmente rappresentati dai più loquaci per dovere professionale tra di essi, si proverà cioè a restituire scorci dell’oggetto dello stesso, vale a dire tanto della città, quanto di quella particolare modalità del viaggiare che proprio agli inizi del XIX secolo cominciava ad essere chiamata turismo.
La stessa Venezia di Byron e Stendhal costituisce un primo, assai suggestivo punto di partenza. Perso il ruolo di capitale, espropriata di funzioni produttive e commerciali vitali, dissoltosi il sistema di ammortizzatori sociali costituito dalle Arti, la città vive tra l’età napoleonica e la Restaurazione una delle crisi più terribili della sua storia, vede scendere la sua popolazione da 136.000 abitanti nel 1799 a soli 100.000 vent’anni dopo. I segni del declino economico sono inequivocabili: scompaiono interi settori produttivi tradizionali (saponiero, laniero, auroserico), svanisce la classe dirigente che aveva retto per secoli il timone della politica e dell’economia cittadine, il patrimonio edilizio e monumentale sconta la mancanza di sostegno finanziario a causa anche del dirottamento delle risorse verso la terraferma e le possessioni lasciate libere dalla ex classe di governo(5).
Il quadro delle condizioni della città tracciato a tinte assai fosche dall’arciduca Ranieri, il fratello dell’imperatore, in visita nel 1817, collima con tante descrizioni coeve di palazzi cadenti e chiese vuote, corroborando quell’aura romantica che dovrà risultare un richiamo irresistibile per buona parte del secolo almeno. E che va considerata contestualmente — non in antitesi — ad un altro ordine, già segnalato, di suggestioni, esemplificato dal passo di una lettera di Metternich alla moglie, dello stesso anno. Al ministro austriaco Venezia appare una città «delle Mille e una notte»: «Piazza San Marco è piena di grandi tende; il popolo è per le strade fino all’alba; i caffè chiudono alle cinque del mattino; il canale della Giudecca ed il Canal Grande sono letteralmente coperti di gondole»(6).
Al di là di questo clima da ‘crollo dell’impero’, nella relazione di Ranieri, così come in un’articolata presa di posizione del cardinale Pyrker di qualche anno dopo e più in generale in tutti i commenti ‘ufficiali’ di quest’epoca, è il commercio il settore economico sul quale si punta per risollevare le sorti della città. Si trattava di una visione tradizionale dell’economia lagunare (si pensi al famoso discorso di Andrea Tron del 1784 in cui si invitava il patriziato a riprendere le redini dei traffici), all’interno della quale stentavano però a trovare spazio e considerazione le possibili ricadute economiche derivanti dall’accoglienza dei forestieri.
In questo primo difficile trentennio dopo la caduta della Serenissima si moltiplicarono in realtà i segnali, anche se sparsi, di un’attenzione maggiore e con caratteri diversi rispetto al passato per una destinazione ricettiva e ricreativa dello spazio urbano. Così la prima idea di costruire un «fabbricato comprendente Bagni Salsi» e annessi «luoghi di ricreazioni» viene formulata già nel 1808, «in tempi insospettabili di adesioni e fascini nei confronti degli orizzonti borghesi»(7), da parte dell’architetto Giannantonio Selva nell’ambito del piano di ristrutturazione del sestiere di Castello verso l’isoletta di S. Elena.
L’idea di creare un’ampia «area di passeggio» all’estremità orientale della città (e un’altra, mai realizzata, alla Giudecca) è dovuta come è noto allo stesso Napoleone, che si fece interprete di una esigenza estranea alle modalità relazionali e di movimento proprie della città(8). I visitatori stranieri dovettero essere i primi ad apprezzare la dimensione del giardino dagli ampi viali alberati, almeno a giudicare dalla guida inglese della Starke, che negli anni Venti segnalava come «The Rialto, the Piazza di S. Marco, and the Street and Garden made by Napoleon (a magnificent work) are the only promen;ades at Venice»(9). Non tutti, infatti, osavano come Goethe avventurarsi senza accompagnatore e «badando ai soli punti cardinali» per il dedalo delle calli(10). Le strade strette e buie, avverte sempre la Starke, «font de Venise un labyrinthe qu’il faut étudier» e che presenta inconvenienti inaspettati come la mancanza di parapetti sui ponti, tanto che «les étrangers qui ont quelque chose à faire pendant la nuit sont exposés à se laisser tomber dans l’eau»(11). I veneziani, invero, in quel labirinto percorribile molto più che oggi solo per via acquea si trovavano a proprio agio, non a caso le guide locali lamentarono fino alla metà del secolo la scarsa frequentazione dei giardini di Castello.
L’idea di Selva era quella di inserire in un tale contesto un fabbricato per la balneazione, «tanto desiderato da’ nostri Medici», con annesso ristorante e caffetteria. Un progetto che, ripresentato da un albergatore nel 1822, avrebbe trovato realizzazione pratica solo nel 1833 per iniziativa del dottor Tommaso Rima, un medico chirurgo dell’Ospedale civile che fece posizionare i suoi bagni galleggianti davanti a S. Marco, dove la profondità del bacino consentiva un migliore ricambio d’acqua(12). Il ruolo giocato dalla classe medica nel successo di questa pratica non deve essere esagerato: la moda del bagno di mare nacque dalla balneoterapia nell’Europa atlantica poco dopo la metà del XVIII secolo e si diffuse a macchia d’olio in tutto il continente, perdendo tuttavia quasi subito l’intento rigorosamente terapeutico per acquisire, com’era da millenni nella tradizione termale, il carattere di un’esperienza ricreativa e relazionale. Tra lo stabilimento dei bagni e il suo indispensabile pendant, l’albergo, i rapporti sociali scivolavano su un piano di maggiore informalità, per effetto anche della fisicità insita nell’esercizio balneare e come riflesso della dimensione comunitaria di condivisione della ‘cura’(13).
Guardando alla fortuna settecentesca di Bath in Inghilterra, o a quella poco più tarda della città termale belga di Spa, e considerando l’antica tradizione veneziana del «termalismo erotico» (di cui però ai primi dell’Ottocento si erano perse le tracce), l’avvio negli anni Trenta della pratica balneoterapica a Venezia potrebbe in realtà apparire fin troppo timido. Va tenuto tuttavia conto di un elemento culturale, l’avversione dei nordici, e in primo luogo degli inglesi che saranno per tutta la prima metà dell’Ottocento tra i più convinti sostenitori della nuova moda, per il clima e le acque del Mediterraneo durante i mesi estivi: ancora nell’estate del 1890, sulla spiaggia del Lido, gli inglesi si rifugiavano sulle terrazze, lontani dalle onde: «trovano l’acqua in questa stagione troppo calda», racconta un cronista, «non oserebbero bagnarsi che ad ottobre inoltrato»(14).
Sulla tradizione alberghiera veneziana la quantità pletorica dei riferimenti è inversamente proporzionale alla qualità delle informazioni. È possibile stimare con una buona approssimazione quali fossero, verso la fine del Settecento, le locande e gli alberghi (la distinzione non è chiara) principali, come il Leon Bianco ai SS. Apostoli in riva al Canal Grande dove solevano scendere gli inglesi, ma è impossibile giungere a una qualsiasi valutazione complessiva della capacità ricettiva cittadina(15). Il livello di ospitalità doveva senza dubbio essere elevato: secondo un giudizio recente nel primo Ottocento i migliori alberghi italiani sarebbero stati quelli veneziani(16). Appare più interessante, piuttosto, notare come in questo primo ventennio di dominazione austriaca, durante il quale la città stenta a trovare, nelle mutate condizioni economiche e tecnologiche internazionali, una propria chiara vocazione, si assista ad una consistente operazione di ristrutturazione della capacità ricettiva alberghiera.
È nei primi anni Venti che Giuseppe Dal Niel, detto «Danieli», albergatore del già citato Leon Bianco, sposta la sua attività dall’antico palazzo da Mosto in vista del ponte di Rialto, sulla riva degli Schiavoni, in uno dei siti più luminosi ed aperti della città. È un’operazione dal significato particolare, trattandosi del più famoso albergo cittadino, frequentato da principi e letterati di tutta Europa; l’acquisto del secondo piano del palazzo già Dandolo, a due passi dalla Piazzetta, per il quale nel 1824 Danieli contrasse un impegno economico consistente, fu un investimento che venne evidentemente affrontato contando su una domanda turistica che aveva ripreso considerevole lena dopo il Congresso di Vienna(17).
L’estrema dinamicità del mercato immobiliare veneziano in questi decenni, le fortune precipitanti di tante famiglie patrizie proprietarie di palazzi, la condizione rovinosa di edifici civili e religiosi, furono tutti elementi che favorirono operazioni di questo tipo, che coinvolsero alcuni tra gli hôtels — il termine comincia ad essere usato in questi anni — che a metà secolo saranno i più frequentati della città. Nel 1808 il palazzo Farsetti sulla riva del Carbon a due passi dal ponte di Rialto, già sede di una prestigiosa collezione d’arte, viene dato in locazione dalla vedova dell’ultimo erede di casa Farsetti ad un albergatore che lo apre al pubblico all’insegna della Gran Bretagna(18). A metà degli anni Venti un altro palazzo sul Canal Grande, a ridosso della piazza S. Marco, viene riattato per ospitare l’Hotel Europa; nello stesso torno d’anni, per allargare una delle locande storiche a due passi da piazza S. Marco, l’Albergo Luna, viene addirittura demolita l’antichissima chiesa dell’Ascensione(19).
Quanto era avvenuto a Bath tra XVIII e XIX secolo, la creazione di una ‘città turistica’ dalla quale erano stati progressivamente allontanati i ceti sociali inferiori, risultava difficilmente realizzabile in un’isola quale Venezia, dove la residenzialità aveva da sempre un carattere sociale promiscuo. Tuttavia, la tendenza a riorganizzare lo spazio urbano in termini di fruibilità turistica appare evidente dal processo di spostamento della localizzazione alberghiera dall’area realtina a quella marciana, che è osservabile soltanto nell’arco di tempo che va dal 1785 al 1847, ma il cui esito è di chiarissima lettura (v. fig. 1). Quanto riportava una delle guide di viaggio più diffuse d’inizio secolo, «c’est aux environs de l’église de S. Salvadore et du pont de Rialto, que logent la plupart des étrangers», non valeva più un quarto di secolo dopo, quando gli alberghi più rinomati si trovavano a ridosso dell’area marciana(20).
Le precondizioni che potevano determinare l’imbocco deciso dell’opzione terziaria e turistica erano dunque già operanti a partire dagli anni Venti, complice la recessione economica. Il dato di 30.000 persone (e 4 milioni di fiorini di guadagno), che a giudizio della principessa Metternich avrebbe portato a Venezia la visita del nuovo imperatore Ferdinando I nel 1838, fotografa quello che fu forse uno dei momenti di massima accelerazione della destinazione turistica della città, che a metà degli anni Quaranta presentava ormai strutture ricettive e ricreative rinnovate(21).
Della ventina di alberghi principali esistenti undici non avevano più di venti, trent’anni ed alcuni come l’Italia a S. Moisè (il futuro Bauer) erano stati costruiti appositamente, comprendendo anche stabilimenti di «bagni salsi e dolci». Il ‘giro’ favorevole della marea, che consentiva «un’acqua sempre limpida e fresca», aveva spinto tal Francesco De Antoni ad aprire nel 1841 in uno dei tratti più aperti del Canal Grande uno stabilimento balneare di venti stanze, ognuna dotata di ampie vasche di marmo; sedici ne conteneva quello poco distante di S. Benetto, dalle cui finestre la vista spaziava da Ca’ Foscari al ponte di Rialto, quindici quello di S. Cassiano. Proprio a fianco dell’elegante stabilimento De Antoni, orientaleggiante fuori e imitazione di casa pompeiana all’interno, il nuovo proprietario del palazzo adiacente, un cantante lirico, si decise ad aprire un albergo: così palazzo Grassi divenne l’Albergo Imperatore d’Austria. Nel frattempo si era ingrandito anche lo stabilimento Rima, che in estate veniva ormeggiato nei pressi dell’imbocco del Canal Grande; nel 1847 raggiunse l’ampiezza di 140 piedi per 50, con due grandi ‘sirene’ (vasche). Di fronte alla riva degli Schiavoni stazionava invece lo stabilimento galleggiante della Marina Militare(22). «Chi […] vide [Venezia] vent’anni or sono e la vede adesso non la riconoscerebbe più», scriveva in quegli anni Agostino Sagredo, riferendosi soprattutto al moltiplicarsi degli interventi pubblici e privati, assieme a una certa ripresa del traffico commerciale(23). Ma al formarsi di simile impressione doveva contribuire anche il rinnovato orientamento turistico della città, che risultava visibile nel moltiplicarsi dei caffè, nel successo dei teatri (la Fenice, bruciata nel 1836, era stata ricostruita in meno di un anno), nelle cadenze stilistiche dei nuovi ritrovi che «lasciano l’austera veste neoclassica e impero per accostarsi a cadenze biedermeier»(24), sulla moda proveniente da Vienna, da Parigi o da Londra.
I dati raccolti da Sagredo «da fonte sicura» nel 1844 sulla consistenza del flusso di lavoratori e stranieri che aveva interessato nel decennio precedente la città, pur dovendo essere accolti con prudenza, restituiscono un profilo dimensionale di massima di questa prima decisa fase di sviluppo del settore turistico, contribuendo a sfatare alcuni luoghi comuni.
Tab. 1. Arrivi annuali di stranieri, ‘nazionali’ e lavoratori a Venezia, 1836-1843(25) Anni 1836 1837 1838 1839 1840 1841 1842 1843 Esteri 4.662 7.805 10.201 10.180 10.547 10.775 10.759 12.610 Nazionali 51.926 53.736 60.381 53.009 64.429 70.418 72.108 101.139 Operai 1.922 6.706 4.902 4.770 5.779 6.477 6.708 7.895 Totale 58.510 68.247 75.484 67.959 80.755 87.670 89.575 121.644
Colpisce in primo luogo la sproporzione tra le presenze straniere, relativamente alle quali la documentazione, soprattutto di fonte letteraria, è preponderante, rispetto a quelle dei ‘nazionali’: anche se è opportuno considerare che una parte di questi ultimi non si recassero nell’ex capitale esclusivamente per motivo di soggiorno o di svago, bisogna tuttavia riconoscere che di questa componente della domanda turistica, all’interno della quale dovevano rivestire un ruolo considerevole i ceti borghesi, professionali e imprenditoriali, si conosce poco o nulla.
L’atteggiamento di sostanziale disinteresse da parte delle autorità austriache verso la prospettiva economica tracciata da questi dati non può, considerando l’epoca di cui si tratta, colpire più di tanto. Più interessante è il fatto che esso fu in realtà ampiamente condiviso dalla classe dirigente economica locale, come risulta ad esempio dall’insieme delle materie economiche prese in esame dalla Camera di commercio, o dal contributo dedicato all’economia compreso in Venezia e le sue lagune, la ‘guida’ della città offerta ai partecipanti del IX congresso scientifico tenutosi nel 1847, dove è del tutto assente una qualsiasi consapevolezza delle potenzialità insite nel fenomeno turistico(26). Il giovane avvocato Daniele Manin così riferiva all’Ateneo Veneto in una seduta dello stesso 1847, nel culmine quindi della grave crisi economica che stava colpendo il Veneto e Venezia:
Qual fonte di ricchezza ha aperto la natura a Venezia? Qual ce lo dicono le storie, e i meravigliosi monumenti che d’ogni intorno ci parlano. E pure che facciamo noi? Bellezze d’arte, pompa di spettacoli, la moda de’ bagni salsi ci attira i forestieri; ma Venezia non potrà sperare miglior destino, che i bassi guadagni degl’infermieri, de’ locandieri, degl’impresari(27)?
Lo stacco esistente tra la crescita del turismo come prospettiva occupazionale ed economica concreta e la sua sostanziale incomprensibilità agli occhi delle élites economiche e politiche europee — anche da parte di quella borghesia colta o ricca che avrebbe fatto il ’48, per la quale Venezia e le sue lagune fu un laboratorio politico — non è un dato esclusivo dell’esperienza veneziana. È comune a tutti i paesi europei e non solo nella prima metà dell’Ottocento, ed è in parte spiegabile con la struttura di fondo del settore turistico, basato su una dimensione aziendale ridotta, con ritmi stagionali, con ampi margini di flessibilità e quindi di incontrollabilità.
Se non si riconosce alla Venezia dei primi anni Quaranta una già ben abbozzata identità turistica risulta tuttavia incomprensibile la pretenziosità di un progetto quale quello, avanzato nel 1843, di un «Grande Albergo Cosmopolitano con stabilimento bagni, bazar, caffè, bigliardi, sale di riduzione e da ballo, e gabinetto di lettura», da erigersi sulla riva degli Schiavoni, che non ebbe fortunatamente alcun esito(28). Se suona volutamente esagerato quanto affermava Marco Antonio Canini, uno degli intellettuali radicali della rivoluzione del ’48, cioè che gran parte della popolazione veneziana si reggesse «non tanto per commerci ed arti ristabilite, quanto per lo concorso de’ forestieri e per le poche arti alimentate dai possidenti delle terre Venete che abitano Venezia»(29), è comunque innegabile che le basi dello sviluppo turistico cittadino non siano state gettate a partire da (o in funzione di) quell’11 gennaio 1846 quando venne inaugurato il ponte ferroviario translagunare che pose fine all’insularità della ex capitale. Esse avevano avuto modo di assestarsi prima, negli anni difficili e contraddittori della seconda dominazione austriaca, grazie al sommarsi di una congerie di iniziative attribuibili a singoli personaggi, ad isolati imprenditori, magari foresti, magari provenienti dalla piccola borghesia commerciale, piuttosto che con l’appoggio della classe economica finanziaria e industriale di vertice. Come scrisse alla fine degli anni Settanta Paul Ginsborg in uno spunto a cui non è stato dato adeguato risalto, «nel 1848 il turismo stava già cominciando ad assumere nell’economia veneziana una posizione cruciale simile a quella che vi occupa oggi»(30).
La periodizzazione che si vuole qui sostenere, contro un’impostazione che invece assegna al turismo una funzione di rilievo solo a partire dal periodo postunitario, risulta comunque poco efficace se non se ne individuano le premesse di lungo periodo nello straordinario richiamo che Venezia aveva esercitato sulle élites europee per i tre secoli precedenti almeno. La ‘riscoperta’ di Venezia nel primo Ottocento avvenne in primo luogo perché il vento della tempesta napoleonica che aveva impedito ai viaggiatori di condursi alle solite destinazioni cessò, si ristabilì l’ordine internazionale e riprese in tutta Europa il ‘naturale’ flusso dei viaggiatori che aveva nella città lagunare una delle sue mete tradizionali. Se è vero che il turismo avrebbe progressivamente elaborato caratteri strutturali differenti rispetto alle modalità di viaggio e di soggiorno del secolo XVIII, non per questo la tradizione di accoglienza che nella città lagunare si era sedimentata nei secoli venne dispersa nel corso di un solo ventennio.
Per comprendere il ruolo di tale antecedente non serve risalire tanto a ritroso nel tempo, come pure si è tentati di fare osservando le strutture dell’ospitalità, che già nei secoli XIII e XIV presentavano spiccati caratteri ‘di mercato’, o richiamando la curio;sa figura quattrocentesca del tolomazo, vera e propria guida turistica, sotto stretta sorveglianza pubblica, che conduceva il pellegrino in giro per la città, aiutandolo a cambiare denaro, a fare acquisti e ad imbarcarsi per la Terrasanta(31). Basterà riandare all’ultimo fotogramma di questa Venezia turistica ante litteram: la città licenziosa e dissoluta che nella seconda metà del Settecento costituì una tappa irrinunciabile del Grand Tour delle classi superiori europee.
Fernand Braudel, nel riabilitare il secolo veneziano delle lumières sotto la categoria dello «splendido», del «prodigioso», a proposito di questa città «letteralmente invasa da questi visitatori che raddoppiano grosso modo il volume della sua popolazione» si è posto la domanda se Venezia non scoprì forse il «turismo di massa»(32). Si tratta di qualcosa di più di un paradosso, a prescindere dal fatto che i visitatori raggiungessero le 100.000 persone (nell’arco dell’anno, secondo Coronelli(33)) o non piuttosto le 30.000 unità, un livello che anche se avesse avuto fondamento «solo durante i sei mesi del Carnevale», come osservava Charles de Brosses, sarebbe stato comunque eccezionale per i tempi(34). Non conta ovviamente il dato in sé, quanto il senso di saturazione dato dall’afflusso di stranieri, che mutava alla radice la percezione, la natura della città: «La Sensa [la festa dell’Ascensione] è la stagione dei forestieri, nella quale non ci sono locande che bastino al loro ricevimento, né gondole che stiano in ozio», riportava un foglio locale nel 1788(35).
Ciò che contraddistinse Venezia, costituendo un topos turistico operante sul lunghissimo periodo, fu il suo precoce sganciamento dai meccanismi consueti di fruizione culturale delle città italiane, che per i viaggiatori europei rappresentavano esempi imperituri di civiltà scomparse: quella antica (Roma e Pompei), la civiltà rinascimentale (fino a tutto il Settecento), l’età medievale (riscoperta nel corso del XIX secolo). Non che i visitatori settecenteschi non visitassero le chiese o non indugiassero davanti alle tele dei maestri rinascimentali, a Venezia tuttavia si veniva anche, in alcuni casi si può dire soprattutto, per altre cose: per il gioco d’azzardo praticato in case private e pubbliche, per la molteplicità dei suoi spettacoli teatrali senza paragoni in Europa, per i costumi rilassati in uso presso tutte le classi sociali e per le alte probabilità di andare incontro ad avventure galanti, in una qualsiasi versione: extraconiugale, mercenaria, etero o omosessuale. «For at least a century and a half, from about 1650 to 1800», è stato scritto, «‘Venice’ and ‘Venus’ were pronounced almost identically»(36).
Questo insieme di attrazioni turistiche non era evidentemente esclusivo della città marciana: Saint Didier scrisse che coloro che conoscevano tanto Roma che Venezia erano imbarazzati nel decidere in quale delle due vi fossero più cortigiane e libertinaggio(37). Ma a Venezia, soprattutto nella cornice trasfigurante del Carnevale, quando, come amplificava un’astuta propaganda, le classi e le identità si mescolavano senza barriera di sorta, la città finiva per offrire al visitatore un’esperienza di soggiorno ‘rovesciato’ rispetto ai canoni consueti di vita aristocratica o borghese. Nella prima metà dell’Ottocento, con la proibizione del Carnevale in maschera, il controllo della prostituzione e il tono più dimesso dei costumi sociali, questa immagine perse un po’ della sua forza attrattiva, che venne però ampiamente compensata dallo stacco che cominciava a crescere tra la realtà di un’antica capitale di un regno orientale sull’orlo di una sempre imminente distruzione, all’interno della quale ci si muoveva a pelo d’acqua spinti dalla forza di un remo, e lo sviluppo urbanistico e tecnologico delle città europee tra prima e seconda rivoluzione industriale. Se una delle chiavi psicologiche e culturali su cui nacque il turismo moderno fu quella dell’‘inversione’ rispetto ai canoni normali di vita e di relazioni, Venezia fu in questo senso un laboratorio nel quale i viaggiatori europei poterono sperimentare ben prima dell’età contemporanea i vantaggi di un soggiorno che stravolgeva la quotidianità, con un benefico effetto rigenerante rispetto alle nuove esigenze produttive del mondo industriale.
Un’angolatura interessante per osservare i cambiamenti che intervennero nelle modalità di soggiorno e di fruizione della città nell’Ottocento è costituita dal corpus di manuali e guide per la visita della città pubblicati tra i due secoli, soprattutto da quelli editi a Venezia o scritti localmente, che evidenziano meglio delle guide straniere le modificazioni dell’offerta turistica(38).
Nel corso del XVIII secolo erano state due le pubblicazioni che, almeno a giudicare dal numero di riedizioni e ristampe, avevano avuto i migliori successi di mercato: la Guida de’ forestieri del poligrafo padre Vincenzo Maria Coronelli, fino agli anni Quaranta, e l’anonima Forestiere illuminato intorno le cose più rare e curiose antiche e moderne della città di Venezia, edita più volte dal 1740 fino al 1806. Entrambe si collocavano nel solco di una tradizione editoriale che è possibile far risalire almeno a Venetia città nobilissima et singolare (1581) di Francesco Sansovino; si trattava cioè di compendi nei quali i monumenti e le ricchezze artistiche formavano un tutt’uno con la storia della città e con la descrizione apologetica del suo sistema di governo. I destinatari ai quali gli autori e gli editori si rivolgevano implicitamente erano visitatori colti, in grado di apprezzare i molteplici riferimenti letterari e storici, che gradivano però essere condotti anche attraverso le comodità e i divertimenti cittadini(39).
Così la guida di Coronelli consigliava dove acquistare la teriaca, i libri, le stampe, i «globi», il «tabacco migliore e a miglior prezzo», quali fossero i periodi in cui si concentravano i «divertimenti», come non perdersi gli spettacoli migliori o gli «organisti di grido», quali le locande più accoglienti, le osterie e botteghe di caffè da frequentare. Quasi imperativo si faceva il tono a proposito delle cose da vedere: il forestiere «Non partirà poi da Venezia, che non habbia specialmente veduto l’Arsenale, il Palazzo Ducale» e via con una lista lunghissima di edifici o monumenti irrinunciabili, significativamente conclusa da tre luoghi civili: il Ghetto, il Fondaco de’ Tedeschi e la Dogana da mar. Più attento a scremare il videndum storico-artistico-religioso da quanto non fosse semplicemente curioso o bizzarro era invece il Forestiere illuminato, che razionalizzava l’esposizione dividendo la visita della città in sei giornate, corrispondenti alle sei ripartizioni amministrative e topografiche della stessa, i sestieri. Le nozioni indispensabili sul governo della Repubblica venivano riassunte in calce, assieme ad un capitolo «Delle feste e dei divertimenti» tutto però riservato alle occasioni rituali istituzionali e tradizionali, con un accenno contenuto al giovedì grasso. Le guide settecentesche seguivano dunque contemporaneamente ancora un duplice obiettivo, non ancora divaricante: fornire quante più informazioni possibili in modo da rispondere a tutte le ipotetiche domande di un visitatore istruito; selezionare, magari solo gerarchizzandoli, i momenti e gli oggetti della visita.
Non si poneva certo questo secondo scrupolo l’abate Giannantonio Moschini, storico della letteratura veneta del Settecento, nel dare alle stampe nel 1815 la sua Guida per la città di Venezia, entro pochi anni compendiata, tradotta in francese e destinata ad avere varie riedizioni. Si trattava senza dubbio del più completo catalogo del patrimonio artistico-monumentale della città, «la miglior Guida che siasi allora veduta, dalla quale presero norma altri autori», per Cicogna(40). Più che un lettore colto, il destinatario doveva però essere un appassionato dell’arte e della storia veneziane, interessato a seguire parrocchia per parrocchia la descrizione di ogni singolo capitello, tela, affresco o quant’altro fosse giudicato di rilievo anche minimo dall’autore, che non lesinava attribuzioni e giudizi.
In questo panorama editoriale veniva alla luce nel 1822 il lavoro di Antonio Quadri, un funzionario di governo dai trascorsi filofrancesi, con una spiccata competenza nell’ambito della statistica e una predisposizione per la «divulgazione limpida, asettica, espositiva, senza pretese di originalità»(41). I suoi Otto giorni a Venezia (cinque edizioni italiane, altrettante francesi e una tedesca) costituiscono il primo significativo punto d’incontro tra l’offerta guidistica locale e le nuove esigenze del tourismo internazionale. L’intento è dichiaratamente sintetico: «costantemente intento a procurare ogni celerità», Quadri introduce l’uso dell’asterisco — già utilizzato ad esempio da Misson nel suo Voyage d’Italie (1714) — per segnalare «all’Osservatore che avesse poco tempo da impiegare» a cosa limitare la visita, suddividendo gli edifici tra quelli «che basta osservar di passaggio», segnati con una «P», e quelli nei quali conviene invece entrare, contraddistinti con una «E».
Il carattere più innovativo della guida di Quadri consisteva tuttavia nell’impostazione della pagina, stampata a mo’ di tavola sinottica ripartita in quattro colonne (località, numero progressivo, oggetti, epoche ed autori, cose meritevoli di particolare attenzione ed osservazioni), sul modello di un registro amministrativo o contabile. Tenendo aperta la guida, stampata in sedicesimo e quindi assai maneggevole, il visitatore poteva cogliere con un solo colpo d’occhio, senza dover indugiare in verbose descrizioni, a cosa indirizzare lo sguardo o verso dove incamminarsi. Ognuno dei giorni di visita era poi destinato ad un percorso che, per evitare giri a vuoto e ripetizioni, non coincideva con un solo sestiere ma era programmato in modo da coprire nell’arco degli otto itinerari l’intera pianta cittadina restringendo l’uso della gondola a due sole giornate, oltre a quella conclusiva dedicata alle isole.
È interessante osservare che una simile sterzata verso una presentazione quasi ragionieristica dello spazio turistico cittadino non sia venuta da un rappresentante di quel mondo imprenditoriale e borghese che aveva tutti gli interessi a standardizzare il prodotto Venezia per renderlo vendibile ad una clientela più ampia, bensì (all’inizio degli anni Venti) da una diversa figura, anch’essa pur tipica di questo tempo, un burocrate compilatore di statistiche ufficiali.
La novità rappresentata dagli Otto giorni, opera «di grande smercio» sempre secondo Cicogna(42), va considerata anche in relazione alle guide di viaggio internazionali disponibili in quegli anni, che costituivano comunque un salto notevole rispetto alla più alta letteratura odeporica settecentesca. L’Itinerario italiano, un fortunato manuale di viaggio che uscì sia in italiano che in francese con cadenza quasi annuale dal 1800 per oltre mezzo secolo, riportava ad esempio una descrizione assai generale della città, infarcita di luoghi comuni, rinviando per eventuali approfondimenti al Forestiere illuminato (nell’edizione del 1765)(43). Negli anni Venti le guide della Starke, lo strumento più utilizzato per spostarsi in Italia dai viaggiatori d’oltremanica fino all’uscita nel 1842 del Murray, pur esprimendo annotazioni originali sulla città e i suoi alberghi, dedicavano tuttavia alla visita artistico-monumentale uno spazio irrisorio: in tutto quattro pagine contro le decine di Firenze e le centinaia di Roma(44). Uno spazio contenuto per la descrizione della città era riservato anche nella Guide des voyageurs di Reichard che, pur selezionando le cose da vedere con l’asterisco, si rifaceva a descrizioni e commenti cristallizzati al secolo precedente(45).
Nel 1827 uscivano i Quattro giorni a Venezia di Quadri. Se nel Settecento il Grand Tour delle classi aristocratiche sul continente durava due anni o più, negli anni Venti dell’Ottocento, è stato calcolato, si era ridotto a quattro-sei mesi in totale o ancora meno se si trattava invece di viaggiatori borghesi(46). Una simile diminuzione aveva evidentemente solo una limitata correlazione con i miglioramenti, assai contenuti, intervenuti nel frattempo nel sistema dei trasporti: fu una trasformazione di carattere culturale, legata ai mutamenti negli stili di vita, che dipese anche dalla minore disponibilità economica del nuovo viaggiatore borghese.
La short version dell’opera di Quadri conteneva una gustosa aggiunta: la passeggiata in gondola lungo il Canal Grande era assistita dall’elenco dei palazzi che si affacciavano sull’acqua, disposti a destra e sinistra della pagina secondo il normale senso di marcia, da S. Marco verso Rialto e la chiesa di S. Lucia. Oltre al nome degli edifici principali, veniva riportato il nome dell’architetto o almeno lo stile della fabbrica, riducendo il commento storico-artistico ad un breve giudizio schematico, in modo da fornire comunque al sempre più frettoloso turista un quadro classificatorio di massima(47). Passata l’Accademia, in prossimità della «volta di canal» (di fronte cioè a palazzo Grassi) la guida ad esempio riportava:
A sinistra.
Tre palazzi della
famiglia Giustiniani.
Architettura del Medio Evo
Palazzo Foscari.
Architettura idem
Palazzo Balbi,
(in volta di canale).
Architetto A. Vittoria
Palazzo Grimani (a S. Tomà)
Rustico(48).
La strada aperta da Quadri venne presto seguita da altri, con un significativo allargamento dell’offerta guidistica che doveva corrispondere ad una diversificazione della domanda. Se Moschini ripubblicava nel ’28 la sua guida, accusando Quadri di averlo copiato nei giudizi ma imitando la descrizione sinottica dei palazzi sul Canal Grande(49), nel 1831 il letterato padovano Jacopo Crescini organizzava il suo Itinerario interno delle isole e della città di Venezia semplicemente in trentadue vedute, corredate da una sintetica descrizione(50). L’«esattezza» delle riproduzioni, la «concisione» delle didascalie erano pensate per uno specifico (nuovo?) segmento di clientela, «quelle colte ed amabili Donne che godono istruirsi per la via del diletto» alle quali la guida era dedicata.
Non meno interessante è l’altra guida di Crescini, che esce dai torchi un paio d’anni dopo, nella quale alcune delle tendenze emerse nel corso del decennio precedente appaiono già esasperate, quasi si ritenesse utile anticipare editorialmente una trasformazione che procedeva a ritmi incalzanti. Il bisogno-opportunità di razionalizzare il sightseeing comporta la dislocazione a tappe forzate del turista nei vari punti cruciali della città, rispetto ai quali diventa indispensabile finanche prescrivere la positura ideale di osservazione, in modo da ottenere subito la migliore e più completa veduta, senza tempi vuoti o divagazioni inutili:
Per bene seguire le tracce della presente guida il Forastiero […] deve collocarsi all’Atrio del Palazzo Reale, da cui gli è dato dominare tutta d’un colpo d’occhio la Piazza di S. Marco […]. Dall’Atrio adunque, volgendosi a questa parte sinistra, salendo la grande Scala, entrerà tosto nelle stanze del Palazzo Reale.
Visitata la Torre dell’orologio, poi, «si arresterà a contemplare la Facciata della Basilica di San Marco»(51). L’eliminazione di ogni pur minimo tempo morto era d’altronde forzata, in quanto la guida prevedeva solamente due alternative: quattro itinerari giornalieri, il quarto dei quali comprendente anche la visita di S. Giorgio Maggiore, S. Lazzaro degli Armeni e Murano, oppure addirittura solamente due, durante i quali, nonostante un’impietosa selezione, la quantità delle cose da vedere rimaneva impressionante. La porzione di città che veniva così interessata dal flusso turistico subiva un drastico ridimensionamento, si limitava di fatto all’area marciana e alla sua prosecuzione en promenade lungo la riva degli Schiavoni verso l’Arsenale e i giardini pubblici; alla passeggiata in gondola lungo il Canal Grande; alle due pinacoteche dell’Accademia e della Scuola di S. Rocco, oltre a poche chiese: la Salute, il Redentore, SS. Giovanni e Paolo e i Frari. Una simile selezione implicava l’alloggiamento nell’area centrale della città, possibilmente nei pressi di uno stazio delle gondole: «supporremo alloggiato [il forestiere] negli Alberghi più prossimi alla Piazza, quali sono la Luna, l’Europa, il Grand Hotel del Danieli sulla Riva, il Leon Bianco».
Negli anni Trenta e Quaranta tutte le guide citate sono oggetto di riedizioni e ristampe e ad esse se ne aggiungono altre, come l’originale Guida del forestiero per Venezia antica (1842) di Fabio Mutinelli, annalista e direttore d’archivio(52). L’«antichità» di Venezia, un tempo ingrediente fondamentale del suo mito politico, viene qui ridotta, forse per la prima volta in modo sistematico, ad attrazione turistica. Per l’austriacante Mutinelli la storia non è più l’asse allineatore di una costruzione socio-politica, o della sua nostalgica rievocazione; diventa un affastellarsi di aneddoti e curiosità, organizzati secondo percorsi del tutto originali, al di fuori dei templi consacrati al sightseeing, e indirizzati ad un pubblico di qualche erudizione che non concepisce la lezione del passato come insegnamento, quanto piuttosto come divertimento, costume, ‘colore’ in grado di ravvivare una giornata in laguna. È l’incunabolo di tante recenti guide ‘diverse’ (e magari ‘intelligenti’) alla visita della città.
Anche per la guidistica il 1847 segna un anno limite. Viene riedita per l’ultima volta «nello scopo di giovare tanto a’ nazionali che agli stranieri» la guida di Moschini, che in quanto censimento completo del patrimonio storico-artistico cittadino era stata ormai superata dai quattro splendidi volumi de Il fiore di Venezia di Paoletti(53). L’impostazione rimaneva aderente all’originale (sebbene compressa nello spazio), venivano tuttavia premesse venti pagine di notizie utili per il forestiere, con gli alberghi e le locande principali, gli alloggi in case private, le «trattorie o restaurant», i caffè, le immancabili tariffe delle gondole (stabilite nel 1839 dal Comune), i teatri, i bagni, i consoli esteri, i «banchieri», ecc. Non mancava nemmeno l’ormai consueta rassegna di palazzi sulla via d’acqua principale della città, «nell’ordine che è consuetudine tenersi da battellieri allorquando conducono i forestieri pel Canal Grande»; veniva infine presentato il nuovo ponte translagunare ferroviario, un’«opera di tale grandiosità e ardimento che mai non s’ebbe esempio nella storia delle arti». L’abate Moschini era morto da qualche anno e gli eredi avevano venduto i diritti dell’opera alla casa editrice milanese Vallardi.
Usciva nello stesso anno anche il Manuale ad uso del forestiere di Gian Jacopo Fontana. L’ordine alfabetico degli argomenti trattati implicava la presenza di un cicerone che accompagnasse il turista nei luoghi principali: la presenza di guide, ufficiali o meno, era d’altronde segnalata ormai in tutti gli alberghi principali e in piazza S. Marco. Ampio spazio veniva dedicato, come nella recente, annuale Guida commerciale di Venezia, alla localizzazione e descrizione degli alberghi e soprattutto alla variegata offerta conviviale: le «tavole rotonde», vale a dire la possibilità di pranzare a prezzo fisso, risultavano essere dodici, nei principali alberghi e restaurants della città. Al Danieli, per esempio, vi era tavola rotonda di «40 coperte [sic] al prezzo di tre franchi per ogni persona, alle ore 3 p.m. Alle ore 5 p.m. e al prezzo di 4 franchi altra tavola rotonda, per gli alloggiati di casa». Ai medesimi orari, ma con ottanta coperti, si teneva invece tavola rotonda all’Imperatore d’Austria, mentre meno vincolante era mangiare «alla carta», possibile «a tutte le ore» nelle principali «mense»: la locanda al Vapore a S. Giuliano, al Cappello Nero in merceria dell’Orologio, al Selvatico in Bocca di Piazza, al Cavalletto in campo S. Gallo o al caffè Quadri «ora Vaerini» sotto le Procuratie Vecchie. Ampio spazio era inoltre dedicato alla descrizione degli stabilimenti dei bagni e a tutta l’ormai diversificata offerta turistica cittadina.
Nel XVIII secolo la durata del soggiorno in città era tale da consentire al visitatore di entrare in confidenza con essa, con la sua intricata urbanistica, con la logistica degli spostamenti e la posizione dei suoi siti storico-artistici principali: le guide di questo secolo sono dei contenitori ricchi e confusi, che il grand tourista ha tutto il tempo di compulsare ricercandovi informazioni e trovandovi gli spunti per organizzare le visite. Tra Sette e Ottocento la tempistica del viaggio si accorcia: è un fenomeno che ha luogo contemporaneamente alla nascita di una nuova sensibilità per il viaggio, per la natura, per la capacità ‘sentimentale’ dei luoghi di suscitare emozioni, che devono essere però indirizzate, guidate, massimizzate. La Wanderung è materia letteraria, oziosa; al nuovo viaggiatore spetta piuttosto il tour, non ancora organizzato o di gruppo ma ormai minutamente assistito: già Goethe d’altronde avvertiva che per ascoltare i gondolieri cantare Tasso e Ariosto sulle struggenti melodie popolari «bisogna[va] ordinarlo apposta»(54).
Riducendosi la durata delle tappe e, probabilmente, il bagaglio culturale di fondo dei visitatori, si contrae il novero delle cose che è possibile vedere e apprezzare; la scrematura avviene sull’onda dell’estetica vigente e tenendo conto di alcuni appuntamenti immancabili. Verso metà secolo, infine, appare in netta crescita l’aspetto relazionale: i turisti passano ormai buona parte della giornata soprattutto tra di loro, in albergo, in passeggiata, prendendo un bagno d’acqua salsa, a una «tavola rotonda», e dopo cena a uno spettacolo teatrale. Alla città non è più sufficiente presentare le proprie vestigia: deve erigere alberghi, ammodernare restaurants e caffè, ampliare stabilimenti per i bagni e saloni per il ballo.
Se l’inaugurazione del ponte translagunare che metteva fine all’isolamento acquatico della città più che costituire la condizione pregiudiziale per il suo sviluppo turistico rappresentò un elemento di accelerazione della sua già evidente destinazione terziaria, il collegamento ferroviario con la terraferma fu in ogni caso la pietra tombale sulla Venezia byroniana, un insieme tragico di rovine e memorie che si ergevano prometeicamente contro la banalità della società industriale. Il coro delle lamentele, proveniente soprattutto dagli ambienti letterari anglosassoni, fu quasi unanime. Per Mary Shelley risultava «impossibile non essere afflitti da questa innovazione […]. La potenza, i commerci, le arti di Venezia sono finiti; il ponte la priverà del suo spirito romantico». Per John Ruskin, il cantore delle Pietre di Venezia che volle giungere in città in barca, da Fusina, per sorprendere Venezia dalla sua prospettiva tradizionale, ponti, condutture del gas e strutture in ferro la rendevano simile a Birmingham o a Liverpool. Anche Robert Browning, quarant’anni dopo, non sarebbe riuscito a celare il suo risentimento verso i veneziani «per la loro ostinata determinazione a rendere come Liverpool la città»(55).
Come era avvenuto dopo la caduta del regime aristocratico, i due decenni che seguirono la fine dell’avventura repubblicana del ’48-’49 costituirono una prolungata, profonda fase di ripiegamento economico, sociale e progettuale della città, paralizzata tra l’immobilismo politico degli austriaci e l’incalzare del progresso tecnologico e produttivo internazionale. Come dopo Campoformido, questa simmetrica congiuntura presentava implicitamente alcune condizioni ideali per un salto deciso in avanti nella costruzione della città turistica. Sul piano dell’immagine, ad esempio, lo stato di servitù politica accentuava l’idea di città-relitto che piaceva tanto alla società vittoriana, preoccupata dei destini del proprio Impero, mentre la crisi economica contribuiva ad allontanare dalla laguna lo spettro della modernità, mantenendo quella patina di straordinarietà urbana che l’arrivo della locomotiva a vapore aveva solamente scalfito.
La crisi prolungata del settore commerciale, assieme alla perdurante arretratezza delle strutture industriali cittadine, produsse pesanti ripercussioni sul piano occupazionale e sociale: la città si riempì di 30.000 poveri e sottoccupati, manodopera disponibile a bassi costi, drammaticamente ‘flessibile’, quanto insomma di più adatto esisteva per un settore dominato da fluttuazioni parossistiche della domanda come quello turistico-alberghiero. Non stupisce che vi confluissero figure sociali e professionali disparate, come emerge dal variopinto elenco del personale dell’Hotel de la Ville (già Imperatore d’Austria) attorno agli anni Cinquanta, dove lavoravano un «credenziere» (dispensiere) di Parma, un cuoco veronese, un facchino di Burano, una cameriera friulana, una domestica africana di nome Moretta («comperata al Brasile»), un cameriere di Friburgo e uno francese(56).
Anche per il comparto terziario, tuttavia, il sentiero della ripresa non sarebbe stato imboccato con decisione se non dopo l’annessione, non prima quindi di un quindicennio e non prima che tra il 1859 e il 1866 fosse toccato il fondo di tale congiuntura. Nell’incertezza, e nel ritardo, di una simile ripartenza deve aver avuto qualche ruolo l’alto livello dei prezzi raggiunto prima del ’48: John Pemble suggerisce che nel periodo 1840-1870 la curva dei prezzi ‘turistici’ toccò il suo apice(57); un elemento, questo, nettamente diverso rispetto ai primi decenni del secolo quando invece la depressione economica aveva reso Venezia una città decisamente conveniente.
In questi anni difficili non mancarono comunque segnali di attenzione e vitalità, per certi versi anche inaspettati o velleitari. Come ad esempio, nei primi anni Cinquanta, la ripresa del progetto abortito dieci anni prima di costruire ex novo un grande complesso balneare nel centro della città. Motore dell’iniziativa fu l’assessore conte Pierluigi Bembo, che trovò ampio appoggio all’interno del consiglio comunale e una non altrettanto entusiastica sponda nell’imprenditoria locale. Alla commissione appositamente costituita per raccogliere i progetti fu infatti presentato un solo piano, firmato dal giovane architetto Lodovico Cadorin e commissionato da un imprenditore specializzato in lavori pubblici di scavo, Giovanni Busetto detto «Fisola». Si trattava di un gigantesco, ininterrotto Palais Royal di 600 metri di lunghezza per quasi 50 di profondità e quattro piani di altezza, da erigersi lungo la riva degli Schiavoni trasformata in una larga strada, che doveva contenere alberghi, ristoranti, stabilimenti balneari, sale da ballo, teatro, borsa, caffè, giardini pensili. Approvato a larghissima maggioranza dal consiglio comunale, il progetto Fisola-Cadorin, che avrebbe fatto tabula rasa di una delle aree di maggiore interesse monumentale e turistico della città, venne bocciato dal delegato provinciale «per ragioni ambientali logistiche e militari»(58).
Dall’interno della stessa commissione comunale giunse uno dei primi segnali di attenzione verso una localizzazione diversa delle strutture balneari: non più all’interno della laguna in concorrenza con l’offerta storico-artistica cittadina, bensì sul fronte mare, in un contesto tutto da organizzare e riconcepire. Secondo il dottor Giacinto Namias, grande sponsor della balneoterapia lagunare, era opportuno pensare ad una dépendance dell’erigendo complesso ricreativo al Lido, per venire incontro all’«idea che hanno i forestieri che l’acqua delle nostre lagune non sia pura, e al desiderio che dimostrano di bagnarsi coll’ondata stessa del mare»(59). Non si trattava nemmeno in questo caso di una tendenza autoctona: la moda dei bagni aveva già da qualche decennio fatto da volano alla scoperta della spiaggia, alla magnificazione dell’aria marina, del contatto con l’arenile, diffusasi lungo le coste del Mare del Nord e della Manica dalla fine del XVIII secolo e quindi dalla metà dell’Ottocento anche in Costa Azzurra e in Riviera.
Venezia poteva a proposito contare su una risorsa ambientale intatta, la lunga fascia sabbiosa che separava la laguna dall’Adriatico aperto, a breve distanza dal centro della città e dalle sue strutture alberghiere. Abitato da poche centinaia di pescatori e ortolani, oltre che da una guarnigione militare, il Lido, che era parso a Goethe «un’unica, grande duna», era a metà secolo tutto «ridotto a vigne» e riforniva la città di «frutta e legumi in copia, carcioffi, cardi, sparagi e peponi, uva lugliatica e vino eccellente»(60). I veneziani vi trascorrevano i «lunedì del Lido», sorta di chiassose e popolari gite fuori porta, i touristi vi si recavano per una passeggiata, per far colazione all’aperto, per godere della frescura in un ambiente che predisponeva alla convivialità e all’informalità.
È difficile individuarvi con precisione gli inizi della pratica dei bagni. Quando nel 1855 un israelita, Ignazio Leon, chiese al Comune di erigervi uno stabilimento balneare in legno «colle comodità richieste dalle differenti caste di bagnanti» vi si trovavano già delle baracche ad uso di camerini. A Leon venne tuttavia preferito, e non poteva essere altrimenti, Busetto Fisola, che aveva già acquistato buona parte dell’arenile escluso da servitù militari e che commissionò il progetto di uno stabilimento da erigervi al fido Cadorin. Nell’arco di pochi anni, prima del 1858, la parte centrale dell’isola venne completamente riattata: il viottolo che conduceva al mare venne trasformato in una strada percorsa da omnibus a cavalli, sui quali salivano i turisti giunti all’approdo di S. Maria Elisabetta con un battello a vapore che effettuava servizio orario dalla riva degli Schiavoni. Scesi dalle vetture in una spianata prospiciente al mare, dove una tettoia ricopriva una piattaforma per orchestra, in breve i bagnanti giungevano al Kursaal costruito su palafitte in riva al mare, dove si trovavano i camerini per i due sessi, il parrucchiere, le stanze per il deposito della biancheria e per la custodia dei valori, il chirurgo, il farmacista, oltre che una caffetteria con giornali «politici, letterarii, scientifici» e un ristorante(61).
Considerando gli esempi internazionali di località balneari marine a disposizione, in questi inizi turistici del Lido ciò che colpisce non è tanto il fatto che già nel progetto di Fisola, che prevedeva anche la costruzione di un albergo, fosse contenuta in nuce la futura fisionomia della stazione lidense, quell’essere cioè turisticamente del tutto autosufficiente rispetto a Venezia, di rappresentare una sorta di ‘città balneare totale’ costruita dal nulla per soddisfare ogni moderna esigenza della clientela (una ‘scoperta’ che è stata in seguito variamente e impropriamente attribuita alla C.I.G.A. [Compagnia Italiana Grandi Alberghi] o a Nicolò Spada, l’inventore dell’Excelsior Pal;ace)(62). Risulta piuttosto originale il ruolo che ebbe in questa fase l’amministrazione comunale veneziana, che con il consenso di quella isolana (il Lido costituì per quasi tutto il secolo comune a sé stante), assecondò Fisola facendosi carico di dotare il litorale di infrastrutture, optando da subito per un servizio di trasporto a motore, ponendosi come intermediaria tra lo stesso imprenditore e le autorità austriache che preferivano mantenere una destinazione militare all’isola (nel 1859, durante la seconda guerra d’indipendenza, lo stabilimento venne abbattuto per motivi di sicurezza).
La posizione del Comune a proposito del Lido rappresentò in ogni caso per tutto il decennio dell’annessione l’unico apprezzabile episodio da cui risulti una qualche differente valutazione da parte della classe dirigente locale dei destini turistici della città. Se si leggono ad esempio le relazioni enfatiche con cui il podestà Pierluigi Bembo concluse i suoi due trienni a guida dell’amministrazione comunale nel 1863 e nel 1866, l’impressione è contraria rispetto a quanto è stato recentemente osservato, e cioè che per la prima volta nell’Ottocento si sarebbe preso «coscienza della rilevanza economica dell’attività turistica che non viene più relegata nell’astrattezza letteraria delle romanticherie, dimensionandone portata e senso entro una visione solidamente connessa ai dati di struttura e alle attività produttive»(63). Il discorso di Bembo seguiva, finanche nella ripresa di modi ed espressioni usuali, l’impostazione tradizionale data al problema degli sbocchi economici della città, così come era stata ad esempio portata avanti dalla Camera di commercio prima del ’48, che individuava nell’opzione commercial-industriale, quasi in antitesi con la nascente destinazione turistica, l’unico, possibile percorso di sviluppo per l’economia lagunare:
Perché dunque Venezia risorga non basta tramutarla in una vasta locanda pei forestieri che ricorrono al mite suo clima, all’acqua saluberrima delle sue lagune, agli spassi dei suoi carnasciali; bisogna inspirarci a quei tempi in cui ella era l’emporio del mondo; bisogna annodare strette corrispondenze coi paesi dell’Asia; bisogna dissotterrare qualche industria morta, ravvivare il commercio avvilito, comprendere l’intima attinenza di entrambi(64).
Il turismo continuava insomma a occupare — e sarebbe singolare il contrario considerando quanto abbia stentato ad affermarsi nel Paese anche nel corso del Novecento una cultura, una politica specifica del settore — uno spazio marginale, interstiziale nel progetto di città con cui le classi risorgimentali entrarono nello Stato unitario. È fatica vana, di conseguenza, ricercare nel profluvio di statistiche economiche che accompagnarono questi decenni — dalle monografie di Errera a quelle di Morpurgo, dalle statistiche del prefetto Torelli agli stessi dati di fonte comunale pubblicati da Bembo — un qualche tentativo di considerare dal punto di vista dimensionale il settore, che senza dubbio era strutturato in modo da sfuggire alle rilevazioni, ma nei confronti del quale si operò a lungo una generale rimozione.
Rivolgendosi ancora ad un indicatore assai approssimativo, il numero degli alberghi ed hôtels presenti nelle varie guide turistiche e commerciali, verso la fine degli anni Sessanta si assiste ad un nuovo significativo ampliamento della ricettività cittadina. Sulla riva degli Schiavoni, a fianco del sempre celebre Danieli ormai divenuto Hotel Royal, e inframmezzate da caffè, ristoranti e ritrovi di passeggio, vennero aperte non meno di cinque nuove strutture alberghiere, contribuendo a dar forma ad un’area dall’ormai compiuta fisionomia turistica: l’Aurora (poi Zanipol), l’Hotel Beau Rivage e il Laguna (oggi Londra Palace), il Nazionale e il Sandwirth (oggi Gabrielli Sandwirth)(65). Anche sul lato opposto della Piazza, dove non esisteva una riva pedonabile, nell’area tra S. Maria Zobenigo e la chiesa di S. Moisè, i cinque alberghi presenti nel 1847 sarebbero diventati nel 1870 nove (v. fig. 1).
Considerando la localizzazione della ferrovia, il potenziamento dei collegamenti (nel 1857 la linea giunse a Milano) e la costruzione della nuova stazione (tra 1861 e 1865), assieme alla decisione nel 1868 di situare verso est e la terraferma il nuovo scalo marittimo, lo spostamento definitivo della ricettività alberghiera verso il bacino di S. Marco contribuì a quel generale «rovesciamento d’orientamento di tutta la struttura cittadina» che ebbe luogo in questi anni. Piazza S. Marco, che come ha scritto Giandomenico Romanelli aveva rappresentato la quintessenza della città rinascimentale, incarnò ancora una volta in modo emblematico il destino dell’intera città, divenne «null’altro che passeggio e luogo di commercio elegante e turistico: chi l’aveva definita ‘salotto’ aveva visto giusto»(66).
Tale processo preluse ad una serie di ristrutturazioni che cambiarono radicalmente le modalità interne di spostamento nell’area tra Rialto e S. Marco. Dall’apertura del bacino Orseolo, alla costruzione della Strada Nova, alle nuove «vie» XXII Marzo e Due Aprile, al campo Manin, il progetto di creare un anello pedonale attorno alla Piazza, raccordato con una strada ad ampio transito alla ferrovia, coinvolse tra gli anni Settanta e Ottanta alcune delle aree a più fitta densità turistica, accelerando la ristrutturazione del patrimonio edilizio alberghiero e contribuendo a creare un ‘quartiere turistico’ ormai nettamente individuato, in alcuni tratti senza soluzione (residenziale) di continuità(67): «Venezia non si sveglia totalmente che alle 9 del mattino», scrive una guida nei primi anni Ottanta, «e non si addormenta […] che alle due dopo la mezzanotte. Ciò riguarda principalmente il Sestiere (circondario) di S. Marco […] che se [il turista] spingerà il passo verso i quartieri lontani, vedrà già alle prime ore di sera le calli spopolarsi sempre di più e […] gli sbadigli farsi più frequenti»(68).
Il desiderio di rendere sempre più utilizzabile la città, sia in termini industriali che turistici, dà la stura alle più sfrenate proposte modernizzatrici: «portare cavalli e carrozze, linee ferroviarie e tranviarie, sopraelevate e metropolitane a correre lungo, sopra, sotto il Canal Grande e il Bacino San Marco in sogni tecnologici e deliranti fantasie»(69). Pochi tengono conto delle possibili ricadute negative in termini turistici: i primi a protestare per quest’ansia di omologare Venezia alle altre città, si stupisce Carlo Ritter in Fine o rinascimento di Venezia, dovrebbero essere i proprietari degli alberghi, «giacché principalissima fra le ragioni per le quali tanti forestieri si rifugiano in questo felice asilo è precisamente il desiderio di sottrarsi a quelle fastidiose impressioni di terraferma»(70). Sebbene il cambiamento antropologico della città iniziasse in questi anni ad alimentare un dibattito politico-progettuale che sotto mutata specie ha attraversato tutto il Novecento, in realtà il susseguirsi degli interventi modernizzatori, come l’introduzione dei vaporetti nel 1881, non avrebbe retto il passo con quanto accadeva nel resto del mondo, per cui il vantaggio in termini di diversità della città sulla laguna avrebbe continuato ad aumentare(71).
Appare evidente, negli ultimi decenni del secolo, un salto di qualità nell’organizzazione e razionalizzazione dei servizi turistici, la maggior parte dei quali vennero sottoposti a regolamentazione comunale, per escludere o almeno contenere il fenomeno crescente dell’abusivismo. Il primo impatto del viaggiatore con l’organizzazione ricettiva locale è in questo senso significativo. Già, secondo l’edizione del 1865 del Baedeker, all’arrivo in stazione «les porte-faix patentés transportent rapidement les effets dans la barque-omnibus ou dans une gondole particulière, selon les ordres qu’on leur donne. A votre demande, un employé spécial vous délivre un numéro pour une gondole, et le tarif». Trent’anni dopo l’accoglienza sarà ancora più suggestivamente efficiente: nell’atrio i rappresentanti dei principali alberghi si presentano su due file e gridano il rispettivo nome, che è scritto anche sul berretto(72).
Il tour o la serenata in gondola non costringevano più a levantine contrattazioni, era sufficiente richiamare la tariffa comunale ed eventualmente, nel caso ad esempio in cui venisse imposto senza motivo il secondo rematore, dimostrare di conoscere quel passo del regolamento ufficiale, riportato in italiano sulle guide, che recitava: «Quel barcajuolo che esigesse una tariffa maggiore della fissata, o mancasse di rispetto ai passeggieri, sarà rigorosamente punito». Presso ogni albergo era reperibile una guida di piazza, a tariffa giornaliera prestabilita; i portantini recavano una placca d’ottone con un numero bene in vista sulla giubba azzurra; gli interpreti ufficiali coprivano praticamente tutte le lingue europee: l’inglese, l’ungherese, il greco, il russo, il danese, il tedesco, il francese, lo spagnolo, lo svedese e il norvegese secondo la Guida commerciale del 1875; in città le agenzie delle principali compagnie di navigazione che solcavano il Mediterraneo consentivano di acquistare biglietti per qualsiasi tratta, comprese le destinazioni orientali raggiungibili ormai facilmente attraverso Suez.
È possibile, a tale livello di sviluppo, parlare di industria turistica? Crediamo, tutto sommato (e in mancanza di studi che formalizzino in prospettiva storica la strutturazione del settore)(73), di sì. La serializzazione dei servizi, la standardizzazione dell’offerta giunsero nell’arco di tempo che va dagli anni Settanta alla prima guerra mondiale ad un livello non inferiore a quello di alcuni dei comparti del secondario che tra 1890 e 1914 presero parte alla prima, netta accelerazione industriale del Paese. Per completare il giudizio mancano tasselli importanti, a cominciare dalle caratteristiche della manodopera (che rimarrà a lungo esclusa dai processi di protosindacalizzazione) e del relativo mercato del lavoro, per proseguire con le forme ed organizzazioni aziendali o la provenienza dei capitali, ma che il turismo abbia rappresentato in alcune località già alla fine del XIX secolo una risorsa trainante appare in questo caso di un’evidenza palmare, che non ha bisogno di essere legittimata in termini econometrici o statistici.
È di questi decenni un balzo in avanti considerevole anche nella diversificazione dell’offerta, esemplificabile nella trasformazione del Lido. Il litorale sabbioso divenne progressivamente l’ambito esclusivo delle strutture balneari cittadine, la permanenza delle quali all’interno della laguna, nel centro cioè di una città che risalì a fine secolo sopra i 150.000 abitanti, era ormai in contrasto con le più elementari conoscenze igieniche. La fase pionieristica di Fisola si chiuse nel 1872 — non senza un’ultima intuizione: un «bagno popolare» per una diversa fascia di utenza —, quando una «Società dei Bagni» rilevò le diverse strutture presenti sul fronte mare. Si trattò di un passaggio storico, che sancì l’ingresso del grande capitale nel settore turistico: fondata con 1.000.000 di lire di capitale, la società era espressione dell’alta borghesia finanziaria e commerciale cittadina (Papadopoli, Reali, Musatti, Ravà, Giovannelli, ecc.) che si risolse ad investire sul potenziamento del polo balneare affidandone la gestione ad un imprenditore del settore, Genovesi, comproprietario dell’albergo Danieli.
Secondo una descrizione del 1887, nella stagione estiva il Lido era raggiungibile in dodici minuti dalla riva degli Schiavoni, con un servizio di vaporetti in partenza ogni quarto d’ora. Dall’approdo di S. Maria Elisabetta si proseguiva con il tramway a cavalli o con una passeggiata lungo il viale alberato Regina Margherita — nel 1883 la consorte del re aveva condotto al Lido il principe Vittorio Emanuele, aggiungendo l’indispensabile tocco di regalità alla spiaggia — lungo il quale cominciavano ad esservi alberghi e ristoranti. Sulla marina, oltre agli abituali servizi di supporto alla balneazione, si trovava la cité loisir, con caffè, ristoranti, terrazza sul mare, un salone per concerti capace di 1.500 persone e, nelle vicinanze, gradevoli chalets «ove si affittano stanze ed appartamenti elegantemente ammobigliati»(74). Nel 1883 le presenze turistiche furono 160.000, nel 1907, l’anno in cui la C.I.G.A. rilevò la concessione demaniale dell’arenile, sarebbero salite a 3.500.000: l’Hotel Des Bains aveva però a questo punto già qualche anno e di lì a poco sarebbe stato inaugurato l’Excelsior. Il Lido era ormai incontestabilmente la prima stazione balneare italiana(75).
Rispetto al «centro storico» (l’espressione è novecentesca) il Lido offriva un soggiorno di natura sostanzialmente diversa, era quindi in grado di attrarre fasce differenti di clientela, non necessariamente o non esclusivamente interessate alla città monumentale e artistica: clientela d’alto rango, ma anche ceti in ascesa che cominciavano ad attribuire alle località di soggiorno il valore di status symbol, e anche, sebbene spesso lo si dimentichi, strati popolari locali. La novità insita nel turismo balneare viene segnalata in modo abbastanza scoperto in una pubblicità dei primissimi anni della spiaggia, nella quale si invitavano «gli ammalati, gli uomini d’affari, i retrogradi, i codini, ecc.» a continuare a recarsi negli stabilimenti lagunari: «qui non si vogliono vedere né faccie smorte, né musi duri, né colli torti», il Lido dev’essere il «rendez-vous del bel mondo», non un ritrovo di «esseri sofferenti»(76). Assieme alla nuova ideologia salutista della pelle abbronzata e del fisico prestante, che trionferà negli anni Venti, funzionò poi da richiamo il tono diverso della sociabilità balneare, dove l’attrattiva principale era costituita, per usare le parole di un turista, dalle «facili conoscenze, le intimità, così presto fatte e così presto disfatte, con tutte le distrazioni della galanteria»(77). Quando Hermann Hesse scrisse nel 1904 dal Lido che «il sole e il mare sono molto più importanti che tutta la storia», avrebbe insomma tradotto in termini letterari una tendenza presente nel codice genetico della stazione balneare.
L’aprirsi a ventaglio dell’offerta turistica nel corso dell’ultimo quarto dell’Ottocento risalta bene anche dal panorama della guidistica. La rivoluzione rappresentata dalle grandi collane editoriali — il Murray prima, il Baedeker soprattutto, o in seguito il Guide bleu e per l’Italia, dal 1896, le guide del Touring — come si è detto era stata largamente anticipata, almeno come tendenza se non per esaustività, dalle pubblicazioni locali(78). L’accelerazione ‘industriale’ del settore emerge da vari aspetti. Si verifica innanzitutto una divisione della produzione in due fasce: al livello più basso tende a scomparire il nome dell’autore e l’anno di pubblicazione (la guida deve essere una raccolta di informazioni ‘senza tempo’, aggiornate cioè solo sul presente); le traduzioni in lingua straniera sono ormai simultanee all’edizione italiana; i calchi o i plagi rispetto alle opere originali — come la guida Selvatico-Lazzari che dal 1852 costituisce il nuovo standard di riferimento(79) — non sono più fonte di scrupoli, lo scopo unico essendo la fruibilità, non la riconoscibilità autorale. Sono insomma guide che finiscono per assomigliarsi l’una all’altra, prodotti ‘in serie’ ma non necessariamente scadenti.
Al livello più alto, destinato a coloro che si fermano più a lungo in città o a turisti di una certa cultura, la tendenza è verso una marcata specializzazione per differenti segmenti di pubblico. La già citata Guida pratica, edita sotto lo pseudonimo di Sylvius, e offerta ai partecipanti al III congresso geografico internazionale nel 1881, costituisce ad esempio l’esemplare perfetto di guida che si rivolge ad un turista «borghese», al quale l’autore dà confidenzialmente del lei, la «cui prima preoccupazione sarà quella di trovare un alloggio proprio alla sua condizione e un restaurant», a cui interessa poco o punto la storia della città (vi è dedicata una pagina in tutto), e molto lo shopping, la convivialità, i locali da frequentare, le possibilità relazionali offerte dal Lido. Il tutto adeguatamente pubblicizzato con circa cento pagine di réclames.
Sulla stessa linea si muove Zig-zag a Venezia dell’ing. Ernesto Volpi, un professionista attivo nella ristrutturazione alberghiera che, rivolgendosi ai «men ricchi di tempo» tra coloro che fossero giunti a Venezia per l’Esposizione nazionale artistica o per le «inaugurazioni ai monumenti a Vittorio Emanuele e a Garibaldi», arricchisce il consueto novero di informazioni con una messe di dati tecnici e scientifici sulla città, inframmezzando le descrizioni con segnalazioni pubblicitarie in neretto. Gli appassionati di arte e cultura non avevano minore scelta. La Nuova guida di Venezia di A. Della Rovere (1883) offriva un compendio divulgativo, articolato per architettura, scultura e pittura, dello stato della storia e della critica dell’arte. Sotto forma di guida, essendo cioè organizzata per itinerari di visita, era anche la Guida storica di Eugenio Musatti (1904): si trattava in realtà di una storia di Venezia vera e propria. Al confine tra guida turistica e monografia erano poi Venezia di Pompeo G. Molmenti (1903), dove forse per la prima volta in modo sistematico veniva utilizzata la fotografia per la presentazione del patrimonio artistico della città e, soprattutto, Venezia antica e moderna di Ernesto Marini (1905), che univa una sintetica ma efficace guida monumentale ed artistica ad una riflessione sulla società, sull’economia e sulla cultura della città contemporanea. In questo ultimo caso almeno, la guida non è «mezzo di accecamento», che sopprime il presente storico e per questa via rende indecifrabile, perciò stupido, il monumento(80).
Il prodotto più completo e per alcuni versi più ‘moderno’ del settore compare a fine secolo, sotto la firma di Lorenzo Benapiani (pseudonimo di Napoleone Brianzi). È una Guida-impressione che opera un’acrobatica quanto efficace sintesi tra una prosa sovrabbondante ed icastica, un uso artistico della fotografia di corredo e un’asfissiante precettistica per il turista. Così appare la città alla «prima impressione»:
Una città, baciata in ogni parte dall’onda marina e dal sole, che sotto i suoi raggi ti appare come un gioiello d’oro incastonato di lapislàzuli, di topazi e di rubini, che sotto la pioggia ti dà l’aspetto di una grande miniera di platino, di opale, di smeraldi, inno costante all’armonia dei colori(81).
Se l’estetica comminata è quella, trionfante proprio da allora e per qualche lustro in avanti, del Vate, il sightseeing non ha ormai più nulla di contemplativo o romantico, appare piuttosto un esercizio di divincolamento da adescamenti e raggiri, di isolamento dalla folla. I ciceroni, avverte con puntiglio l’autore, portano un distintivo e sono muniti di patente municipale risultante da apposito libretto che contiene alcune pagine in bianco per eventuali reclami. Alla guida il turista deve dare precisa indicazione «dei monumenti pubblici e dei luoghi, stabilimenti, ecc. ecc. che desidera visitare e se ad onta di ciò essa tentasse di condurlo a stabilimenti, fondaci, negozi, diversi dagli indicati, il forestiero dovrà fare reclamo immediato al Municipio […] od ai Vigili di servizio». È fatto peraltro divieto assoluto alle guide di offrire i loro servizi, anzi «è loro assolutamente proibito di seguire a tale scopo i forestieri […] e di insistere in qualunque modo per ottenere la preferenza»(82).
Il tema della città-rapina assume una tale evidenza nella pubblicistica di questi anni da non poter non esser messo in relazione con la concomitante crescita ‘industriale’ del settore turistico. Soprattutto sulla stampa anglosassone, ma anche in pubblicazioni locali come l’opuscolo del prof. G. Ottolenghi, La camorra nell’industria veneziana, edito nel 1887 e ripreso l’anno successivo da William Scott, lo storico della Basilica, in The Camorra in Venice, l’intero sistema cittadino viene descritto in termini di raffinatissima organizzazione finalizzata alla cattura del turista e alla spartizione delle sue spoglie. La «vergognosa tresca» poteva iniziare addirittura in treno, dove appositi figuri detti oseladori, spacciandosi per turisti esperti della città, consigliavano l’albergo nel quale scendere, il ristorante da frequentare, i negozi più convenienti. Il contatto poteva altresì aver luogo ad una table d’hôtel, ma più difficilmente perché negli alberghi, come veniva dimostrato con tanto di tabelle, tutti, a partire dal proprietario e dal direttore della casa, proseguendo ovviamente per il concierge e finendo con il gondoliere incaricato del trasporto, erano già d’accordo nell’indirizzare gli acquisti dei clienti e nel dividersi quanto il padrone del negozio o della fornace di vetro riconosceva come percentuale sugli stessi. La casistica, che appare di prima mano e riporta tanto di nomi e di ditte, non risparmiava nessuno: industriali, negozianti, commessi di negozio, gondolieri e barcaioli vari, interpreti, «servi di piazza»: «tutta gente che forma un esercito»(83).
Il problema rispecchia la crescita, parallela a quella del settore turistico ufficiale, dell’indotto: l’industria e lo smercio di souvenirs, oggetti di artigianato locale, quali prodotti in metallo stampato (gondole), maschere, oggetti in legno, mappe, merletti, mosaici, vetri, cartoline, fotografie, ecc., un settore economico che sfugge sistematicamente ad ogni rilevazione statistica e che (anche per questo) costituisce uno dei comparti dai più alti margini di guadagno(84). Il contesto storico e culturale della città contribuisce a far scivolare questa branca di artigianato potenzialmente d’arte in vera e propria industria del falso. «Si profitta di ogni festa e di ogni occasione», viene osservato da un contemporaneo, «per sciorinare sotto gli occhi dei passanti oggetti di tutte le specie, grandi e piccoli, nuovi ed usati, antichi e moderni»; «Si vede accanto ad un libro raro un paio di scarpe fruste, vicino ad un vaso finissimo, o ad un pugnale, ad una spada e ad un’elsa arrugginiti, che si vorrebbero far credere di qualcuno dei Dogi più rinomati, un botticello vuoto, o sopra una sedia sgangherata il quadro di un celebre autore»(85).
Con il decollo dell’industria turistica, ancorché limitata ad una dimensione che appare oggigiorno d’élite, acquisisce dunque rilievo e visibilità il mondo del ‘sommerso’, dell’abusivo, del contraffatto. Anche a riguardo, nei secoli precedenti, si era elaborata una cultura, si erano incubate predisposizioni, abilità, conoscenze. Agli inizi del Novecento, assieme alla ripresa del porto e alla nascita (o rinascita) della ‘città industriale’, anche questo elemento contribuisce a formare l’immagine di una città stravolta nel suo spirito originario, che suscita il dolore e il disprezzo soprattutto di chi vede messa in dubbio la pretesa di essere il solo a poter viaggiare. «La Venezia d’oggi è un grande museo, la cui porta d’accesso cigola in continuazione e voi fate l’ingresso in questa sorta di istituzione assieme ad una massa di visitatori», scrive Henry James nel 1907. Il turismo di massa appare ai nostri occhi ancora ben al di là da venire, ma le sue premesse ci sono già tutte.
1. Hans Magnus Enzensberger, Una teoria del turismo, in Id., Questioni di dettaglio, Milano 1965. Opere recenti che trascurano la storia del turismo veneziano sono Marc Boyer, Il turismo dal Grand Tour ai viaggi organizzati, s.n.t. [ma Trieste 1997], e Patrizia Battilani, Vacanze di pochi vacanze di tutti. Breve storia del turismo, Bologna 1998.
2. René Dollot, Les journées adriatiques de Stendhal, Paris 1929; Victor Del Litto, Stendhal et Venise, in Venezia nelle letterature moderne. Atti del congresso, a cura di Carlo Pellegrini, Venezia-Roma s.a. [ma 1961], pp. 98-106.
3. Robert Escarpit, Byron et Venise, in Venezia nelle letterature moderne. Atti del congresso, a cura di Carlo Pellegrini, Venezia-Roma s.a. [ma 1961], pp. 107-114; George G. Byron, Lettere italiane, Napoli 1985.
4. Cf. Massimo Cacciari, Venezia postuma, in Venezia nell’Ottocento. Immagini e mito, catalogo della mostra, a cura di Giuseppe Pavanello-Giandomenico Romanelli, Milano 1983, pp. 264-270.
5. Gino Luzzatto, L’economia veneziana dal 1797 al 1866, in Storia della civiltà veneziana, a cura di Vittore Branca, III, Dall’età barocca all’Italia contemporanea, Firenze 19792, pp. 267-277; Giovanni Zalin, Aspetti e problemi dell’economia veneta dalla caduta della Repubblica all’annessione, Vicenza 1969, pp. 59-130.
6. Alvise Zorzi, Venezia austriaca (1798-1866), Roma-Bari 1985, pp. 47-51.
7. Giandomenico Romanelli, Alberghi, bagni e spiagge: l’Ottocento, in Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier, catalogo della mostra, a cura di Lionello Puppi-Giandomenico Romanelli, Milano 1985, p. 182 (pp. 182-189).
8. Id., Venezia Ottocento. L’architettura, l’urbanistica, Venezia 19882, pp. 50-58, 115-121; Vincenzo Fontana, Giardini pubblici di Castello, Venezia, in Il giardino veneto. Storia e conservazione, a cura di Margherita Azzi Visentini, Milano 1988, pp. 174-178.
9. Mariana Starke, Information and Directions for Travellers on the Continent, II, Livorno 18256, pp. 473-474.
10. Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, Milano 1983, p. 72.
11. Mariana Starke, Guide classique du voyageur en Italie, Paris 1829-1830, p. 208.
12. Nelli Elena Vanzan Marchini, Venezia. I piaceri dell’acqua, Venezia 1997, pp. 53-56.
13. Cf. Alain Corbin, L’invenzione del mare, Venezia 1990.
14. Cit. in Giorgio Triani, Pelle di luna, pelle di sole. Nascita e storia della civiltà balneare 1700-1946, Venezia 1988, p. 62.
15. Sugli alberghi veneziani cf. Enrico Zaniboni, Alberghi italiani e viaggiatori stranieri. Sec. XIII-XVIII, Napoli 1921; Antonio Pilot, Antichi alberghi veneziani, Venezia 1927; Elena Pradella, Pianeta Venezia. Sette secoli per l’ospitalità, Venezia 1997; Lina Urban Padoan, Venezia e il ‘foresto’, Venezia 1990.
16. Touring Club Italiano, 90 anni di turismo in Italia, 1894-1984, Milano 1984, p. 106.
17. Sul Danieli cf. A. Zorzi, Venezia austriaca, pp. 367 ss.; Adolfo Bernardello, L’Albergo Reale Danieli: proprietà e gestione (1824-1873), «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», classe di scienze morali, lettere ed arti, 152, 1993-1994, pp. 351-370.
18. Giuseppe Tassini, Curiosità veneziane, Venezia 19708, p. 233.
19. A. Pilot, Antichi alberghi, p. 52; E. Zaniboni, Alberghi italiani, p. 80; Alvise Zorzi, Venezia scomparsa, Milano 19842, pp. 101, 248.
20. Heinrich A.O. Reichard, Guide des voyageurs en Italie et en Suisse, Weimar 18199, p. 129.
21. A. Zorzi, Venezia austriaca, p. 63.
22. N.E. Vanzan Marchini, Venezia. I piaceri, pp. 53-66. Giuseppe Pavanello-Giandomenico Romanelli, Palazzo Grassi. Storia architettura decorazioni dell’ultimo palazzo veneziano, Venezia 1986.
23. Cit. in Giandomenico Romanelli, Arte di governo e governo dell’arte: Vienna a Venezia nell’Ottocento, in Venezia Vienna, a cura di Id., Milano 1983, p. 161 (pp. 141-186).
24. Ibid., p. 163.
25. Agostino Sagredo, Note sugli ammiglioramenti di Venezia, «Annali Universali di Statistica», 2, giugno 1844, p. 286 (pp. 273-289).
26. Camera di Commercio Industria e Agricoltura di Venezia, Archivio storico della Camera di Commercio di Venezia. Inventario (1806-1870), a cura di Ferruccio Zago, Venezia 1964; Giovanni Tomasoni, Porto franco, industria, commercio, in Venezia e le sue lagune, II, 1, Venezia 1847, pp. 497-570.
27. Sunto delle proposizioni fatte a voce dal socio corrispondente avv. Daniele Manin per migliorare il commercio di Venezia, «Esercitazioni Scientifiche e Letterarie dell’Ateneo Veneto», 6, 1847, pp. 231-232.
28. G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 324-337.
29. Adolfo Bernardello, La paura del comunismo e dei tumulti popolari a Venezia e nelle province venete nel 1848-49, in Id., Veneti sotto l’Austria. Ceti popolari e tensioni sociali (1840-1866), Verona 1997, p. 97 (pp. 53-145).
30. Paul Ginsborg, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49, Milano 1978, p. 46.
31. Massimo Costantini, Le strutture dell’ospitalità, in Storia di Venezia, V, Il Rinascimento. Società ed economia, a cura di Alberto Tenenti-Ugo Tucci, Roma 1996, pp. 881-911; Ugo Tucci, I servizi marittimi veneziani per il pellegrinaggio in Terrasanta nel Medioevo, «Studi Veneziani», n. ser., 9, 1985, pp. 63-64 (pp. 43-66).
32. Fernand Braudel-Folco Quilici, Venezia immagine di una città, Bologna 1984, p. 125. Esprime un concetto simile anche Franco Venturi, L’Italia fuori d’Italia, in Storia d’Italia, 3, Dal Primo Settecento all’Unità, Torino 1973, p. 1102 (pp. 987-1481).
33. Vincenzo Maria Coronelli, Guida de’ forestieri, Venezia 1706, p. 35. Gli abitanti sarebbero però stati una cifra inverosimile, 300.000.
34. Charles de Brosses, Lettres écrites d’Italie en 1739 et 1740, cit. in Venezia, «Le Vie del Mondo-Viaggi d’Autore», 3, maggio 1998, nr. 13, p. 42.
35. Cit. in Stefania Bertelli, Il Carnevale di Venezia nel Settecento, Roma 1992, p. 80.
36. Bruce Redford, Venice & the Grand Tour, New Haven-London 1996, p. 6. Cf. a proposito Alberto Fiorin, Ritrovi di gioco nella Venezia settecentesca, «Studi Veneziani», n. ser., 14, 1987, pp. 213-245; Gianni Scarabello, Le ‘signore’ della repubblica, in Il gioco dell’amore. Le cortigiane di Venezia dal Trecento al Settecento, catalogo della mostra, Milano 1990, pp. 11-35.
37. Cit. in Massimo Gemin, Le cortigiane di Venezia e i viaggiatori stranieri, in Il gioco dell’amore. Le cortigiane di Venezia dal Trecento al Settecento, catalogo della mostra, Milano 1990, p. 75 (pp. 73-79).
38. Sulla guidistica tra Sette e Ottocento cf. Giovanni Ricci, Gli incunaboli del Baedeker. Siena e le prime guide del viaggio borghese, «Ricerche Storiche», 8, 1977, nr. 2, pp. 345-381; Leonardo Di Mauro, L’Italia e le guide turistiche dall’Unità a oggi, in Storia d’Italia, Annali, 5, Il paesaggio, a cura di Cesare De Seta, Torino 1982, pp. 369-390 (pp. 369-428); Lucia Nuti, Le guide di Pisa fra ’700 e ’800: rapporti fra descrizione letterario-figurativa e città, «Storia Urbana», 18, 1982, pp. 35-56; Franca Zanelli Quarantini, Dal ‘Burattino Veridico’ al ‘Baedeker’: appunti di transcodificazione in due secoli di guide di viaggio, in Sapere linguistico e sapere enciclopedico. Atti del convegno, a cura di Luisa Pantaleoni-Laura Salmon Kovarski, Bologna 1995, pp. 339-352. Per Venezia cf. Lucia Bellodi Casanova, La ‘città nobilissima’ nelle guide e descrizioni veneziane dal Cinquecento all’Ottocento, in Venezia città del libro, catalogo della mostra, a cura della Fondazione Giorgio Cini, Venezia 1973, pp. 73-75; Alberto Cosulich, Viaggi e turismo a Venezia dal 1500 al 1900, Venezia 1990, pp. 95 ss.
39. Per una lettura in chiave ‘turistica’ di Sansovino cf. Piero Del Negro, Lo sguardo su Venezia e la sua società: viaggiatori, osservatori politici, in Storia di Venezia, VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di Gaetano Cozzi-Paolo Prodi, Roma 1994, pp. 275-301.
40. Emmanuele Antonio Cicogna, Saggio di bibliografia veneziana, Venezia 1847, p. 603.
41. Marino Berengo, Antonio Quadri e le statistiche venete della Restaurazione, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, p. 396 (pp. 391-407).
42. E.A. Cicogna, Saggio di bibliografia, p. 604.
43. Si è vista l’edizione Vallardi del 1818, il cui titolo completo è Itinerario italiano ossia descrizione dei viaggi per le strade più frequentate alle principali città d’Italia. Cf. a proposito G. Ricci, Gli incunaboli, p. 350.
44. Si son potute vedere solo le già citate M. Starke, Informa;tion and Directions, e Ead., Guide classique.
45. H.A.O. Reichard, Guide des voyageurs.
46. John Towner, An Historical Geography of Recreation and Tourism in the Western World 1540-1940, Chichester 1996, p. 132.
47. Cf. G. Ricci, Gli incunaboli, p. 357.
48. Antonio Quadri, Quattro giorni a Venezia, Venezia 1827, p. 133.
49. Giannantonio Moschini, Nuova guida per Venezia, Venezia 1828.
50. Il nome dell’autore risulta solo dalla seconda edizione, Venezia 1832; cf. E.A. Cicogna, Saggio di bibliografia, p. 604.
51. Si cita dalla seconda edizione: Jacopo Crescini, Nuova guida di Venezia, Venezia 1835, pp. 1-2.
52. [Fabio Mutinelli], Guida del forestiero per Venezia antica. Passeggiate quattro, Venezia 1842.
53. Ermolao Paoletti, Il fiore di Venezia, ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi veneziani [...], I-IV, Venezia 1837-1840.
54. J.W. Goethe, Viaggio in Italia, p. 90.
55. John Pemble, La passione del Sud. Viaggi mediterranei nell’Ottocento, Bologna 1998, p. 205.
56. G. Pavanello-G. Romanelli, Palazzo Grassi, p. 87. Sul mercato del lavoro cf. Luca Pes, L’economia delle classi popolari a Venezia (1866-1881), in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 235-246.
57. John Pemble, Venice rediscovered, Oxford-New York 1996, pp. 21-22.
58. G. Romanelli, Alberghi, bagni.
59. Ibid., p. 184.
60. J. Crescini, Nuova guida, pp. 171-172.
61. N.F.E., Cenni storico-descrittivi del nuovo stabilimento balneario sulla spiaggia dell’Adriatico presso Venezia del sig. Giovanni Fisola, Venezia 1857. Cf. anche N.E. Vanzan Marchini, Venezia. I piaceri, a cui si rinvia per la bibliografia sul Lido.
62. Sottolinea opportunamente questo Giorgio Pecorai, Appunti per una storia del Lido 1797-1912, Venezia 1983, p. 74.
63. G. Romanelli, Venezia Ottocento, p. 277.
64. Pierluigi Bembo, Il Comune di Venezia nel triennio 1863, 1864, 1865, Venezia 1866.
65. Sulla ristrutturazione di riva degli Schiavoni cf. Giorgio Bellavitis-Giandomenico Romanelli, Venezia, Roma-Bari 1985, p. 191, e G. Romanelli, Venezia Ottocento, p. 289.
66. G. Romanelli, Venezia Ottocento, p. 203.
67. Emilio Franzina, Verso Venezia industriale. Trasformazioni urbane dell’ultimo Ottocento, «Venetica», 10, 1988, pp. 37-56.
68. Sylvius, Guida pratica di Venezia, Venezia 1881, p. 6.
69. Giandomenico Romanelli, Il volto di Venezia nell’Ottocento, in Storia della civiltà veneziana, a cura di Vittore Branca, III, Dall’età barocca all’Italia contemporanea, Firenze 19792, p. 416 (pp. 411-420).
70. Venezia 1879, p. 7.
71. Sulla nascita del dibattito tra conservazione e modernizzazione cf. Giandomenico Romanelli, Venezia nell’Ottocento: ritorno alla vita e nascita del mito della morte, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, p. 763 (pp. 749-766). Più in generale cf. anche J. Pemble, Venice.
72. Baedeker, L’Italie septentrionale, Coblenz 186513, p. 256; Ottone Brentari, Guida di Venezia, Bassano 18953, p. 4.
73. Cf. Franco Paloscia, Storia del turismo nell’economia italiana, Città di Castello 1994; P. Battilani, Vacanze di pochi.
74. Ernesto Volpi, Tre giorni a zig-zag per Venezia e isole, Venezia 1887, p. 62.
75. Maurizio Reberschak, L’economia, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, p. 247 (pp. 227-298).
76. N.F.E., Cenni storico-descrittivi.
77. Cit. in N.E. Vanzan Marchini, Venezia. I piaceri, p. 94.
78. Sul ruolo culturale delle guide cf. Rudy Koshar, ‘What ought to be seen’: Tourists’ Guidebooks and National Identities in Modern Germany and Europe, «Journal of Contemporary History», 33, 1998, nr. 3, pp. 323-340.
79. Pietro Selvatico-Francesco Lazzari, Guida artistica e storica di Venezia e delle isole circonvicine, Venezia-Milano-Verona 1852.
80. Roland Barthes, La Guida blu, in Id., Miti d’oggi, Torino 19942, p. 120 (pp. 118-121).
81. Lorenzo Benapiani, Venezia. Guida-impressione, Milano 1896, p. 21.
82. Ibid., p. 81.
83. Giuseppe Ottolenghi, La camorra nell’industria veneziana, Venezia 1887, p. 14. Cf. a riguardo anche Luca Pes, Fabbriche e alberghi, «AltrocheMestre», 4, 1996, pp. 50-53.
84. Qualche cenno ad esempio alla produzione di merletti e maschere in Alberto Errera, Storia e statistica delle industrie venete e accenni al loro avvenire, Venezia 1870, pp. 519, 658.
85. Michele Santoro, Venezia, Venezia 1891, p. 117. Sull’industria del falso cf. G. Romanelli, Il volto di Venezia, p. 417. Uno dei pochi ad accennare al mercato dei souvenirs è A. Cosulich, Viaggi e turismo, pp. 128, 185.