La correzione degli errori materiali della sentenza
L’istituto della correzione delle sentenze e delle ordinanze è stato in passato piuttosto negletto sia nell’ambito della teoria del diritto processuale civile che in quello dell’elaborazione giurisprudenziale.
Tuttavia, esso – grazie ad un percorso di “rivitalizzazione” riconducibile all’evoluzione della giurisprudenza di legittimità degli ultimi anni – ha conosciuto un’espansione della sua sfera di operatività (fino a non molto tempo fa forse imprevedibile), che ha consentito di recuperarne plurimi spazi di praticabilità. Lo scopo di questo contributo è quello di delineare, in termini essenziali, lo sviluppo recente di questo processo di rivalutazione, che, da ultimo, è culminato nelle pronunce della Corte di cassazione del 2018 sui limiti di emendabilità del contrasto tra dispositivo e motivazione e, soprattutto, sull’adottabilità del procedimento di correzione in caso di omessa liquidazione delle spese nel dispositivo.
L’art. 287 c.p.c., nella sua sinteticità, ricollega le ipotesi di correzione a quelle in cui il giudice sia incorso – con riferimento alle sentenze e alle ordinanze non revocabili ‒ in omissioni o in errori materiali o di calcolo e prevede che l’iniziativa, per l’introduzione del relativo procedimento (regolato dal seguente art. 288 e caratterizzato da una connotazione di tipo amministrativo1), sia rimessa alla parte interessata da esercitarsi dinanzi allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento da correggere2.
Il procedimento di correzione è stato concepito come un rimedio idoneo ad ovviare all’errore che non risulti incidente sul processo decisionale, oltre ad emergere direttamente dall’esame dell’attoprovvedimento3, senza quindi involgere alcuna attività interpretativa e con esclusione di qualsiasi aspetto che attenga al processo propriamente formativo del dictum del giudice ma solo alla sua esteriorizzazione4.
Su questa linea si sono collocati gli arresti della giurisprudenza di legittimità che, nell’ultimo periodo, hanno, in particolare, coinvolto i profili della divaricazione tra dispositivo e motivazione della sentenza e dell’omessa od incompleta statuizione sulle spese nel dispositivo (su cui infra, sub § 2.3), questione sulla quale la S.C., a Sezioni Unite, è intervenuta risolvendo un importante contrasto. In particolare, per un verso si è opportunamente ribadito che il contrasto tra formulazione letterale del dispositivo e motivazione che non incida sull’idoneità del provvedimento ‒ considerato complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali ‒ a rendere conoscibile il contenuto della statuizione, non integra un vizio attinente al contenuto concettuale e sostanziale della decisione, bensì un errore materiale emendabile con la procedura prevista dall’art. 287 c.p.c. (applicabile anche nel procedimento
dinanzi alle commissioni tributarie), e non denunciabile con l’impugnazione della sentenza5.
Per altro verso è stato definitivamente stabilito che, a fronte della mancata liquidazione delle spese nel dispositivo della sentenza (anche se emessa ex art. 429 c.p.c.), sebbene in parte motiva il giudice abbia espresso la propria volontà di porle a carico della parte soccombente, la parte interessata deve fare ricorso alla procedura di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 e ss. c.p.c. per ottenerne la quantificazione6.
Lo sforzo innovativo dell’attuale giurisprudenza di legittimità è stato proprio quello di chiarire – anche per effetto di una diversificata casistica giunta al suo vaglio – quali debbano essere i confini da rispettare nel rapporto tra errori formali ed errori di ideazione che afferiscono le sentenze e le ordinanze. In particolare, al riguardo, si è focalizzato entro quali limiti può considerarsi legittimo il ricorso allo strumento della correzione senza dover necessariamente ricorrere all’esercizio delle impugnazioni in senso proprio.
In questo solco si è anche inserito il filone giurisprudenziale che ha delineato il regime della correggibilità (sul quale non mancano profili critici) che investe le sentenze e le ordinanze decisorie della stessa Corte di cassazione. Esso è ora regolato ora positivamente dal sopravvenuto art. 391 bis c.p.c., con l’evidenziazione del suo rapporto con l’istituto della revocazione delle stesse sentenze che risulta previsto nella medesima norma.
In termini essenziali, quindi, il procedimento in esame può essere attivato, senza che ne risultino intaccate in alcun modo le posizioni giuridiche delle parti così come già accertate nella decisione giudiziale, per emendare quegli errori che, senza implicare il riesercizio dell’attività giurisdizionale, comportino semplicemente il soddisfacimento dell’esigenza di uniformare le espressioni (per l’appunto ritenute erronee o mancanti) utilizzate nel documento-provvedimento con la decisione medesima, senza investire, in alcun modo, l’essenza dello sviluppo logico-razionale di quest’ultima.
A tal proposito la ormai consolidata giurisprudenza di legittimità7 ha posto in risalto come siffatto procedimento costituisce proprio uno di quegli esempi principali (ed in questa ottica è stato ulteriormente valorizzato) che consentono il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo, il quale, in generale, impone al giudice (ai sensi degli artt. 127 e 175 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso: tra questi, per l’appunto, rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo, in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti.
A questa logica di semplificazione è improntato anche il procedimento di correzione disciplinato – in linea generale ‒ dal citato art. 288 c.p.c. e – in via più specifica per i provvedimenti decisori adottati dalla Corte di cassazione – dal successivo art. 391 bis c.p.c. Detto procedimento può essere instaurato anche concordemente da tutte le parti – eventualità, questa, del tutto peculiare nel sistema del diritto processuale civile – e, quindi, definito nella forma agile del decreto; in caso di introduzione ad istanza di una sola delle parti bisogna comunque garantire l’espletamento preventivo del contraddittorio e il provvedimento conseguente – da adottarsi nella forma dell’ordinanza (e, con riferimento al citato art. 391 bis c.p.c., rispettando le disposizioni del nuovo art. 380 bis, co. 1 e 2, c.p.c.) ‒ dovrà essere annotato sull’originale del provvedimento emendato: ciò, tuttavia, non significa che la decisione sulla correzione costituisca una decisione sostituiva di quella già contenuta nella sentenza od ordinanza oggetto di correzione. non è previsto uno specifico termine decadenziale e non è possibile disporre detto procedimento d’ufficio (salvo che per la correzione dei provvedimenti adottati dalla Corte di cassazione).
In ogni caso, qualora il provvedimento inciso dalla correzione si identifichi con una sentenza dotata di contenuto decisorio sui diritti delle parti coinvolte nel giudizio, il co. 4 dello stesso art. 288 c.p.c. garantisce opportunamente l’esercizio di un rimedio impugnatorio che, però, può investire soltanto le parti corrette8 e che è soggetto all’osservanza del termine ordinario breve decorrente dal giorno in cui è stata notificata l’ordinanza di correzione (onde garantire la celere stabilizzazione del provvedimento oggetto di emenda). In tal senso si è precisato, da ultimo, in giurisprudenza che il termine per l’impugnazione di una sentenza di cui è stata chiesta la correzione decorre dalla notificazione della relativa ordinanza, ex art. 288, ult. co., c.p.c., se con essa sono svelati errores in iudicando o in procedendo evidenziati solo dal procedimento correttivo, oppure se l’errore corretto sia tale da ingenerare un obbiettivo dubbio sull’effettivo contenuto della decisione, interferendo con la sostanza del giudicato, ovvero quando, con la correzione, sia stata impropriamente riformata la decisione, dando luogo ad una surrettizia violazione del giudicato; diversamente, l’adozione della misura correttiva non vale a riaprire o prolungare i termini di impugnazione della sentenza che sia stata oggetto di eliminazione di errori di redazione del documento cartaceo, chiaramente percepibili dal contesto della decisione, in quanto risolventisi in una mera discrepanza tra il giudizio e la sua espressione9.
Come è stato correttamente rimarcato10, il legislatore, riferendosi nell’art. 287 c.p.c. alle «omissioni … errori materiali o di calcolo», non ha inteso tipizzare tali “vizi secondari” ma ha lasciato all’interprete il compito (rectius: l’onere) di individuarne le concrete fattispecie applicative sulla base dell’operazione propedeutica di fondo di identificazione della natura sostanziale del tipo di errore od omissione.
ricondotta l’omissione alla mancata riproduzione nel testo della sentenza o dell’ordinanza dei requisiti previsti dalla legge ovvero al difetto di trasfusione involontaria nel dispositivo di una statuizione reiterativa di un aspetto decisionale univocamente emergente dalla motivazione, i principali esempi di tale caso di correzione sono stati rinvenuti: nella omessa indicazione di uno o più elementi formali che devono connotare l’intestazione della sentenza; nella mancata dichiarazione di contumacia di una parte non costituita; nell’omessa riproduzione delle conclusioni delle parti, a condizione che esse siano state, tuttavia, prese in considerazione dal giudice ai fini dell’emissione del provvedimento decisorio; nell’omessa liquidazione delle spese processuali in dispositivo, oggetto ‒ come già rimarcato – del più recente intervento delle Sezioni Unite (su cui infra, sub § 2.3).
Qualificato l’errore materiale come il frutto di una discordanza fra la volontà della dichiarazione insita nel rendere la decisione e la dichiarazione così come documentata nel correlato provvedimento, chiaramente rilevabile ictu oculi e ricollegabile ad un mero lapsus calami, le esemplificazioni più ricorrenti riguardano l’imprecisa indicazione delle parti in contrasto con quanto risultante dagli atti di causa, l’inesatta indicazione di uno dei giudici componenti del collegio decidente o degli estremi del giudice monocratico e l’erronea indicazione della data di deliberazione della sentenza.
L’errore di calcolo – emendabile ai sensi dell’art. 287 c.p.c. ‒ consiste in un’erronea utilizzazione delle regole matematiche sulla base di presupposti numerici, dell’individuazione e dell’ordine delle operazioni da compiere esattamente determinati11.
Il più recente corso degli interventi del giudice della nomofilachia si è venuto a caratterizzare – e in ciò si è manifestata ancor più la tendenziale flessibilità dello strumento della correzione – per un’interpretazione ragionevolmente estensiva delle categorie riconducibili agli errori materiali o alle omissioni per l’appunto correggibili. ne è risultato così legittimato un ampliamento dell’ambito di applicazione di tale rimedio a tutte quelle ipotesi in cui si constati l’emergenza della necessità di inserire nel provvedimento una statuizione obbligatoria consequenziale a contenuto predeterminato, ovvero una statuizione obbligatoria di carattere accessorio, anche se a contenuto discrezionale. In tal modo è stata riconosciuta al procedimento di correzione l’idoneità ad esplicare una funzione propriamente integrativa, che – invero – non è in linea generale assegnata dal legislatore a tale procedimento (essendo essa prevista espressamente con riferimento ai soli provvedimenti istruttori ai sensi dell’art. 289 c.p.c.): è stata così introdotta nel nostro ordinamento, per prassi giurisprudenziale, la figura della cd. correzione integrativa.
Questo innovativo indirizzo della giurisprudenza di legittimità è stato inaugurato, in modo particolarmente incisivo, con la sentenza delle Sezioni Unite n. 16037 del 201012, in virtù della quale – superandosi il precedente orientamento quasi del tutto contrario (che predicava la soluzione dell’assoggettamento necessario all’impugnazione ordinaria) – si è ritenuto che l’omessa pronuncia sull’istanza di distrazione (ma con esclusione della decisione di rigetto) va ricondotta ad una mancanza materiale e non ad un vizio di attività o di giudizio da parte del giudice (e, quindi, ad un errore percettivo di quest’ultimo); ciò in quanto la decisione positiva sulla stessa deve considerarsi obbligata – a condizione che sussista la necessaria istanza e ricorrano i relativi presupposti ‒ da parte del giudice (poiché la declaratoria di distrazione accede al decisum in senso proprio della controversia, senza caratterizzarsi per una sua autonomia formale).
Un esempio di vera e propria correzione integrativa13 ci è stato offerto, di recente, dall’affermazione del principio in base al quale il procedimento di correzione degli errori materiali è utilizzabile anche qualora il giudice del gravame, riformando la sentenza appellata, ometta, pur esistendo in atti tutti gli elementi a ciò necessari, di ordinare la restituzione di quanto corrisposto in esecuzione di quest’ultima. Invero, una siffatta condanna è sottratta a qualunque forma di valutazione giudiziale, sicché sono configurabili i presupposti di fatto che giustificano la correzione e la relativa declaratoria necessariamente accede al decisum complessivo della controversia, senza assumere una propria autonomia sul piano formale, collegandosi l’omissione ad una mera disattenzione.
Di contro, ancora in recenti pronunce ed in ordine a particolari casi (sempre più frequenti nella pratica giudiziaria per effetto dell’ormai fisiologico ricorso ai mezzi informatici), è stato, per un verso, sottolineato che non può farsi ricorso al procedimento di correzione quando il giudice intenda sostituire completamente la parte motiva e il dispositivo precedenti, afferenti ad altra e diversa controversia avente in comune – ad esempio ‒ una sola delle parti, perché in questo modo si viene a conferire alla sentenza corretta un contenuto concettuale e sostanziale completamente diverso14. Per altro verso, si è sostenuto che è altrettanto inammissibile ricorrere a siffatto procedimento allorquando il giudice, nel redigere la sentenza e in conseguenza di un mero errore di sostituzione del file informatico, ad un’epigrafe pertinente abbia fatto seguire uno «svolgimento del processo», dei «motivi della decisione» ed un dispositivo afferenti ad una diversa controversia: in tal caso, infatti, l’estensione della correzione integra il deposito di una decisione affatto distinta, la quale verrebbe interamente sostituita a quella corretta15.
Con riferimento, invece, agli aspetti che caratterizzano propriamente il procedimento di correzione, gli ultimi orientamenti della giurisprudenza di legittimità hanno chiarito16 che la notifica dell’istanza di correzione di errore materiale della sentenza è inidonea a far decorrere il termine breve ex art. 325 c.p.c., stante la natura amministrativa e non impugnatoria del procedimento di correzione; sicché non può trovare applicazione il principio per il quale, ai fini della decorrenza di detto termine, la notifica dell’impugnazione equivale, sul piano della conoscenza legale da parte dell’impugnante, alla notificazione della sentenza impugnata. Sotto altro profilo, è stato sottolineato17 che la legittimazione a chiedere la correzione della sentenza asseritamente affetta da omissioni o da errori materiali o di calcolo spetta esclusivamente alle parti del giudizio in cui la stessa è stata pronunciata e, pertanto, non compete all’avente causa degli eredi di una di tali parti, che abbia acquistato il diritto conteso dopo la definizione della causa, potendo egli ottenere l’annotazione nei pubblici registri immobiliari della menzionata sentenza e di altre decisioni per mezzo della procedura prevista dall’art. 745 c.p.c. nel corso degli ultimi anni sono sopravvenuti anche i primi tentativi propendenti per l’ammissibilità del procedimento di correzione18 nelle ipotesi di esclusione dell’insanabilità tra dispositivo e motivazione anche se il quadro giurisprudenziale sul punto risulta ancora incerto. Ad avviso dell’indirizzo maggioritario, infatti, andrebbe esclusa l’insanabilità del contrasto tra dispositivo e motivazione quando sussista una parziale coerenza tra gli stessi, divergenti solo da un punto di vista quantitativo, e la seconda sia, inoltre, ancorata ad un elemento obiettivo che inequivocabilmente la sostenga (sì da potersi escludere l’ipotesi di un ripensamento del giudice); in tal caso dovrebbe ritenersi configurabile l’ipotesi legale del mero errore materiale, con la conseguenza che, da un lato, è consentito l’esperimento del relativo procedimento di correzione e, dall’altro, deve qualificarsi come inammissibile l’eventuale impugnazione diretta a far valere la nullità della sentenza asseritamente dipendente dalla difformità tra dispositivo e motivazione.
Tuttavia, il contrasto che, in tempi più recenti, è emerso in modo più evidente si è incentrato sulla questione attinente alla ricorribilità o meno al procedimento di correzione in caso di mancata liquidazione delle spese nel dispositivo del provvedimento decisorio: esso era stato alimentato, soprattutto, dall’ordinanza n. 16959 del 201419, che aveva aperto una breccia in senso positivo in un contesto giurisprudenziale precedente nettamente contrario e ripropostosi anche dopo la pronuncia appena indicata20.
In particolare, nella suddetta ordinanza, che aveva determinato la consapevole insorgenza del riferito contrasto, si era rilevato come, già nella giurisprudenza penale di legittimità21, fosse stato enunciato il principio secondo cui l’omissione di una statuizione obbligatoria di natura accessoria ed a contenuto predeterminato non determinava nullità dell’atto e non atteneva ad una componente essenziale dello stesso, onde ad essa poteva porsi rimedio con la procedura di correzione degli errori materiali22. Vieppiù si era affermato come tale principio potesse essere recepito nel giudizio civile laddove il regolamento delle spese giudiziali costituisce una conseguenza legale della decisione della lite, ragion per cui il giudice è tenuto a procedervi anche se le parti non abbiano proposto alcuna istanza a tal fine. A questo proposito era stato opportunamente messo in risalto come, in tal caso, l’esperibilità del procedimento in chiave sostitutiva non si poneva come (inammissibile) rimedio ad un vizio della volontà del giudice o ad un suo errore di giudizio, ma si apprestava solo come lo strumento per eliminare la disarmonia tra la manifestazione esteriore costituita dal documento sentenza e quanto poteva e doveva essere statuito ex lege, senza incidere, modificandolo, né sul processo volitivo o valutativo del giudice, né sulla sua decisione sul piano interpretativo che – corretta od errata ‒ fosse stata posta a fondamento della pronuncia finale sul thema decidendum.
A dirimere detto contrasto sono intervenute le Sezioni Unite con la già richiamata recente sentenza n. 16415/2018, mediante la quale è stato statuito, in modo risolutivo, il principio per cui l’omessa liquidazione delle spese giudiziali si sostanzia in un mero errore e/o omissione emendabile con la procedura di correzione ex artt. 287 e ss. c.p.c. quando il giudice incorre in una mera «svista», che abbia determinato la mancata (o inesatta) estrinsecazione di un giudizio già svolto nella parte dispositiva che sia, però, univocamente evincibile dal contesto della motivazione.
In tal caso, infatti, il giudice deve limitarsi a compiere una mera operazione tecnico-esecutiva, da eseguire sulla scorta di presupposti e parametri oggettivi (quali sono le attività processuali espletate dalla difesa della parte vincitrice e i criteri tabellari applicabili in base alle fasce di valore della specifica controversia), che non implica l’esplicazione di un’attività propriamente decisionale, bensì il mero adattamento materiale della corrispondenza del dispositivo alla motivazione in punto di spese. nella medesima decisione si è, quindi, evidenziato il carattere materiale e ricognitivo dell’operazione di liquidazione e, soprattutto, la sua connotazione in termini di obbligatorietà, siccome non involgente alcun processo concettuale di revisione o formulazione ex novo della volontà giudiziale, ma soltanto una ipotesi di divergenza manifesta e casuale tra la volontà del giudice ed il correlativo mezzo di espressione23.
Trattasi senza dubbio di una tappa importante nell’evoluzione dell’interpretazione estensiva riferita all’applicabilità del procedimento di correzione che esime, in tali casi, le parti dal gravoso onere della proposizione dell’impugnazione ordinaria in un’ottica di valorizzazione del principio della ragionevole durata del processo senza scalfire quello del cd. giusto processo.
Volendo trarre un primo bilancio dall’illustrazione del percorso evolutivo compiuto dalla giurisprudenza (con l’avallo di un autorevole settore della dottrina) il giudizio non può che essere positivo.
Quello che sembrava un istituto marginale fino a non molto tempo fa ha acquistato un’apprezzabile vitalità, esaltandosi quella funzione intrinseca (e quasi nascosta) del procedimento di correzione orientata a garantire un inutile dispendio di tempi ed energie processuali in un’ottica pur sempre rispettosa degli essenziali principi costituzionali enucleati negli artt. 3, 24 (co. 1 e 2) e 111 (co. 1 e 2) della nostra Carta fondamentale.
La prossima sfida a cui sarà chiamata la giurisprudenza di legittimità (nella massima composizione nomofilattica) sarà quella di chiarire in modo definitivo e tendenzialmente esaustivo i limiti di ricorribilità al procedimento di correzione nel caso di contrasto tra motivazione e dispositivo24. Bisognerà, comunque, partire da un punto fermo ovvero che tale divergenza potrà considerarsi produttiva della nullità della sentenza solo se ed in quanto essa incida sulla idoneità del provvedimento, considerato complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale; difettando tale presupposto i margini di operatività del procedimento di correzione potranno essere piuttosto ampi.
1 V., da ultimo, Cass., 24.12.2015, n. 25978. Come è noto, C. cost., 10.11.2004, n. 335, ha eliminato l’inciso, prima presente nell’art. 287 c.p.c., secondo cui la correggibilità si sarebbe dovuta ritenere ammessa solo contro le sentenze avverso le quali non fosse stato proposto appello (il che, ora, implica che la correzione può essere richiesta al giudice che ha emesso la sentenza da emendare anche se appellata).
2 Per una ricognizione generale dell’istituto in dottrina v., ex multis, Torregrossa, G., Correzione delle sentenze (dir. proc. civ.), in Enc. dir., X, milano, 1962, 717 ss.; Tombari, G., Contributo alla dottrina della correzione delle sentenze, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1962, 568 ss.; Acone, M., Riflessioni sul rapporto tra la correzione ed i mezzi di impugnazione, ivi, 1980, 1297 ss.; Lo Cigno, O., Correzione ed integrazione dei provvedimenti del giudice, in Giur. it., 1986, 12 ss.; Marchet, B., Correzione delle sentenze, in Corr. giur., 2005, 1371 ss.; Consolo, C., Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze dopo la legge n. 69 del 2009, Padova, 2009, 105 ss.
3 Senza la necessità, quindi, di dover ricorrere ad accertamenti ulteriori: Acone, M., Riflessioni sul rapporto, cit., 1297, discorre, al riguardo, di «contestualità».
4 Per effetto della sua, comunque, limitata funzione il ricorso alla correzione è da ritenersi impraticabile – e, perciò, inammissibile – allo scopo di eliminare errori che siano configurati dall’ordinamento processuale come idonei a produrre la conseguenza sanzionatoria della nullità (nei quali casi si applica la disciplina propria di cui agli artt. 156-162 c.p.c., e, in particolare, il meccanismo della cd. conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione).
5 Cfr. Cass., 26.9.2017, n. 22433.
6 Cass., S.U., 21.6.2018, n. 16415.
7 V. tra le tante, Cass., S.U., 3.11.2008, n. 26373, in Giur. it., 2009, 668 ss., con nota di Didone, A., Le Sezioni unite e la ragionevole durata del “giusto” processo; Cass., S.U., 22.3.2010, n. 6826; Cass., 21.5.2018, n. 12515, fino ad arrivare alla più recente Cass., S.U., n. 16415/2018, cit.
8 Lo stesso Acone, M., Riflessioni sul rapporto, cit., 1347 ss., chiarisce che l’impugnazione della sentenza per le parti corrette è necessariamente rivolta alla sola ipotesi di uso illegittimo del potere di correzione, ragion per cui essa può essere indirizzata a far riscontrare la sola legittimità dell’ordinanza di correzione e, quindi, può concernere i soli casi
di mancata aderenza del provvedimento di correzione ai limiti di legge ovvero di divergenza tra l’essere e il dover essere di tale provvedimento (in senso conforme v., anche, Vanz., M.C., Considerazioni sulla funzione della correzione e sui limiti oggettivi di impugnabilità del provvedimento emendato, in Giur. it., 2000, 2273 ss.).
9 Cfr. Cass., 10.4.2018, n. 8863. In precedenza Cass., 1.9.2017, n. 20691, aveva messo in luce come l’impugnazione (principale o incidentale) della sentenza relativamente alla parte corretta in esito al procedimento di correzione di omissioni o errori materiali o di calcolo, che a norma dell’art. 288, co. 3, c.p.c., può essere proposta nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata l’ordinanza di correzione, può avere ad oggetto solo la verifica della legittimità ed esattezza della disposta correzione e non anche il merito della sentenza impugnata; per contro, l’impugnazione della sentenza oggetto di correzione relativa al merito della sentenza va proposta, a pena di inammissibilità, nel termine ordinario decorrente dalla data della sentenza stessa e non della correzione.
10 V., per tutti, Torregrossa, G., Correzione delle sentenze, cit., 719.
11 Cfr., da ultimo, Cass., 22.11.2016, n. 23704, con la quale, di contro, si è ritenuto che l’errore di calcolo può essere denunciato con ricorso per cassazione quando sia riconducibile all’impostazione delle operazioni matematiche necessarie per ottenere un certo risultato, lamentandosi un error in iudicando nell’individuazione di parametri e criteri di conteggio.
12 In Corr. giur., 2010, 1165 ss.
13 V. Cass., 12.2.2016, n. 2819, in Corr. giur., 2016, 990 ss., con nota di Godio, F., La S.C. dice sì alla «correzione integrativa» anche per omessa condanna alle restituzioni da riforma della sentenza.
14 V. Cass., 31.5.2011, n. 12035.
15 Cfr. Cass., 12.2.2016, n. 2815.
16 V. Cass., S.U., 28.2.2017, n. 5053.
17 Cfr. Cass., 12.7.2018, n. 18442.
18 In senso favorevole v. Cass., 10.5.2011, n. 10305; Cass., 21.11.2014, n. 24841 e, più recentemente, Cass., 26.9.2017, n. 22433. In senso negativo v., però, Cass., S.U., 13.5.2013, n. 11348 e, da ultimo, Cass., 12.3.2018, n. 5939.
19 In Corr. giur., 2015, 673 ss., con nota di Carrato, A., La Cassazione apre all’applicabilità del procedimento di correzione delle proprie sentenze sulle omissioni riguardanti la disciplina delle spese processuali, con postilla di Consolo, C., Porta aperta (sì, ma in ogni grado?) alla correggibilità della sentenza che ometta/dimentichi di statuire sulle spese in dispositivo, nella quale si sottolineava la giusta razionalità processuale della pronuncia, con cui veniva consentito alle parti di rivolgersi in via breve allo stesso giudice che aveva pronunciato il provvedimento, affinché provvedesse con un celere procedimento espressione di una attività amministrativa, e non di esercizio del potere giurisdizionale in senso proprio a completare la rappresentazione grafica del decisum; e ciò non solo a fronte di una sentenza di cassazione estrinsecamente incompleta, ma anche di sentenze di primo e secondo grado, pure più ampiamente ma incongruamente impugnabili (allora ex art. 287 c.p.c., e non ai sensi dell’art. 391 bis). In senso conforme v., in seguito, Cass., 27.7.2016, n. 15650, e Cass., 9.5.2018, n. 11215.
20 Cfr. Cass., 29.7.2014, n. 17221, e Cass., 7.10.2014, n. 21109.
21 V. Cass., S.U., 31.1.2008, n. 7945, e, da ultimo, Cass., 17.5.2017, n. 39081.
22 In questa ipotesi rientrava certamente l’omessa condanna dell’imputato alla refusione delle spese processuali in favore della parte civile, stante il carattere accessorio rispetto al thema decidendum della statuizione omessa e la sua previsione normativa come conseguenza obbligatoria della pronuncia sul merito della controversia per di più richiedente da parte del giudice una mera operazione tecnico-esecutiva, da svolgersi sulla base di precisi presupposti e parametri oggettivi di liquidazione dell’importo dovuto.
23 In tale arresto giurisprudenziale si è opportunamente ricordato come la più autorevole dottrina del passato, sul presupposto di fondo che l’errore materiale si contrappone all’errore di giudizio, aveva già affermato che «la correggibilità è in funzione dell’errore non del giudizio o della formazione del giudizio, ma della documentazione del giudizio» per pervenire alla conclusione che la correzione si arresta là dove la difformità dal modello, la deviazione dal reale, abbia determinato l’imperfezione della sentenza, ovvero la sua nullità. In dottrina, Consolo, C., Il processo di primo grado, cit., sostiene che deve trattarsi di una «brutale svista» ovvero di un «errore banale» che coinvolge la sfera sensoriale e non quella del ragionamento.
24 Per un recentissimo ed accurato studio delle relative problematiche – anche sul punto del rapporto tra correzione, impugnazione ordinaria e revocazione ‒ v. Barone, S., Possibili rimedi al contrasto tra motivazione e dispositivo della sentenza di cassazione, in Corr. giur., 2018, 1139 ss., nonché, in modo ancor più sistematico ed approfondito, Boccagna, S., Errore materiale e correzione dei provvedimenti del giudice, Napoli, 2017, spec. 52 ss.