La conservazione e il restauro delle superfici architettoniche
di Maria Olimpia Zander
Gli organismi architettonici in ogni tempo e nelle diverse aree geografiche sono di norma costituiti da un nucleo strutturale con funzione statica e da un rivestimento destinato a proteggere e a decorare la struttura portante dell'edificio. Le superfici architettoniche costituiscono l'interfaccia tra l'organismo architettonico e l'ambiente esterno, nei cui confronti assumono una funzione passiva di protezione dagli agenti di degrado e al tempo stesso attiva di completamento cromatico e decorativo. I materiali impiegati sono spesso di natura totalmente diversa nella struttura e nei rivestimenti orizzontali, mentre sono simili, se non addirittura uguali, nelle superfici verticali, così da poter essere a volte confusi in edifici particolarmente degradati. Uno stesso tipo di materiale presenta tuttavia diverse caratteristiche, a seconda che sia impiegato con funzione strutturale o nel rivestimento dell'edificio: migliori qualità e cura nella lavorazione sono infatti richieste al materiale di superficie; esso dovrà avere una superiore resistenza meccanica, bassa permeabilità e buona lavorabilità per assolvere alla funzione protettiva, tessitura e colore omogenei per il fine decorativo. Le superfici architettoniche sono realizzate con materiali naturali, quali i marmi e le pietre, o artificiali, come i laterizi, le maioliche, il mosaico. Il colore delle superfici intonacate è scelto con criteri funzionali e decorativi: dall'imitazione di un materiale pregiato alla finalità igienico-funzionale, fino ai criteri più propriamente decorativi della rappresentazione puramente pittorica, illusionistica e simbolica. In tal senso i dipinti murali altro non sono se non una particolare finitura delle superfici intonacate. La coloritura può essere realizzata secondo due tecniche fondamentali: a fresco oppure a secco. Nella tecnica a fresco il pigmento è fissato dalla carbonatazione dell'intonaco a base di calce. Nella tecnica a secco invece il colore è steso sull'intonaco asciutto: l'adesione al supporto avviene per la mescolanza del pigmento con un liquido legante capace di cementare tra loro i grani e formare uno strato di colore. Dovunque e in tutti i tempi, gli intonaci sono costituiti da un materiale legante, usato da solo o mescolato a delle cariche. Si realizza così una malta, cioè un impasto a consistenza plastica che ha la capacità di far presa, solidificarsi e indurire. I materiali leganti sono tre: le terre argillose, il gesso, la calce. Le cariche hanno la funzione di fornire all'impasto un'armatura di sostegno e uno scheletro rigido che, riducendo la quantità di legante, ne diminuisce il ritiro. Esse possono essere di natura inorganica oppure organica. Alcune cariche hanno una funzione solo meccanica e si dicono perciò "inerti"; altre invece possono reagire con il materiale legante modificandone le caratteristiche. I meccanismi di indurimento delle malte variano in funzione del legante usato; esso può avvenire per perdita d'acqua (terre argillose), per presa d'acqua che cristallizza insieme al materiale (gesso), per reazione chimica (calce). La posa in opera degli intonaci, principalmente degli intonaci a base di calce, soggetti a ritiro e dunque alla formazione di cretti superficiali, nonché la duplice esigenza di stabilire un'ottima adesione al supporto ed una apprezzabile levigatezza della superficie comportano la stesura di più strati di malta: il primo (sbruffatura) costituisce una base rustica, spessa e a grossa granulometria, capace di assicurare una buona aderenza dell'intonaco al supporto; il secondo (arriccio) regolarizza la superficie; il terzo (finitura), a granulometria più fine e rifinito a "colla", realizza una superficie omogenea, compatta e levigata adatta ad accogliere il colore o a costituire essa stessa la "pelle" dell'organismo architettonico. Nel mondo antico, greco e romano, l'intonaco di superficie era realizzato con una malta di polvere di marmo e calce, compressa e ben levigata, detta "marmorino" o "stucco forte", con bassa porosità, struttura fine e compatta. Dalla tecnica del marmorino Vitruvio fa derivare le origini della pittura murale figurativa romana. Lo strato di colore era formato da polizioni (politiones), terre argillose bianche (caolino), grigie (creta), rosse o verdi, in seguito pressate con un attrezzo duro; altri pigmenti presenti nelle decorazioni murali (nero, rosso cinabro, azzurro egiziano, ecc.), di natura non argillosa, acquisivano proprietà analoghe con l'aggiunta di argilla non colorata. La presenza di componenti dell'argilla (silice e allumina) sui dipinti antichi è confermata dalle analisi. Tracce della tecnica a fresco nelle pitture murali di età romana sono inoltre riconoscibili, attraverso l'esame visivo delle superfici, nei bozzetti delle decorazioni incisi sullo strato di preparazione a calce (sinopia), nei segni di interruzione e ripresa dell'intonaco (pontate e giornate), nelle incisioni tracciate per trasferire il disegno sul muro o per evidenziare elementi architettonici, nelle schiacciature provocate dall'utensile di levigatura, nella eventuale trasformazione cromatica di alcuni pigmenti a causa del fuoco. In passato, la conservazione degli antichi dipinti murali avveniva frequentemente attraverso interventi tesi a staccare dal supporto murario le pitture soggette a gravi danneggiamenti da umidità e alla successiva collocazione dei dipinti restaurati in museo. Tale prassi avveniva mediante due possibili tecniche: lo "strappo" della pellicola pittorica dalla finitura o lo "stacco" dal supporto anche di parte dell'intonaco sottostante il dipinto, fino a raggiungere talvolta lo strato dell'arriccio. Le attuali tendenze prediligono invece una più adeguata conservazione in situ. Gli interventi comprendono azioni indirette, al fine di migliorare le condizioni termo-igrometriche dell'ambiente e di eliminare o allontanare eventuali cause esterne di deterioramento, e azioni dirette sulla materia delle superfici architettoniche, al fine di arrestare il degrado in atto, ristabilire la resistenza meccanica, risarcire le mancanze e prevenire danni futuri. A tale scopo è necessario che il restauratore abbia preventivamente acquisito una puntuale conoscenza dell'opera in base alla quale formulare un rigoroso piano degli interventi, che dovranno perseguire un intento manutentivo, con carattere di non prevalenza sulle qualità tecniche e formali dell'organismo architettonico. La scelta di materiali adeguati per l'intervento conservativo e la corretta metodologia di applicazione saranno indotti dall'esame delle superfici e di campioni significativi di intonaci e coloriture. È necessario avvalersi di alcune analisi di laboratorio per conoscere con certezza la composizione dell'intonaco originale e del suo colore: sezioni stratigrafiche indicanti con precisione la natura della carica usata per la malta e la successione degli strati di colore. Perché sia valido, il prelievo di campioni deve essere eseguito in un punto riparato e non dilavato (ad es., sotto l'aggetto di un tetto o di una mensola), che conservi ancora lo strato dell'ultima e più recente cromia e, su questo, uno spesso strato di deposito atmosferico. Dalla sezione stratigrafica non è tuttavia possibile distinguere il valore cromatico del colore, che può invece essere identificato in cantiere, realizzando una "scaletta" che partendo dall'alto scopre, con delicata operatività di bisturi, strato per strato, i vari colori applicati nel tempo. Anche le principali fenomenologie di degrado sono riconoscibili ad un attento esame diretto delle superfici, con visione radente: l'erosione da pioggia o da attacchi acidi si manifesta attraverso piccoli buchi e crepe ad effetto "damascato"; l'indebolimento dell'adesione, che provoca distacchi non sempre visibili in superficie, si può riconoscere dal suono "pieno" o "vuoto", che risulta al percuotimento della superficie con le nocche delle dita. L'intervento conservativo consiste principalmente in operazioni di spolveratura, consolidamento, stuccatura, pulitura e protezione. Il consolidamento ha lo scopo di restituire la compattezza e la resistenza meccanica delle superfici soggette a fenomeni di decoesione e disgregazione del materiale, a diminuzione dell'adesione e conseguente sollevamento e distacco di parti dell'intonaco. Per ristabilire la coesione e migliorare le qualità meccaniche si applica di preferenza un consolidante in soluzione, che evaporando fissa le particelle del materiale disgregato. Il materiale consolidante deve rispondere ai requisiti di un buon invecchiamento, di reversibilità nel tempo, di assenza di eventuali effetti secondari dannosi. Il consolidante può essere applicato a pennello, a spruzzo, a percolazione, attraverso soluzioni capaci di penetrare in profondità, mediante l'uso di adeguati solventi in concentrazione proporzionale alla porosità del materiale e all'entità del degrado, tenendo conto che è preferibile utilizzare concentrazioni non molto alte e ripetere più volte l'operazione. Per restituire l'adesione, invece, si usa un'emulsione consolidante che deve formare una pellicola superficiale con effetto adesivo che permetta alle due parti di riaderire. Il consolidante viene dunque iniettato tra due strati distaccati, con l'eventuale aggiunta di una carica, quando sia necessario un riempimento laddove si siano formati vuoti non riaccostabili. Dal momento che la resistenza dell'intonaco al degrado è maggiore se la sua superficie è compatta e omogenea, è necessario realizzare la stuccatura di tutte le piccole cavità e fenditure e l'integrazione delle mancanze del materiale di superficie. La composizione delle malte di restauro deve essere compatibile con le qualità del materiale antico, avere caratteristiche di buona lavorabilità, minimo contenuto di sali solubili, porosità, granulometria e aspetto di superficie simili a quelli degli impasti originali. La pulitura, realizzata con acqua, con soluzioni chimicamente attive applicate tramite impacchi e finitura meccanica, o con l'applicazione di energia termica alla superficie (mediante dispositivi laser), costituisce una fase particolarmente delicata nell'ambito delle operazioni di restauro. Questa infatti, attraverso la rimozione di materiali depositati sulla superficie dell'organismo architettonico, può esercitare, se non correttamente eseguita, un'azione distruttiva e non reversibile sulla "pelle" dell'edificio, con grave danneggiamento del sistema di protezione dell'organismo stesso attuato attraverso l'intonaco. Il processo di pulitura consiste nella rimozione degli strati sovrapposti per deposito naturale (particellato) o per maldestri interventi conservativi dell'uomo. Generalmente il metodo di pulitura per rimuovere questi strati tenaci è l'applicazione di compresse con soluzioni basiche, eventualmente rifinita, se necessario, con un mezzo meccanico (bisturi). L'intervento sul colore è altresì delicato, in quanto implica considerazioni di carattere storico-critico circa la prassi di rinnovamento periodico del colore degli edifici attraverso interventi di ordinaria manutenzione o di ritinteggiatura. La ricerca storica e iconografica, insieme con l'analisi tecnica e scientifica, indicherà di volta in volta la scelta da seguire: si possono conservare gli intonaci consunti limitandosi a risarcire le mancanze; intonaci ben conservati ma privati del colore originale possono ricevere una velatura tendente a restituire il "tono" originale, desunto dall'analisi visiva precedentemente condotta; infine, identificato il colore originale, lo si può ristabilire integralmente, attenuandone il valore cromatico con una leggera patina. Al termine di ogni intervento conservativo è consigliabile applicare uno strato protettivo idrorepellente che possa difendere le superfici consolidate e pulite dall'aggressione degli elementi esterni. L'uso di strati protettivi deve comunque essere collegato ad una prassi di manutenzione che preveda l'ispezione periodica e l'eventuale ripetizione del trattamento a regolari intervalli. La costante manutenzione delle superfici contribuirà a realizzare una migliore e più duratura conservazione dell'opera architettonica nella sua trasmissione al futuro. Ed è questo il fine di ogni intervento di conservazione sulle superfici architettoniche.
L. Mora - P. Mora - P. Philippot, La conservation des peintures murales, Bologne 1977; L. Mora, Intonaci e colore, Roma 1979; A. Melucco Vaccaro, La policromia nell'architettura e nella plastica antica, in RicStorArt, 24 (1984); L. Mora - P. Mora, Le superfici architettoniche, materiale e colore. Note ed esperienze per un approccio al problema del restauro, in Il colore nell'edilizia storica. Riflessioni e ricerche sugli intonaci e le coloriture, in BdA, Suppl. 6 (1984), pp. 17-24; L. Mora - P. Mora - G. Zander, Coloriture e intonaci nel mondo antico, in BdA, Suppl. ai nn. 35-36 (1986), pp. 11-16; G. Zander, Storia della scienza e della tecnica edilizia, Roma 1991.
di Roberto Nardi - Chiara Zizola
I materiali lapidei sono stati usati fin dall'antichità come materiale da costruzione e di rivestimento per edifici, in blocchi, lastre o come materiali da scolpire. In tutte le loro forme, queste strutture, destinate a trasmettere valori estetici, politici o spirituali, hanno attraversato i secoli diventando testimoni passivi degli eventi naturali e storici accaduti negli ambienti circostanti. Mentre gli altri materiali lapidei venivano rivestiti, soprattutto sul marmo le tracce lasciate dai progettisti, i segni degli strumenti di lavorazione degli scalpellini, i residui dei materiali impiegati per le manutenzioni originali e successive, le tracce di uso e di riuso, associati al degrado dei materiali dovuto all'esposizione agli agenti atmosferici, costituiscono nel loro insieme il valore storico dei monumenti che va a sommarsi ai significati estetici, politici e spirituali che hanno rappresentato al momento della loro realizzazione. Queste stratificazioni non hanno avuto tuttavia l'attenzione e il rispetto necessari e sono state confuse con i prodotti di alterazione, quindi rimosse. Tale approccio ha avuto inizio a metà dell'Ottocento per effetto delle teorie puriste sull'arte e del conseguente dilagare dell'estetica del frammento, per proseguire, nel Novecento, in funzione di una semplificazione dei procedimenti di pulitura con l'utilizzo sistematico di apparecchiature e prodotti industriali. Il XX secolo ha visto utilizzare nel campo del restauro i mezzi più diversi, dagli aggressori chimici (acidi e basi forti) agli aggressori meccanici (sabbiatrici, idropulitrici, frullini, ecc.), fino alle esperienze più recenti in campo biologico, con l'uso di enzimi, e in quello elettronico con l'applicazione del laser. Qualunque sia stato il trattamento adottato, è stata prassi quotidiana ignorare il contenuto storico e culturale del monumento, considerato come supporto ininfluente di un'immagine estetica. Lo stesso discorso si può estendere ai cosiddetti "trattamenti di protezione e consolidamento" eseguiti dopo la pulitura: spesso, infatti, si concretizzano in operazioni basate sull'applicazione estensiva di prodotti commerciali, chimicamente e fisicamente estranei al materiale originale sul quale vengono applicati. Concepiti per applicazioni su materiali nuovi, questi consolidanti penetrano nella pietra, modificandone non solo l'aspetto, ma anche le caratteristiche meccaniche e la risposta alle sollecitazioni termiche e igrometriche, con il risultato di aggravare i processi di decoesione e di disgregazione. Una più attenta osservazione ed uno studio filologico rinnovati hanno condotto alla riscoperta dei valori storico-archeologici dei monumenti. Questa acquisita conoscenza ha naturalmente condotto ad un diverso rispetto per la materia e per i dati che su di essa sono registrati nelle varie forme e ha adeguato i mezzi di intervento anche al maggiore rispetto delle stratificazioni presenti sulle superfici dei monumenti. Nel corso degli anni Ottanta alcuni tra i maggiori monumenti in pietra di Roma sono stati documentati, studiati, conservati e predisposti per interventi di manutenzione. Queste operazioni dimostrano una diversa attenzione storica e un approccio metodologico differente: il trattamento conservativo inizia con lo studio e la documentazione delle superfici e persegue l'obiettivo finale di proteggere e predisporre il monumento alla fruizione odierna e futura. Le analisi dei materiali presenti sotto strati di alterazione sui principali monumenti romani hanno portato alla scoperta di patinature per lungo tempo erroneamente classificate come depositi di sporco e perciò indiscriminatamente rimosse. Queste patinature, analizzate in laboratorio, sono risultate essere composte da ossalato di calcio, materiale derivante dall'alterazione dei componenti delle scialbature (calce mescolata a sostanze proteiche come latte, caseina, ecc.), che periodicamente venivano stese a scopo protettivo sulle superfici marmoree dei monumenti. Di queste scialbature si sono ritrovate alcune allusioni nelle fonti antiche e alcune ricette nella trattatistica cinque-seicentesca come trattamenti di intonacatura "all'antica". Purtroppo, l'esposizione agli inquinanti ha cancellato da gran parte dell'architettura marmorea antica le tracce di policromia, che si sono per lo più riscontrate su elementi architettonici musealizzati all'inizio dell'Ottocento (ad es., il fregio del tempio di Apollo a Figalia, al British Museum). Nell'attuale clima di attenzione alle superfici, la pulitura si limita al ripristino della leggibilità con l'asportazione selettiva dei soli depositi di sporco, con l'utilizzo principalmente della tecnica più blanda di pulitura, l'atomizzazione dell'acqua. Attraverso questo sistema, l'acqua viene vaporizzata sui depositi e ridotta a particelle in grado di rimuovere i depositi senza intaccare i materiali sottostanti, quali le scialbature e le policromie. Le parti pericolanti vengono preconsolidate e, se necessario, fissate con l'uso di malte a base di calce. La stuccatura delle discontinuità maggiori (lacune, mancanze, ecc.) e minori (fessure e disgregazioni superficiali) assume un ruolo decisivo nella sopravvivenza dell'opera e nel recupero dei suoi valori formali. Le tendenze attuali escludono di norma l'uso di prodotti sintetici e privilegiano il ricorso a malte idrauliche per le lacune più estese e profonde e a calce con polvere di marmo di diversa granulometria per le finiture superficiali. Anziché confidare in interventi massicci una tantum, la strategia di conservazione più prudente preferisce interventi leggeri e ripetibili. Un ruolo non secondario hanno anche il ripristino dei sistemi originari di smaltimento dell'acqua piovana o di prevenzione di accumuli di polvere che favoriscono la crescita di piante infestanti e l'applicazione di scialbature a base di calce a scopo protettivo sulle superfici esposte. Poiché la qualità dell'aria nei centri urbani non è ancora soddisfacente, per una corretta strategia di conservazione dei monumenti sarebbe inoltre necessario (ma è ancora ben lungi dal costituire una prassi) un piano ciclico di controllo, nel corso del quale aggiornare la documentazione, eseguire la rimozione dei depositi di particellato atmosferico, nonché l'eventuale integrazione delle stuccature, e applicare protettivi superficiali. Gli esempi oggi disponibili di interventi realizzati secondo queste linee operative hanno dimostrato la validità del metodo, sia dal punto di vista scientifico che da quello economico. La pratica costante della manutenzione dei monumenti da un lato riduce drasticamente le risorse economiche richieste per la protezione del patrimonio monumentale, dall'altro diminuisce l'impatto dei trattamenti. Caratteristica peculiare del patrimonio culturale è l'universalità del messaggio che contiene. Come tale, parte integrante del ciclo di conservazione e protezione dei monumenti è rappresentata dalla divulgazione e trasmissione delle informazioni in esso raccolte. La disciplina della conservazione, in una lettura attuale, non si pone come elemento statico di pura protezione della materia e del dato storico, ma si struttura in un'attività dinamica che ha come fine ultimo il reinserimento del monumento, conservato e protetto nei modi descritti, in un ciclo di uso culturale. L'uso culturale, e non il consumo fine a se stesso, entra a far parte dell'intervento di conservazione fin dal momento iniziale della sua progettazione e successiva realizzazione tecnica: l'apertura al pubblico dei cantieri di conservazione è una delle recenti applicazioni, nel campo della conservazione, di iniziative di sensibilizzazione e di coinvolgimento dei fruitori alla vulnerabilità del patrimonio e alle strategie di un uso consapevole e rispettoso.
Case Studies in the Conservation of Stone and Wall Paintings. Preprints of the Contributions to the Bologna Congress (Bologna, 21-26 September 1986), London 1986; J. Ashurst - N. Ashurst, Practical Building Conservation, I. Stone Masonry, Aldershot 1988; G. Torraca, Porous Building Material, Rome 1988; A. Melucco Vaccaro, Archeologia e restauro, Milano 1989; P. Rockwell, Lavorare la pietra, Roma 1989; A. Roy - P. Smith (edd.), Preventive Conservation: Practice, Theory and Research. Preprints of the Contributions to the Ottawa Congress (Ottawa, 12-16 September 1994), London 1994; R. Nardi, Going Public: a New Approach to Conservation Education, in Museum International, 201 (1999), pp. 44-50.
di Roberto Nardi
Per tracciare il processo evolutivo che ha portato alle attuali strategie di conservazione dei mosaici, bisogna ricordare che con la "scoperta" ottocentesca dei siti archeologici e la loro trasformazione in miniere di tesori inizia il processo di demolizione. I siti e gli edifici vengono spogliati dei loro elementi qualificanti, soprattutto mosaici e affreschi, a favore di musei, palazzi, depositi, botteghe di mercanti. La mancanza di attenzione al dato storico ha prodotto come dirette conseguenze l'assenza completa di documentazione, la distruzione dei contesti, la perdita di notizie sulle provenienze. Il mosaico è considerato solo come un'immagine composta da un sottile strato di tessere che possono essere smontate e rimontate senza danno. I metodi di stacco hanno subito un processo che si è sviluppato in parallelo con gli analoghi metodi di rimozione degli affreschi: tra il XVIII e l'inizio del XIX secolo si è andati dalla rimozione a blocchi con tutti gli strati di sottofondo (massetto), secondo forme e grandezze determinate dalla fratturazione del sottofondo stesso, al taglio in pezzi solitamente di dimensioni superiori al metro quadrato, previa velatura con colle animali o resine naturali. Una volta eseguito lo stacco, gli strati di sottofondo venivano completamente rimossi e il solo tessellato veniva riapplicato su lastre di pietra, su supporti in gesso e metallo, oppure direttamente sul muro o sul pavimento nelle nuove collocazioni. È noto il caso dei mosaici provenienti da Pompei ed Ercolano, staccati e destinati al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Cassio - Nardi 1982). Un discorso diverso riguarda i mosaici pavimentali e parietali presenti nei luoghi di culto. Laddove questi edifici sono rimasti in uso, non sono mai venute meno quelle pratiche di manutenzione ordinaria che ne assicuravano la leggibilità necessaria alle esigenze liturgiche o, quanto meno, sono rimaste efficienti le funzioni protettive proprie di un edificio coperto. Entrambi i fattori hanno limitato alcuni degli elementi di degrado. Nei mosaici delle chiese la storia degli interventi ha visto un continuo avvicendamento nei metodi di consolidamento e reintegrazione delle lacune. Nel consolidamento, interventi basati sul distacco di porzioni di tessellato e successiva riapplicazione su nuovi letti di posa in cemento, mastici e resine, si alternano a trattamenti di fissaggio in situ mediante inserimento di staffe e perni metallici. La reintegrazione delle lacune viene resa con tessere o con superfici dipinte. Nel caso di restituzione con tessere, l'intervento è realizzato sia mediante applicazione diretta che indiretta, creando i motivi a mosaico su cartoni successivamente applicati nella collocazione finale. Nel caso della restituzione dipinta, le tecniche che troviamo vanno dalla tempera, all'olio, alla "stampigliatura" su stucco fresco (Iannucci 1990). Il primo cambiamento di tendenza nel trattamento dei mosaici avviene nella seconda metà del XX secolo: C. Brandi, in una relazione tecnica relativa ai mosaici parietali della Cupola della Roccia sulla spianata dei templi a Gerusalemme, raccomanda la conservazione in situ dei mosaici, senza praticare nessuno stacco (Brandi 1956). Altrimenti i mosaici vengono ancora staccati: i metodi sono gli stessi dei secoli precedenti, arricchiti di nuove opzioni. I pavimenti sono sezionati e sollevati a pezzi di ampie dimensioni (1 m²), asportando l'intero blocco di preparazione (stacco a massetto); oppure il manto musivo viene protetto da tessuti applicati con colle animali o con resine naturali e poi separato dagli strati di allettamento sempre a pezzi di ampie dimensioni (stacco a pezzi grandi). A queste tecniche si aggiungono lo stacco del solo manto musivo mediante velatura delle tessere con tessuto e resine e successivo "arrotolamento" attorno ad un "rullo" (stacco a rullo), oppure lo stacco per piccoli pezzi, sempre del solo manto musivo, previa velatura e rimozione dagli strati di allettamento. Per eseguire queste operazioni gli strati di malta sottostanti il tessellato e il perimetro delle sezioni di taglio vengono regolarmente distrutti. Così come sono spianate e cancellate tutte le irregolarità e le tracce storiche presenti sulle superfici. Vengono così distrutti i segni della lavorazione antica, dalla sinopia ai punti di misura; sono cancellate le tracce d'uso, di manutenzione e restauro dei pavimenti; si perdono le evidenze dei meccanismi di distruzione e abbandono degli edifici, altrimenti impressi nella superficie del manto musivo sotto forma di fratture, bruciature, sprofondamenti, fessure; si rimuovono le tracce legate ad un eventuale riuso tardo delle strutture. Il messaggio storico e tecnico impresso nel monumento musivo viene pertanto irreversibilmente perso. Con gli anni Cinquanta e Sessanta si fa lentamente strada la pratica di ricollocare i pavimenti nel luogo d'origine, però su nuovi supporti, mobili o fissi. Compaiono i nuovi supporti fissi, generalmente in cemento armato. Si arriva anche a riproporre con i nuovi letti di posa le irregolarità del piano musivo o a dare spazio a tentativi di riproporre realtà stratigrafiche di sovrapposizione di due o più mosaici in uno stesso ambiente. Ad esempio citiamo i casi di Aquileia, dove alcuni pavimenti appaiono oggi collocati al di sopra di vere e proprie terrazze in cemento armato, e di Ostia Antica, nella Regione VI, dove nell'ambito di una stessa sala troviamo due pavimenti musivi, uno più antico collocato al piano originale e interamente obliterato da un mosaico più tardo, staccato e montato su pannelli sintetici circa 50 cm al di sopra del precedente. Negli ultimi decenni l'attenzione si è spostata dal singolo oggetto, il mosaico, al contesto: la stanza, l'edificio, il sito. In questo modo ci si indirizza lentamente verso il mantenimento sul posto di tutti gli elementi che qualificano il sito: gli oggetti mobili nel museo del sito, affreschi e mosaici nella loro collocazione originale. Tutto ciò ha portato ad un progressivo aumento delle conoscenze sul mosaico e ha permesso di iniziare a valutare le molteplici componenti della struttura antica: il materiale costitutivo, le tecniche di esecuzione, le tracce lasciate sui materiali dal trascorrere del tempo. Si sviluppa la tendenza a non interferire, non solo con l'immagine estetica del mosaico, ma anche con la sua consistenza materiale. Da questo momento le scelte metodologiche e tecniche sul trattamento dei mosaici seguono, forse con venti anni di ritardo, il processo evolutivo che ha avuto luogo nella conservazione degli affreschi. Per questi si è passati dal sistematico distacco con riapplicazione su pannelli mobili al consolidamento in situ, lasciando solo a casi particolari la scelta dell'asportazione. La conservazione in situ dei mosaici archeologici viene affermata con decisione come la più corretta strategia di salvaguardia, ma spesso questa scelta non è stata seguita da piani organici di manutenzione. Ciò ha suscitato dubbi sulla saggezza di tale scelta, che può mettere a repentaglio la sorte di un rivestimento musivo. Tuttavia gli eccessivi distacchi del passato mostrano che quest'ultima non è una soluzione adeguata al problema. L'ipotesi del distacco e del trasferimento del mosaico altrove viene quindi oggi riservata a casi particolari nei quali, a causa di rischi legati a condizioni geologiche o di sicurezza del luogo, la conservazione in situ porterebbe a distruzione certa del mosaico. Nella maggioranza dei casi il mosaico viene restaurato sul posto, nelle condizioni ambientali del luogo di conservazione (ed esposizione), senza alterare l'aspetto finale delle superfici, nel rispetto delle tracce e del contenuto storico del monumento. Per fare questo non si utilizzano più materiali "sperimentali", ma si torna all'uso delle tecniche e dei materiali tradizionali. Le malte a base di calce sostituiscono nel consolidamento le resine e i cementi utilizzati negli ultimi decenni. Allo stesso tempo nuove attività entrano a far parte degli strumenti del conservatore: l'intervento inizia con la documentazione dello stato di conservazione del mosaico e delle tracce storico-tecniche. Lo studio della documentazione produce i dati necessari alla programmazione dell'intervento e delle misure da realizzare per la sua protezione futura. Quanto ognuna di queste fasi incida nell'economia generale dell'intervento dipende dal tipo di mosaico, dal suo stato di conservazione ma soprattutto da quanto tempo intercorre tra il momento del suo scavo ed esposizione e quello del trattamento. Per meglio comprendere il dettaglio dell'intervento di conservazione è necessario soffermarci sulla composizione materiale del mosaico e su quali sono i meccanismi di decadimento. Il mosaico è composto di un insieme di strati sovrapposti (generalmente quattro) eseguiti con malte a base di calce e aggregati vari. Su questi strati di fondazione e di preparazione è applicato il tessellato. Questo può essere realizzato con elementi di grandezze variabili composti da materiali inorganici, principalmente pietra, marmo, a volte paste vitree, ceramica. Il deterioramento può manifestarsi in ognuno di questi strati attraverso la polverizzazione del materiale costitutivo, la formazione di vuoti e la perdita di aderenza. Possiamo così trovare distacchi tra uno strato di preparazione e l'altro, vuoti di profondità, perdita di malta tra le tessere, distacchi tra le tessere e lo strato di allettamento, fino alla perdita totale di tessere e di parte degli strati di allettamento con formazione di lacune. La causa di tutto ciò può essere ricondotta a manomissioni da riuso, a crolli di strutture sovrastanti, a incendi, ad atti vandalici, a furti, a sprofondamenti del sottosuolo, a crescita di piante, a cattivo uso in epoca moderna, a naturale decadimento dei materiali. Il trattamento diretto deve rimediare a tutto questo. Sarà poi compito degli interventi indiretti prevenire il riproporsi delle condizioni di danno. Il trattamento diretto in situ deve riportare adesione, continuità e compattezza tra tutti gli strati che compongono il mosaico. Deve farlo senza introdurre nella struttura originale elementi estranei, che potrebbero rivelarsi instabili o non legare con l'originale ed essere essi stessi elementi di possibile alterazione. Ecco il motivo di tanta attenzione per lo studio dei componenti costitutivi: solo materiali simili agli originali possono offrirci garanzia di durabilità e assimilazione con l'esistente. Questo è il campo in cui negli ultimi anni si sono spinte la ricerca e la pratica di cantiere: per perfezionare le combinazioni tra legante e carica nelle malte a base di calce, per raffinare i metodi di applicazione. In questi anni, si afferma, parallelamente alla nuova etica, la capacità tecnica di mantenere in situ i mosaici nel rispetto del manufatto e del suo contesto archeologico. E con questo viene progressivamente acquisito il principio, nell'affrontare i problemi di conservazione, di non fermarsi al mosaico, ma di spingersi all'analisi del contorno, dell'insieme, dell'ambiente. Mentre un tempo il trattamento del mosaico si esauriva in un intervento unico, realizzando in una sola operazione il massimo dell'azione possibile, oggi si cerca di limitare l'entità dell'intervento diretto, demandando piuttosto ad operazioni future eventuali azioni "correttive" o "integrative del trattamento". Si preferisce intervenire al minimo oggi per demandare alla manutenzione la conservazione futura. Entrano a far parte degli strumenti del conservatore interventi indiretti, da realizzare sull'ambiente, utili a prevenire i danni, anche se ancora oggi stentano ad entrare nella prassi degli interventi. Il conservatore deve risanare il mosaico e allo stesso tempo deve predisporre le condizioni per la sua protezione futura, attiva e passiva, per la sua salvaguardia e per la sua manutenzione. O meglio, deve affrontare situazioni di rischio potenziale in anticipo, per predisporre misure di protezione preventiva atte a limitare, se non addirittura evitare, un successivo trattamento diretto del manufatto. Queste nuove linee comportamentali si basano anche sulla considerazione, ormai ampiamente condivisa, che il patrimonio musivo non può essere lasciato esposto alle intemperie e all'"uso culturale" in maniera sistematica ed estensiva. Vanno prodotte selezioni e scelte in base a criteri di conservazione e di "uso culturale" del sito, nell'ambito di adeguati piani di protezione e manutenzione. Per queste aree devono essere realizzati sistemi per la visita (passerelle, materiali informativi, servizi), cicli di esposizione stagionale e protezioni temporanee, programmi di manutenzione ordinaria. La finalità è quella di garantire la fruizione del bene archeologico, senza intaccarne l'integrità materiale.
C. Brandi, Report on the Mosaics of the "Dome of the Rock", Mosque in Jerusalem, Jerusalem - Rome 1956; A. Cassio - R. Nardi, Technique d'application de la fin du XVIIIème siècle et du début du XIXème siècle de quelques pavements du Musée archéologique de Naples, in ICCM Newsletter, 5 (1982), pp. 19-23; A.M. Iannucci, Appunti per una storiografia del restauro parietale musivo: il caso di Ravenna, in C. Fiori - C. Muscolino (edd.), Restauri ai mosaici nella Basilica di S. Vitale a Ravenna, Faenza 1990, pp. 9-19. Inoltre si vedano gli Atti delle conferenze triennali dell'ICCM (International Committee for the Conservation of Mosaics), editi dal 1976; a questi si aggiungano ICCM Newsletter, 9 (1992), 10 (1998) e gli Atti dei Colloqui dell'Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico.