Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il periodo storico in cui si snoda il percorso della comunicazione visiva moderna è rappresentato da uno scenario racchiuso tra due rivoluzioni. La rivoluzione tecnica degli ultimi due decenni dell’Ottocento, con le conquiste della cromolitografia, che ha dato facoltà agli artisti di realizzare manifesti a più colori e di grande formato; l’immissione sui mercati mondiali di macchine compositrici per i testi, come le linotype e le monotype, che ha consentito un’accelerazione nella produzione dell’editoria periodica e dei quotidiani; la fotomeccanica, che ha permesso la riproduzione e dunque la moltiplicazione all’infinito dell’immagine fotografica; le macchine rotative e le offset tramite le quali l’informazione e la comunicazione visiva sono diventate fenomeni di massa. L’altra rivoluzione, quella dei giorni nostri, è la rivoluzione tecnologica dell’informatica, del digitale, della rete mondiale a cui tutti noi siamo collegati. È tra questi due poli che si è sviluppata anche una poetica linea evolutiva del progetto grafico.
Il cartellonismo: l’affiche come arredo urbano
La comunicazione tramite il messaggio visivo si diffonde in Europa nella seconda metà dell’Ottocento, soprattutto grazie all’evoluzione tecnica della cromolitografia. Tecnica questa che ha permesso agli artisti di passare dal supporto della pietra litografica al disegno su grandi lastre di zinco, con la possibilità di selezionare su più lastre il soggetto al fine di ottenere la stampa a colori; dopo il 1880, infatti, verranno introdotte le prime macchine per la stampa litografica.
La crescita e la concentrazione della popolazione nelle grandi città per tutto il corso dell’Ottocento, ha fatto sì che si è andata sviluppando una cultura metropolitana, di cui l’esempio più evidente è nella diffusione del gusto borghese art nouveau. Nel fervore di tante realizzazioni di manifesti, c’è l’evidente scopo di diffondere quei messaggi visivi a un vasto pubblico, pur trattandosi, talvolta, di messaggi elitari, comunque, non ancora appartenenti alla cultura di massa. A Parigi, molto spesso l’affiche è rappresentativo del mondo dello spettacolo, dal mondo circense ai divertimenti del palazzo del ghiaccio, dallo spettacolo teatrale o di danza ai locali di attrazione, come il Moulin Rouge. I maestri di questo genere sono Jules Chéret e Henri de Toulouse-Lautrec, con le loro composizioni di figure dinamiche in movimento fra postimpressionismo e art nouveau, con i testi liberamente distribuiti nello spazio caratterizzati da caratteri fantasia. Oltre a loro, anche Eugène Grasset, di formazione neogotica, compositivamente più strutturale, e aderente nello spirito al modello di William Morris; e Alphonse Mucha, di origine cecoslovacca, il quale, soprattutto nei manifesti per gli spettacoli di Sarah Bernhardt, imprime un segno altamente decorativo e bizantineggiante. Accomunati dallo spirito art nouveau, ma diversi tra loro, Manuel Orazi, che come molti subisce l’influenza del giapponismo, e Théophile-Alexandre Steinlen, abile disegnatore dal segno caricaturale e realista.
La qualità artistica e la riconoscibilità stilistica del manifesto in Italia avviene un po’ più tardi che in Francia, e si esprime nella pienezza del gusto liberty. I due generi che si evolvono all’inizio del nuovo secolo, sono i manifesti per gli spettacoli del melodramma e la promozione pubblicitaria per alcune grandi aziende, in particolare dell’abbigliamento, come per Mele di Napoli, La Rinascente di Milano, il cappellificio Borsalino.
Adolf Hohenstein di origine russa, Leopoldo Metlicovitz, e Marcello Dudovich, questi ultimi, entrambi triestini, svolgono parte della loro attività direttamente all’interno delle Officine Ricordi, assolvendo in tal modo, non solo alle competenze artistiche, ma anche a quelle tecniche. Della generazione di Dudovich vanno quantomeno citati il prolifico Aleardo Terzi, Enrico Sacchetti (1877-1967), e soprattutto Leonetto Cappiello, che si può ritenere il maggior innovatore del manifesto moderno. Livornese come Amedeo Modigliani, si trasferisce, come quest’ultimo, a Parigi poco più che ventenne, dove fa alcune esperienze come vignettista collaborando con alcuni quotidiani. Nei primissimi anni del Novecento egli avvia l’attività di disegnatore di manifesti pubblicitari, mettendo subito in evidenza la sua originale personalità. La rappresentazione è emblematica e non narrativa, i suoi personaggi rappresentano folletti, mascherine, pierrot, diavoli, come nei manifesti per Thermogène (1909), per Maurin Quina (1906), fino a Bitter Campari (1921). Figure così fortemente connotate da diventare inscindibili dal prodotto stesso.
Nel manifesto della tarda tradizione Arts and Crafts, va segnalata l’attività pubblicitaria dei Beggastaff Brothers, che operano in Inghilterra dai primi anni Novanta, con un segno di grande modernità. Un caso a parte è rappresentato dalla figura di Aubrey Beardsley, integrato nel mondo letterario, che nel volgere della sua breve esistenza si afferma con uno stile personalissimo, ispirato alle incisioni del Rinascimento italiano e al giapponismo. Oltreoceano operano Will Bradley (1868-1962) e Edward Penfield, soprattutto nel settore editoriale con un’elegante figurazione.
Le Secessioni, per un nuovo stile
Nel 1898 Henri van de Velde, architetto, progettista di arredi e teorico, realizza un manifesto pubblicitario non figurativo per una marca alimentare (la Tropon), fortemente art nouveau nella composizione, ma del tutto astratto. Simbolicamente questo manifesto rappresenterà un nuovo modo di concepire la comunicazione visiva. Altri, come Charles Rennie Mackintosh e le sorelle Margaret e Frances Mcdonald a Glasgow, oppure Jan Toorop in Olanda, così come Beardsley, avvieranno invece un rigoroso processo di stilizzazione della figura, infrangendo le rigide regole dell’accademismo.
Quando a Vienna nel 1900 viene presentata l’VIII mostra della Secessione, con la presenza di architetti e artisti britannici, compreso il gruppo di Glasgow, scatta un ulteriore stimolo per le ricerche già avviate da Josef Hoffmann, Koloman Moser, Joseph Maria Olbrich e altri, al di là della guida del carismatico Gustav Klimt. In particolare Kolo Moser (1868-1918) risulterà il più autorevole interprete della grafica secessionista, con numerosi manifesti per le varie esposizioni e con l’attività di illustratore. Nelle sue ricerche di matrice empirica sui motivi di controscambio positivo-negativo, in particolare nelle composizioni per il catalogo Flachenmuster, egli anticipa di alcuni decenni gli studi sulla teoria della forma, sviluppati dall’orientamento psicologico della Gestalt.
In Germania, nel clima di passaggio dallo Jugendstil alla Nuova oggettività (Neue Sachlichkeit), troviamo il Peter Behrens del primo periodo, e soprattutto Lucian Bernhard (1883-1972) e Hans R. Erdt (1883-1918), che nel manifesto impongono con molta chiarezza e realismo, l’oggetto pubblicizzato senza alcun contesto, accompagnato soltanto dal logotipo. Più vicino al clima della Secessione viennese il tedesco Ludwig Hohlwein, i cui manifesti superano sempre il livello di un’arte puramente utilitaristica a favore di una ricerca formale rigorosa. Almeno fino agli anni della prima guerra mondiale, quando apre a un naturalismo più descrittivo.
Cassandre e il manifesto nel periodo fra le due guerre
Con la diffusione del gusto déco, intorno agli anni Venti, nelle varie parti del mondo occidentale il manifesto pubblicitario ha ancora un ruolo centrale nella comunicazione visiva, già reso emblematico, sintetico e dinamico dalle avanguardie artistiche. È ancora la Francia a prevalere in questo campo, erede di una tradizione illustre. Disegnatori come Cassandre, Jean Carlu, Paul Colin, Charles Loupot, fanno propri i motivi spaziali e decorativi dell’arte contemporanea – cubismo, futurismo, purismo – traducendoli in un linguaggio al tempo stesso popolare e raffinato. Adolphe-Jean-Marie Mouron, in arte Cassandre, è indubbiamente il maggior interprete del periodo in quella che i Francesi considerano ancora l’art de la rue. Nei suoi manifesti fanno spicco la strutturazione geometrica e il lettering bene integrato con la composizione figurativa. Dal 1927 egli disegna una fortunata serie di manifesti per le ferrovie, come Nord Express, Etoile du Nord, che costituiscono in assoluto i suoi capolavori. Successivamente disegnerà alcuni altrettanto eccezionali manifesti per una compagnia di navigazione, e ancora, il trittico Dubonnet, una pura invenzione pubblicitaria (1932), e Nicolas, un manifesto per un produttore di vini, con cui si avvicina allo spirito futurista di Depero.
Nel clima delle post-avanguardie europee vanno citati anche l’americano Edward McKnight Kauffer, che opera a Londra fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, e l’italiano Sepo (Severo Pozzati, 1896-1983), che lavora a Parigi, per alcuni aspetti nella sfera di Cassandre. Tra i numerosi italiani che realizzano, tra altri vari progetti, anche notevoli manifesti, c’è l’apprezzabile lavoro di Marcello Nizzoli; ma certamente il più eclettico e brillante di tutti è Fortunato Depero, che porta all’interno del progetto grafico un’esplosiva esperienza di matrice futurista. Depero non è un grafico cartellonista, è un’artista a tutto campo che lascia però una traccia indelebile nella grafica pubblicitaria. Basti ricordare i manifesti, gli annunci, i vari progetti per Campari, dal 1926 in poi, che appartengono non solo alla storia dell’azienda, ma anche a quella della grafica italiana e internazionale.
Periodico illustrato e rivista di settore
La diffusione dell’informazione, non solo attraverso la parola scritta ma visualizzata dalle immagini, soprattutto per mezzo della fotografia, avviene alla fine dell’Ottocento grazie a due nuovi fenomeni: la rapida conquista dell’alfabetizzazione nei grandi centri urbani e il progresso tecnologico nei sistemi di stampa. Sono gli anni in cui la meccanizzazione dei processi di composizione tipografica e di stampa evolvono con rapidità e la pubblicazione illustrata, il magazine, ottiene sempre maggior successo di pubblico. Anche la fotografia si è affinata con risultati sorprendenti; nel 1886, ad esempio, "Le Journal illustré" pubblica un’intervista registrata, accompagnata da una sequenza fotografica dei Nadar, padre e figlio, allo scienziato Michel-Eugène Chevreul, che possiamo considerare un’anticipazione del moderno giornalismo. Conquistata la necessaria autonomia, la fotografia può occuparsi di ricerche sui linguaggi espressivi, così che anche da un punto di vista della grafica, si possono sviluppare nuovi orientamenti fra testo e immagine.
Fra le pubblicazioni che all’avvio del nuovo secolo contano già una solida tradizione, si possono menzionare, "L’Illustration" in Francia, "The Illustrated London News" in Gran Bretagna, "L’Illustrazione Italiana" (mentre "La Domenica del Corriere" nasce nel 1899); "Die Illustrierte Zeitung" in Germania, "Harper’s Weekly" negli Stati Uniti.
Nel frattempo una nuova tecnica di impaginazione tende a mettere in sequenza dinamica un certo numero di immagini, costruendo dei racconti cinetici, come si riscontra in alcune testate fin dal primo decennio del Novecento. Un esempio per tutti è nel numero del 1° agosto 1908 del periodico "La Vie au Grand Air", che sintetizza in una sequenza dinamica, le gare delle Olimpiadi di Londra di quello stesso anno. Molto più tardi, dalla metà degli anni Venti in poi, verrà sfruttato ad arte anche il fotomontaggio, sia come strumento di impegno politico è il caso di John Heartfield per "AIZ" ("Allgemeine Illustrierte Zeitung"), e anche, come mezzo di efficace propaganda, nella grafica di El Lissitzky e Rodcenko per "USSR in Bau" ("SSSR na Stroike").
Nel 1924 l’industriale tedesco Ernst Leitz mette in produzione la prima macchina fotografica Leica I, poco ingombrante, che si può usare senza cavalletto e che adotta pellicole di 35 mm, rivoluzionando il mercato professionale, per via della possibilità di scattare una notevole quantità di immagini in sequenza. Pochi anni dopo, nel 1930, l’azienda è in grado di produrre un sistema di accessori intercambiabili, compresi gli obiettivi. In un breve arco di tempo si vanno affermando grandi interpreti del fotogiornalismo, fra cronaca e racconto per immagini. È il caso dei servizi sulla guerra civile di Spagna di Robert Capa, a quelli a sfondo sociale di Henri Cartier-Bresson in Francia, Spagna, Messico, o di Margaret Bourke-White negli anni della depressione americana. E altri ancora, come Brassai e Robert Doisneau per la vita parigina, Erich Salomon per l’ambiente diplomatico e Felix Man per una ricerca raffinata nella cronaca.
La concezione di un fotogiornalismo moderno si forma indubbiamente con il contributo di redattori e grafici che completano nella pagina i racconti visivi tracciati con le immagini fotografiche. Si pensi a periodici come "Life", fondato nel 1936, o il concorrente "Look" che puntano sulla spettacolarità dei servizi; così come i francesi "Vu" e "Regardes", e l’italiano "Tempo", dal 1937 edito da Mondadori.
Negli anni che precedono la seconda guerra mondiale, soprattutto negli Stati Uniti, si dà vita a una attività editoriale più strutturata nel lavoro redazionale e con un orientamento grafico visivo modernista, secondo le esperienze costruttiviste diffuse in Europa e, in particolare, in Germania. Si va dalla rivista di interesse economico molto qualificata, come "Fortune", fondata nel 1930 e che avrà, alla fine della guerra, tra gli art director Will Burtin (1908-1972), formatosi in Germania e poi approdato negli Stati Uniti. Ma sarà soprattutto con le grandi riviste di moda che verrà evidenziata la nuova figura dell’art director, regista indiscusso, tutore dello stile grafico e iconografico di ogni numero pubblicato e della sua continuità nel tempo. A New York fin dagli anni Trenta operano due personalità eclettiche, dalle carriere parallele, entrambi di origini russe: Mehemed Fehmy Agha, che dopo aver lavorato presso la redazione tedesca di "Vogue", viene chiamato alla sede di Condé Nast a New York, dove avrà come assistente il grande fotografo Edward Steichen, e dove gli verrà affidata anche l’art direction di "Vanity Fair". L’altro è Alexey Brodovitch, che entra nella redazione di "Harper’s Bazaar", acquisendo il ruolo di autorevole maestro per grafici e fotografi, da Irving Penn a Richard Avedon; sarà soprattutto Brodovitch il maggiore ispiratore della scuola statunitense nell’editoria periodica, fondata sulla qualità e la sperimentazione. Tra i numerosi designer e art director venuti dopo i due grandi pionieri, vanno citati Lester Beall, Francis Brennan, Bradbury Thompson, Otto Storch, Henry Wolf, Herbert Lubalin, Leo Lionni.
La comunicazione di propaganda
La personificazione della nazione nella figura dello "zio Sam" che con un gesto esplicito insinua un dubbio morale nei giovani per l’arruolamento nell’esercito, fa del manifesto di James Montgomery Flagg (1917) un messaggio di grande efficacia e, al tempo stesso, la rappresentazione tipica di un’immagine retorica. Come è noto, la comunicazione di propaganda trova il suo spazio ideale nei periodi di guerra, differenziandosi dalla pubblicità commerciale per la rinuncia alla cura estetica del messaggio, a favore di una maggiore efficacia, semplicità e immediatezza; si tratta sempre di una rappresentazione intesa a fare colpo sull’immaginazione popolare, soprattutto dei ceti meno istruiti. I grandi temi trattati, in particolare nel periodo della prima guerra mondiale, sono quelli dedicati all’arruolamento, ai prestiti nazionali, come nel manifesto di Achille Mauzan (1883-1952) del 1917, alle attività lavorative per scopi bellici, alla fiducia nelle forze armate e nella vittoria. I simboli più rappresentati sono la bandiera, i valori nazionali, gli eroici gesti del combattente, le madri operose, i bambini indifesi, la brutalità del nemico e il pericolo della fame.
In Germania, nel periodo 1915-1917, due fra i maggiori artisti del manifesto, Lucian Bernhard e Hans R. Erdt, forniscono un valido contributo alla propaganda prussiana, mentre Ludwig Holhwein negli anni Trenta, come farà Gino Boccasile in Italia con il fascismo, si comprometterà con il regime hitleriano.
Importante nella comunicazione di propaganda sono anche le "campagne", i manifesti a favore delle rivoluzioni, come quelli realizzati in Russia fra il 1918 e il 1930. Una forte espressività emerge dai manifesti di Dimitri Moor, sulla tragica condizione dei contadini e sulla potenza innovatrice del colosso bolscevico; in altri casi si va dai manifesti anonimi secondo lo stile futurismo russo ai fumetti di Majakovskij, fino ai sapienti montaggi fotografici di El Lissitzky sul nuovo Stato in marcia. Mentre sul femminismo e sul voto alle donne, in Germania Karl Maria Stadler nel 1914 realizza un bellissimo manifesto secondo lo stile del realismo espressionista: Frauen-Tag, 8 Marz 1914. La donna, con la guerra, da musa e simbolo di bellezza, diventerà di fatto emancipata e autonoma.
Con l’ascesa al potere di Hitler, prima dell’inizio delle repressioni dei dissidenti, va ricordato uno degli inventori del fotomontaggio, John Heartfield e la sua dura satira contro il nuovo potere. Negli anni Trenta e per tutto il periodo della seconda guerra mondiale, sono numerose le campagne di propaganda politica prodotte dai due grandi fronti schierati l’uno contro l’altro: le dittature nazionaliste e il fronte democratico. Molti sono i manifesti di propaganda nella Germania nazista, per buona parte a favore degli sport e per l’aggregazione nella Hitlerjungen (la Gioventù Hitleriana). Ma con il nuovo regime nasce il culto del superuomo di razza ariana, l’esaltazione del capo fino all’idolatria, la componente antisemita. Fra tanta mediocrità realizzativa, sia pure stemperata in una grafica descrittiva, ma di qualità, si fa notare l’arte di Ludwig Hohlwein. Sul fronte opposto, c’è invece grande rigore grafico in alcuni manifesti dell’inglese Abram Games (1914-1996), in particolare quello del 1940 per un’esposizione a Parigi sulle armate britanniche. E anche, quello del 1946, contro lo spionaggio involontario, risolto con una magistrale soluzione grafico-simbolica.
Venata da qualche reminiscenza del secondo futurismo è la propaganda del fascismo in Italia, con l’esaltazione dell’eroico balilla, o del volontario che ricorda l’ardito del 1918. La notevole abilità illustrativa di Gino Boccasile, autore di famose copertine per la rivista "Grandi firme", è stata invece messa al completo servizio della più bieca propaganda fascista, che va dalla soddisfazione per i bombardamenti nazisti su Londra del 1940, al manifesto che afferma l’amicizia della Germania al popolo italiano, con un improbabile soldato tedesco che tende la mano. E manifesti non firmati, ma che hanno l’impronta del suo stile, sul comportamento di rapina del nemico americano, rappresentato da un soldato di colore, ubriaco, oppure denigratorio nei confronti degli ebrei. Un suo manifesto del 1941, molto descrittivo nella composizione figurativa, dal titolo Il nemico vi ascolta, sullo spionaggio involontario, crea un clima di tensioni e di sospetti.
Il tema della comunicazione di propaganda verrà però riscattato in alcuni manifesti di alto impegno morale, realizzati secondo uno stile inconfondibile da Ben Shahn; come quello famoso del 1943 in cui denuncia le brutalità del nazismo, e che riporta una notizia di Radio Berlino su un luogo cecoslovacco in cui le donne sono state deportate in un campo di concentramento, i bambini inviati in centri speciali e il nome del villaggio abolito (6-11-1942). Ben Shahn ha inoltre lasciato, nel dopoguerra, importanti realizzazioni di impegno sociale, a sostegno della ricostruzione, della pace, del lavoro.
Diffusione nel mondo dell’esperienza Bauhaus
Non è possibile trattare l’evoluzione della comunicazione grafica senza citare la fondamentale importanza dell’apporto fornito, sia pure non cercato, da numerosi artisti e intellettuali che hanno fatto parte di movimenti che convenzionalmente sono noti come avanguardie storiche. A cominciare dalle provocazioni letterarie per mezzo di pagine tipografiche inimmaginabili prima di allora, da parte dei futuristi italiani e dei dadaisti del centro-nord Europa, negli anni che precedono la prima guerra. Va anche ricordato che già la rivista "Merz", di cui è l’animatore Kurt Schwitters, recupera e mette ordine in quella tipografia precedentemente scardinata dai futuristi. Con Schwitters ha contatti e rapporti di collaborazione il russo El Lissitzky, il quale costituirà un punto di riferimento per altri protagonisti di varie tendenze, da Rodcenko a Mosca a van Doesburg in Olanda, a László Moholy-Nagy alla Bauhaus, dopo il 1923.
Il pensiero neopositivista e riformatore diffuso da Walter Gropius alla Bauhaus negli anni della sua direzione (1919-1928), si rafforza con l’esperienza dei movimenti d’avanguardia, proprio tramite l’apporto dei maestri responsabili dei vari corsi, da Klee a Kandinskij, per quanto riguarda il basic design; Moholy-Nagy, Herbert Bayer e Joost Schmidt, per le tecniche di comunicazione, Mies van der Rohe e Marcel Breuer per il design d’arredo. E per contaminazione, gli altri responsabili dei laboratori, dalla tessitura ai metalli, all’oggettistica. Quando nel 1928 Gropius lascia la direzione della Bauhaus, sia Breuer che Moholy-Nagy lo seguono nel dare le dimissioni, e alcuni anni dopo si ritroveranno negli Stati Uniti dove, un po’ alla volta, migreranno molti altri protagonisti della cultura europea, per ragioni politiche o razziali, tra cui Josef Albers, Herbert Bayer, Mies van der Rohe. Un esodo drammatico, una vera e propria diaspora che però dalla fine della guerra cambierà gli orientamenti della progettazione statunitense, dall’arte all’architettura, al design, alla grafica, oltre che nell’insegnamento universitario, dove i maestri della scuola germanica occuperanno posizioni di rilievo: Gropius e Breuer alla Harvard University, van der Rohe all’Armour Institute (in seguito Illinois Institute of Technology), Josef Albers viene invitato a insegnare al Black Mountain College nella Carolina del Nord.
Notevole è l’impegno di László Moholy-Nagy che dal 1937 assume la direzione del New Bauhaus di Chicago e due anni dopo la School (poi Institute) of Design, di cui manterrà la direzione fino alla morte, intensificando la ricerca cinetica e gli studi sulla percezione visiva, lasciando un’eredità di elevato valore.
Anche in Europa, ovviamente, si raccolgono i frutti delle esperienze sviluppate negli anni Venti sia alla Bauhaus, sia attraverso l’opera dei gruppi d’avanguardia. Una delle figure più rappresentative della tendenza concretista, ad esempio, è Max Bill, pioniere della scuola svizzera di grafica, oltre che ricercatore in campo artistico e, successivamente, tra i principali protagonisti della Hochschule fur Gestaltung di Ulm intorno alla metà degli anni Cinquanta. Con lui vanno menzionati gli svizzeri Richard P. Lohse, Hans Neuburg, Josef Muller-Brokmann, Carlo Vivarelli, e Otl Aicher per la Germania, docente a Ulm; scuola che sotto la direzione di Tomàs Maldonado (1956-1968) diventerà, nei decenni successivi, un modello per l’insegnamento della progettazione e della comunicazione visiva.
In Italia il passaggio dalla tendenza postfuturista, impersonata principalmente da Depero, ma agli inizi degli anni Trenta anche da Nizzoli e da Munari, si trasforma ben presto nell’orientamento costruttivista, grazie ad alcune iniziative che vedono il 1933 curiosamente come l’anno di avvio di una felice innovazione. È l’anno dell’edificazione del Palazzo dell’Arte a Milano da parte di Giovanni Muzio e della V Triennale; della messa a punto della nuova "Casabella" di Giuseppe Pagano ed Edoardo Persico e dell’allineamento al razionalismo europeo; della fondazione di "Campo Grafico" da parte di Carlo Dradi e Attilio Rossi, rivista impegnata nel rinnovamento tipografico secondo gli orientamenti bauhausiani. In quello stesso anno prende avvio l’attività dello studio-agenzia di Antonio Boggeri, che apre alla collaborazione di affermati progettisti grafici, primo fra tutti Xanti Schawinski, giunto a Milano dopo un’intensa collaborazione alla Bauhaus di Dessau; e più tardi, Max Huber, il più eclettico dei grafici svizzeri. Ma si può anche affermare che tutti i maggiori nomi della prima generazione dei grafici italiani hanno collaborato allo Studio Boggeri, da Albe Steiner a Bruno Munari, da Erberto Carboni a Remo Muratore e molti altri.
La grafica e la coscienza etica
Con la fine della seconda guerra mondiale, soprattutto nel periodo della ricostruzione in Italia e di partecipazione popolare ai maggiori problemi del Paese, emerge una presa di coscienza verso il sociale e i più noti grafici, anche nel fare pubblicità, si attengono a una corretta informazione e a una gradevole rappresentazione del soggetto. Impegno politico e sociale per Albe Steiner, che nel 1945 realizza la grafica del settimanale "Il Politecnico", diretto da Elio Vittorini; Steiner dedicherà tutta la vita sia a un forte impegno di etica professionale lavorando a tutto campo, dall’editoria alla grafica promozionale, sia all’insegnamento della comunicazione visiva, pur essendosi formato da autodidatta.
Più condizionata dalla pubblicità è l’attività di Erberto Carboni, in cui però ha sempre ricercato formule originali e innovative, dagli annunci per la Rai all’intensa collaborazione per la pubblicità e il packaging per Barilla. Anche l’opera di Remo Muratore (1912-1982) è riassumibile fra impegno politico degli anni immediatamente successivi alla Resistenza, editoria varia e pubblicità discreta, sempre risolta con soluzioni grafiche raffinate. Memorabili alcuni suoi manifesti realizzati per il Piccolo Teatro di Milano negli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta. Il maggiore interprete nell’uso di una tipografia sperimentale, con il compenetrarsi di immagini monocromatiche stampate in vari colori, in composizioni dinamiche, rimane indubbiamente Max Huber , che con Milano e l’Italia ha avuto un rapporto continuo di interrelazione culturale. Dall’attività presso Boggeri della fine degli anni Trenta, alla collaborazione con i più noti architetti e designer, come i Castiglioni, nella realizzazione di importanti padiglioni fieristici; oltre a una quantità non indifferente di marchi e di immagini aziendali, come nel caso della Rinascente. Più complessa la personalità di Bruno Munari, indubbiamente colui che meglio ha interpretato lo spirito postfuturista, con soluzioni spesso sorprendenti, a cui si aggiunge una visione "zen" nell’approccio al progetto. La sua ricerca si addentra spesso nella sfera della percezione e nell’approfondimento di nuovi codici visivi. Va sottolineata, inoltre, la sua lunga collaborazione editoriale con Einaudi, per il quale ha progettato numerose collane, nel segno di un rigoroso costruttivismo.
In Europa, dagli inizi degli anni Trenta in poi, si formano anche altre tendenze che si trasformeranno in scuole, come è avvenuto in Gran Bretagna o in Olanda. Un’attività grafica prestigiosa si sviluppa a Londra intorno al simbolo dell’Underground, alla sua immagine coordinata, oltre che da numerosi manifesti, alcuni dei quali ideati da McNight Kauffer. Nel settore dei caratteri tipografici va ricordata l’opera di Eric Gill (1882-1940) e di Stanley Morison (1889-1967), quest’ultimo inventore del "Times Roman", che dal 1932 caratterizza l’omonimo quotidiano. Nel dopoguerra, l’autorevole presenza di scuole d’arte e di design, come la London Central School of Art e il Royal College of Art, prepareranno una nuova generazione di grafici, che agli inizi degli anni Sessanta darà vita a un orientamento tipicamente inglese, quello di "Design group", di cui lo studio Pentagram è probabilmente il più rappresentativo.
In Olanda un caposcuola riconosciuto è stato certamente Piet Zwart, formatosi nel clima di De Stijl con scelte grafiche radicali, poi, dalla fine degli anni Venti, tra i fondatori della moderna comunicazione visiva, con un utilizzo della fotografia nella pagina grafica che si compenetra in trasparenze con colori e testi. Nella stessa concezione operano Paul Schuitema, Gerard Kiljan, Wim Brusse e altri, creando nel tempo continuità di scuola. Sia pure nell’affermazione di sistemi caratterizzanti le scuole locali, i linguaggi comunicativi si internazionalizzano e si integrano sempre più, tanto da mettere in evidenza soprattutto le singole personalità, oppure i gruppi di tendenza, avulsi dalla formazione di origine, pur non escludendo la presenza del genius loci.
L’advertising delle grandi agenzie
Negli anni che seguono la fine della seconda guerra mondiale, è evidente il divario tra un’Europa impegnata nella ricostruzione della maggior parte delle sue città, ma impoverita nei beni di consumo, e gli Stati Uniti, già avviati verso una forma di prorompente consumismo. Ovunque però aleggia una tenace speranza, o meglio, la fiducia in una nuova era di benessere.
La comunicazione visiva attraverso il progetto grafico ha oramai consolidato i principi in cui si identifica la moderna visualità; si sono formate scuole in vari Paesi e tendenze stilistiche; quella del designer grafico è a tutti gli effetti una professione autonoma che ha definitivamente sostituito l’artista del passato. Ma le esigenze di una produzione dinamica, soprattutto negli Stati Uniti, di impellenti necessità distributive, anche attraverso una crescente esportazione, sono tali che per pubblicizzare le diverse tipologie di prodotto non bastano più gli studi professionali come quelli qui citati. Nascono così organizzazioni predisposte a coadiuvare clienti e produttori interessati a progetti di strategie pubblicitarie e di mercato. Con questa logica si formano agenzie che agli inizi – alcune fin dagli anni Trenta – si compongono di grafici, art director, copywriter, fino ad ampliare le loro strutture alla pianificazione dei media, indispensabile per affrontare contratti e prenotazioni di spazi su quotidiani, periodici, campagne di diffusione di manifesti.
Con lo sviluppo delle reti televisive in molte parti del mondo e con l’incremento della produzione di filmati commerciali, proliferano le agenzie, di cui, le più affermate tra quelle americane aprono sedi o avviano joint venture in varie capitali europee, spesso in composizioni dinamiche, in grado di offrire ampi servizi al cliente, dalle campagne istituzionali al marketing. Vi sono agenzie che in taluni periodi superano le centinaia di collaboratori; alcune, aggregandosi, si consolidano in gruppi più consistenti, altre subiscono scissioni, dando vita ad altri numerosi gruppi creativi. Il fine dell’agenzia è sempre quello di acquisire l’intero budget che l’impresa destina alla promozione, e di gestirlo, stabilendo quali canali televisivi o mezzi a stampa privilegiare per ogni operazione. La pubblicità ha affermato Marshall McLuhan, come mezzo di comunicazione e di educazione di massa è cambiata radicalmente nel momento in cui l’industria ha cominciato a usare i canali commerciali delle televisioni.
Fra le numerose agenzie vanno quantomeno menzionate alcune delle maggiori, come la Dorland, che già negli anni Trenta ha sedi anche in Europa; dagli anni Cinquanta opera la Doyle, Dane, Bernbach, che nei decenni successivi, tra le altre, creerà campagne per Volkswagen, Levi’s, Chivas Regal. E, inoltre, la J. Walter Thompson, la Young & Rubicam, o un geniale art director come George Lois; e poi Leo Burnett, la Benton & Bowles, la McCann-Erikson, la Olgivy & Mather, tutte blasonate, per aver firmato campagne stampa e filmati di grande impegno comunicativo, in settori anche molto diversi fra loro, dai beni di largo consumo ai beni durevoli, dagli strumenti elettronici all’abbigliamento, ai prodotti per la cura del corpo, dalle campagne di sensibilizzazione sociale ai servizi. Vi sono marchi aziendali la cui crescita nel tempo raggiungerà una tale diffusione globale, che il loro messaggio può anche non essere più pubblicitario, perché basta ricordarne il nome e nel filmato o nella campagna stampa si può parlare d’altro. Si pensi a Coca-Cola, ad esempio. Capita dunque che talvolta la pubblicità assuma connotazioni istituzionali.
Grandi agenzie autonome e non dipendenti da quelle americane sono sorte nel tempo anche in Europa, come nel caso della londinese Saatchi & Saatchi, che ha spesso dimostrato notevole originalità. In Italia va menzionata soprattutto l’Agenzia Testa, con sedi a Torino, Milano, Roma, che rappresenta la fortunata emanazione generazionale di quel geniale pubblicitario che è stato Armando Testa. Una figura di pubblicitario dalla raffinata preparazione culturale è certamente Emanuele Pirella che, prima con Michele Goettche e poi in proprio, ha firmato numerose campagne di grande efficacia. Basterà ricordare quelle per i jeans Levi’s, con le fotografie di Oliviero Toscani che hanno fatto scalpore, sia per le immagini d’impatto erotico, sia per la headline: “Non avrai altro jeans all’infuori di me”, “Chi mi ama mi segua”. Al limite del blasfemo. Quella dei blue jeans è stata in passato una vera rivoluzione; mentre un tempo l’indumento veniva indossato soltanto dai lavoratori delle zone minerarie, successivamente è stato adottato dalla popolazione giovanile con atteggiamenti trasgressivi, fino a essere indossato in modo informale da tutti. A quel punto è cominciata la vera battaglia delle griffe.
L’immagine d’impresa
Nella seconda metà del secolo molte aziende – in particolare quelle grandi imprese che aspirano a diventare multinazionali – hanno l’esigenza di essere rappresentate non soltanto dal marchio o dal logotipo, ma da una vera e propria immagine coordinata, comprese tutte le normative necessarie per un’applicazione diffusa. Nel primo decennio in Germania, è maturato un clamoroso caso di corporate image, grazie alla meticolosa opera di Peter Behrens che tra il 1907 e il 1910 ha affrontato il coordinamento d’immagine di tutti gli stampati dell’AEG, progettando ogni cosa, dal carattere da stampa ai cataloghi, ma anche i prodotti come le lampade stradali o i bollitori elettrici, fino agli allestimenti delle esposizioni e ai corpi di fabbrica.
Il Paese però che più di altri ha coltivato la filosofia dell’immagine coordinata, e che lo ha fatto soprattutto nell’ambito delle istituzioni pubbliche, è indubbiamente la Gran Bretagna, e a questo proposito basti pensare a quanto è stato fatto per l’ Underground londinese. Dal carattere tipografico originale di Edward Johnston del 1916, al famoso marchio a "ciambella", alla mappa a tracciato ortogonale e diagonale di Henry Beck del 1933, un modello che molte altre metropoli hanno poi adottato; fino ai più recenti restyling e aggiornamenti. Diversa è la concezione di corporate sviluppata negli Stati Uniti; si tratta di un orientamento più pubblicitario e semplificato nelle metodologie. Tra i casi più significativi vanno citati gli interventi di Raymond Loewy degli anni Sessanta – il suo grande studio di New York si occupa dal design delle locomotive alla pubblicità – in particolare per le diverse compagnie petrolifere, come BP, Shell, Exxon. Un team creativo fortemente specializzato nella corporate e nella brand image, che dagli anni Sessanta in poi progetta per le imprese di tutto il mondo, è la Walter Landor Associates di San Francisco: dall’immagine per le compagnie di bandiera come Alitalia, fino al packaging di biscotti e altre linee alimentari per la grande distribuzione sempre più globalizzata. Un caso a parte è rappresentato dall’immagine IBM, affidata a quel geniale artista che è stato Paul Rand. Egli ha lavorato non tanto sul metodo della coordinazione fra gli stampati, ma sui grafismi lievi, le forme essenziali, i colori primari e su un approccio ironico al tema trattato. Rand è pertanto riuscito a rendere gradevole e attraente i materiali promozionali e le confezioni di prodotto per una materia solitamente asettica come l’elettronica.
Fondata invece sul metodo, sulla continuità nel tempo, sul disegno evolutivo ma coerente, è la corporate image di un altro grande gruppo che ha operato nel settore delle macchine per scrivere, prima, e dell’elettronica poi: l’Olivetti, che nell’arco di quasi quattro decenni ha sviluppato una delle migliori immagini coordinate realizzate nel Novecento. Dalla direzione artistica, nel secondo dopoguerra, di Giovanni Pintori che con il supporto intellettuale dello stesso Adriano Olivetti e il contributo tecnico-poetico di Leonardo Sinisgalli, fino ai primi anni Sessanta ha realizzato pagine di elevato valore grafico, traducendo i messaggi promozionali in interpretazione artistica. Successivamente, negli anni Settanta e Ottanta, per l’attività della corporate image olivettiana, è stata creata un’apposita direzione artistica, a cui hanno dato il contributo diversi designer, da Walter Ballmer a Hans von Klier, da Egidio Bonfante a Roberto Pieraccini, producendo l’ormai famoso "manuale degli standard" costituito da parecchi volumi.
Nel settore specifico della progettazione di immagini coordinate, va senz’altro menzionato lo studio milanese dell’Unimark International fondato nella prima metà degli anni Sessanta da Bob Noorda (1927-2010) e Massimo Vignelli (1931-). Noorda, olandese di origine, si è imposto fin dal 1964 con l’immagine e la segnaletica della Metropolitana Milanese, considerata ancora oggi (quella originale, beninteso) un modello storico. Nel corso della sua brillante carriera e nella moltitudine delle realizzazioni, tra le altre, ha riprogettato e sviluppato in ogni dettaglio l’immagine globale dell’Agip, complessa e articolata, dai pittogrammi per la segnaletica alle stazioni di servizio.
Sulla scia del successo d’immagine della Metropolitana di Milano, l’Unimark verrà interpellata dalle amministrazioni di altre grandi città, come San Paolo, e anche New York, per il restyling della segnaletica esistente. A New York si trasferisce Vignelli, che poi si stabilirà definitivamente fondando con la moglie Lella la Vignelli Associates. Va sottolineato che lo studio di Bob Noorda a Milano e quello newyorkese di Vignelli diventeranno, negli anni, dei laboratori-scuola per molti giovani italiani che con loro svilupperanno una preziosa esperienza.
Grazie a una situazione socio-economica in crescita e una produttività industriale in espansione, con gli anni Sessanta Milano diventa un centro importante, non solo per il prodotto di design che si sta affermando sempre più in varie parti del mondo, ma anche per gli artefatti di comunicazione visiva. Oltre ai già noti Steiner, Munari, Carboni, Huber, e ai citati Noorda e Vignelli, sono numerosi gli operatori che connotano i loro progetti tramite un segno personale, sia nella collaborazione con aziende vecchie e nuove, sia nel settore editoriale e in quello istituzionale. Dalla grafica di ricerca di Franco Grignani (1908-2000), del quale vanno ricordati i numerosi annunci per Alfieri & Lacroix, e il marchio per Lana vergine; AG Fronzoni (1923-2002), per i suoi manifesti al limite della leggibilità; Giancarlo Iliprandi, un tempo collaboratore di Rinascente, art director di "Photography Italiana", esperto di lettering; Enzo Mari, nella sua esperienza "gestaltica" per le copertine di Boringhieri; Mimmo Castellano, per le numerose realizzazioni per Laterza; Michele Provinciali, che una borsa di studio lo ha portato a frequentare l’Institute of Design di Chicago, nei primi anni Cinquanta. Rientrato a Milano, opera dall’editoria alle immagini coordinate, alla ricerca fra grafica e fotografia; per un breve periodo Provinciali è tra i fondatori dello studio CNPT, con Pino Tovaglia, Giulio Confalonieri e Ilio Negri. Confalonieri ha progettato marchi, logotipi, manifesti per Boffi, Cassina, Ferrari, Franco Maria Ricci, e molti altri; insieme a Ilio Negri (1926-1974), per molti anni ha curato l’immagine di Lerici Editore. Anche Pino Tovaglia (1923-1977), è stato molto attivo e fortemente partecipe all’interno di questo gruppo milanese, che pur senza alcuna forzatura, ha costituito un’ideale scuola, riversando nell’insegnamento molta dell’esperienza professionale. Di Tovaglia va ricordata soprattutto la collaborazione con la RAI per Radiofortuna e con Pirelli.
Impossibile citare tutti i protagonisti della grafica italiana, ci limitiamo pertanto ad alcuni nomi tra i più noti, a cominciare da Heinz Waibl e Giulio Cittato (1936-1986), entrambi già collaboratori dell’Unimark e di Vignelli, e poi soci in un nuovo studio. Salvatore Gregoretti (1870-1952), associatosi con Noorda è stato il successore di Vignelli in Unimark. Italo Lupi, protagonista di una grafica di livello internazionale, secondo un orientamento anglosassone. Pierluigi Cerri, costantemente alla ricerca di una grafica colta, minimalista e ricca di citazioni storiche. A Roma vanno soprattutto menzionati Ettore Vitale e Michele Spera, entrambi protagonisti di intelligenti campagne per i partiti politici e per il movimento sindacale: Spera per il Partito Repubblicano, Vitale per il PSI; soprattutto quest’ultimo ha realizzato anche sigle televisive, marchi aziendali, promozioni per il settore dell’arredamento.
Della generazione che ha iniziato l’attività dopo il Sessantotto, un aspetto interessante è la particolare sensibilità per le "campagne di pubblica utilità" e la comunicazione in ambito locale, come nell’opera di Massimo Dolcini e Leonardo Sonnoli a Pesaro, di Gianni Sassi a Milano, di Andrea Rauch a Firenze, di Franco Balan ad Aosta; e a Venezia, lo Studio Tapiro e Giorgio Camuffo.
Dal linguaggio trasgressivo alle nuove figurazioni
Per tornare a un contesto più internazionale ripartiamo dagli anni Sessanta, in cui vengono messi in forte evidenza in tutto il mondo occidentale fenomeni di irrequietezza giovanile, rapidi cambiamenti nei costumi, l’esigenza della partecipazione di massa alla gestione dei problemi della società, fino alle culminanti contestazioni del Sessantotto. Parallelamente, fenomeni musicali come lo sono stati i Beatles, i Rolling Stone, o Bob Dylan, la rivoluzione nella moda di Mary Quant cambiano persino l’approccio alla comunicazione grafica. In Europa, due pubblicazioni periodiche suggeriscono per anni nuovi comportamenti sociali. Si tratta di "Twen", nata in Germania nel 1959 sotto la direzione artistica di Willy Fleckhaus e che ha proseguito le pubblicazioni fino al 1970; e l’inglese "Nova", nata nel 1965. David Hillman, che ne assume l’art direction dopo qualche anno, avvicinerà la rivista allo spirito trasgressivo di "Twen". Quest’ultima, infatti, adottando una grafica di continuo sorprendente, tratta di volta in volta, sia pure un po’ confusamente, di arte, viaggi (anche onirici), sport, politica, musica, libertà sessuale, con immagini di fotografi di fama internazionale, tra cui il più assiduo, è forse Willy McBride.
Uno strumento di grande efficacia per dare voce a un pensiero di rottura con il "sistema" della politica e dell’arte ritenute convenzionali, negli anni del dopo Sessantotto, si identifica con la stampa alternativa. Dalle esperienze di piccole riviste o giornali occasionali a circuito limitato, nascono e si affermano pubblicazioni con una più regolare distribuzione, come "Private Eye", edita in Gran Bretagna fin dal 1964. "Oz", anch’essa pubblicata a Londra dal 1967; prima giornalino in stile psichedelico, poi, con la grafica di Jon Goodchild, più tardi art director della rivista "Rolling Stone", assumerà un piglio più innovativo. Negli Stati Uniti vengono pubblicate numerose riviste di impostazione trasgressiva, come "Ramparts" e "San Francisco Oracle", un periodico questo inneggiante alla cultura delle droghe.
Tra i grafici e gli art director statunitensi, un caso a se stante è rappresentato dalla figura di HerbertLubalin, progettista di lettering e protagonista della nuova tipografia d’oltreoceano, ma anche direttore editoriale di riviste, oltre che art director, come nel caso di "Avant Garde", una pubblicazione che si occupa prevalentemente di arte, di costume, attualità socio-politica. Al di là di un uso eclettico delle immagini, dal disegno alla fotografia, Lubalin eleva la funzione della scrittura a icona, attribuendole pari dignità nei confronti di qualsiasi altra figurazione.
Il manifesto Easy Rider, firmato da Theobald nel 1970, è un diretto riferimento al film di Dennis Hopper dell’anno precedente e lo si può ritenere emblematico di una tendenza artistica sviluppatasi negli Stati Uniti in un arco di tempo di pochi anni. La visione psichedelica, nella quale si tende a liberare le energie psichiche più profonde, si esplica nell’uso di un cromatismo acceso, in cui vengono accostati i rossi e i verdi, oppure i gialli e i viola, cioè, i primari e i loro complementari, senza alcuna sfumatura, creando così una sorta di "rottura" percettiva nell’osservatore. L’esperienza psichedelica era strettamente collegata all’assunzione di allucinogeni, per cui era convinzione di molti giovani artisti che questi favorissero l’immaginazione.
La maggiore produzione grafica di questa corrente avviene tramite i poster, sia a favore di manifestazioni musicali rock e raduni hippy, sia puramente decorativi, i cui soggetti spaziano dall’interpretazione orientaleggiante di meditazioni tibetane al recupero revivalistico dell’art nouveau nel lettering. Fra i maggiori protagonisti, Wes Wilson che è tra coloro che affermano che le scelte cromatiche gli risultano direttamente dettate dallo LSD; egli è inoltre inventore di composizioni di lettering molto suggestive, sia pure spinte ai limiti della leggibilità. Mentre Victor Moscoso ha collaborato alla redazione di "Zap", il magazine di fumetti fondato nel 1968 da Robert Crumb, introducendo nella grafica psichedelica buona parte di quell’esperienza, con un accento vagamente grottesco nella figurazione. Chi però più di altri ha intensificato la produzione di poster secondo una tendenza psichedelico-poetica, è certamente Peter Max, che ha saputo rendere spettacolari e accativanti le sue composizioni, in un’aura fantastica, luminosa e sognata, con figure caratterizzate da un segno leggero, che talvolta rimanda ad alcuni fumetti d’inizio secolo; con queste sue originali interpretazioni, Max intraprende la via di una facilitata commercializzazione.
Un’idea indubbiamente originale è quella di dare vita negli Stati Uniti, nel 1954, a una forma associativa di illustratori e grafici, un vero e proprio consorzio, da parte di Milton Glaser e Symour Chwast; viene denominato Push Pin Studio, a cui aderiscono, un po’ alla volta, diversi progettisti, tutti affermatisi in pochi anni, dal giovanissimo John Alcorn a Paul Davis, fino a raggiungere nel 1970 il numero di una ventina di nomi, ognuno dei quali, comunque, con la propria identità di stile. Diventando uno dei più prestigiosi gruppi di artisti e designer nel mondo questa comunità di lavoro ha rappresentato una vera scuola di tendenza, innovando la grafica statunitense. Il ricorso al disegno, alla tradizione artistica della manualità, la ricerca di una poetica del fantastico, favoriscono l’interpretazione eclettica, contrapponendo un marcato figurativismo alle ricerche astratto-geometriche che si sviluppano parallelamente in Europa. C’è inoltre un recupero dei repertori dell’arte popolare e della tipografia ottocentesca, che arricchiscono un’imagerie già carica di per sé di suggestioni.
Il maggior artefice, il capo carismatico del gruppo, fin dall’inizio, va considerato Milton Glaser, il quale ha nel curriculum anche la partecipazione con una borsa di studio a un corso di incisione all’Accademia di Belle Arti di Bologna, sotto la guida di Giorgio Morandi. Da qui nascono i cicli di disegni dedicati a Giorgione e a Piero della Francesca; le illustrazioni per il Purgatorio della Commedia dantesca; i ritratti dei protagonisti dell’arte e della musica, come Matisse, Renoir, Louis Armstrong, Mahalia Jackson, Elvis Presley, Bob Dylan, e un’infinità di poster per manifestazioni culturali. Nel 1974 fonda il Milton Glaser Inc., continuando a interagire in tutte le categorie della progettazione grafica, dall’editoria al famoso logo "I love New York", realizzato nel 1976.
Cofondatore del Push Pin Studio è Symour Chwast, anch’egli protagonista di una vasta produzione, più ironica e graffiante di quella di Glaser, sempre, comunque, nell’ambito di un linguaggio originale nell’interpretazione degli schemi del design grafico. Tra i suoi numerosi importanti lavori, va ricordata la realizzazione della rivista "The Push Pin Monthly Graphic", che ha proseguito le pubblicazioni anche dopo lo scioglimento del gruppo; inoltre, un manifesto di grande efficacia disegnato contro la guerra del Vietnam: End Bad Breath, del 1967. Un altro importante interprete di quella corrente artistica è stato John Alcorn, il quale dopo l’esperienza americana con gli associati, agli inizi degli anni Settanta si stabilisce a Firenze per un lungo periodo. Come Glaser, anche Alcorn è un’artista e designer completo, con una perfetta padronanza di tutte le tecniche grafiche; egli sa produrre una varietà di segni nell’illustrazione e ha un eccezionale controllo nella gestione dei caratteri da stampa e nel lettering . In Italia lavora soprattutto nell’editoria, prima per Rizzoli e per il rilancio della Bur, successivamente, negli anni Ottanta, prima di rientrare definitivamente negli Stati Uniti, avvia la nuova immagine di Longanesi, Salani, Guanda, connotando tutti gli interventi grafici con il suo inconfondibile stile.
Dopo l’era Gutenberg
La comunicazione visiva, o meglio, il progetto grafico, come è reso evidente in queste pagine, si compone in gran parte di immagini realizzate con le più svariate tecniche, che nel tempo vanno a formare una vera e propria "iconografia universale". Ma quasi mai l’immagine vive di una sua completa autonomia senza che vi sia il supporto di un testo, di una scrittura, indipendentemente che si tratti di un solo logo o di un testo informativo.
Verso la fine degli anni Settanta, a poco meno di un secolo dall’invenzione della composizione meccanica in tipografia e della fusione "a caldo" dei caratteri in piombo, si esaurisce questa antica tecnica che porta al declino le grandi fonderie, da quelle inglesi, alle americane, tedesche, francesi, e all’italiana Nebiolo di Torino. Con i nuovi processi di composizione del testo, con tecniche fotografiche prima, e dalla metà degli anni Ottanta con la tecnologia digitale, avviene sistematicamente la revisione dell’intero patrimonio di caratteri fino a quel momento disegnati e prodotti nel mondo. La svolta avviene con il lancio del primo personal computer IBM e, nel 1984, con il Macintosh della Apple.
Una delle operazioni commerciali più significative in questo settore ha portato agli accordi fra imprese produttrici di programmi di computer, come Adobe, e le grandi fonderie del passato, per il recupero e la riconversione di famiglie di caratteri (fonti o fonts), spesso di valore storico, in nuove biblioteche di fonts. Inoltre, molti dei progettisti già affermati nel disegno di alfabeti si rendono disponibili per affrontare un restyling e studiare nuove forme per risolvere le esigenze del momento. A cominciare da Herbert Lubalin, tra i fondatori di ITC, società produttrice di nuovi font, e che progetta e dirige, fino alla morte, il giornale di type design "U & lc." ("Upper & lover case"). Anche Adrian Frutiger, progettista del carattere Univers (1954-1957) e dell’altro che porta il suo nome, del 1973-1976, già nel 1968 aveva disegnato l’Ocr-B (Optical Character Recognition), un carattere normalizzato per il riconoscimento automatico. Fin dagli anni Sessanta dunque, sono stati fatti alcuni interessanti esperimenti, come l’Ocr-A, disegnato dagli ingegneri dell’ECMA (European Computer Manufacturer’s Association), e l’E 13 B, creato per l’American Bankers Association.
Lo stesso Hermann Zapf che ha sempre privilegiato la tradizione nella ricostruzione degli alfabeti, esibendo spesso le sue doti di sensibile calligrafo, ha contribuito alla riconversione in font dei numerosi disegni di caratteri da lui realizzati negli anni Cinquanta e Sessanta. Un altro prestigioso interprete della tradizione classica a favore delle rinnovate esigenze del computer, è l’inglese Mattew Carter, anch’egli autore di svariati disegni e restyling di caratteri, tra cui il Bell Centennial, appositamente studiato per le guide telefoniche degli Stati Uniti, e il Verdana, un font ottimizzato per la lettura al video. Carter è stato tra l’altro uno dei fondatori del qualificato catalogo Adobe System Bitstream. Va sottolineato che la Adobe Type Library è diventata una delle più importanti distributrici di font tipografici, anche per essere in grado di fornire la tecnologia Postscript.
Per l’Italia, in questo settore, vanno menzionati alcuni nomi importanti per la cultura del Novecento, sia per il disegno dei caratteri, sia per la passione della tipografia, a cominciare da Giovanni Mardesteig (1892-1977), un tedesco che ha scelto i dintorni di Verona come sede delle sue stamperie, dove ha sviluppato un’arte tipografica classica ispirata a Bodoni. Anche Alberto Tallone (1898-1974), un piemontese che ha operato per quasi tutta la vita a Parigi, va considerato un maestro della tradizione tipografica. Il maggior disegnatore di caratteri, il più prolifico per la quantità di disegni prodotti, rimane comunque Aldo Novarese, artefice di gran parte del catalogo Nebiolo, pur costretto, per esigenze aziendali, a dare soluzione a richieste più commerciali.
In tempi più recenti, la possibilità della elaborazione digitale o di una reinterpretazione di molti alfabeti esistenti, ha permesso a numerosi progettisti di produrre nuove famiglie di caratteri. Per la maggior parte di loro questo avviene come conseguenza nella realizzazione di un logotipo o di una serie coordinata di scritte, ma per alcuni creare nuovi segni per scritture e alfabeti innovativi, si è trasformata in specializzazione professionale. Della generazione nata intorno al 1960, o poco prima, un designer di grande spicco anche nell’ambito del type design è certamente l’inglese Neville Brody; la sua tendenza progettuale consiste nell’affidare al carattere tipografico la massima connotazione del segno, alla ricerca di un assoluto valore visivo e figurativo.
Fra i nuovi produttori di font negli Stati Uniti degli anni Novanta, si distingue la Emigre, fondata da Rudy van der Lans con il contributo della moglie Zuzana Licko, orientando l’attività su caratteri sperimentali, spesso del tutto atipici per il mondo della tipografia. "Emigre" è inoltre una pubblicazione periodica che diffonde messaggi a favore di sempre nuove sperimentazioni sulla scrittura. Un’altra società di font che ha avviato l’attività negli anni Novanta, è la FontShop, fondata da Neville Brody e dal berlinese Erik Spiekermann. Nell’arco di poco più di un decennio questo catalogo si è arricchito fino a comprendere circa un migliaio di caratteri, reinterpretati da 80 designer.
L’attività di type design e di progettazione di nuovi caratteri nell’era digitale è piuttosto vivace anche in Italia, dove diversi progettisti ormai affermati in campo internazionale, lavorano su sistemi di segni che variamente combinati permettono di formulare nuovi alfabeti.
La pagina destrutturata
Con l’avvio della progettazione in digitale nella seconda metà degli anni Ottanta, i nuovi sistemi operativi che si basano sul linguaggio iconico, permettono di intensificare in varie parti del mondo la sperimentazione sulla pagina grafica; ciò avviene soprattutto nelle maggiori sedi universitarie. Fra le tendenze che hanno richiamato un certo interesse, va considerata l’avvenuta ricerca in campo strutturalista nei corsi tenuti da Katherine McCoy alla Cranbrook Academy, negli Stati Uniti, dove si è teorizzato la destrutturazione della pagina di testo. Da quei corsi sono venuti alla ribalta alcuni progettisti poi affermatisi in campo internazionale, come Allen Hori e Edward Fella. Secondo alcuni critici, come Lewis Blackwell, questi designer hanno individuato nella decostruzione della pagina la possibile distinzione tra significante e significato, secondo gli insegnamenti dei maestri della ricerca semiotica.
Per la corrente della New Wave, ci limitiamo a citare uno dei più noti interpreti, Wolfgang Weingart, un tedesco che ha insegnato a lungo a Basilea, ma che ha influenzato numerosi grafici statunitensi, soprattutto della costa californiana, dove Weingart ha tenuto corsi e conferenze. Con alcuni dei suoi migliori allievi, come Daniel Friedman (1945-1995) e April Greiman, egli ha fornito un valido contributo alla grafica postmoderna. Da sempre all’avanguardia in Europa nella ricerca di nuovi linguaggi iconici anche sui testi, le scuole inglesi e quelle olandesi; uno dei gruppi londinesi più interessanti ai giorni nostri, i Why Not, si compone di grafici, art director, fotografi, provenienti dal Royal College of Art, dove sono stati allievi dell’olandese Gert Dumbar.
Sullo sperimentalismo tipografico hanno dato spesso il loro apporto gli art director editoriali, a cominciare da Neville Brody con le riviste "The Face" e "Arena"; David Carson con numerose piccole ma significative riviste, come "Beach culture"; Fred Woodward con "Rolling Stone"; Tibor Kalman con "Interview"; Fernando Gutiérrez con "Matador" e "Van"; Fabien Baron con "Vogue Italia", e altri ancora.
La trasgressione a un tipo di scrittura lineare e alla conseguente lettura consequenziale, non è certo una novità degli ultimi decenni, e basti pensare alle composizioni tipografiche dei futuristi italiani e russi, dei dadaisti tedeschi, dei vorticisti inglesi, dei surrealisti; oppure della poesia concreta degli anni Sessanta. Oggi la ricerca non è più interessata a una rottura provocatoria e casuale della composizione, ma è orientata a sollecitare in senso psico-percettivo un approccio diverso alla lettura. La scrittura, innanzitutto, tende sempre più a farsi immagine e a integrare con le proprie figurazioni la composizione grafica della pagina.
Sulla dicotomia leggibilità-visibilità, su cui si fonda il type design moderno, questi risulta decisamente spostato verso la visibilità delle lettere, più che sull’effettiva leggibilità. I mezzi cinetici, in particolare cinema e televisione, influenzano anche la superficie bidimensionale della pagina stampata, dove il designer grafico spesso introduce effetti fortemente dinamici nella composizione, quasi si trattasse di un fermo-immagine in cui, sovrapposte, scorrono le scritte.
Inoltre, soprattutto i flussi di informazioni che riceviamo attraverso i canali elettronici e digitali e che il designer del web è in grado di realizzare, assumono un’importanza rilevante, che ha reso necessario mettere a punto nuovi modelli linguistici, più congeniali al nuovo medium, il computer. Così, alla pagina stampata, il cui valore sintattico-semantico, grazie alla tradizione storica di secoli, rimane inalterato, si confronta la pagina-schermo del web, mobile e variabile, che si avvale di una nuova dimensione: la profondità. Con questo concetto si introduce infatti, l’ipertesto, ovvero una dimensione che permette collegamenti comunicativi in tutte le direzioni. Si aprono dunque nuovi scenari e nuove prospettive di sviluppo di cui la progettazione grafica ha preso coscienza e che porterà la cultura del progetto, nei prossimi decenni, a inimmaginabili innovazioni.