Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La drammaturgia comica del XVI secolo è il risultato di un costante confronto tra i drammaturghi da un lato e la realtà delle istituzioni teatrali dall’altro. Venuta meno l’unità religiosa dell’Europa, fondamento dell’omogeneità delle esperienze teatrali occidentali nel Medioevo, nascono le tradizioni sceniche nazionali. La commedia classica latina è assunta dai drammaturghi a modello di un teatro profano moderno su cui riplasmare i generi popolari medievali.
La drammaturgia comica: un laboratorio di scrittura scenica
Nell’ambito della civiltà teatrale cinquecentesca i drammaturghi elaborano un loro originale linguaggio comico mantenendosi in costante rapporto con la concreta esperienza della messa in scena. A differenza di quanto accade per il genere tragico, il cui statuto formale è essenzialmente definito durante il XVI secolo nelle dispute sull’interpretazione delle poetiche di Orazio e di Aristotele, il modello teatrale comico, pur essendo oggetto di dibattito teorico, è in prima istanza codificato sulla base del patto drammaturgico che lega autore, pubblico e committenza in vista di una rappresentazione.
L’articolazione della scrittura teatrale comica è dunque pesantemente condizionata dalle forme rappresentative a cui i testi si rapportano. I comici “dilettanti” sono gli interlocutori privilegiati di una sperimentazione drammaturgica che, all’interno dell’orizzonte culturale umanistico-rinascimentale, tende a un recupero della tradizione classica, mentre il mondo professionistico appare più legato alla sopravvivenza delle convenzioni sceniche medievali rivisitate alla luce degli interessi e delle esigenze del nuovo pubblico cinquecentesco.
La progressiva istituzionalizzazione di un sistema teatrale organico nella molteplicità delle sue proposte consente di superare rapidamente una simile distinzione: i drammaturghi “colti” non esitano ad attingere al patrimonio di tecniche teatrali popolari per dare vitalità scenica alle loro fabulae classiche, i comici professionisti strutturano invece le proprie performances sul modello delle commedie erudite.
Anche la committenza gioca un ruolo importante nella codificazione del teatro comico orientandone ideologicamente forme e contenuti. Nelle mani del principe le rappresentazioni comiche, con il loro canonico “lieto fine”, si trasformano in un prezioso strumento di propaganda che, sancendo il prestigio della corte attraverso lo sfarzo degli allestimenti, tende a garantire la pace sociale all’interno della comunità. I conflitti teologici che turbano la vita spirituale – e politica – cinquecentesca inducono le autorità religiose delle diverse confessioni a coniugare la drammaturgia comica nei modi della satira, dell’apologia o del manifesto dottrinario.
Il pubblico pagante esercita pressioni perché gli spettacoli comici offrano una pausa di svago e distensione.
Riforma protestante e tradizioni nazionali: il teatro e la vita spirituale
Infrangendo l’unità religiosa dell’Europa, la Riforma di Lutero distrugge al tempo stesso l’unità della civiltà teatrale occidentale rinata, durante il Medioevo, all’ombra della Chiesa di Roma e dei suoi riti.
Il processo di disgregazione del sistema teatrale europeo si riflette sul piano linguistico nella progressiva affermazione delle lingue nazionali ai danni del latino. Agli albori dell’età moderna la crisi dell’universalismo cristiano accelera quindi il profilarsi di tradizioni drammaturgiche nazionali.
L’atteggiamento delle autorità religiose nei confronti dell’esperienza teatrale, specie comica, muta nei diversi Stati a seconda degli orientamenti confessionali di sudditi e monarchi.
In Spagna gli attori esercitano la propria arte in pacifica convivenza con le autorità religiose grazie a un vantaggioso sistema di “sovvenzionamenti”: le compagnie professionistiche recitano soprattutto all’interno dei cortili degli ospedali gestiti da confraternite religiose e, pagando regolari affitti, contribuiscono alla manutenzione degli edifici e al mantenimento degli assistiti.
Nei Paesi protestanti il teatro comico è inizialmente usato come arma propagandistica, secondo una strategia “pedagogica” che sarà imitata sul versante cattolico dai Gesuiti. Ben presto tra i protagonisti della Riforma si delineano però posizioni contraddittorie: se Lutero apre all’esperienza teatrale interpretando il libro di Giuditta come “una buona, seria, efficace tragedia” e quello di Tobia come una “delicata, amabile, devota commedia”, Calvino proibisce invece a Ginevra ogni forma di spettacolo. Intorno alla metà degli anni Settanta, in pieno periodo elisabettiano, si scatena l’offensiva del puritanesimo inglese contro i teatri. Il rigore etico protestante induce anche tra i cattolici un atteggiamento più cauto nei confronti dell’esperienza teatrale. Mentre i teorici italiani deducono da Aristotele e Orazio una teoria utilitaristica della drammaturgia incentrata sul valore formativo e purificatore della rappresentazione teatrale, i drammaturghi “castigano” gli eccessi immorali del genere comico: Gli straccioni di Annibal Caro (composti nel 1544 ed editi nel 1582) sono un perfetto esempio di commedia “riformata” che, oltre tutto, nemmeno arriverà alle scene.
Cercando riparo all’instabilità politica causata dalle discordie confessionali, le autorità civili intervengono in materia drammaturgica per circoscrivere o eliminare il teatro di ispirazione religiosa, frequente motivo di conflitti. In Inghilterra, dopo i numerosi controversial plays prodotti durante i regni di Enrico VIII, Edoardo VI e Maria I la Cattolica, l’Atto di Uniformità del 1559 liquida le dispute dottrinarie in ambito drammaturgico.
La più violenta ed efficace censura al teatro religioso nell’Europa del Cinquecento è però rappresentata dal decreto del Parlamento francese del 15 novembre 1548 che, ratificando il monopolio sugli spettacoli parigini ai Confrères de la Passion dell’Hôtel de Bourgogne, fa divieto alla confraternita di allestire qualsiasi Mistero della Passione o altro Mistero religioso.
La riscoperta dei classici: verso una laicizzazione del teatro
Avviata in età umanistica, la restaurazione della civiltà teatrale comica precristiana prosegue nel corso del Cinquecento in tutta Europa. Nel 1429 Niccolò da Cusa aveva ritrovato un codice contenente 16 commedie di Plauto di cui 12 ignorate dalla cultura medievale. Il fermento filologico indotto dalla scoperta di Cusa era culminato nel 1472 con l’editio princeps del teatro plautino, preceduta di due anni dall’editio princeps delle commedie di Terenzio. Complice la riflessione sul De architectura di Vitruvio, edito nel 1486 e contenente un’ampia descrizione degli edifici teatrali romani, nel tardo Quattrocento italiano il lavoro editoriale si è rapidamente tradotto in una vivace sperimentazione scenica che, nelle ultime decadi del secolo XV, porta nelle corti di Firenze, Roma, Pavia e Ferrara numerose commedie di Plauto, Terenzio e Aristofane.
L’innesto dei classici comici nella civiltà teatrale cinquecentesca è mediato dall’opera dei traduttori.
Tra il 1495 e il 1496 il tipografo Richard Pynson traduce Plauto in inglese, nel 1515 López Villalobos traduce in spagnolo l’Amphitruo di Plauto, intorno al 1517 Machiavelli volge in versi italiani l’Andria di Terenzio, nel 1549 gli allievi del collegio di Clermont rappresentano a Parigi la traduzione francese del Pluto di Aristofane opera di Ronsard e Baïf.
Nel XVI secolo il corpus comico classico fornisce agli autori un ampio repertorio di personaggi, situazioni, tecniche narrative e consuetudini rappresentative da utilizzarsi per codificare un nuovo linguaggio scenico da opporre al modello del dramma sacro medievale. Specie nei momenti di maggior tensione politico-religiosa le fabulae della commedia latina, aliene da implicazioni teologiche, consentono altresì ai drammaturghi professionisti di sottrarsi alle censure delle autorità spirituali.
Passato medievale e attualità classica: per un sistema moderno dei generi comici
Lungi dal risolversi in un complesso di testi con caratteristiche strutturali omogenee, la produzione “comica” cinquecentesca si articola in un sistema di generi che ha nella commedia “regolare” di matrice greco-latina il suo centro organizzativo e nelle forme medievali, dall’interlude al Fastnachtspiel (farsa carnevalesca), una gamma di possibilità alternative in equilibrio dialettico con il paradigma classico.
Calandosi entro diverse civiltà teatrali, il sistema dei generi comici assume configurazioni che variano da nazione a nazione.
Il teatro comico italiano: codificazione e superamento della commedia regolare
Durante il Cinquecento la complessa geografia politica italiana si riflette nel variegato paesaggio teatrale degli Stati peninsulari: al principio dell’età moderna l’assenza di un forte potere politico centrale impedisce in Italia il costituirsi di una tradizione teatrale “nazionale”. L’esperienza scenica tende infatti ad articolarsi in forme diverse presso le varie corti della penisola. Fermo restando che ogni analisi della drammaturgia cinquecentesca italiana non può prescindere da un’attenta considerazione delle specificità delle consuetudini spettacolari consolidatesi presso i diversi centri di potere, è però possibile individuare alcuni caratteri comuni nello sviluppo delle tradizioni locali del linguaggio teatrale.
Sul fronte comico il teatro cinquecentesco, nella sua evoluzione dal dilettantismo al professionismo, intreccia in Italia la propria storia a quella dei riti autocelebrativi del potere. Pionieri della riscoperta del teatro classico e della definizione di un luogo teatrale, che ha nella scena prospettica il proprio baricentro architettonico e ideologico, gli italiani orientano il loro sistema dei generi comici sul modello della commedia “regolare”, poi esportato nell’intera Europa.
Il primo centro di elaborazione delle convenzioni drammaturgiche della commedia “regolare” è Ferrara, teatro delle rappresentazioni plautine di Ercole I e degli esperimenti di scrittura teatrale di Pandolfo Collenuccio (versione dell’Amphitruo, 1487; Vita di Josep figliuol de Jacob, 1504) da annoverarsi, insieme alla commedia mantovana Il Formicone di Francesco Virgilio del 1503, tra gli incunaboli della drammaturgia comica in Italia.
Al principio del Cinquecento, sazio delle riproposizioni filologiche delle commedie classiche e dei loro volgarizzamenti, Ludovico Ariosto crea proprio a Ferrara il modello di una “nova comedia” nella quale intrecci e personaggi derivati da Plauto e Terenzio fungono da filtro per raccontare teatralmente la realtà cortigiana e cittadina contemporanea. Nell’arco di poco più di un ventennio vengono così alla luce la versione in prosa de La Cassaria (1508), la versione in prosa de I suppositi (1509), Il negromante in versi (iniziata nel 1509 e terminata nel 1520), La Lena in versi (1528), il rifacimento in versi della Cassaria (1529) e de I Suppositi (1532) e l’incompiuta I studenti (la commedia, risalente al 1520-1524, fu terminata da Gabriele Ariosto, fratello di Ludovico, con il titolo La Scolastica e da Virginio Ariosto, figlio del poeta, con il titolo L’imperfetta; la prima rappresentazione dell’Imperfetta è del 1556). Capovolgendo la strategia narrativa dell’Orlando Furioso, con la sua opzione per la spazialità labirintica dell’entrelacement, Ariosto adotta in teatro una tecnica narrativa che rompe con la tradizione medievale dei loci deputati e si fonda sull’illusionismo della scena prospettica: Pellegrino da Udine, scenografo del primo allestimento della Cassaria (5 marzo 1508), è artefice tanto quanto Ariosto del successo della rappresentazione della commedia. Impostando l’architettura della visione teatrale sull’occhio del Principe, la prospettiva è in fondo la trascrizione scenica di un sistema ideologico in cui la commedia non si pone come critica alla struttura sociale, ma come distaccato sguardo aristocratico sul “comico” arrabattarsi della nascente classe borghese. Il paradigma della commedia “regolare” è completato da La calandria di Bernardo Dovizi di Bibbiena rappresentata a Urbino nel 1513 sotto la direzione di Baldassare Castiglione, e la scenografia di Gerolamo Genga. Con il testo del Bibbiena la morfologia e la sintassi del linguaggio comico cinquecentesco sono arricchite dal prezioso apporto della tradizione novellistica italiana: più ancora che alle fonti classiche le disavventure del balordo Calandro si rifanno al modello del Decameron di Boccaccio.
Ludovico Ariosto
Flavio confessa l’amore per Licinia
La Lena, Atto I, scena I
CORBOLO, FLAVIO.
CORBOLO:
Flavio, se la dimanda è però lecita,
Dimmi: ove vai sì per tempo? Che suonano
Pur ora i matutini; né debb’essere
Senza cagion che ti sei con tal studio
Vestito e ben ornato, e come bossolo
Di spezie tutto ti sento odorifero.
FLAVIO:
Io vo qui dove il mio Signor gratissimo,
Amor, mi mena a pascere i famelici
Occhi d’una bellezza incomparabile.
CORBOLO:
E che bellezza vuoi tu in queste tenebre
Veder? Se forse veder non desideri
La stella amata da Martin d’Amelia;
Ma né quell’anco di levarsi è solita
Così per tempo.
FLAVIO:
Né cotesta, Corbolo,
Né stella altra del ciel, né il sole proprio
Luce quanto i begli occhi di Licinia.
CORBOLO:
Né gli occhi de la gatta; questo aggiungere
Dovevi ancora, che saria più simile
Comparazion, perché son occhi e lucono.
FLAVIO:
Il malanno che Dio te dia, che cómpari
Gli occhi d’animal bruto ai lumi angelici!
CORBOLO:
Gli occhi di Cochiolin più confarebbonsi,
Di Sabbadino, Marïano e simili,
Quando di Gorgadello ubriachi escono.
FLAVIO:
Deh, va’ in malora!
CORBOLO:
Anzi in buon’ora a stendermi
Nel letto, et a fornirvi un suavissimo
Sonno che tu m’hai rotto.
FLAVIO:
Or vien qui et odimi,
E pon da lato queste sciocche arguzie.
Corbol, che sempre abbi auto grandissima
Fede in te, te ne sei potuto accorgere
A molti segni; ma maggior indizio
Ch’io te n’abbia ancor dato, son per dartene
Ora, volendo farti consapevole
D’un mio secreto di tal importanzia,
Che la roba vorrei, l’onor e l’anima
Perder, prima che udir che fusse publico.
E perché credo aver de la tua opera
Bisogno in questo, ti vo’ far intendere
Ch’a patto ignun non te ne vo’ richiedere,
Se prima di tacerlo non mi t’oblighi.
CORBOLO:
Non accade usar meco questo prologo,
Che tu sai ben per qualche esperïenzia
Ch’ove sia di bisogno so star tacito.
FLAVIO:
Or odi: io so che sai, senza ch’io ’l replichi,
Ch’amo Licinia, figliuola di Fazio
Nostro vicino, e che da lei rendutomi
È il cambio; che più volte testimonio
Alle parole, ai sospiri, alle lacrime
Sei stato, quando abbiamo avuto commodo
Di parlarci, stand’ella a quella picciola
Fenestra, io ne la strada; ne mancatoci
È mai, se non il luogo, a dar rimedio
A’ nostri affanni. Il quale ella mostratomi
Ha finalmente, che far amicizia
M’ha fatto con la moglie di Pacifico,
La Lena: questa che qui a lato si abita,
Che le ha insegnato da fanciulla a leggere
Et a cucire, e séguita insegnandole
Far trapunti, riccami, e cose simili:
E tutto il dì Licinia, fin che suonino
Ventiquattro ore, è seco, sì che facile-
mente, e senza ch’alcun possa avedersene,
La Lena mi potrà por con la giovane.
E lo vuol fare, e darci oggi principio
Intende: e perché li vicin, vedendomi
Entrar, potriano alcun sospetto prendere,
Vuol ch’io v’entri di notte.
CORBOLO:
È convenevole.
FLAVIO:
Verrà a suo acconcio e tornerà la giovane,
Come andarvi e tornarne ogni dì è solita.
Ma non me ne son oggi io più per movere
Insino a notte. Questa notte tacita-
mente uscironne.
CORBOLO:
Con che modo volgere
Hai potuto la moglie di Pacifico
Che ruffiana ti sia de la discepola?
FLAVIO:
Disposta l’ho con quel mezzo medesimo
Con che più salde menti si dispongono
A dar le rocche, le città, gli esserciti,
E talor le persone de’ lor principi:
Con denari, del qual mezzo il più facile
Non si potrebbe trovar. Ho promessole
Venticinque fiorini, et arrecarglieli
Ora meco dovea, perché riceverli
Anch’io credea da Giulio, che promessomi
Gli avea dar ieri, e m’ha tenuto all’ultimo.
Iersera, poi, ben tardi mi fe’ intendere
Che non me li dava egli, ma servirmene
Facea da un suo, senza pagargliene utile
Per quattro mesi; ma dovendo darmeli,
Quel suo voleva il pegno, il qual si súbito
Non sapendo io trovar, e già avend’ordine
Di venir qui, non ho voluto romperlo,
E son venuto; ancor ch’io stia con animo
Molto dubbioso se mi vorrà credere
La Lena, pur mi sforzarò, dicendole
Come ita sia la cosa, che stia tacita
Fin a diman.
CORBOLO:
Se ti crede, fia un’opera
Santa che tu l’inganni. Porca! ch’ardere
La possa il fuoco! Non ha conscïenzia,
Di chi si fida in lei la figlia vendere!
FLAVIO:
E che sai tu che gran ragion non abbia?
Acciò tu intenda, questo vecchio misero
Le ha voluto già bene, e ’l desiderio
Suo molte volte n’ha avuto.
CORBOLO:
Miracolo!
Gli è forse il primo?
FLAVIO:
Ben credo, patendolo
Il marito, o fingendo non accorgersi.
Imperò che più e più volte Fazio
Gli ha promesso pagar tutti i suoi debiti,
Perché il meschin non ardisce di mettere
Piè fuor di casa, acciò che non lo facciano
Li creditori suoi marcire in carcere;
E quando attener debbe, niega il perfido
D’aver promesso, e dice: - Dovrebbe esservi
Assai d’aver la casa e non pagarmene
Pigion alcuna -; come nulla meriti
Ella de l’insegnar che fa a Licinia!
CORBOLO:
Veramente, se fin qui nulla merita,
Meriterà ne l’avenir, volendole
Insegnar un lavoro il più piacevole
Che far si possa, di menar le calcole
E batter fisso. Ella ha ragion da vendere.
FLAVIO:
Abbia torto o ragion, c’ho da curarmene?
Poi che mi fa piacer, le ho d’aver obligo.
Or quel che da te voglio è che mi comperi
Fin a tre paia o di quaglie o di tortore;
E quando aver tu non ne possi, pigliami
Due paia di piccioni, e fagli cuocere
Arosto, e fammi un capon grasso mettere
Lesso: e gli arreca ad ora convenevole,
E con buon pane e meglior vino; e siati
A cor ch’abbian da bere in abondanzia.
Quest’è un fiorino, te’: non me ne rendere
Danaio in drieto.
CORBOLO:
Il ricordo è superfluo.
FLAVIO:
Io vo’ far segno alla Lena.
CORBOLO:
Sì, faglilo,
Ma su la faccia, che, per Dio, lo merita.
FLAVIO:
Perché, se mi fa bene, ho io da offenderla?
CORBOLO:
Il farti ella suonar, come un bel cembalo,
Di venticinque fiorini, tu nomini
Bene? Ma dimmi: ove sarà, pigliandoli
Tu in presto, poi provisïon di renderli?
FLAVIO:
Ho quattro mesi da pensarci termine;
Che sai che possa in questo mezzo nascere?
Non potrebbe morir, prima che fossino
Li tre, mio padre?
CORBOLO:
Sì; ma potria vivere
Ancor: se vive, come è più credibile,
Che modo avrai di pagar questo debito?
FLAVIO:
Non verrai tu sempre a prestarmi un’opera,
Che gli vorrò far un fiocco?
CORBOLO:
Più di diece.
FLAVIO:
Ma sento che l’uscio apreno.
CORBOLO:
E tu aprir loro il borsello apparecchiati.
in Il teatro italiano II. Teatro del Cinquecento: La commedia, a cura di G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 1977
Tra l’Ariosto e il Bibbiena la retorica comica del Cinquecento - fatta di equivoci, monologhi a chiave, dialoghi discordanti e sapidi giochi di parole - si può dire ormai istituzionalizzata.
Sullo scorcio degli anni Venti il codice comico “ariostesco” è ampiamente superato da La mandragola di Niccolò Machiavelli, probabilmente allestita a Firenze nel 1518 in occasione dei festeggiamenti per le nozze di Lorenzo de’Medici duca d’Urbino con Maddalena de la Tour d’Auvergne, con la scenografia di Andrea del Sarto e Bastiano da Sangallo. Con impeccabile concisione drammaturgica Machiavelli mette a punto un perfetto congegno teatrale che porta la commedia cinquecentesca alle soglie del dramma moderno. Sullo sfondo di una corruzione generalizzata che coinvolge indistintamente vincitori e vinti, ingannati e ingannatori, all’acuto sguardo “politico” di Machiavelli – abituato a ritrarre la “verità effettuale della cosa” più che l’“immaginazione di essa” – si prospetta un lieto fine intimamente dissolto dai veleni dell’ironia. Il pitale che entra in scena nel secondo atto è in fondo il correlato oggettivo di un linguaggio comico di greve densità materica e di una prospettiva ideologica di un pessimismo tanto lucido quanto insuperabile. La mandragola resta un unicum sia nella produzione drammaturgica del Machiavelli (la sua successiva commedia Clizia del 1525, ispirata alla Casina di Plauto è un’opera sostanzialmente convenzionale) sia nel teatro fiorentino posteriore: Il Vecchio amoroso di Donato Giannotti (1533-36) e l’Aridosia di Lorenzino de’Medici (1536) non sono infatti che pallidi tentativi di emulazione dell’inquietante dramma di Machiavelli.
Niccolò Machiavelli
Prologo
La mandragola
Idio vi salvi, benigni auditori,
quando e’ par che dependa
questa benignità da lo esser grato.
Se voi seguite di non far romori,
noi vogliàn che s’intenda
un nuovo caso in questa terra nato.
Vedete l’apparato,
qual or vi si dimostra:
quest’è Firenze vostra,
un’altra volta sarà Roma o Pisa,
cosa da smascellarsi delle risa.
Quello uscio, che mi è qui in sulla man ritta,
la casa è d’un dottore,
che imparò in sul Buezio legge assai;
quella via, che è colà in quel canto fitta,
è la via dello Amore,
dove chi casca non si rizza mai;
conoscer poi potrai
a l’abito d’un frate
qual priore o abate
abita el tempio che all’incontro è posto,
se di qui non ti parti troppo tosto.
Un giovane, Callimaco Guadagno,
venuto or da Parigi,
abita là, in quella sinistra porta.
Costui, fra tutti gli altri buon compagno,
a’ segni ed a’ vestigi
l’onor di gentilezza e pregio porta.
Una giovane accorta
fu da lui molto amata,
e per questo ingannata
fu, come intenderete, ed io vorrei
che voi fussi ingannate come lei.
La favola “Mandragola” si chiama:
la cagion voi vedrete
nel recitarla, com’i’ m’indovino.
Non è il componitor di molta fama;
pur, se vo’ non ridete,
egli è contento di pagarvi il vino.
Un amante meschino,
un dottor poco astuto,
un frate mal vissuto,
un parassito, di malizia il cucco,
fie questo giorno el vostro badalucco.
E, se questa materia non è degna,
per esser pur leggieri,
d’un uom, che voglia parer saggio e grave,
scusatelo con questo, che s’ingegna
con questi van’ pensieri
fare el suo tristo tempo più suave,
perché altrove non have
dove voltare el viso,
ché gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altra virtúe,
non sendo premio alle fatiche sue.
El premio che si spera è che ciascuno
si sta da canto e ghigna,
dicendo mal di ciò che vede o sente.
Di qui depende, sanza dubbio alcuno,
che per tutto traligna
da l’antica virtù el secol presente,
imperò che la gente,
vedendo ch’ognun biasma,
non s’affatica e spasma,
per far con mille sua disagi un’opra,
che ’l vento guasti o la nebbia ricuopra.
Pur, se credessi alcun, dicendo male,
tenerlo pe’ capegli,
e sbigottirlo o ritirarlo in parte,
io l’ammonisco, e dico a questo tale
che sa dir male anch’egli,
e come questa fu la suo prim’arte,
e come in ogni parte
del mondo, ove el “sì” sona,
non istima persona,
ancor che facci sergieri a colui,
che può portar miglior mantel che lui.
Ma lasciam pur dir male a chiunque vuole.
Torniamo al caso nostro,
acciò che non trapassi troppo l’ora.
Far conto non si de’ delle parole,
né stimar qualche mostro,
che non sa forse s’e’ vivo ancora.
Callimaco esce fuora
e Siro con seco ha,
suo famiglio, e dirà
l’ordin di tutto. Stia ciascun attento,
né per ora aspettate altro argumento.
in Il teatro italiano II: Teatro del Cinquecento. La commedia, a cura di G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 1977
Accanto alla forma comica “regolare” sopravvive in Italia la tradizione della farsa nelle sue molteplici varianti regionali.
Proprio nel Regno di Napoli, dove sul finire del Quattrocento erano state rappresentate le “farse” classico-allegoriche di Sannazaro (Farsa dell’ambasceria del Soldano, 1490; Presa di Granata, 1492), si delinea durante il XVI secolo la tradizione delle farse cavaiole, frottole o gliommeri di endecasillabi per lo più con rima al mezzo, nella composizione delle quali eccelle Vincenzo Braca. Tuttavia, nel corso del Cinquecento non mancano tentativi di assimilare la struttura popolare della farsa agli schemi della commedia.
Su questa scena eclettica in cui la drammaturgia colta coesiste con la rappresentazione popolare si consuma la sperimentazione del padovano Angelo Beolco detto il Ruzante. La sua esperienza drammaturgica di autore-attore si mantiene costantemente in bilico tra sapere artigianale professional-popolare ed esercizio letterario, come appare dalle sue opere: dalla Pastoral (1519-1520), comico travestimento dell’egloga pastorale, ai tre dialoghi in lingua rustica (Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo, 1528-1529; Bilora, 1528-29 e Dialogo facetissimo), dalla Betía (1522-1525) alla Moscheta e alla Fiorina (1531-32), tutte commedie plasmate sul modello del mariazo, ossia farsa sul matrimonio dei contadini in cinque atti in versi in dialetto padovano. Superata d’un balzo la prospettiva di parte che caratterizzerà invece la commedia rusticale dell’Accademia dei Rozzi, il borghese “illuminato” Ruzante, facendosi guidare dalla poetica della “naturalità”, mette in scena la crisi della Repubblica Serenissima nei difficili anni seguiti alla sconfitta da parte dei francesi nella battaglia di Agnadello attraverso l’indagine dei rapporti tra oligarchia veneziana, borghesia della terraferma e plebi rurali. Nell’ultima fase della sua produzione comica (La Piovana, trasposizione chiozzotta del Rudens di Plauto, 1532; La Vaccaria, mutuata dall’Asinaria, 1533) la ricerca formale di Ruzante si orienta in una direzione più scopertamente letteraria che tocca i propri esiti estremi nell’Anconitana (di incerta datazione) vera e propria summa dei generi comici in cui la commedia erudita si fonde a quella rusticale e agli intermezzi teatrali buffoneschi. La commedia “all’improvviso”, con la sua struttura aperta, è ormai alle porte.
In area veneta il dialetto come lingua comica, oltre che nell’anonima Venexiana, è attestato nelle commedie di Andrea Calmo. Come nel Ruzante dell’Anconitana, anche in Calmo la commedia regolare tende a risolversi nelle forme di quella mobile drammaturgia d’attore che è la commedia dell’arte; non a caso i Piacevoli et ingegnosi discorsi in più lettere compresi (1547-56) dell’autore-attore veneziano costituiscono un prezioso repertorio di soggetti per i canovacci degli attori professionisti. Analizzato in rapporto alla commedia dell’arte, il destino della commedia “regolare” italiana si riflette nel teatro del Lasca che, dall’ingegneria drammaturgica del Frate (1540) trascorre ai modi arieggianti la commedia “all’improvviso” della Spiritata (1560).
La sintassi “aperta” della commedia dell’arte non è però la sola alternativa ai rigorosi schemi della commedia “regolare”. Riuniti nell’Accademia degli Intronati, gli intellettuali senesi oppongono alle commedie rusticali dei Rozzi testi dall’intreccio complesso che ritmano l’azione teatrale secondo cadenze patetiche, inedite nella commedia cinquecentesca italiana. Il prototipo di questa commedia “romanzesca” rintracciabile ne Gli ingannati (1531), opera collettiva del gruppo il cui allestimento è affidato ad Alessandro Piccolomini, è sviluppato dallo stesso Piccolomini nei suoi successivi lavori: L’amor costante (1536) e Alessandro (1544). Nel corso del secolo, mentre Giraldi Cinzio avvia il dibattito sulle satire sceniche e sulle forme tragicomiche entro una prassi drammaturgica che oscilla tra la rivisitazione del dramma satiresco classico e il moderno genere pastorale, nuovi drammi vengono ad aggiungersi al canone “patetico-romanzesco”: l’Ortensio (1560), creazione collettiva degli Intronati sotto la supervisione del Piccolomini, La pellegrina (1564) di Girolamo Bargagli, l’Erofilomachia (1572) e La prigione d’amore (1576) entrambe di Sforza degli Oddi.
Nel suo sforzo di rinnovare il linguaggio comico procede invece per tutt’altra strada Pietro Aretino. Con la Cortigiana (1525) lo scrittore offre al pubblico un quadro di allucinata violenza satirica della Roma di Clemente VII alla vigilia del terribile Sacco. Il furore dell’invettiva aretiniana determina una torsione della struttura comica classica che finisce con lo spezzare lo svolgimento dell’intreccio: i circa 40 personaggi che tra Argomento, Prologo e commedia vera e propria sono portati sulla scena della Cortigiana, vengono calati in una vicenda che, priva di un’organica coerenza, si frantuma in una ridda di quadri episodici.
Facendosi beffe della poetica oraziana della callida iunctura – che prevedeva un’accorta disposizione delle parole e un’accurata strutturazione del periodo – Aretino, nel suo delirio visionario, disgrega la sintassi comica regolare e anticipa la forma del moderno cabaret. Sia pur senza spingersi a esiti così estremi, la deformazione dei moduli comici cinquecenteschi è coerentemente riproposta da Aretino nel Marescalco (probabilmente scritta tra il 1527 e il 1530 e pubblicata nel 1533).
La seconda redazione della Cortigiana, edita a Venezia nel 1534, inaugura un nuovo corso della drammaturgia aretiniana: tra La Talanta (1542), Lo ipocrito (1542) e Il filosofo (1546) si disegna un percorso che tende a risolvere la vis satirica delle prime commedie in una pura manipolazione formale: ripiegandosi su se stessa la scrittura teatrale di Aretino si scioglie nel gioco della metateatralità, ossia del teatro nel teatro.
Dopo il Pedante del Belo (1529), ambientato come la Cortigiana a Roma, il panorama delle tendenze drammaturgiche “espressionistiche” si apre a nuovi orizzonti nella Napoli del secondo Cinquecento. Più ancora che nelle commedie di Giambattista Della Porta (L’Olimpia, 1586-1589, La fantesca, 1592; La trappolaria, 1596; L’astrologo, 1606) la cui debordante fantasia verbale introduce al teatro barocco, l’esito ideale della Cortigiana si coglie in quel monstrum drammaturgico che è il Candelaio di Giordano Bruno, ambientato a Napoli e composto a Tolosa nel 1582. Sul finire del secolo l’ironia ariostesca cede il passo al grottesco bruniano: la lugubre parata carnevalesca che travolge l’innamorato Bonifacio, l’alchimista Bartolomeo e il grammatico Manfurio è in fondo il corteo funebre della commedia cinquecentesca.
Giordano Bruno
L’arte, l’amore
Candelaio, Atto I, scene I-III
Scena I - BONIFACIO, ASCANIO.
BONIFACIO: Va’ lo ritrova adesso adesso, e forzati di menarlo cqua. Va’, fa’, e vieni presto.
ASCANIO: Mi forzarrò di far presto e bene. Meglio un poco tardi, che un poco male: “Sat cito, si sat bene”.
BONIFACIO: Lodato sii Idio: pensavo d’aver un servitore solamente, ed ho servitore, mastro di casa, satrapo, dottore e consigliero; e dicon poi ch’io son povero gentil omo. Io ti dico, in nome della benedetta cosa de l’asino ch’adorano a Castello i Genoesi: Fa’ presto, tristo, e mal volentieri; e guardati di entrare in casa, intendi tu? chiamalo che si faccia alla fenestra, e gli dirrai come ti ho detto: intendi tu?
ASCANIO: Signor sì; io vo.
Scena II - BONIFACIO, solo.
BONIFACIO: L’arte supplisce al difetto della natura, Bonifacio. Or, poi ch’a la mal’ora non posso far che questa traditora m’ame, o che al meno mi remiri con un simulato amorevole sguardo d’occhio, chi sa, forse quella che non ha mossa le paroli di Bonifacio, l’amor di Bonifacio, il veder spasmare Bonifacio, potrà esser forzata con questa occolta filosofia. Si dice che l’arte magica è di tanta importanza che contra natura fa ritornar gli fiumi a dietro, fissar il mare, muggire i monti, intonar l’abisso, proibir il sole, despiccar la luna, sveller le stelle, toglier il giorno e far fermar la notte: però l’Academico di nulla academia, in quell’odioso titolo e poema smarrito, disse:
Don’a’ rapidi fiumi in su ritorno,
smuove de l’alto ciel l’aurate stelle,
fa sii giorno la notte, e nott’il giorno.
E la luna da l’orbe proprio svelle
e gli cangia in sinistro il destro corno,
e del mar l’onde ingonfia e fissa quelle.
Terra, acqua, fuoco ed aria despiuma,
ed al voler uman fa cangiar piuma.
Di tutto si potrebbe dubitare; ma, circa quel ch’ultimamente dice quanto all’effetto d’amore, ne veggiamo l’esperienza d’ogni giorno. Lascio che del magistero di questo Scaramuré sento dir cose maravigliose a fatto. Ecco: vedo un di quei che rubbano la vacca e poi donano le corna per l’amor di Dio. Veggiamo che porta di bel novo.
Scena III - Messer BONIFACIO, Messer BARTOLOMEO raggionano; POLLULA e SANGUINO, occolti, ascoltano.
BARTOLOMEO: Crudo amore, essendo tanto ingiusto e tanto violento il regno tuo, che vol dir che perpetua tanto? perché fai che mi fugga quella ch’io stimo e adoro? perché non è lei a me, come io son cossì strettissimamente a lei legato? si può imaginar questo? ed è pur vero. Che sorte di laccio è questa? di dui fa l’un incantenato a l’altro, e l’altro più che vento libero e sciolto.
BONIFACIO: Forse ch’io son solo? uh, uh, uh.
BARTOLOMEO: Che cosa avete, messer Bonifacio mio? piangete la mia pena?
BONIFACIO: Ed il mio martire ancora. Veggo ben che sète percosso, vi veggio cangiato di colore, vi ho udito adesdo lamentare, intendo il vostro male, e, come partecipe di medesma passione e forse peggior, vi compatisco. Molti sono de’ giorni che ti ho visto andar pensoso ed astratto, attonito, smarrito, - come credo ch’altri mi veggano, - scoppiar profondi suspir dal petto, co gli occhi molli. - Diavolo! - dicevo io, - a costui non è morto qualche propinquo, familiare e benefattore; non ha lite in corte; ha tutto il suo bisogno, non se gli minaccia male, ogni cosa gli va bene; io so che non fa troppo conto di soi peccati; ed ecco che piange e plora, il cervello par che gli stii in cimbalis male sonantibus: dunque è inamorato, dunque qualche umore flemmatico o colerico o sanguigno o melancolico, - non so qual sii questo umor cupidinesco, - gli è montato su la testa. - Adesso ti sento proferir queste dolce parole: conchiudo più fermamente che di quel tossicoso mele abbi il stomaco ripieno.
BARTOLOMEO: Oimè, ch’io son troppo crudamente preso da’ suoi sguardi! Ma di voi mi maraviglio, messer Bonifacio, non di me che son di dui o tre anni più giovane, ed ho per moglie una vecchia sgrignuta che m’avanza di più d’otto anni: voi avete una bellissima mogliera, giovane di venticinque anni, più bella della quale non è facile trovar in Napoli; e sète inamorato?
BONIFACIO: Per le paroli che adesso voi avete detto, credo che sappiate quanto sii imbrogliato e spropositato il regno d’amore. Si volete saper l’ordine, o disordine, di miei amori, ascoltatemi, vi priego.
BARTOLOMEO: Dite, messer Bonifacio, che non siamo come le bestie ch’hanno il coito servile solamente per l’atto della generazione, - però hanno determinata legge del tempo e loco, come gli asini ai quali il sole, particulare o principalemente il maggio, scalda la schena, ed in climi caldi e temperati generano, e non in freddi, come nel settimo clima ed altre parti più vicine al polo; - noi altri in ogni tempo e loco.
BONIFACIO: Io ho vissuto da quarantadue anni al mondo talmente, che con mulieribus non sum coinquinato; gionto che fui a questa etade nella quale cominciavo ad aver qualche pelo bianco in testa, e nella quale per l’ordinario suol infreddarsi l’amore e cominciar a venir meno...
BARTOLOMEO: In altri cessa, in altri si cangia.
BONIFACIO: ...suol cominciar a venir meno, com’il caldo al tempo de l’autunno, allora fui preso da l’amor di Carubina. Questa mi parve tra tutte l’altre belle bellissima; questa mi scaldò, questa m’accese in fiamma talmente, che mi bruggiò di sorte, che son dovenuto esca. Or, per la consuetudine ed uso continuo tra me e lei, quella prima fiamma essendo estinta, il cuor mio è rimasto facile ad esser acceso da nuovi fuochi...
BARTOLOMEO: S’il fuoco fusse stato di meglior tempra, non t’arrebbe fatto esca ma cenere; e s’io fusse stato in luoco di vostra moglie, arrei fatto cossì.
BONIFACIO: Fate ch’io finisca il mio discorso, e poi dite quel che vi piace.
BARTOLOMEO: Seguite quella bella similitudine.
BONIFACIO: Or, essendo nel mio cor cessata quella fiamma che l’ha temprato in esca, facilmente fui questo aprile da un’altra fiamma acceso.
BARTOLOMEO: In questo tempo s’inamorò il Petrarca, e gli asini, anch’essi, cominciano a rizzar la coda.
BONIFACIO: Come avete detto?
BARTOLOMEO: Ho detto che in questo tempo s’inamorò il Petrarca, e gli animi, anch’essi, si drizzano alla contemplazione: perché i spirti ne l’inverno son contratti per il freddo, ne l’estade per il caldo son dispersi, la primavera sono in una mediocre e quieta tempratura, onde l’animo è più atto, per la tranquillità della disposizion del corpo, che lo lascia libero alle sue proprie operazioni.
BONIFACIO: Lasciamo queste filastroccole, venemo a proposizio. Allora, essendo io ito a spasso a Pusilipo, dagli sguardi della signora Vittoria fui sì profondamente saettato, e tanto arso da’ suoi lumi, e talmente legato da sue catene, che, oimè...
BARTOLOMEO: Questo animale che chiamano amore, per il più suole assalir colui ch’ha poco da pensare e manco da fare: non eravate voi andato a spasso?
BONIFACIO: Or voi fatemi intendere il versaglio dell’amor vostro, poi che m’avete donata occasion di discuoprirvi il mio. Penso che voi ancora doviate prendere non poco refrigerio, confabulando con quelli che patiscono del medesmo male, si pur male si può dir l’amare.
BARTOLOMEO: Nominativo: la signora Argenteria m’affligge, la signora Orelia m’accora.
BONIFACIO: Il mal’an che Dio dia a te, e a lei ed a lei.
BARTOLOMEO: Genitivo: della signora Argenteria ho cura, della signora Orelia tengo pensiero.
BONIFACIO: Del cancaro che mange Bartolomeo, Aurelia ed Argentina.
BARTOLOMEO: Dativo: alla signora Argenteria porto amore, alla signora Orelia suspiro; alla signora Argenteria ed Orelia comunmente mi raccomando.
BONIFACIO: Vorrei saper che diavol ha preso costui.
BARTOLOMEO: Vocativo: o signora Argenteria, perché mi lasci? o signora Orelia, perché mi fuggi?
BONIFACIO: Fuggir ti possano tanto, che non possi aver mai bene! va’ col diavolo, tu sei venuto per burlarti di me!
BARTOLOMEO: E tu resta con quel dio che t’ha tolto il cervello, se pur è vero che n’avesti giamai. Io vo a negociar per le mie padrone.
BONIFACIO: Guarda, guarda con qual tiro, e con quanta facilità, questo scelerato me si ha fatto dir quello che meglio sarrebbe stato dirlo a cinquant’altri. Io dubito con questo amore di aver sin ora raccolte le primizie della pazzia. Or, alla mal’ora, voglio andar in casa ad ispedir Lucia. Veggo certi furfanti che ridono: suspico ch’arranno udito questo diavol de dialogo, anch’essi. Amor ed ira non si puot’ascondere.
in Il teatro italiano II. Teatro del Cinquecento: La commedia, a cura di G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 1977
Mentre la commedia “letteraria” si evolve dilatando romanzescamente le proprie strutture o si annichilisce in una disperata autoparodia, il Principe riassume saldamente il controllo della scena comica per esorcizzare le potenzialità eversive che la commedia, nelle sue manifestazioni più anomale e oltranzistiche, ha dimostrato di possedere.
La commedia dell’arte
La risposta professionale alla crisi della commedia colta è rappresentata in Italia dalla commedia “all’improvviso” o “dell’arte”. Sin dall’inizio del Cinquecento in area veneta e in area senese appaiono i primi segni di una consapevole e articolata organizzazione professionale dell’attività teatrale. Nel 1545 si forma a Padova la compagnia di “Ser Maphio ditto Zanini” il cui atto costitutivo è tra i primi documenti pervenutici di questa nuova struttura organizzativa dell’esperienza scenica.
La crescita delle compagnie professionali è rapida: nel volgere di pochi decenni si costituiscono infatti quelle che saranno le più celebri e acclamate troupes “dell’arte” (la Compagnia dei Gelosi, 1568; I Confidenti, 1572-74; Gli Uniti, 1578; I Desiosi, 1581; Gli Accesi, 1590; I Fedeli 1601). Anche le donne entrano a far parte delle compagnie professionistiche: nel 1564 è documentata a Roma la presenza tra i comici di una Lucrezia senese e a tre anni di distanza, nel 1567, a Mantova recitano in due compagnie rivali, riscuotendo grande successo, la romana Flaminia e la veneziana Lucrezia. Il successo dei comici "dell’arte" assume ben presto portata europea. Sul finire degli anni Sessanta è attivo a Monaco di Baviera il napoletano Massimo Troiano; nel 1570 Alberto Naselli, creatore della maschera di Zan Ganassa, recita a Parigi e, incoraggiato dal buon risultato della tournée, tra il 1574 e il 1575 dà spettacoli a Madrid e a Siviglia. A Londra i primi comici dell’arte giungono nel 1572 e già nel 1579 recita sulle scene inglesi il celebre attore Drusiano Martinelli. Nel 1573 una compagnia italiana affronta una tournée in Polonia e in Russia. È però in Francia che i comici italiani, grazie al sostegno di Caterina de’ Medici, riscuotono i maggiori consensi.
Nel 1571 i Gelosi, invitati dal Duca di Nevers Luigi Gonzaga, recitano davanti a Carlo IX e alla reggente. Nel 1577 sempre i Gelosi tornano in Francia dando spettacoli a Blois, quindi all’Hôtel de Bourgogne a Parigi.
Alla fine del Cinquecento la fama delle compagnie italiane è ormai consolidata: negli ultimi decenni del secolo i comici professionisti esercitano di fatto un’egemonia sul mercato teatrale, che tra momenti di gloria e rovesci di fortuna conserveranno fino al XVIII secolo.
Una drammaturgia d’attore
Gli spettacoli della commedia dell’arte sono essenzialmente costruiti su una drammaturgia d’attore. Le vicende rappresentate dai comici professionisti prevedono ruoli fissi – primo e secondo vecchio, primo e secondo Zanni, gli innamorati, la servetta, il capitano – legati tanto alle maschere della tradizione popolare, quanto ai “tipi” della commedia regolare. Gli intrecci sono costruiti attraverso il gioco combinatorio di microsequenze drammaturgiche in sé relativamente compiute e autonome. La commedia dell’arte non si fissa in un’articolata struttura testuale, ma si affida a scarni scenari o canovacci che si limitano a fornire una sorta di diagramma dell’azione. Sulla base di questi scenari e dei “generici” – repertori di dialoghi buffi o monologhi caratteristici dei vari ruoli – i comici professionisti improvvisano davanti al pubblico pagante i loro spettacoli. Frutto dell’abilità dell’attore la commedia dell’arte è però al tempo stesso profondamente debitrice della drammaturgia letteraria: nella stesura dei canovacci spesso i professionisti non fanno che rielaborare materiali derivati dalla commedia “regolare” passandoli al vaglio del gradimento del pubblico.