Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Fino agli anni Ottanta dell’Ottocento la classe operaia non c’è: la coscienza di classe, la consapevolezza di una separazione ineludibile tanto dal lavoro artigiano quanto dall’oggetto della produzione, l’assunzione consapevole di valori universali che si esprimono ora in vincoli solidaristici, ora in rivendicazioni politiche non sono infatti ancora maturi, né potenziati in organizzazione. Ma anche se la “classe operaia” non c’è ancora – e solo tardivamente, talora per endiadi contrapposte e attraverso assunzione di responsabilità e coscienza, si configura e definisce – da tempo ci sono le condizioni, i “lavoratori” operai: coloro, cioè, che per la prima volta nella storia sono caratterizzati e definiti dalla mancanza di un mestiere; ma, non per questo, sono “oziosi”. E ci sono i “lavori” operai che – progressivamente, sia pur in modo disomogeneo e talora contraddittorio – tendono a separare chi lavora da ciò che produce, il prodotto dal suo uso, il lavoro dalla sua funzione sociale e dal suo valore.
Classe operaia?
Prima che un po’ ovunque, in Inghilterra, si propaghi e diventi un segno di riconoscimento il berretto piatto con visiera alla Andy Capp, sostiene lo storico inglese Eric J Hobsbawm, non c’è neanche la “classe operaia” ma solo singoli lavoratori. Certo, hanno una vita e salari simili; ma non ancora opinioni e tratti identitari comuni e riconoscibili anche sul piano simbolico: la “classe operaia” non prende forma prima degli anni Ottanta dell’Ottocento e definisce progressivamente – e in primo luogo per se stessa – le forme e i riferimenti di appartenenza, le ritualizzazioni e la loro formalizzazione materiale. Prima, infatti, non sono così diffuse neanche le rivendite di fish and chips: anche se nasce negli anni Sessanta, la combinazione economica tra le patate che sfamano e il pesce “di risulta” dagli strascichi per vent’anni almeno non è un affare particolarmente remunerativo; i lavoratori non si sfamano così giacché hanno ancora altre soluzioni, altri legami con la produzione dei beni alimentari, altro tempo per cucinare, altri luoghi dove mangiare. Alla vigilia della prima guerra mondiale, invece, le friggitorie saranno 25 mila. Intanto, però, nell’elaborare e definire se stessa e i propri simboli, la nascente “classe operaia” si sta appropriando progressivamente di quelli altrui: uno sport dalle regole semplici e dall’attrezzatura poco costosa – il football – viene strappato ai College e sta diventando popolare, per spettatori proletari. Ma alla fine del secolo, impetuosamente, esiste e ha iniziato la lunga strada novecentesca per conquistare il potere e l’egemonia.
Fino agli anni Ottanta la “classe operaia” non c’è perché – secondo lo storico inglese – la coscienza di classe, la consapevolezza di una separazione ineludibile tanto dal lavoro artigiano quanto dall’oggetto della produzione, l’assunzione consapevole di valori universali che si esprimono ora in vincoli solidaristici, ora in rivendicazioni politiche non sono maturi, né potenziati in organizzazione. Solo nella cosciente assunzione di questo legame reciproco, conferito dalle condizioni economiche e dai comuni bisogni e interessi e dalle lotte per difenderli – aveva scritto Karl Marx –, i lavoratori si “costituiscono in classe per se stessa [e] gli interessi che essa difende diventano interessi di classe”.
Ma anche se la “classe operaia” non c’è ancora – e solo tardivamente, talora per endiadi contrapposte e attraverso assunzione di responsabilità e coscienza, si configura e definisce – da tempo ci sono le condizioni, i “lavoratori” operai: coloro, cioè, che per la prima volta nella storia sono caratterizzati e definiti dalla mancanza di un mestiere; ma, non per questo, sono “oziosi”. Da tempo, accanto al crescere lento e al cristallizzarsi dei movimenti e poi del “partito della classe operaia”, esistono e si estendono intanto i “lavori” operai che – progressivamente, sia pur in modo disomogeneo e talora contraddittorio – tendono a separare chi lavora da ciò che produce, il prodotto dal suo uso, il lavoro dalla sua funzione sociale e dal suo valore.
Nelle “diaboliche buie officine”
Da questo punto di vista, sempre secondo Hobsbawm, “il primo periodo (dal 1780-1790 al 1840-1850), l’età classica della Rivoluzione industriale, assistette alla nascita della moderna classe operaia. Il secondo periodo (dal 1840-1850 al 1890-1900) vide il capitalismo, come era stato fondato su basi preesistenti, erigersi a norma suprema: può essere considerato il periodo classico dell’aristocrazia operaia dell’Ottocento”.
Già nel 1776 Adam Smith aveva raccontato la divisione del lavoro, sottolineandone la novità e l’importanza: nella manifattura degli spilli, attraverso 18 distinte operazioni, 10 persone arrivano a produrre 48 mila spilli al giorno. “Se invece essi avessero lavorato separatamente l’uno dall’altro, e senza che nessuno di loro fosse stato addestrato a questo mestiere particolare, ciascuno di loro non avrebbe potuto certamente fabbricare 20 spilli al giorno, e forse neanche uno”. Da ciò derivano un miglioramento della destrezza, un risparmio di tempo e – mediante l’introduzione delle macchine – “gli uomini sono molto maggiormente atti a scoprire metodi più facili e più pronti per raggiungere qualsiasi scopo quando tutta l’attenzione della loro mente è diretta verso quel singolo scopo, che quando è dissipata tra una grande varietà di oggetti. Ma, in conseguenza della divisione del lavoro, tutta l’attenzione di ciascun uomo viene naturalmente diretta verso qualche oggetto molto semplice”.
Soprattutto, fabbricare una porzione di spillo nello stesso luogo, allo stesso modo e per un tempo definito è ben altra cosa dal lavoro a domicilio o dell’artigiano: e anche se la “rivoluzione industriale” non modifica alla stessa velocità gli stessi settori produttivi, né ovunque le dimensioni del factory system sono comparabili, il progressivo spostarsi dell’unità produttiva familiare in nucleo di consumo modifica invece le consuetudini, il tipo e il livello di salario, il carico di lavoro, il rapporto con i mezzi di produzione. Ma, in primo luogo, cambia il tempo.
Fino a quando l’attività produttiva è gestita a livello familiare e artigianale, infatti, il tempo di lavoro non è “disciplinato”, organizzato, sincronizzato; e, con esso, non lo è il lavoratore, passato ora, invece, al servizio del prodotto e del produttore: “i minatori di stagno della Cornovaglia si occupavano pure della pesca di sardine […], gli artigiani di villaggio si dedicavano a diversi lavori nell’edilizia, nei trasporti, nella falegnameria, […] il piccolo agricoltore dei monti Pennini contemporaneamente faceva il tessitore”, sostiene Edward P. Thompson. Con l’arrivo delle macchine, e del loro uso, tutto cambia e il tempo diventa anch’esso funzione del valore: incorporando i ritmi della macchina, li sottrae al lavoratore e alla sua vita rendendo necessaria la sincronizzazione e la puntualità: il discontinuo diventa continuo, l’irregolare e lo stagionale regolari mentre – anche grazie ai sermoni dei puritani – tali necessità si interiorizzano e vengono percepite come un dovere etico. Progressivamente – nello sconvolgersi del tessuto sociale e comunitario – non solo il lavoro “realizza” meno chi lavora, ma lo mette al servizio di ciò che produce: è, continua Thompson – “una ristrutturazione radicale della natura sociale dell’uomo”.
Il dibattito storiografico è discorde, invece, sul progressivo impoverimento delle condizioni di vita riflesso dall’avvento dell’età del vapore: infatti, si ritiene diffusa la difesa delle consuetudini e la resistenza non solo alle macchine ma al cambiamento; altrettanto unanimemente si è abbandonata l’idea di una “Rivoluzione” industriale intesa come take off a favore dello sganciamento a singulti della stagionalità produttiva e scarsamente seriale verso un lento e non univoco passaggio di una “rivoluzione industriosa” della produzione familiare coniugata – nella “narrazione” e in una fase di “controrivoluzione antigiacobina” – ai consueti fattori “canonici” (per l’Inghilterra, dunque, l’insularità, le conoscenze, le “libere” istituzioni, l’urbanizzazione, lo sviluppo agrario, il dinamismo del mercato interno ed estero, la supremazia navale ecc.), a uno sciame di innovazioni tecnologiche e all’incremento demografico. Ma non per questo i dati sugli effetti di tale, certamente rivoluzionaria, trasformazione sono univoci né, ovunque, il cambiamento produce peggioramento delle condizioni di vita o pauperizzazione crescente; anzi, sostiene Landes, il miglioramento è grande ed evidente: ora si può, e sempre più, dare agli animali il cibo base dell’uomo – il grano – per ingrassarli e cibarsene.
Il terremoto tecnologico, la proletarizzazione agricola, la rottura dei vincoli e delle difese comunitarie, la sostituzione del lavoro domestico con quello salariato, l’abbandono della terra, il processo lento e discorde sono dunque abbastanza dissimili, nei loro effetti, da quello che una letteratura di stampo politico o filantropico ha consolidato in mito e tradizione: le miserrime, “diaboliche, buie officine” di Dickens o della prima grande inchiesta storica e sociologica sulle condizioni della classe operaia in Inghilterra – quella di Friedrich Engels del 1845 – sono inusitate e rare e, per lungo tempo, il salario continua a essere fissato dalla tradizione più che dal mercato permettendo – nell’aumento del tempo di lavoro, dunque di guadagno – un innalzamento delle condizioni di vita attestato dalla crescita di alcuni consumi (tè, caffè, zucchero, carne).
La “povertà in mezzo all’abbondanza”, nella difficoltà di costruire serie di salari e di prezzi e indici statistici, è – almeno nella prima fase – piuttosto nei beni imponderabili: la casa, la salute, la famiglia, il precipitare delle relazioni e di legami, il non ancora sufficientemente indagato divaricarsi della funzione e posizione delle donne tra necessità di lavoro e ruolo sociale e familiare, lo stringersi senza tregua degli orizzonti ora chiusi all’officina e ai suoi tempi e alle sue necessità, l’insicurezza crescente che arriva non dalla grandine o dalle cavallette ma da un mestiere sempre più disgregato e dalla concorrenza affamata e al ribasso delle donne o dei bambini: contrariamente a quanto accadeva in antico regime, e sempre più, la maggioranza degli operai non è qualificata – most of whom are children, nota nel 1832 un famoso rapporto alla Camera dei Comuni – mentre “l’uomo si degrada via via che l’operaio si perfeziona”. Né mancano, specie fuori dall’Inghilterra, le resistenze di chi considera l’economia di mercato e la modernizzazione fattori di disgregazione e di grave impoverimento per i più da combattere con ogni mezzo: con il protezionismo, il ribellismo, l’emigrazione, la filantropia.
Ma, in generale, è la flessibilità il fattore caratterizzante e di gran lunga, e per molto tempo, predominante: la fluttuazione della domanda e gli approvvigionamenti irregolari, il continuo e crescente progresso tecnologico rendono soverchiante e terribile un’insicurezza che frammenta e divide e non omogenei i lavoratori, “atomizzandoli” ognuno nel proprio dramma; in una ricerca svolta in tutta Europa da Frédéric Le Play nel 1855 vengono elencati ben sette tipi di “operai”: nessuno di loro corrisponde allo stereotipo del salariato che vende la propria forza lavoro non disponendo di altre risorse; per tutti invece, e nel crescere della stratificazione sociale, “la grigia monotonia della vita” denunciata da Mill.
Tuttavia progressivamente, e per necessità non solo produttive ma anche sociali, le oscure, buie officine di ogni giorno, di tutti i giorni, si pietrificano nelle company towns, le città-fabbrica. In un’atmosfera che lo smog rende spettrale, il “ventre” della città è sempre più costituito da quartieri “maledetti”, abitati da una popolazione di marginali, lavoratori saltuari, ladri, mendicanti e prostitute, dove un “proletariato straccione”, additato dalla stampa borghese come risultato di un abbrutimento selvaggio, ricettacolo del vizio e matrice del crimine, finisce per divenire il sostituto di una pericolosità più insidiosa e imbarazzante: la potenzialità eversiva della classe operaia.
Il “movimento reale”
“La grande industria – scrive Marx ne Il Manifesto del Partito Comunista – raccoglie in un solo luogo una folla di persone sconosciute le une alle altre. La concorrenza le divide nei loro interessi. Ma il mantenimento del salario, questo interesse comune che essi hanno contro il loro padrone, li unisce in uno stesso proposito di resistenza: coalizione. Così la coalizione ha sempre un duplice scopo, di far cessare la concorrenza degli operai tra loro, per poter fare una concorrenza generale al capitalista. Se il primo scopo della resistenza era solo il mantenimento dei salari, a misura che i capitalisti si uniscono a loro volta in un proposito di repressione, le coalizioni, dapprima isolate, si costituiscono in gruppi e, di fronte al capitale sempre unito, il mantenimento dell’associazione diviene per gli operai più necessario ancora di quello del salario […]. In questa lotta – vera guerra civile – si riuniscono e si sviluppano tutti gli elementi necessari a una battaglia imminente. Una volta giunta a questo punto, l’associazione acquista un carattere politico”.
Al di là dei suoi sconvolgenti e drammatici esiti novecenteschi, il problema dell’autonomia politica dei lavoratori e del suo organizzarsi – giacché il lemma operaio” afferisce alla lingue latine, diventando “lavoratore” nelle sassoni – si attesta e diventa pressante e dirimente, in una cultura politica pienamente ottocentesca e occidentale e presto comune, unificante e dominante quale quella del socialismo utopistico e “scientifico”, allorquando la sociabilità, le reti e le strategie familiari, religiose o comunque di appartenenza si coniugano alla consapevolezza della necessità di negoziazione e alla presunzione di essere portatori di istanze e valori universali; quando, cioè, la coscienza delle ineguaglianze si accompagna a quella del lavoro inteso non solo come mezzo di asservimento ma come veicolo di realizzazione personale, di legame sociale e vettore di trasformazione della società. Solo in quel momento, infatti, il lavoro da fonte di valore per pochi si trasforma e la resistenza alla proletarizzazione, l’impaurita difesa dell’esistente diventano lotta per il “sol dell’avvenire” imponendo un ambizioso e ambiguo cambiamento del ritmo e delle dimensioni: dalla difesa alla costruzione, dalla parcellizzazione alla molteplicità, dal locale all’internazionale.
Conclusioni
Il paradigma che ne scaturisce – e aggiorna le agende sindacali, che pure in Inghilterra sin dal 1824 ottengono il diritto all’associazionismo e nel 1833 la giornata lavorativa di 10 ore per i ragazzi, nel fiorire delle organizzazioni e nel dipanarsi di scioperi e rivendicazioni in tutta Europa – è un ambizioso “movimento reale” di speranza; nel crescere della “coscienza” e nella necessità di un’autonomia tanto teorica quanto organizzativa dalle associazioni di mestiere e di difesa corporativa, dalla solidarietà quotidiana e dal mutuo soccorso la “classe operaia”, ossia dei lavoratori, dichiara di ambire a un cambiamento sostanziale: consapevole che i proprio interessi annunciano quelli di tutti, se ne fa portatrice e bandiera; nel “movimento reale” volto ad “abolire lo stato di cose presenti” l’ambizione di esprimere non solo un’esigenza di parte ma quella di un miglioramento per tutti. Nel rarefarsi della libertà, nel nebulizzarsi delle reti di relazione, nel frantumarsi degli orizzonti – ora ridotti anch’essi a merce – la soluzione quasi escatologica può venire infatti solo dall’assunzione della coscienza e dal suo tradursi in un movimento – e poi in un partito – che superi l’atomizzazione e la solitudine, difenda ed esiga, persegua la conquista del potere e, quindi, la sua abolizione e la liberazione di tutti gli uomini da vincoli e asservimenti. Il legame comunitario è – nella lotta e nella speranza, nell’organizzazione – diventato legame di classe. E sono da un lato la paura della Rivoluzione, dopo che la Commune ha internazionalizzato davvero le idee socialiste, e dall’altro il terrore che le forme moderne di salariato acquisendo lemmi e istanze politiche autonome possano produrre la riforma politica, ossia il suffragio universale e l’eguaglianza, e la riforma sociale, ossia la socializzazione dei mezzi di produzione, a “sconvolgere” il mondo: i tentativi di dissaldare i due elementi, rendendo l’uno congruente allo Stato “borghese” e allontanando l’altro, pericolosamente eversivo, producono ora la legislazione sociale, che tenta di inaridire le cause del disagio spostandole dal piano dei diritti a quella delle concessioni, ora durissime repressioni; sono gli eccidi, la solidarietà quando si perde il lavoro perché si è “iscritti” al partito o al sindacato, sono gli scioperi che non solo diminuiscono la fatica e le ore di lavoro ma garantiscono che “bandiera rossa trionferà”. Il “principio di speranza” e l’indubitabile “sol dell’avvenire”, nella certezza dell’umanità futura, la liberazione della classe operaia – dunque di tutta l’umanità – dalle catene sono quasi arrivati.