La civilta villanoviana e la nascita della citta in Etruria
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In Etruria, la nascita della città è parte di un complesso fenomeno storico, che tra il IX e la seconda metà dell’VIII secolo a.C. conduce una società inizialmente egualitaria a strutturarsi in classi, con al vertice un’opulenta aristocrazia fondiaria e mercantile desiderosa di ostentare il proprio potere e la propria ricchezza.
Secondo la testimonianza delle fonti letterarie di età romana (Varrone in Censorino, Sul genetliaco, XVII, 5-6), gli Etruschi facevano risalire le origini della loro nazione a un periodo compreso tra XI e X secolo a.C., cioè a un momento di straordinaria importanza per la storia dell’intera penisola italiana, come dimostra l’evidenza archeologica: è infatti nella transizione tra l’età del Bronzo finale e gli inizi dell’età del Ferro che si creano le premesse per la definizione di quel mosaico di gruppi culturali regionali, distinti e ben definiti, che caratterizzerà l’Italia fino alla sua unificazione conseguente alla conquista romana. Per quel che riguarda l’area dell’Etruria propria, la ricerca archeologica ha messo in evidenza per questo periodo dei significativi cambiamenti nelle modalità di occupazione territoriale: si assiste infatti all’abbandono repentino dei piccoli e numerosi villaggi posti su altopiani ben difendibili, caratteristici della tarda età del Bronzo, in favore dell’occupazione di nuovi siti, sui quali si svilupperanno le grandi città-stato etrusche di epoca storica; tale processo, che avviene con modalità e tempi diversi da un’area all’altra, risulta particolarmente precoce e rapido nell’Etruria meridionale, dove sorgono in questa fase cinque grandi centri, le future città di Tarquinia, Veio, Cerveteri, Volsinii (Orvieto) e Vulci.
I primi nuclei protourbani vanno ad occupare ampi pianori, orograficamente ben muniti come i siti di più antica occupazione, ma assai più estesi (tra gli 85 e i 185 ettari) e collocati in posizione strategica rispetto a grandi territori fertili e ricchi di risorse naturali, tra le quali un ruolo di primo piano assumono i giacimenti minerari: rame, ferro, argento, allume abbondano sui monti della Tolfa tra Cerveteri e Tarquinia e nelle Colline metallifere alle spalle di Vetulonia, e daranno un’eccezionale spinta propulsiva allo sviluppo di queste città. Un aspetto decisivo nella selezione delle nuove sedi risulta la vicinanza ad approdi costieri o fluviali, necessari ai contatti di natura commerciale, anche se si preferiranno siti non localizzati direttamente sulla costa: l’unica città etrusca costiera è Populonia, sorta in un luogo strategico ai fini del collegamento con le miniere di ferro dell’isola d’Elba; piuttosto, sulla linea di costa sorgeranno centri-satellite afferenti ai nuclei principali, come è probabilmente il caso per Torre Valdaliga sopra Civitavecchia, avamposto costiero per il nucleo di Tarquinia.
I grandi nuclei protourbani, che assumono caratteri definiti dal IX secolo a.C., risultano assai più densamente abitati rispetto ai villaggi della tarda età del Bronzo, dal momento che in essi viene a raccogliersi la popolazione prima capillarmente sparsa sul territorio: migliaia di abitanti, probabilmente, anche se fare stime demografiche, all’attuale stato delle conoscenze, risulta difficile e rischioso. I pianori su cui si sviluppano questi nuclei non risultano tuttavia integralmente abitati, quanto piuttosto interessati da un popolamento per “quartieri” nei quali vivono diversi gruppi parentelari o “territoriali”: contrade caratterizzate da una cultura omogenea che consente di considerarle parti costitutive del nucleo protourbano “sinecistico”, ma che appaiono separate tra loro da ampi spazi lasciati liberi da strutture abitative e probabilmente occupati da recinti per il bestiame e da colture agricole. È verosimile che questa situazione sia da interpretarsi anche come il segno rivelatore di una pianificazione in previsione dei futuri sviluppi delle “comunità”: risulta in tal senso indicativo che l’incremento demografico che questi nuclei conosceranno a partire dal IX secolo a.C. provocherà un aumento della densità del popolamento e non l’estensione dell’area di abitato, i cui limiti non verranno superati neppure dalle città di epoca storica nei momenti del loro massimo sviluppo. Il notevole livello di pianificazione di questi centri protourbani è altresì mostrato dalla dislocazione delle necropoli in aree esterne all’abitato, perlopiù sui dossi delle colline circostanti. Del resto, non è possibile spiegare l’abbandono di decine di villaggi in piena fioritura e l’accentramento di migliaia di abitanti in una nuova sede senza presupporre l’esistenza di un programma ben preciso, dettato dalla volontà di organismi politici in grado di imporre le proprie decisioni, anche con la forza, alle singole comunità di villaggio; ed è verosimile che questo netto mutamento dell’occupazione territoriale sia ricollegabile ad un processo di parcellizzazione e privatizzazione dei terreni agricoli, connesso al presumibile aumento di estensione dei comprensori territoriali facenti capo ai singoli centri protourbani, che arrivano a toccare ampiezze superiori ai 1000 chilometri quadrati. Distretti territoriali, dunque, di gran lunga superiori alle necessità di sopravvivenza delle popolazioni, e nei quali è da leggere una tendenza all’accaparramento dei mezzi di produzione, in particolare delle terre fertili, in contraddizione con l’ideologia comunitaria tipica della tribù, innescando una dinamica di differenziazione sociale che costituisce il presupposto fondamentale alla nascita di un ceto aristocratico che tenderà ad emergere nel corso dell’VIII secolo a.C.
La cultura materiale della prima età del Ferro in Etruria non reca traccia di differenze economiche e di status sociale, mostrando anzi l’apparenza di una struttura del tutto egualitaria. Le strutture abitative sono capanne con alzato in materiali deperibili (mattoni crudi, legno, paglia), a pianta ovale, rettangolare allungata o quadrangolare, come quelle scavate dalla Fondazione Lerici a Tarquinia, nell’area dove sorgerà in età arcaica la necropoli dei Monterozzi: di queste semplici strutture restano i solchi perimetrali, scavati direttamente nel banco di tufo, e le buche per l’infissione dei pali destinati a sorreggere il tetto, mentre per la ricostruzione dell’alzato si rivela prezioso il confronto con le urne cinerarie a capanna in uso in Etruria tra IX e VIII secolo a.C.; allo stato attuale delle conoscenze, negli abitati noti non appaiono luoghi destinati allo svolgimento di cerimonie religiose o di attività pubbliche, evidentemente ancora ospitate all’interno delle strutture abitative.
Assai meglio noti degli abitati sono i sepolcreti, in cui risulta quasi esclusivo nel IX secolo a.C. il rito incineratorio, affermatosi tra la fine del II e gli inizi del I millennio a.C. in un’ampia area della penisola che comprende l’Italia settentrionale e il versante tirrenico fino a parte della Campania. Le tombe sono a pozzetto, scavate nel terreno vergine, e contengono un corredo inizialmente limitato all’ossario e a pochi oggetti, che definiscono non lo status sociale o le condizioni economiche del defunto, ma semplicemente il suo sesso: fuseruole e fermatrecce per le donne, rasoi o spilloni per gli uomini e fibule per entrambi i sessi; pochi i vasi, generalmente miniaturizzati e molto rare, almeno all’inizio, le armi. Le ceneri del defunto sono generalmente raccolte in un vaso biconico (cioè della forma di due tronchi di cono uniti per le basi) in impasto, con una o due anse impostate nel punto di massima espansione del corpo; ornato da fasce di motivi geometrici (meandri, riquadri metopali, fasci di linee, denti di lupo ecc.) incisi a pettine, o caratterizzato da una più rara decorazione a lamelle metalliche applicate, può essere chiuso da una ciotola rovesciata o da un elmo in terracotta (più tardi in bronzo), imitazione di esemplari metallici, peculiarità questa riservata alle sepolture maschili.
Molto più rare (se ne calcola un’occorrenza per ogni 100 sepolture di media) sono le già citate urne a capanna, diffuse nell’Etruria costiera e nell’area meridionale interna: utilizzate per sepolture sia maschili che femminili, indicano certamente le deposizioni di figure importanti per le singole comunità, forse dei capi clan, dotati di autorità politica e religiosa; in alcuni casi un piccolo tetto compare sull’apice di elmi che coprono cinerari biconici, ad attribuire alla medesima persona le prerogative dell’armato, protettore della comunità, e quelle del titolare della casa, protettore della famiglia, che della comunità è cellula fondamentale.
Ma in generale l’immagine del corpo civico che ci restituiscono le necropoli etrusche del IX secolo a.C. è quella di una società di uguali: un’immagine della realtà verosimilmente deformata dall’ideologia funeraria e da spiegare forse con la rigidità del rito incineratorio; non deve essere un caso se l’emergere di differenziazioni nei corredi si accompagnerà a visibili trasformazioni del rito funerario con la graduale affermazione dell’inumazione, che diventerà pressoché esclusiva in Etruria meridionale nella seconda metà dell’VIII secolo a.C.
La facies culturale caratteristica dell’Etruria tra il IX e l’ultimo quarto dell’VIII secolo a.C. è detta villanoviana, dalla località di Villanova, nei pressi di Bologna, dove alla metà dell’Ottocento sono state scavate le prime sepolture a pozzetto con cinerario biconico: manifestazione di un gigantesco processo di colonizzazione, partito nel IX secolo a.C. dai centri dell’Etruria meridionale costiera e indirizzato sia a nord-est, con epicentri a Bologna e a Verucchio nella valle del Marecchia, sia verso il meridione, dove la cultura villanoviana si attesta nella Campania settentrionale intorno a Capua e nel Salernitano, con epicentro a Pontecagnano e propaggini più a sud fino al Vallo di Diano (Sala Consilina). Sono terre di eccezionale feracità, ed è proprio la ricerca di terreni agricoli a costituire il principale stimolo a questi movimenti migratori, anche se non manca l’interesse a controllare buoni approdi costieri sul Tirreno, come quelli del golfo di Napoli, o ad assicurarsi uno sbocco verso l’Adriatico attraverso il Po e il delta padano. È probabilmente in quest’ottica che si spiega la presenza di un’isolata enclave di cultura villanoviana, collegata all’area di Veio, anche a Fermo nelle Marche, destinata ad essere sommersa dai Piceni nel volgere di poche generazioni.
L’espansione territoriale e la conquista di un ruolo di primo piano negli scambi commerciali transmarini costituiscono elementi fondamentali per lo sviluppo dei principali centri etruschi nel corso dell’VIII secolo a.C. che annulla la sostanziale omogeneità caratteristica della prima fase della cultura villanoviana, dando origine sia ad una complessa stratificazione sociale che ad una profonda differenziazione tra le manifestazioni artistiche, economiche e culturali delle principali città dell’Etruria.
I centri più vivaci sono ancora quelli meridionali, Tarquinia, Veio e Vulci, centro quest’ultimo che viene ad assumere un ruolo di primo piano, mentre l’area dell’Etruria settentrionale resta più arretrata e marginale; cominciano a emergere con forza, verso la fine dell’età villanoviana Vetulonia e Cerveteri, città destinate a una straordinaria fioritura nel successivo periodo orientalizzante (730-580 a.C.); al di fuori dell’Etruria propria, i più attivi centri etruschi sono quelli della Campania, in primo luogo Pontecagnano.
Nell’Etruria meridionale, l’avvenuta appropriazione da parte dell’aristocrazia nascente di ampi territori agrari è segnalata dal sorgere di oppida dipendenti dai centri principali, con funzioni di occupazione e di controllo dell’agro, che evidenziano una sorta di inversione di tendenza rispetto al movimento che aveva condotto, tra la fine dell’età del Bronzo e gli inizi dell’età del Ferro, alla costituzione dei primi nuclei protourbani: in numerosi casi, infatti, queste cellule di popolamento organizzato vanno a stanziarsi proprio sui siti abbandonati a cavallo del X secolo a.C., come appare evidente nel distretto territoriale vulcente, con gli interessanti esempi di Pitigliano e Poggio Buco. A Vulci, a Veio, a Tarquinia, città interessate da un notevole incremento demografico, si erigono le prime opere difensive, fortificazioni ad aggere databili nel corso dell’VIII secolo a.C.: segnali di un più compiuto concetto di centro urbano, ma forse anche di una situazione di tensione e di conflitti connessa verosimilmente all’espansione territoriale aristocratica. Del resto la guerra, principale compito delle élite emergenti, assume sempre maggiore centralità anche nelle forme di autorappresentazione, come mostrano i corredi funerari del periodo, caratterizzati dalla crescente presenza di armi in bronzo e in ferro, impressionanti panoplie come quella della tomba AA1 della necropoli dei Quattro Fontanili di Veio, databile intorno alla metà dell’VIII secolo a.C.
Accanto alle armi, i corredi funerari riconducibili alla nascente aristocrazia mostrano una crescente esibizione di beni di prestigio, vasellame in bronzo e in argilla di produzione locale e oggetti di importazione, di origine fenicia ed euboica soprattutto, non solo nelle sepolture maschili, ma anche in quelle femminili; in queste ultime, accanto agli oggetti tradizionalmente rappresentativi dei compiti della matrona lanifica, come il fuso o le fuseruole, compaiono gioielli sempre più fastosi, destinati a sottolineare il ruolo economico e il contributo delle donne alla crescita dei beni familiari attraverso il matrimonio. Il matrimonio costituisce del resto uno dei principali strumenti attraverso i quali è possibile stabilire contatti ed alleanze di natura commerciale tra comunità anche distanti tra loro, come dimostra una celebre tomba di Vulci, databile intorno agli inizi dell’VIII secolo a.C., nella quale sono stati ritrovati dei bronzetti sardi (tra cui una statuetta raffigurante probabilmente un sacerdote), parte della dote di una ricca donna sarda andata sposa ad un aristocratico etrusco: un esempio dei vivaci rapporti tra la Sardegna, che vanta già una tradizione secolare nelle attività minerarie e metallurgiche, e i centri etruschi, in particolare quelli a più spiccata vocazione mineraria, come Vetulonia.
Ma i contatti commerciali e culturali più significativi per le città etrusche, sempre più proiettate verso il mare, sono quelli con la marineria fenicia e soprattutto con i naviganti greci, provenienti in particolare dall’isola di Eubea. Tali rapporti sono gestiti direttamente dai vertici della società etrusca, assumendo diverse forme, tra le quali va segnalata quella dell’acquisizione di rapina, della pirateria, elemento sostanziale della talassocrazia tirrenica: secondo la testimonianza fornita dalle fonti greche, la pirateria etrusca è già un pericolo nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., ed è un mare infestato di pirati tirrenici quello che devono affrontare i coloni euboici per fondare l’apoikia di Naxos nel 736 a.C. (Eforo in Strabone, Geografia, VI, 2, 2). I contatti con il mondo greco, diventati più intensi dopo la metà del secolo, a seguito dello stanziamento dei primi coloni a Pitecusa e a Cuma, fanno sì che giungano in Etruria non solo oggetti di prestigio, tra cui ceramiche tardogeometriche di argilla figulina, come coppe da vino del tipo a chevrons o con metope ad uccello, o l’imponente cratere di fabbrica euboica rinvenuto a Pescia Romana, avamposto costiero di Vulci; ma anche saperi tecnici, ideologie, modelli culturali, come lo stesso modello della polis greca, di notevole importanza per la definizione della città in Etruria, intesa anche come luogo della differenziazione sociale, della divisione e della specializzazione del lavoro e dell’incontro tra domanda e offerta di beni di prestigio.
L’arrivo in Italia di ceramisti greci, che si stanziano anche nei centri tirrenici più interessati ai loro prodotti, sarà di stimolo alla produzione locale di ceramica fine dipinta, per la quale occorrono specifiche competenze tecniche e l’uso di una attrezzatura più sofisticata, come il tornio veloce: è in virtù di questa evoluzione se la produzione ceramica esce dal novero delle attività normalmente praticate all’interno dell’unità domestica per diventare un lavoro autonomo: essa diventa elemento costituente della fioritura artigianale dei centri urbani etruschi, sollecitata dalle esigenze autorappresentative dell’aristocrazia, che investe il surplus derivante dalle attività commerciali nell’acquisto di beni che sono moltiplicatori del suo potere e del suo prestigio: nelle città si stabiliscono botteghe di orefici, bronzisti, artigiani dell’avorio e dei tessili di pregio, che si inseriscono a pieno titolo nel tessuto sociale, incrementandone la mobilità.
Ma dalla Grecia arrivano anche le forme ideali e i modelli culturali, dall’alfabeto calcidese della colonia di Cuma, adottato in Etruria sul finire del secolo, alle idee sulla religione e le divinità, fino al modello del consumo cerimoniale del vino (già prodotto e consumato in Etruria a partire almeno dal IX secolo a.C.) nel simposio, che diventerà, nelle mani dell’aristocrazia etrusca, uno straordinario strumento di autorappresentazione. Come recenti scavi di abitato stanno mettendo in luce, è in questi nuclei urbani in piena espansione che sul finire del secolo verrà lentamente a definirsi un’architettura del potere, con edifici in legno di grandi dimensioni, articolati in più ambienti e preceduti da portici: residenze regali, che ospitano momenti cerimoniali afferenti alle sfere del sacro e del politico, e che contribuiscono a rendere la città lo specchio di una società in trasformazione.