La civilta islamica: teoria fisica, metodo sperimentale e conoscenza approssimata. Ingegneria
Ingegneria
Nel mondo islamico la storia dell'ingegneria civile e meccanica copre un campo vastissimo e non è facile trattarla adeguatamente in modo conciso. Il nostro intento è quello di offrire un quadro sufficientemente accurato dell'ampiezza e dell'importanza dei progressi realizzati, in questo campo, dagli ingegneri musulmani in risposta ai bisogni della società del loro tempo e di illustrare i numerosi casi in cui essi hanno contribuito con il loro lavoro allo sviluppo dell'ingegneria moderna. Saremo quindi costretti a compiere alcune scelte: in primo luogo, e senza addentrarci in una discussione approfondita del suo esatto significato, daremo per scontato che il termine 'ingegneria' presupponga un certo grado di complessità tecnica. Così, nel campo dell'ingegneria civile non saranno prese in considerazione le strutture di piccole dimensioni, come le case di abitazione o i ponti di breve ampiezza, mentre in quello dell'ingegneria meccanica non ci occuperemo né delle macchine belliche né dei congegni il cui funzionamento richieda l'uso frequente e ripetuto della mano umana. Saranno quindi esclusi dalla nostra trattazione gli utensili manuali, le armi personali o i macchinari tessili. L'unica eccezione riguarda gli strumenti di misurazione topografica o astronomica, a causa delle conoscenze matematiche necessarie per fabbricarli e per usarli.
In molti casi non è stato possibile stabilire con certezza i luoghi e le date della scoperta di alcuni tipi di macchine o di tecniche. Non abbiamo intenzione di dedicare molto spazio alle questioni riguardanti le origini di una particolare invenzione, soprattutto quando sia stato accertato che esse risalgono a un periodo precedente alla diffusione della religione islamica, ossia prima del VII sec. d.C. Ci limiteremo a fornire la data e la località di provenienza, indicando quanto di congetturale sia contenuto in esse e l'esistenza di eventuali alternative. Notiamo a questo proposito che molte invenzioni preislamiche hanno avuto origine nel Medio Oriente, dove numerosi imperi si erano succeduti prima dell'avvento dell'Islam.
Il Medioevo islamico ha prodotto una civiltà ricca e dinamica, la cui prosperità fu in gran parte legata a uno sviluppo tecnologico che contribuì notevolmente all'aumento della produzione di materie prime e prodotti finiti. Inoltre, la domanda di strumenti scientifici e la necessità di fornire occasioni di svago o di godimento estetico alle classi dominanti stimolarono la formazione di un'importante tradizione nel campo della meccanica di precisione, basata sull'uso di delicati meccanismi e di dispositivi di controllo ad alta sensibilità. Poiché lo spazio disponibile non ci consente una trattazione approfondita delle interazioni tra tecnologia e società, il contributo degli ingegneri allo sviluppo della civiltà islamica sarà illustrato attraverso esempi specifici. Analogamente, il contributo islamico allo sviluppo dell'ingegneria moderna sarà esemplificato in singoli casi di trasferimento di sapere tecnologico.
Irrigazione e approvvigionamento idrico
Anche se, per maggiore chiarezza, è consigliabile suddividere il campo dell'ingegneria civile nel mondo islamico in diverse sezioni, in realtà gran parte di questo argomento può essere in qualche modo ricollegata ai problemi relativi all'irrigazione e all'approvvigionamento idrico: le dighe erano costruite per contenere o deviare l'acqua destinata all'irrigazione, i ponti per attraversare i canali, mentre le tecniche topografiche si svilupparono allo scopo di allineare correttamente canali e particolari condotte note come qanāt. Le macchine per il sollevamento dell'acqua, descritte nel capitolo sull'ingegneria meccanica, erano ovviamente un elemento fondamentale di molti sistemi di ingegneria idraulica. Per il momento ci limiteremo alla descrizione dei principali sistemi di irrigazione e delle tecniche utilizzate per trasportare l'acqua nei campi e negli agglomerati urbani.
Esistono quattro principali sistemi d'irrigazione. Il metodo dei bacini, utilizzato in Egitto dall'Antichità fino a tempi relativamente recenti, consiste nel livellare ampi appezzamenti di terreno adiacenti a un fiume o a un canale e nel circondarli con un argine. Quando il livello del fiume raggiunge una certa altezza, si praticano delle aperture negli argini, per permettere all'acqua d'inondare i campi; trascorso un tempo sufficiente a lasciar depositare il sedimento fertile sul terreno, si fa di nuovo defluire l'acqua in eccesso nel fiume. L'irrigazione permanente è un metodo che consente d'irrorare le coltivazioni in modo costante durante la stagione di crescita, per mezzo di una rete di piccoli canali che copre l'intera estensione coltivata. L'acqua proveniente dall'arteria principale ‒ un fiume, un canale di grandi dimensioni o una qanāt ‒ percorre un canale di alimentazione, poi una serie di canali d'irrigazione, giungendo fino ai campi coltivati. Il metodo d'irrigazione a terrazze, utilizzato nelle regioni collinari, consiste nella costruzione di una serie di terrazze digradanti sul fianco di una collina, l'acqua proviene da cisterne di raccolta dell'acqua piovana, da pozzi, da sorgenti e a volte da una qanāt. Il metodo degli uadi sfrutta le rare precipitazioni che si verificano nelle regioni abitualmente aride. Esso consiste nell'immagazzinare l'acqua dei temporali per mezzo di argini, allo scopo d'irrigare i campi adiacenti ai corsi d'acqua. La celebre diga di Ma᾽rib, nello Yemen, rappresenta il punto focale di un sistema di questo tipo. A partire dalla sua costruzione, nell'VIII sec. a.C., la diga fu innalzata in fasi successive, non per immagazzinare l'acqua per lunghi periodi, ma per innalzare il livello di piena dello uadi, allo scopo d'irrigare un territorio sempre più vasto attraverso una rete di canali che usava lo stesso uadi come canale di drenaggio; si pensa che il crollo finale della diga si sia verificato circa venticinque anni prima della nascita di Maometto. Con questo stesso metodo d'irrigazione, i Nabatei svilupparono tra il II sec. a.C. e il I sec. d.C. una prospera agricoltura nella Palestina meridionale e in Giordania. A differenza dello Yemen, dove il sistema dipendeva da una singola diga di grandi dimensioni, i Nabatei costruirono migliaia di piccoli sbarramenti lungo il corso di diversi uadi, per deviare o accumulare l'acqua durante il brevissimo periodo ‒ una o due settimane l'anno ‒ in cui non erano a secco.
Tutti questi metodi d'irrigazione hanno avuto origine nell'Antichità e si può affermare che nessuna tecnica radicalmente nuova sia stata introdotta in questo campo dai tempi degli Egizi e dei Babilonesi. D'altronde, difficilmente avrebbe potuto essere altrimenti: infatti, il problema di trattenere l'acqua, trasportarla fino ai campi coltivati e drenare quella in eccesso è rimasto fondamentalmente lo stesso. Tuttavia, l'irrigazione, e in particolare l'irrigazione permanente, è un ramo dell'ingegneria civile che ha sempre richiesto elevate capacità tecniche e amministrative. La costruzione di dighe, canali e qanāt, le questioni riguardanti il flusso e il controllo delle acque e i complessi problemi di misurazione a queste connessi rappresentano una prova particolarmente impegnativa per gli esperti. Tra una regione e l'altra esistono sempre differenze nelle condizioni climatiche, idrogeologiche e topografiche che obbligano gli ingegneri ad applicare il proprio sapere e la propria esperienza alla ricerca della soluzione ottimale in ogni particolare situazione.
La presenza di grandi città è considerata una delle principali caratteristiche della civiltà islamica, il cui sviluppo era certamente legato a grandi centri come Baghdad, Cairo o Cordoba. Tuttavia, è altrettanto evidente che la vita di questi grandi agglomerati urbani era resa possibile soltanto dall'esistenza di una prospera agricoltura. Nel caso delle città fondate prima dell'avvento dell'Islam, come Baghdad, Bassora e Shiraz, gli ingegneri islamici si dedicarono alacremente a sviluppare i sistemi già esistenti o a introdurre tecniche totalmente nuove.
Sin dagli inizi del califfato, i sistemi d'irrigazione e di distribuzione dell'acqua costituirono uno dei principali campi d'intervento dello Stato. La fondazione di Bassora, avvenuta durante il califfato di ῾Umar (r. 634-644), fu accompagnata dallo scavo simultaneo di due grandi canali che collegavano la città al Tigri, i fiumi al-Ubulla e Ma᾽qil. La città poté così disporre di abbondante acqua potabile e i due canali furono alla base dello sviluppo agricolo della regione di Bassora.
῾Umar inaugurò inoltre una politica volta a favorire la coltivazione dei terreni improduttivi, attraverso la loro assegnazione a quanti si dichiaravano disposti a dissodarli. Questa politica, ripresa successivamente dagli Omayyadi, permise lo sfruttamento di vaste estensioni di terreno improduttivo, grazie alla costruzione di una rete di canali da parte dello Stato o dei privati. I governatori nominati dagli Omayyadi realizzarono numerose opere volte a impedire la formazione di nuove paludi e a bonificare quelle già esistenti, con la costruzione di dighe che regolavano il flusso delle acque. Le fonti arabe originali contengono dettagliate descrizioni dei sistemi d'irrigazione realizzati in diverse regioni dell'Iraq e della Siria attuali, come quelle di Bassora, Kufa, Wasit, al-Bata᾽, Raqqa e molte altre.
La stessa politica fu seguita dagli Abbasidi dopo la loro ascesa al potere, avvenuta nell'VIII secolo. Il sistema d'irrigazione esistente fu notevolmente ampliato, soprattutto per venire incontro alle esigenze della nuova città di Baghdad, che nel suo momento di massimo sviluppo raggiunse una popolazione di 1.500.000 abitanti. Fu estesa la rete di canali tra il Tigri e l'Eufrate, fu prolungato il grande canale Nahrawān a est del Tigri e furono scavati due nuovi sistemi d'irrigazione per sfruttare le acque dei fiumi ῾Uzaym e Diyala.
In Spagna, i Romani e i Visigoti avevano realizzato alcune opere di modeste dimensioni, ma furono gli Arabi a costruire i grandi sistemi d'irrigazione lungo il Guadalquivir e nella provincia di Valencia. Gli emiri di al-Andalus, come molti dei loro sudditi, erano di origine siriaca ed esistono molte analogie tra le condizioni climatiche e idrogeologiche di alcune zone della Spagna meridionale e quelle della Siria. Così, non è affatto sorprendente che i metodi di controllo e le tecniche d'irrigazione impiegati nella regione di Valencia, per esempio, ricalcassero quelli utilizzati nell'oasi di Ghuta intorno a Damasco.
Nel mondo islamico esistevano molti altri sistemi d'irrigazione, dalle immense reti di canali dell'Egitto e della Mesopotamia fino ai pozzi che fornivano acqua ai campi dei villaggi più sperduti. Uno dei sistemi più estesi era quello che circondava la città di Marw, posta sul fiume Murghab, nel Khurasan, in grado d'irrigare una vastissima regione agricola. Nel X sec., il sovrintendente dei canali di Marw era considerato più potente del prefetto cittadino e aveva alle sue dipendenze un'armata di diecimila lavoratori. Ancora più imponente era però il sistema d'irrigazione della provincia di Sughd, nell'attuale Uzbekistan. La fonte principale della sua fertilità era il fiume Sughd, chiamato ora Ziravsan, che attraversa le due grandi città di Samarcanda e di Bukhara. Al culmine della sua prosperità, durante i secc. IX e X, questo paese godeva di una ricchezza e di una fertilità senza confronti, grazie a un'agricoltura sostenuta da una vastissima rete di canali che si estendeva per un raggio di molte miglia intorno alle due città.
Considerato l'elevato numero di uomini richiesto dalla costruzione, dalla manutenzione e dal controllo dei grandi sistemi di irrigazione, era inevitabile che la maggior parte di queste imprese fosse controllata dallo Stato, benché la pratica del subappalto fosse piuttosto diffusa. Ci sono giunti molti trattati in arabo riguardanti il controllo e la supervisione dei lavori e alcuni di essi sono dedicati alle opere di scavo e di manutenzione dei canali. In particolare, è interessante un capitolo di un trattato scritto in Iraq nell'XI sec., che ci fornisce anche preziose informazioni sulle opere d'irrigazione in generale. Il testo contiene le indicazioni necessarie per calcolare la quantità di terriccio che doveva essere asportata nello scavo di canali di diverse lunghezze, ampiezze e profondità e per convertire questi dati in ore di lavoro. L'autore consiglia di rinforzare gli argini con fasci di canne e indica le ore di lavoro necessarie per la loro preparazione e messa in opera. Per lo scavo vero e proprio, occorreva calcolare dapprima il numero degli scavatori (chiamati 'pale') e conseguentemente quello dei portatori necessari per ciascuna 'pala', che dipendeva dalla distanza a cui occorreva trasportare il materiale di riporto. A questi costi si aggiungevano le spese generali per i lavori ausiliari e la supervisione. Ogni mansione aveva il suo prezzo, cosicché era possibile stilare alla fine una lista dei costi che forniva una stima del costo complessivo dei lavori e serviva da guida nel reclutamento della manodopera. Se invece il progetto era subappaltato, la lista dei costi costituiva il documento in base al quale si decideva l'assegnazione del contratto e si calcolavano le misurazioni e i pagamenti conseguenti. Come si vede, i metodi di controllo quantitativo sono rimasti gli stessi da secoli. Da questo trattato, e da altre fonti, possiamo farci un'idea piuttosto precisa di un'impresa statale di grandi dimensioni, che impiegava un esercito di burocrati, ingegneri e sorveglianti, incaricati di dirigere una massa imponente di lavoratori, il cui rendimento e la relativa retribuzione erano già rigidamente stabiliti in anticipo.
In genere non è facile separare l'irrigazione dalla fornitura idrica alle città, dato che entrambe dipendono dalle stesse opere idrauliche. Una diga, per esempio, può servire a soddisfare sia i bisogni di una città sia le esigenze degli agricoltori, attraverso due distinti canali di approvvigionamento; in altri casi, i centri urbani erano serviti da canali, derivati da quello principale, che conducevano l'acqua in cisterne poste all'interno o immediatamente fuori le mura cittadine, le quali alimentavano a loro volta un sistema di condutture o di canali a cielo aperto che rifornivano i bagni, le fontane, le costruzioni riservate alle abluzioni rituali, gli edifici pubblici e privati e i giardini. Nelle immediate vicinanze della città di Qayrawan si può ancora ammirare un magnifico esempio di questi bacini di riserva artificiali; si tratta di due grandi cisterne, costruite nel 248/862-863, collegate tra loro e destinate a ricevere l'acqua dello uadi Merj al-Lil durante le piene. Benché possano apparire circolari, sono in effetti strutture poligonali, la più larga delle quali ha un diametro di quasi 130 m e la più piccola di 37,4 m. La cisterna più piccola riceve l'acqua dello uadi e serve da vasca di sedimentazione; un'apertura circolare praticata a un'altezza di diversi metri dal fondo la collega alla cisterna maggiore, che ha una profondità di 8 m circa. All'uscita da questa seconda cisterna, l'acqua era fatta decantare una seconda volta all'interno di due serbatoi coperti di forma oblunga.
Uno dei metodi più efficaci per rifornire d'acqua le regioni prive di corsi perenni è la qanāt, una condotta sotterranea quasi orizzontale che conduce l'acqua da una falda acquifera fino ai luoghi interessati. Questa tecnica, che ha avuto origine probabilmente nell'Iran settentrionale durante l'VIII sec. a.C., era diffusissima durante il Medioevo in tutto il mondo islamico, dove è tuttora in uso. In effetti, alcune recenti stime indicano che il 75% dell'acqua attualmente utilizzata in Iran proviene da un enorme numero di qanāt, la cui lunghezza totale supera circa 160.000 km. La sola città di Teheran ne possiede ben trentasei, tutti provenienti dalle colline dell'Elburz, distanti da 13 a 26 km circa, con una portata di circa 30.000 m3 d'acqua al giorno in primavera e non minore di 15.000 m3 al giorno in autunno. Fuori dall'Iran, le qanāt sono ancora utilizzate in alcune zone del mondo arabo, e principalmente nell'area sudorientale della Penisola Arabica e nell'Africa del Nord.
I califfi omayyadi e abbasidi diedero un grande impulso al sistema delle qanāt. Il califfo al-Mutawakkil (r. 847-861) fece costruire un sistema di questo tipo per rifornire d'acqua il suo nuovo palazzo di Samarra. Scavi recenti hanno mostrato come l'acqua fosse prelevata dalla falda acquifera dell'alto corso del Tigri e portata a Samarra attraverso un sistema di qanāt lungo più di 480 km.
Abbiamo un testo, Inbāṭ al-miyāh al-ḫāfiya (Sul modo di scoprire le acque nascoste) di al-Karaǧī, che è un trattato tecnico scritto intorno al 1000 d.C., con istruzioni piuttosto dettagliate sui metodi per stabilire il livello freatico, sugli strumenti di misura, la costruzione delle condotte, il loro rivestimento, i metodi per proteggerle dall'usura e mantenerle pulite ed efficienti. La costruzione delle qanāt era affidata alle mani di un corpo di esperti (muqannī) e i segreti di questa professione per lo più erano tramandati oralmente di padre in figlio. Occorreva stabilire prima di tutto il punto di sbocco delle qanāt (i campi da irrigare, il centro urbano a cui fornire acqua potabile o entrambe le cose) e la probabile locazione delle falde acquifere. Una delle doti principali di un buon muqannī era infatti la sua capacità d'individuare, attraverso la ricerca di tracce di infiltrazioni nei conoidi di deiezione e di impercettibili mutamenti della vegetazione, il punto migliore in cui scavare il pozzo di prova. Quando gli scavatori raggiungevano lo strato impermeabile, i lavori erano sospesi per alcuni giorni, durante i quali il muqannī effettuava una stima del potenziale rendimento del pozzo, estraendone quantità prestabilite di acqua e osservando con attenzione ogni eventuale abbassamento del livello idrico; se necessario, si procedeva allo scavo di altri pozzi per essere certi di aver raggiunto la falda acquifera e si sceglieva come 'pozzo madre' quello che assicurava il miglior rendimento. La tappa successiva consisteva nello stabilire il percorso, la pendenza e l'esatto punto di sbocco delle qanāt ‒ un compito affidato al topografo o muqannī anziano. Il percorso era scelto in base alla conformazione del terreno e, in alcuni casi, tenendo conto della volontà dei suoi proprietari. Per iniziare il rilievo, si calava nel pozzo madre una lunga fune, fino a farle toccare la superficie dell'acqua, e si segnava su di essa il punto in cui fuoriusciva dal terreno. Il topografo sceglieva quindi lungo il percorso stabilito il punto dove scavare il primo pozzo di ventilazione, a una distanza compresa tra i 20 e i 40 m dal pozzo madre. Un aiutante reggeva sul posto un'asta in posizione verticale, mentre il topografo misurava il dislivello con uno strumento appropriato (oggi si usa uno strumento ottico ma anticamente si adoperava uno degli apparecchi descritti nella parte dedicata alla topografia). Quindi si faceva un altro segno sulla fune, in corrispondenza della misura riportata sull'asta; la distanza tra questo secondo segno e l'estremità inferiore della fune indicava la profondità del primo pozzo di ventilazione. L'operazione era ripetuta lungo tutto il percorso, segnando la fune in corrispondenza di tutti i pozzi di ventilazione, fino a esaurirne la lunghezza. Era così raggiunto un punto del terreno posto allo stesso livello della superficie dell'acqua nel pozzo madre. Per l'ubicazione dello sbocco delle qanāt, si sceglieva un punto collocato più in basso rispetto a questo livello, ma più in alto rispetto ai campi da irrigare; si divideva la distanza tra l'altezza dello sbocco e quello del livello dell'acqua nel pozzo madre per il numero dei pozzi di ventilazione e la si aggiungeva alla profondità di ciascuno di essi, precedentemente misurata. In questo modo si determinava la pendenza del condotto, compresa in genere tra 1/1000 e 1/500.
Portata a termine questa rilevazione, il topografo faceva scavare un certo numero di pozzi di orientamento, a circa 200 m di distanza l'uno dall'altro. La fune dove erano riportate le lunghezze di ciascun pozzo di ventilazione era consegnata al muqannī che, con l'ausilio di una squadra di operai, dava inizio allo scavo della condotta attraverso il conoide alluvionale, cominciando dallo sbocco. All'inizio la condotta era un canale a cielo aperto, che però si trasformava ben presto in un tunnel. Un'altra squadra era incaricata di scavare a monte i pozzi di ventilazione, mentre i manovali estraevano dai pozzi già realizzati il materiale di scavo. Sul suolo della condotta erano collocate due lampade a olio sempre accese, che servivano al muqannī per mantenere l'allineamento e anche per segnalare eventuali carenze di ossigeno ed evitare rischi di soffocamento per gli scavatori. A mano a mano che il tunnel si avvicinava al pozzo madre, il muqannī doveva fare la massima attenzione a calcolare bene l'altezza del livello dell'acqua nel pozzo, per evitare di essere spazzato via con i suoi uomini da un'ondata improvvisa. Come si vede, la costruzione delle qanāt era una variante della difficile e rischiosa professione del minatore. La qanāt può essere considerata una delle invenzioni più riuscite e più longeve della storia, poiché è utilizzata senza interruzioni da oltre 2500 anni.
Dighe
La presenza di dighe è richiesta quasi in ogni sistema idraulico, a prescindere dalle loro diverse funzioni. Nel metodo d'irrigazione mediante gli uadi, le dighe servono, come abbiamo visto, per trattenere l'acqua riversata dai violenti ma sporadici rovesci, in modo da innalzare il livello delle piene al di sopra di quello dei campi circostanti, ai quali potrà essere trasportata sotto l'azione della gravità. Nell'irrigazione perpetua ci si serve delle dighe per deviare l'acqua di fiumi e ruscelli nella rete di canali. La raccolta delle acque di un fiume in un bacino chiuso da dighe permette di esercitare un maggiore controllo sulla loro disponibilità nel corso dell'anno e di inviare l'acqua ai campi o alle città mediante la forza di gravità. Un ulteriore vantaggio è quello di disporre di un dislivello sufficientemente elevato e costante, che può essere sfruttato per la produzione di energia idrica, cosa che non avverrebbe nel caso di un corso d'acqua non regolato.
Esistono due tipi fondamentali di sbarramenti: quelli a gravità e quelli ad arco. I primi, come indica il loro nome, fanno affidamento sul loro stesso peso per contrastare la pressione dell'acqua. Per aumentarne la resistenza, si aggiungono a volte dei contrafforti di sostegno alla parete a valle. La solidità delle fondazioni riveste, come in tutte le opere idrauliche, la massima importanza, poiché l'azione erosiva dell'acqua rischia di comprometterne la stabilità e, con essa, quella dell'intera struttura. Le dighe ad arco sono progettate per resistere alla pressione dell'acqua e del limo grazie alla loro struttura ad arco orizzontale e sono realizzabili soltanto nei casi in cui la loro lunghezza sia limitata rispetto alla loro altezza e le pareti della vallata siano composte da rocce in grado di resistere alla forte spinta laterale. Tranne rarissime eccezioni, prima dell'Età moderna non furono costruite vere e proprie dighe ad arco.
La scelta dei materiali da costruzione era determinata in parte dalle caratteristiche del progetto e in parte dalla loro reperibilità. Le dighe di terra erano le più comuni e sono tuttora molto diffuse. Esse svolgono adeguatamente la loro funzione, purché siano dotate di un nucleo di argilla o di altro materiale impermeabile e di una sufficiente capacità di deflusso delle acque in eccesso e non superino una certa altezza. In alcune zone, come nell'Iraq meridionale, le dighe di terra sono presenti un po' ovunque, in quanto erano (e sono tuttora) perfettamente adeguate al loro scopo, ossia deviare l'acqua dei fiumi nei canali di irrigazione, soprattutto dove il trasporto di grandi quantità di pietra avrebbe avuto costi proibitivi. In altre zone, dove erano necessarie dighe molto alte, furono realizzate invece strutture murarie, costruite utilizzando pietre squadrate, unite a secco o a malta, pietre irregolari o cemento. Un metodo piuttosto diffuso consisteva nella costruzione di due pareti di muratura, separate da un'intercapedine riempita di materiale più economico, come terra o pietrisco. Se il progetto della diga prevedeva il deflusso dell'acqua in eccesso dall'alto, era necessario realizzare almeno la cresta della diga di pietra o cemento e non di terra, che sarebbe stata rapidamente erosa dall'azione dell'acqua.
Le dighe costruite in epoca romana o sasanide furono conservate con cura in epoca islamica; tuttavia, la richiesta di acqua per scopi agricoli o energetici crebbe così rapidamente che nelle regioni più densamente abitate le vecchie dighe divennero ben presto insufficienti. L'estensione dei sistemi idraulici in Iraq, per esempio, portò alla realizzazione di molte nuove dighe. È possibile ancora oggi ammirare i resti della più imponente di queste opere, che aveva lo scopo di deviare le acque del fiume ῾Uzaym nel punto in cui questo lascia le colline di Harmin. Il corpo principale della diga è formato da una costruzione in muratura lunga 175 m circa, che alla sua estremità occidentale compie un angolo di 90° e prosegue per altri 55 m per formare uno degli argini del canale chiamato Nahr al-Batt. La diga ha un'altezza massima di oltre 15 m, che però si riduce rapidamente nelle parti laterali; in effetti, per i primi 45 m a partire dalla sua estremità orientale la diga ha un'altezza di soli 4 m. La sezione della sua parte centrale ha una forma chiaramente trapezoidale, con uno spessore di 3 m alla sommità e di 15 m alla base. La parete a monte è perfettamente verticale, mentre quella a valle è costruita a gradini, con una pendenza uniforme. La diga è realizzata con blocchi di pietra squadrati, uniti tra loro da grappe di piombo, colato direttamente nelle scanalature. Si tratta di una tecnica islamica piuttosto comune, che nel caso della diga di ῾Uzaym sembra aver sostituito completamente l'impiego della malta. La struttura non ha un andamento rettilineo ma, come si usava all'epoca, cerca di sfruttare nel modo più vantaggioso la conformazione del terreno.
In Iran l'Islam ha incrementato il numero di dighe del sistema sasanide. Fu costruita una nuova diga chiamata Pūl-i Bulaytī, nei pressi di Shustar sul fiume Karun, con lo scopo di fornire energia ai mulini, installati in tunnel scavati nella roccia su ciascun lato del canale. Un altro esempio è la diga-ponte di Dizful, impiegata per azionare un grande mulino ad acqua dotato di un meccanismo che innalzava l'acqua di 26 m e riforniva tutte le case della città. Il più grande costruttore della dinastia dei Buwayhidi, che detenne il potere reale in Iran e in Iraq dal 320/932 al 454/1062, fu ῾Aḍud al-Dawla. Tra le sue opere più significative vi è l'imponente diga chiamata Band-i Amīr, costruita intorno al 349/960 sul fiume Kurr nella provincia di Fars, tra Shiraz e Istakhr. Il geografo al-Muqaddasī, che osservò questa diga pochi anni dopo la sua costruzione, la descrisse con queste parole: "῾Aḍud al-Dawla ha chiuso il fiume tra Shiraz e Istakhr con un grande muro, rinforzato con il piombo. E l'acqua dietro il muro è aumentata di livello fino a formare un lago. Su di esso, su entrambi i lati, vi sono dieci ruote idrauliche, come quelle che avevamo visto nel Khuzistan, e sotto ogni ruota un mulino, e questa è oggi una della maggiori meraviglie di Fars. Poi [῾Aḍud] ha costruito una città. L'acqua scorre nei canali e irriga trecento villaggi" (Aḥsan al-taqāsīm fī ma῾rifat al-aqālīm, p. 444).
La diga, ancora esistente, è alta circa 10 m e lunga 75 m. È composta di solidi blocchi di pietra, che circondano un'intercapedine riempita di materiale di scarto. I blocchi sono tenuti insieme da sbarre di ferro inserite nel piombo. Sia al-Muqaddasī sia Ibn al-Balḫī concordano nell'affermare che le pietre erano state fissate con la malta, cosa che, oltre a tenere insieme la costruzione, avrebbe contribuito a renderla impermeabile. L'uso di "cemento temperato e sabbia setacciata" indica che gli ingegneri che avevano diretto i lavori erano consapevoli della necessità di un'accurata preparazione della malta. Ibn al-Balḫī afferma che "uno strumento di ferro non era in grado di scalfirla", ciò dimostra l'ottima qualità della malta e la solidità della diga nel suo complesso. Non è affatto sorprendente che abbia resistito tanto a lungo.
In Spagna esistono ancora molte dighe arabe, la maggior parte delle quali fu innalzata nel X sec., l'età d'oro del potere omayyade. A questo periodo risalgono, per esempio, i piccoli sbarramenti, chiamati azud, che punteggiano i 240 km del corso del Turia, un fiume che sfocia nel Mediterraneo a Valencia. Al riguardo è interessante notare che la parola spagnola azud ‒ derivata da al-sudd ‒, come moltissimi altri termini tuttora impiegati nel campo dell'irrigazione, siano di origine araba, a dimostrazione dell'influenza della tecnologia musulmana su quella spagnola. Nei dintorni di Valencia vi sono otto di queste piccole dighe, disposte lungo il fiume per 10 km, che alimentano il sistema di irrigazione locale. Alcuni canali trasportano l'acqua del fiume ancora più lontano, fino ai campi di riso della regione. Furono ovviamente gli Arabi a introdurre in Spagna questo tipo di coltivazione e Valencia rimane tuttora uno dei principali centri europei per la produzione del riso. Tutte e otto le dighe hanno caratteristiche simili, non sono molto alte e presentano una parete interna verticale e una esterna a gradini. Il nucleo è composto da una miscela di malta e pietrisco, contenuta da muri formati da grossi blocchi di pietra fissati a malta. Alcune chiuse, collocate nei canali d'uscita, sono utilizzate durante le normali operazioni per riversare nel fiume l'acqua in eccesso, ma di tanto in tanto sono aperte del tutto per liberare dal limo l'imbocco del canale. La presenza di queste chiuse di drenaggio è assolutamente indispensabile per impedire al fango che si accumula dietro la diga d'intasare l'imboccatura dei canali e il loro stesso letto. Gli azud sono dotati di fondazioni particolarmente solide, in quanto la struttura di muratura prosegue per 5 m circa nel letto del fiume ed è poggiata su diverse file di pali conficcati nel terreno. La presenza di fondazioni tanto massicce per questi sbarramenti di piccole dimensioni si spiega con la necessità di resistere alle ricorrenti inondazioni, durante le quali la portata del fiume si accresce di oltre cento volte. In queste occasioni, le dighe sono sommerse sotto 5 m d'acqua e devono sopportare l'urto non solo di questa, ma anche delle pietre, dei tronchi e dei detriti di ogni genere. Solamente la loro forma bassa e piatta, nonché la solidità e la profondità delle loro fondazioni hanno consentito alle dighe sul Turia di sopravvivere in queste condizioni per oltre un millennio.
Tra i molti problemi che i costruttori di dighe si trovano ad affrontare, uno dei più spinosi riguarda il deflusso dell'acqua in eccesso dalla cresta della diga, la cui caduta può, con l'andare del tempo, minare le fondazioni della parete a valle. Una diga musulmana sul fiume Segura, nei pressi di Murcia, ha adottato un'efficace soluzione del problema. La parete a valle presentava una vasta superficie, che è stata intelligentemente messa a frutto dai costruttori. L'acqua che deborda dalla cresta cade all'inizio verticalmente per un'altezza di 4-5 m fino a una piattaforma larga circa 8 m che corre intorno alla diga per tutta la sua lunghezza, in modo da dissiparne l'energia. L'acqua defluisce quindi lungo le sezioni piane o lievemente inclinate della parete esterna fino a giungere ai piedi della diga. In questo modo l'intera diga agisce come uno sfioratore e l'energia acquistata dall'acqua nella caduta è in gran parte dissipata, riducendo in modo considerevole i rischi di erosione delle fondazioni a valle. Da questo esempio ‒ ma se ne potrebbero citare molti altri ‒ si deduce che gli ingegneri musulmani possedevano una buona comprensione empirica delle leggi dell'idraulica.
Ponti
I ponti sospesi, sostenuti da cavi fatti di strisce di bambù intrecciate, esistevano già in Cina non più tardi del I sec. d.C., ma non sono rimaste tracce della loro esistenza nel mondo islamico occidentale o in Europa prima del Rinascimento. Questo non significa che non fossero usati; sarebbe strano, infatti, che un sistema così semplice ed efficace di superare i precipizi non fosse conosciuto nelle regioni dello Zagros, del Tauro o nelle zone montuose della Spagna e dell'Africa del Nord. Allo stesso modo, non esistono prove positive dell'esistenza di ponti a cantilever nel mondo islamico, se si eccettua l'Afghanistan, dove cominciarono a diffondersi a partire dal V sec. d.C., al più tardi. I ponti di questo tipo rappresentano un ottimo mezzo per attraversare le gole montane ma, essendo fatti di legno, hanno una durata piuttosto breve e sono scomparsi senza lasciare tracce, o sono stati sostituiti in molti casi da ponti più moderni.
In genere questi ponti sono formati da due basi di legno inserite in altrettante spalle di muratura fissate sui due fianchi della gola, sulle quali poggiano le travi longitudinali e trasversali destinate a sorreggere il piano stradale. Lo spazio centrale tra le due strutture aggettanti è colmato da una travatura orizzontale. Alcuni grandi ponti moderni d'acciaio, come quello ferroviario di Forth, in Scozia, sono costruiti ancora con lo stesso principio. Ibn Ḥawqal, vissuto nel X sec., ci ha lasciato una breve descrizione di un ponte di legno costruito sul fiume Tab, in Iran, "sospeso tra cielo e terra, a circa 10 cubiti (5,2 m) di altezza sulla superficie dell'acqua". Potrebbe trattarsi di un ponte sospeso, ma appare più probabile che fosse del tipo a sbalzo, dato che nel testo non si accenna alla presenza di corde.
Le fonti arabe contengono invece numerosi riferimenti ai ponti galleggianti, che in Iraq, per esempio, erano il mezzo più diffuso per attraversare i due fiumi e i canali più larghi. Nel X sec. esistevano due ponti galleggianti sul Tigri a Baghdad, uno dei quali, caduto in rovina, era stato però chiuso dalle autorità perché poco usato. Il geografo Ibn ǧubayr, verso la fine del XII sec., descrive un ponte di larghe barche sull'Eufrate, a Hilla, che aveva catene su entrambi i lati a forma di 'cilindri attorcigliati' assicurate agli ancoraggi di legno; inoltre menziona un altro ponte più largo, che attraversava un canale nei pressi di Baghdad. Ponti galleggianti attraversavano anche i fiumi del Khuzistan, una provincia iraniana confinante con l'Iraq, e il fiume Hilmand nel Sistan (corrispondente all'attuale Afghanistan occidentale). Sembra che un ponte galleggiante sia rimasto in funzione per lunghissimo tempo a Fustat (oggi Cairo vecchio). All'inizio del X sec., infatti, al-Iṣṭaḫrī menziona un ponte che collegava la città all'isola sul fiume e un altro che univa l'isola alla sponda opposta; circa due secoli dopo, al-Idrīsī descrive una situazione identica, precisando che il primo ponte poggiava su trenta barche e il secondo su sessanta.
Prima della comparsa dei moderni materiali da costruzione, la soluzione ideale per l'attraversamento dei corsi d'acqua e di ostacoli di altro tipo era rappresentata dall'arco di muratura. Pur avendo costi di costruzione relativamente alti, i ponti ad arco ben fatti possono durare per secoli senza interferire con il traffico fluviale come un ponte galleggiante o i piloni di un ponte di legno a molte campate. La loro longevità è dimostrata dalla sopravvivenza di molti ponti medievali, progettati in origine per il passaggio di uomini e bestiame, ma ugualmente in grado di sostenere il traffico moderno.
Molti ponti ad arco romani, ellenistici e sasanidi continuarono a essere utilizzati anche in epoca islamica e i geografi arabi inserirono nelle loro opere la descrizione di quelli più interessanti. I governanti musulmani, seguendo l'esempio dei loro predecessori, costruirono a loro volta numerosi ponti ad arco di buona fattura. Nelle zone in cui scarseggiava la pietra da costruzione di buona qualità, e in particolare in alcune zone dell'Iran, i ponti erano realizzati utilizzando mattoni cotti. Il geografo al-Qazwīnī (m. 682/1283) ci ha lasciato una descrizione grafica di un grande ponte ad arco, situato nella città di Idhaj, nel Khuzistan. Il ponte univa i due versanti di una valle normalmente asciutta, che durante le piene però si trasformava in un lago turbolento. Era stato ricostruito dal ministro di Rukn al-Dawla al-Ḥasan ibn Buwayh (m. 366/977), che aveva arruolato a tale scopo gli artigiani di Idhaj e di Isfahan. Il ponte era alto 150 cubiti (ḏirā῾), ossia circa 78 m, ed era formato da una singola arcata, rinforzata da caviglie di piombo e da grappe di ferro. Le scorie della lavorazione del ferro furono utilizzate per colmare lo spazio tra l'arco e il piano stradale. Un altro ponte di notevole interesse, costruito sul fiume Tab in Iran, fu visitato all'inizio del X sec. da al-Iṣṭaḫrī, il quale ci riferisce che il suo progetto era stato opera di un persiano, medico del governatore omayyade al-Ḥaǧǧāǧ (m. 95/714). Il ponte era sostenuto da un'unica arcata larga circa 80 passi (circa 60 m) e così alta da permettere il passaggio di un uomo in sella a un cammello, con un braccio alzato e un lungo stendardo in pugno. Tra le opere realizzate da Ibn Ṭūlūn, governatore dell'Egitto dal 254/868 al 270/884, vi era un ponte alquanto singolare. Un'alta strada sopraelevata, lunga circa 10 km, correva verso ovest a partire dal Nilo, all'altezza di Fustat e il ponte, sostenuto da 40 grandi archi, ne proseguiva il percorso. Lo scopo dell'opera era quello di permettere il passaggio delle truppe egiziane sopra il territorio allagato dalle piene del Nilo, per fronteggiare un eventuale attacco da ovest. In tutte le regioni dotate di un sistema d'irrigazione sviluppato, infine, i ponti ad arco erano spesso utilizzati per consentire l'attraversamento dei canali.
Edilizia
Nel primo secolo dell'era islamica furono costruiti numerosi edifici di grande bellezza: la Moschea di ῾Umar a Gerusalemme, la Grande Moschea di Damasco, le grandi moschee di Kufa e di Bassora e i palazzi nel deserto degli Omayyadi, per citare soltanto i più importanti. Una volta stabilita, questa splendida tradizione architettonica continuò a essere coltivata in tutto il mondo islamico, come dimostrano, per esempio, la Baghdad di al-Manṣūr, le grandi realizzazioni di Ibn Ṭūlūn in Egitto, la Grande Moschea di Cordoba, l'Alhambra di Granada, il complesso architettonico di Isfahan e così via. Anche un breve riassunto della storia dell'architettura islamica, cui sono stati dedicati innumerevoli volumi riccamente illustrati, oltrepassa di gran lunga i limiti di questo capitolo. Abbiamo quindi preferito concentrare la nostra attenzione sull'elemento fondamentale di qualsiasi edificio, ossia i materiali da costruzione.
I geografi arabi non trascurano quasi mai d'indicare quale tipo di materiale fosse stato utilizzato nella costruzione di una città o di un edificio: mattoni crudi (labin o ṭūb), mattoni cotti (āǧurr), pietra (ḥaǧar) o legno. Anche se quest'ultimo era molto più abbondante di oggi, la pratica di costruire con legno le strutture portanti di un edificio era piuttosto rara nel Medioevo, con alcune eccezioni. La città di Bukhara era formata quasi interamente di edifici di legno; le case della città di Siraf, sul Golfo Persico, erano fatte di teck, e il legno era largamente usato in alcune zone della Spagna. Ma l'esempio più significativo dell'impiego di questo materiale come elemento strutturale è rappresentato forse dalla Moschea di ῾Umar, la cui cupola è formata da due gusci indipendenti di legno, di cui uno, il più esterno, è ricoperto di lamine di piombo. In genere, tuttavia, si usava il legno, in aggiunta ad altri materiali, laddove era richiesta una particolare resistenza alle tensioni, come negli architravi delle porte e delle finestre o nelle travature dei tetti.
La scelta del materiale da usare in un determinato edificio dipendeva da molti fattori, come la sua reperibilità, la disponibilità di tempo e di denaro e la destinazione dell'edificio. Può essere interessante notare che per gli edifici religiosi si preferiva in genere la pietra, mentre per altri grandi edifici della stessa zona si potevano utilizzare materiali meno nobili. La Siria è senza dubbio la regione dove la tecnica della costruzione con pietra da taglio ‒ in cui ogni concio è squadrato nelle dimensioni volute, con spigoli dritti e superfici piane ‒ ha raggiunto il suo massimo splendore, sopravvivendo ancora oggi. La muratura con pietra da taglio era diffusa anche in Spagna (grazie senza dubbio all'influenza siriana), in Egitto e in alcune zone dell'Africa del Nord. A volte, per risparmiare tempo e denaro, si costruivano i muri con pietre non lavorate e li si rivestiva di uno strato di pietre squadrate. La malta era formata in genere da una miscela di calce e sabbia sottile.
Gli edifici di mattoni crudi erano molto comuni nell'Antichità e sono tuttora molto diffusi. L'argilla di cui sono fatti i mattoni è facilmente reperibile in molte parti del mondo e le case costruite con questo materiale sono calde d'inverno e fresche d'estate. Inoltre, i mattoni crudi non sono utilizzabili soltanto nella costruzione di piccole case d'abitazione; molte palazzine a più piani delle città dell'Arabia meridionale sono fatte di questo materiale, che può servire anche a realizzare volte e cupole. Tuttavia, essi non possono essere utilizzati nelle regioni molto piovose, dove l'acqua ne provoca un rapido deterioramento, fino a disintegrarli del tutto. Questo tipo di mattone ha in genere una forma geometrica piuttosto regolare, quella di un parallelepipedo di dimensioni variabili, ma legate tra loro da un rapporto costante, che in genere è 4×2×1 (per es., 56 cm di lunghezza, 28 di larghezza e 14 di altezza); nell'Arabia meridionale il rapporto standard è invece 45×35×5, mentre in Iran è 20×20×4. Per fabbricare questi mattoni si adopera creta o argilla molto bagnata, mescolata a paglia o pula e pigiata a piedi nudi. La miscela ottenuta è quindi messa nelle ceste e portata agli operai modellatori, ognuno dei quali è dotato di uno stampo di legno, una semplice cornice senza fondo né coperchio. L'operaio copre il terreno con un sottile strato di gesso, appoggia lo stampo a terra, vi getta una certa quantità della miscela di fango e paglia, la pressa negli angoli battendola con le mani nude e infine elimina le eccedenze con un righello. Quindi, con un rapido gesto, solleva la cornice e la poggia accanto al mattone appena fabbricato. In questo modo, una fila dopo l'altra, un operaio può arrivare a produrre fino a 250 mattoni l'ora. In genere, per cementare tra loro i mattoni si adopera una malta a base di calce o cenere e si rivestono i muri con uno strato di terra mista a calce o a intonaco.
La fabbricazione di mattoni cotti ebbe inizio in Mesopotamia e in Iran a partire dal IV millennio a.C. Sono state riportate alla luce fornaci risalenti al I millennio a.C., molto simili a quelle tuttora utilizzate in gran parte del mondo islamico. I mattoni cotti sono in genere più piccoli di quelli crudi e la loro fabbricazione richiede una preparazione più accurata; l'argilla deve essere sciolta nell'acqua e passata al setaccio per eliminarne le impurità e a volte si usano additivi, per esempio sabbia naturale, per conferire ai mattoni un colore biancastro. Una volta estratti i mattoni dallo stampo, si lasciano all'aria aperta per 24 ore, poi si girano e si lasciano asciugare per altri tre giorni, trascorsi i quali si mettono a cuocere nella fornace. Quest'ultima è simile a quelle utilizzate per la ceramica ed è formata da un forno posto sotto la camera di cottura.
È raro trovare edifici fatti interamente di mattoni cotti, che di solito sono impiegati in combinazione con altri materiali. I muri del Qaṣr al-Ḥayr al-Ġarbī, per esempio, costruito in Siria nel primo secolo dell'egira, sono di pietra calcarea e mattoni cotti, sormontati da uno strato di mattoni crudi. I mattoni cotti erano (e sono tuttora) utilizzati soprattutto per realizzare alcune parti degli edifici, come gli archi, le volte e le rampe di scale; gli architetti se ne servivano inoltre per variare la decorazione delle loro opere. A partire dal XII sec., l'invenzione dei mattoni invetriati ha permesso di ottenere effetti simili a quelli del mosaico.
Nella sua celebre Muqaddima (Introduzione), Ibn Ḫaldūn ci ha lasciato una descrizione dettagliata della tecnica della terra compattata, o pisé (tabya), considerata dall'autore evidentemente un metodo di costruzione tipicamente islamico. Essa consiste nel comprimere una certa quantità di terra, in genere mescolata a gesso e a frammenti di terracotta o di pietre, tra due tavole di legno, mantenute parallele da alcune travi. I muri sono stuccati, spesso in modo tale da simulare la presenza di giunti massicci sottostanti; quando l'intonaco si stacca, vengono alla luce le imperfezioni lasciate dalle travi a distanza regolare. Questa tecnica fu ampiamente utilizzata in tutti i paesi islamici occidentali nel corso dei secc. XI e XII, soprattutto per gli edifici militari. Sembra che sia stata importata nel Maghrib dall'Andalus, dove era conosciuta già da lungo tempo.
Nelle comunità urbane, il controllo della qualità delle costruzioni era affidato a un funzionario chiamato muḥtasib, i cui incarichi erano molteplici: controllare lo svolgimento degli affari nel mercato e quindi il mantenimento della morale pubblica e l'osservanza delle regole religiose; sorvegliare la quantità e la qualità delle merci messe in vendita da grossisti e dettaglianti; purificare e distribuire l'acqua; controllare la fabbricazione dei materiali da costruzione. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, i manuali di ḥisba, scritti per guidare il muḥtasib nello svolgimento delle proprie funzioni, contengono molte informazioni utili. Per esempio, la larghezza dei muri e lo spessore delle travi erano controllati per mezzo di appositi calibri di legno, per accertarsi che non fossero inferiori al minimo stabilito.
La topografia
La livellazione e l'allineamento erano le operazioni topografiche fondamentali richieste per la realizzazione di opere pubbliche, per la costruzione di edifici di grandi dimensioni o per lo scavo di canali, ecc. Oggi la livellazione è effettuata per mezzo di uno strumento ottico e di una staffa graduata, mentre un tempo bisognava servirsi di due staffe, in aggiunta a uno strumento semplice, ma efficace. Un trattato iracheno dell'XI sec. ci ha trasmesso la descrizione di tre strumenti di questo genere: il primo è una tavoletta di legno a lunga circa 70 cm e larga 8, fissata con due ganci laterali bb, con al centro tracciata una linea che taglia i bordi ad angolo retto e sulla quale, all'altezza di uno dei bordi, è fissato un filo a piombo c; il secondo strumento consiste in un triangolo equilatero a, dotato di due ganci bb saldati all'estremità di uno dei lati, al centro del quale è praticato un forellino, dove è inserita la corda di un filo a piombo c. Per utilizzare questi strumenti, li si appendeva a un filo o a un cavo portato alla massima tensione tra le due staffe graduate, poi si muoveva in alto e in basso una delle due estremità del cavo, fino a far coincidere il filo a piombo con la linea tracciata sulla tavola o con il vertice del triangolo. La differenza tra le altezze sulle due staffe equivaleva al dislivello tra i due punti del terreno. Il terzo strumento era chiamato 'livella a canna'. In una lunga canna perfettamente dritta si praticava uno stretto foro longitudinale e, al centro, un secondo foro radiale; due aiutanti reggevano la canna in posizione approssimativamente orizzontale tra le due staffe, che erano mantenute in verticale da altri due assistenti. Un quinto assistente lasciava quindi sgocciolare nel foro centrale acqua, ottenuta strizzando un panno bagnato; quando l'acqua usciva alla stessa velocità dalle due estremità della canna, questa si trovava in posizione perfettamente orizzontale. Come nel caso degli strumenti precedentemente descritti, il topografo misurava le altezze sulle due staffe e ne prendeva nota. Ripetendo queste operazioni, era possibile ottenere una livellazione accurata anche su lunghe distanze. Alla fine dei rilievi, il topografo sommava tutte le 'salite' e le 'discese'; la differenza tra i due totali forniva la misura del dislivello tra il punto iniziale e quello finale.
Per tracciare linee rette e per misurare distanze si usavano corde con nodi a distanze regolari. Per le operazioni di allineamento, si poteva ricorrere anche a un'alidada girevole, dotata di mirini e montata su una superficie piana.
L'astrolabio, che incontreremo di nuovo più avanti nella sezione dedicata all'osservazione astronomica e al calcolo, era molto utilizzato anche nella topografia. Quella che ci interessa qui è solo la parte posteriore dello strumento, composta da un'alidada girevole fissata a un perno centrale, le cui estremità si muovevano su un circolo graduato, ciascun quadrante del quale era suddiviso in 90 gradi. Nella metà inferiore era inciso un rettangolo, una parte del quale era suddivisa radialmente in intervalli decimali, l'altra parte in intervalli duodecimali.
L'astrolabio serviva principalmente per allineare e per misurare gli angoli tra due punti, ma molti autori arabi spiegano come risolvere diversi problemi di triangolazione, servendosi dei due quadrati identici in cui era ripartito il rettangolo inciso nella parte inferiore. Questi quadrati erano suddivisi radialmente, come abbiamo già detto, in dieci e in dodici parti uguali, tuttavia la scelta del numero dipendeva unicamente da ragioni di comodità di calcolo. Per utilizzare l'astrolabio, lo si appendeva lasciandolo libero di oscillare, quindi si regolava l'alidada, fino a inquadrare simultaneamente nei due mirini un oggetto distante dall'osservatore. A questo punto, il triangolo rettangolo reale formato dalla distanza dell'oggetto e dalla sua altezza è riprodotto esattamente, in scala molto più piccola, all'interno di uno dei due quadrati tracciati sull'astrolabio. L'ipotenusa del triangolo reale e quella del triangolo riprodotto sull'astrolabio giacciono sulla stessa linea. Il rapporto tra le lunghezze dei due cateti del triangolo sull'astrolabio, inoltre, è identico al rapporto tra l'altezza e la distanza dell'oggetto, cosicché, conoscendo una di esse, era possibile calcolare facilmente l'altra. Se nessuna delle due era nota, l'osservatore misurava l'angolo da un punto determinato, poi indietreggiava fino a una distanza stabilita, quindi ripeteva la misurazione. Avendo perfezionato i metodi della trigonometria piana e di quella sferica, i matematici musulmani erano in grado di risolvere facilmente i problemi di questo genere. Per il topografo sul campo, tuttavia, era chiaramente preferibile ricorrere ai metodi deduttivi consentiti dall'astrolabio, che erano dettagliatamente descritti in molti manuali scientifici.
Tra gli altri problemi risolvibili per mezzo di questo strumento vi erano il calcolo della larghezza di un fiume o quello della distanza tra due punti separati da un ostacolo insormontabile.
Le macchine per il sollevamento dell'acqua
La più antica macchina utilizzata dall'uomo per attingere l'acqua necessaria per l'irrigazione e gli usi domestici è lo šādūf, riprodotto in alcuni rilievi accadici risalenti al 2500 a.C. e in Egitto a partire dal 2000 a.C. Si può senza dubbio considerare una delle invenzioni più longeve e riuscite della storia, poiché è tuttora in uso in gran parte del mondo. Il suo successo è dovuto probabilmente alla sua semplicità, che consente a ogni falegname di villaggio di fabbricarne uno, servendosi dei materiali locali. Questa macchina consente di sollevare quantità considerevoli di acqua, anche se a un'altezza modesta. È formata da un lungo palo di legno sospeso a una trave di legno sostenuta da pilastri di legno, pietra o mattoni. All'estremità del braccio più corto della leva è fissato un contrappeso fatto di pietra o, nelle pianure alluvionali in cui la pietra è introvabile, di argilla, mentre all'estremità opposta è attaccata una fune a cui è appeso il secchio. L'operatore immerge il secchio nell'acqua e aspetta che si riempia; quando è pieno, il secchio è sollevato con l'aiuto del contrappeso e il suo contenuto riversato in un canale di irrigazione o in una cisterna.
Il 'timpano' o 'tamburo' fu inventato probabilmente in Egitto nella prima metà del III sec. a.C. La macchina era formata da due grandi dischi di legno aa fissati a un asse di legno nelle cui estremità erano inseriti alcuni perni di ferro sporgenti, alloggiati in appositi sostegni metallici sostenuti da due colonne. Lo spazio tra i due dischi era diviso in otto compartimenti da tavole di legno b. La fascia esterna era chiusa da tavole c, dotate di fessure d per permettere all'acqua di penetrare all'interno di ogni comparto. Su una delle facce del tamburo si praticavano intorno all'asse otto fori circolari, uno per ogni sezione. Si rivestiva infine tutta la macchina di uno strato di catrame. Facendo ruotare il tamburo per mezzo di una ruota a mano, l'acqua era attinta dalla fonte, e iniziava a penetrare nei comparti quando questi si trovavano nel punto più basso della loro corsa e fuoriuscendone a mano a mano che si avvicinavano al punto più alto. L'acqua era riversata in un canale e da qui in una cisterna. Nei testi musulmani d'idraulica si parla raramente dell'impiego di questo apparecchio nei sistemi di irrigazione, mentre sembra che esso fosse usato principalmente per prosciugare le miniere, poiché poteva essere utilizzato anche in uno spazio molto ristretto. A questo scopo si formava una catena di tamburi, in cui quello situato più in basso sollevava l'acqua fino a una cisterna posta su una piattaforma, dove una seconda macchina la trasferiva in una seconda cisterna e così via, fino a raggiungere l'uscita della miniera, dove l'acqua era riversata in un canale.
La vite senza fine, o coclea, fu inventata probabilmente da Archimede (287-212 a.C. ca.) durante il suo soggiorno in Egitto, ed è quindi giustamente chiamata anche 'vite di Archimede'. Una lamina di legno di forma elicoidale è fissata a un rotore posto all'interno di una cassa cilindrica, dello stesso diametro dell'elica e costruita in modo simile a un barile, con doghe ricoperte di pece e strette da cerchi di ferro. Il rotore è dotato di perni di ferro inseriti in alloggi metallici. La coclea è collocata in posizione inclinata, con una delle due estremità immersa nell'acqua; ruotando l'elica, l'acqua risale al suo interno e fuoriesce dall'estremità superiore; il flusso erogato è tanto più consistente, quanto minore è l'inclinazione dell'apparecchio. Non sappiamo esattamente quale sistema fosse usato anticamente per azionare la macchina, probabilmente una ruota a mano, collegata alla vite da una coppia di ingranaggi. Attualmente si adopera in genere una manovella, di cui però non si hanno notizie prima del XII secolo. La coclea era diffusa in tutto il mondo islamico fino a tempi recenti, ma oggi sembra caduta largamente in disuso.
La sāqiya era una macchina formata da una ruota a dotata di recipienti cilindrici b, azionata da una coppia d'ingranaggi cc messi in funzione da uno o due animali attaccati a una barra di trazione d, agente sull'asse verticale e di uno degli ingranaggi, e costretti a girare su una pista circolare f. Questo importantissimo congegno fu inventato in Egitto, probabilmente intorno al 200 a.C., ma divenne di uso comune solo a partire dal IV o V sec. d.C., quando fu perfezionato con l'introduzione di un meccanismo di arresto e di vasi di terracotta. Anche se il suo funzionamento può apparire piuttosto semplice, la costruzione di una sāqiya era un'operazione complessa che richiedeva la fabbricazione e il montaggio di oltre duecento parti diverse. Ci limiteremo a descriverne i principali elementi costitutivi. Un'estremità della barra di trazione, cui erano attaccati gli animali da tiro, è inserita in un foro praticato in un fusto verticale al quale è fissata per mezzo di perni una ruota dentata orizzontale. Il fusto ruota in un supporto reggispinta collocato a terra e in un altro supporto posto al di sopra della ruota dentata, in una trave trasversale sostenuta da plinti. La ruota dentata è del tipo a lanterna e consiste di due grandi dischi di legno collegati da una serie di pioli posti a intervalli regolari. La catena di vasi di terracotta è collegata alla ruota dentata verticale, che è chiamata a volte 'ruota-ghirlanda', ed è sostenuta da un asse orizzontale al di sopra di un pozzo o di un'altra fonte d'acqua. Una serie di lunghi pioli passanti sporgono da entrambi i lati della ruota; inseriti su uno dei lati ne attraversano gli spazi vuoti uscendo dall'altro lato dove fungono da sostegno alla catena di recipienti. Quest'ultima è formata da due anelli di corda a cui sono fissati i vasi di terracotta ‒ in alcuni casi potevano essere utilizzati catene e recipienti metallici. Per impedire alla ruota di girare al contrario, la macchina è dotata di un meccanismo di arresto, che agisce sui denti della ruota-ghirlanda. L'introduzione di quest'ultimo fu di importanza capitale: grazie ad esso infatti l'animale da tiro è sottoposto a una trazione continua, sia quando si muove sia quando rimane fermo. Questo meccanismo è attivato in due casi: quando si deve liberare l'animale dalla sua bardatura oppure per la rottura dei finimenti. Senza questo dispositivo, la macchina inizierebbe infatti a girare in senso opposto a gran velocità e la barra di trazione, dopo aver effettuato un giro completo, colpirebbe l'animale sulla fronte; allo stesso tempo, l'eccessiva velocità causerebbe la rottura della maggior parte dei denti della ruota dentata orizzontale e dei vasi di terracotta.
L'animale da tiro, avanzando lungo il suo percorso circolare, mette in moto la ruota dentata a lanterna, che a sua volta fa girare la ruota-ghirlanda. I vasi s'immergono uno dopo l'altro nell'acqua e si svuotano una volta giunti in cima, versando il proprio contenuto in un canale collegato a una cisterna. Sebbene sia impiegata soprattutto per l'irrigazione, la sāqiya può essere utilizzata anche per rifornire d'acqua edifici che si trovino a una certa altezza dalla sorgente. Tuttavia, più è lunga la catena di vasi, ossia quanto maggiore è il dislivello da superare, tanto minore sarà la quantità d'acqua sollevata in un'unità di tempo. Questo fattore ha un'importanza secondaria nel caso della fornitura d'acqua per usi domestici, ma in effetti uno dei principali problemi che s'incontrano nel campo dell'ingegneria idraulica riguarda il sollevamento di grandi quantità di acqua ad altezze modeste. A questo scopo, si può utilizzare una ruota a cucchiaio a spirale, molto efficace per sollevare l'acqua a livello del suolo. Questa macchina è ancora oggi molto diffusa in Egitto, dove un gruppo di ingegneri di un centro di ricerca nei pressi del Cairo ha studiato la possibilità di migliorare la forma delle tazze, allo scopo di aumentarne il rendimento. Nonostante l'apparente modernità della sua forma, la ruota a cucchiaio era già utilizzata nel Medioevo, come dimostra una miniatura del XII sec., proveniente da Baghdad, dove compare azionata da una coppia di buoi. La trasmissione del moto avveniva in modo analogo alla sāqiya.
La sāqiya è stata ampiamente utilizzata in tutti i paesi islamici, sin dalla loro costituzione. Furono i musulmani a introdurla nella Penisola Iberica, dove le potenzialità della sāqiya furono sfruttate più ampiamente. Dopo essersi diffusa in gran parte dell'Europa, fu esportata anche nel nuovo mondo da ingegneri cristiani di origine spagnola. Rispetto alle pompe moderne, questa macchina presenta alcuni vantaggi non di poco conto, in quanto può essere fabbricata e riparata dagli artigiani locali e non richiede l'impiego di combustibili. La lunga storia della sāqiya non è ancora giunta alla sua conclusione, è molto probabile, infatti, che siano stati proprio i suoi vantaggi ad assicurarne la sopravvivenza.
Un'altra macchina molto importante nella storia dell'ingegneria idraulica è la noria, una grande ruota di legno a dotata di pale b. Il bordo della ruota è suddiviso tra una pala e l'altra in compartimenti, oppure sul bordo sono fissati vasi di terracotta, simili a quelli utilizzati nella sāqiya. La ruota è installata su un corso d'acqua, a un'altezza tale che le pale e i compartimenti restano immersi nell'acqua durante il tratto inferiore del loro tragitto. La forza della corrente, agendo sulle pale, fa girare la ruota, i compartimenti o i vasi si riempiono d'acqua e la scaricano una volta giunti in alto. Solitamente l'acqua è raccolta in una cisterna e da qui trasportata per mezzo di un canale fino al sistema di irrigazione o al centro abitato. Essendo azionata dall'acqua, la noria è del tutto autonoma e il suo funzionamento non richiede la presenza di uomini o animali.
La più antica descrizione di una noria in nostro possesso si trova nelle opere di Vitruvio (I sec. a.C.), il quale lascia intendere che si trattava di un'invenzione nota già da tempo. In effetti, essa ebbe probabilmente origine in un paese del Medio Oriente, intorno al II sec. a.C. La noria fu utilizzata ampiamente nel mondo islamico: il suo uso è attestato in Iraq, in Iran, in Spagna e altrove. Le più celebri ruote di questo genere sono quelle collocate sul fiume Oronte, nei pressi della città di Hama, in Siria. Queste impressionanti macchine, la più grande delle quali ha un diametro di oltre 20 m, alimentano un acquedotto che rifornisce la città e i campi coltivati. La presenza di una noria in questo luogo è attestata sin dal IX sec., ma è probabile che sia anche più antica; essa fu introdotta dai Siriani in Spagna, dove ebbe un'ampia diffusione. Nel XII sec. era in funzione a Toledo un'installazione analoga a quella di Hama e queste macchine erano molto comuni anche nel resto della Spagna musulmana. La noria si è diffusa dai paesi islamici a quelli dell'Europa e dell'Asia orientale e, come la sāqiya, ha dimostrato di saper resistere alla concorrenza delle apparecchiature moderne.
Nel grande libro sull'ingegneria meccanica di al-Ǧazarī, al-ǧĀmi῾ bayn al-῾ilm wa-'l-῾amal al-nāfi῾ fī ṣinā῾at al-ḥiyal (Libro comprensivo sulla teoria e la pratica dei procedimenti ingegnosi), redatto a Diyarbakir nell'anno 602/1206, troviamo la descrizione di cinque macchine per il sollevamento dell'acqua. La prima è una sāqiya a trazione idrica, un tipo di macchina di uso quotidiano nel Medioevo islamico, come sappiamo da numerose fonti; le altre tre presentano alcune modifiche rispetto allo šādūf, che miravano ovviamente a potenziare il rendimento del mezzo tradizionale attraverso l'applicazione di concetti estremamente interessanti dal punto di vista della storia dell'ingegneria. Uno di questi progetti, per esempio, implica l'idea della necessità di minimizzare il funzionamento intermittente, mentre un altro prevede l'uso di una manovella, che rappresenta il primo esempio di un suo impiego come parte integrante di una macchina. La macchina più significativa è però l'ultima, una pompa a due cilindri a trazione idrica, formata da una ruota a pale a installata sopra un corso d'acqua e collegata, attraverso il suo asse orizzontale, a una ruota dentata verticale b. Quest'ultima s'ingranava con una seconda ruota dentata orizzontale, c, installata in una grande cassa di legno triangolare d, posta sopra un laghetto alimentato dal corso d'acqua. Sulla faccia superiore della ruota orizzontale, vicino al bordo, era fissato un piolo e, inserito nella fessura di una biella f imperniata nell'angolo opposto della cassa triangolare. Ai lati della biella erano fissati, mediante un fermaglio del tipo a grappa e anello, due alberi che terminavano con un pistone g, formato da due dischi di rame posti a una distanza di circa 6 cm l'uno dall'altro e da una corda di canapa strettamente arrotolata nello spazio intermedio entro un cilindro. I due cilindri, anch'essi di rame, erano collegati a tubi di aspirazione e di erogazione, tutti dotati di valvole di ritegno a cerniera. I due tubi di erogazione convergevano sopra la macchina in un unico tubo centrale, che erogava l'acqua a un'altezza di circa 14 m sopra il livello idrico. Il funzionamento avveniva in questo modo: la ruota a pale, girando, metteva in moto la ruota dentata verticale, che a sua volta trasmetteva il moto alla ruota orizzontale nella cassa, facendo oscillare la biella in senso alternato; quando un pistone iniziava la fase di spinta, l'altro cominciava quella di aspirazione. Il progetto di questa pompa implicava l'applicazione di importanti principî, come quelli di doppio effetto e di conversione del moto rotatorio in moto alternativo, e l'uso di veri tubi di aspirazione. Le pompe a mano utilizzate nel periodo classico ed ellenistico erano dotate di cilindri verticali immersi direttamente nell'acqua, la quale penetrava al loro interno durante la fase di aspirazione attraverso valvole piatte poste sul fondo. Non era possibile, pertanto, collocare le pompe al di sopra del livello dell'acqua. In occasione del Festival del Mondo Islamico, tenutosi nel 1976 presso lo Science Museum di Londra, fu realizzato un modello funzionante di questa macchina in scala 1:4, del tutto identico all'originale, ma alimentato a energia elettrica. La pompa funzionava perfettamente e in modo regolare, erogando un flusso idrico continuo e consistente.
Il libro sulle macchine al-ṭuruq al-saniyya fī'l-ālāt al-rūḥāniyya (I metodi sublimi delle macchine spirituali), composto da Taqī al-Dīn nel 959/1552, è la prova della prosecuzione di una tradizione d'ingegneria meccanica nel mondo islamico anche in tempi più recenti. In esso troviamo la descrizione di un gran numero di macchine, tra cui una pompa molto simile a quella di al-Ǧazarī e una pompa a sei cilindri monoblocco, un congegno molto interessante. I cilindri a, disposti in fila, sono ricavati da un unico blocco di legno immerso nell'acqua; durante la fase di aspirazione, l'acqua penetra al loro interno attraverso una valvola di ritegno b. Dai cilindri partono i tubi di erogazione c, dotati di valvole di ritegno a cerniera d e convergenti in un unico tubo centrale e. Sopra ogni pistone è fissato un contrappeso di piombo f e all'asta del pistone è collegata, mediante un perno, una leva g. Una serie di eccentrici disposti sull'asse di una ruota idraulica a cucchiaio h abbassano in successione le diverse leve, sollevando i pistoni per dare inizio alla fase di aspirazione. Quando la leva si libera, il contrappeso spinge in basso il pistone, per effettuare la fase di spinta. È interessante notare che il libro di Taqī al-Dīn precede il celebre scritto sulle macchine composto da Agostino Ramelli nel 1588. È lecito dunque ipotizzare il perdurare dell'influsso islamico sulla tecnologia meccanica europea fino a tempi relativamente recenti, cioè fino al XVI secolo.
Energia idraulica ed eolica
I tre tipi fondamentali di ruota idraulica erano in uso da secoli prima dell'avvento dell'Islam e in questa sede non c'interessa affrontare la questione della loro origine e della loro diffusione, che resta irrisolta e controversa. Il primo tipo ‒ la ruota idraulica alimentata dal basso ‒ è costituito da una ruota a pale fissata a un asse orizzontale e montata su un corso d'acqua. Il rendimento energetico dipende quasi completamente dalla velocità dell'acqua e risente, quindi, dei cambiamenti stagionali della portata del corso su cui è edificato il mulino. È possibile, inoltre, che il livello dell'acqua si abbassi lasciando le pale parzialmente o completamente scoperte. A causa della dispersione di energia dovuta alla turbolenza e all'attrito, l'efficienza della ruota idraulica alimentata dal basso non è grande e non supera in genere il 22%. Il motivo per cui è rimasta in uso per molti secoli è dovuto alla facilità di costruzione e alle particolari misure alle quali si può ricorrere per aumentarne il rendimento (v. oltre).
La ruota idraulica alimentata dall'alto è anch'essa montata in verticale su un asse orizzontale. La sua circonferenza è divisa in compartimenti a cassetta, in cui l'acqua cade dall'alto, generalmente da un canale di derivazione artificiale. Può raggiungere un'efficienza del 66%, purché tutta l'acqua proveniente dal canale di derivazione cada nelle cassette e non si disperda.
Per poter essere utilizzati nella macinazione del grano, questi due tipi di ruota idraulica devono essere dotati entrambi di una coppia di ingranaggi per trasmettere il moto alla macina. Come mostra la fig. 17, all'estremità dell'asse a della ruota idraulica, all'interno del mulino, è imperniata una ruota dentata verticale b, la quale ingrana un pignone c del tipo a lanterna, il cui asse verticale, passando per il soffitto, arriva al locale della macina. L'asse attraversa la mola inferiore, che è inamovibile, ed è fissato alla mola girevole superiore. Il grano si riversa da una tramoggia nella cavità della mola superiore.
Il terzo tipo di ruota idraulica è quello orizzontale, di cui esistono due varianti. La prima consiste in una ruota a con pale ricurve o a cucchiaio, montata all'estremità inferiore di un albero verticale; l'acqua, proveniente da un'apertura b praticata alla base della torre del mulino, defluisce nelle pale della ruota, per cui la direzione del flusso è tangenziale e radiale. Tale ruota si diffuse in Europa e nell'Asia occidentale non più tardi del VI secolo. Il secondo tipo è una ruota a pale, anch'essa fissata all'estremità inferiore di un asse verticale e installata all'interno di un cilindro, in cui l'acqua si riversa dall'alto, in modo che la ruota è azionata principalmente dal flusso assiale. Le ruote a flusso assiale possono essere azionate anche da getti d'acqua dal basso; esse sono citate in un trattato arabo del IX sec., ma non ne è stato attestato l'uso in Europa prima del XVI secolo.
I resoconti dei geografi e dei viaggiatori musulmani non lasciano dubbi sull'importanza della macinazione del grano nel mondo musulmano, testimoniata non soltanto dalla grande diffusione dei mulini, dalla Penisola Iberica all'Iran, ma anche dall'atteggiamento degli autori, sempre molto attenti alle potenzialità dei corsi d'acqua ai fini della produzione di energia. Al-Muqaddasī afferma che il Tigri, alla sorgente, potrebbe azionare un solo mulino, mentre al-Iṣṭaḫrī, osservando un rapido torrente nella provincia iraniana di Kirman, stima che potrebbe mettere in funzione venti mulini. Sembra, dunque, che questi viaggiatori valutassero i corsi d'acqua in termini di 'capacità di macinazione': un atteggiamento comprensibile se si tiene presente che le grandi città del mondo islamico, come Baghdad, il Cairo e Cordoba, dipendevano dai prodotti di una fiorente agricoltura sia per il sostentamento dei loro numerosi abitanti sia per l'approvvigionamento di materie prime, che consentiva un florido commercio di prodotti finiti. Sappiamo infatti che tutti i grandi insediamenti urbani erano riforniti di farina da impianti di macinazione industriali, situati nei pressi della città o facilmente raggiungibili. Valga per tutti un esempio: nel X sec. l'Alta Mesopotamia era il granaio di Baghdad e il grano che vi si produceva era macinato in grandi mulini galleggianti ormeggiati sul Tigri e sull'Eufrate, ogni macina dei quali, formata da due coppie di mole, era in grado di produrre dieci tonnellate di farina in 24 ore. Nell'Europa coeva, la macinazione del grano avveniva su scala di gran lunga più ridotta.
Il mulino galleggiante era uno dei metodi impiegati per aumentare il rendimento dei mulini; oltre a sfruttare la maggiore velocità della corrente al centro del fiume, si evitavano i problemi dovuti all'abbassamento del livello dell'acqua durante la stagione secca. Un altro metodo consisteva nel fissare le ruote idrauliche ai piloni dei ponti, in modo da sfruttare l'aumento della portata defluente risultante dal parziale sbarramento del fiume. Per incrementare la resa dei mulini (e delle macchine per il sollevamento dell'acqua), furono costruite anche apposite dighe, come quella eretta da ῾Aḍud al-Dawla sul fiume Kur in Iran. Nel XII sec., al-Idrīsī descrisse la diga di Cordoba in Spagna, dotata di tre mulini con quattro macine ciascuno; sino a non molto tempo fa, questi tre mulini erano ancora funzionanti, naturalmente in una forma molto diversa da quella originale. Un'ulteriore prova della determinazione con cui i musulmani cercavano di sfruttare qualsiasi fonte di energia idrica è rappresentata dai mulini azionati dalle maree, un metodo che, naturalmente, non poteva essere impiegato nel Mediterraneo ma presente nel X sec. nell'area di Bassora. In Europa questo tipo di mulino fece la sua comparsa circa un secolo più tardi.
A quanto pare, nei paesi musulmani la storia dello sfruttamento dell'energia idrica a scopi industriali ha un'origine alquanto remota. Nel trattato XVIII del Kitāb al-Sab῾īn (Libro dei settanta), Ǧābir ibn Ḥayyān (m. 200/815 ca.) descrive un recipiente sferico per fondere metalli, installato su un fiume e azionato da una ruota idraulica; la sfera ruotava ininterrottamente ed era riscaldata dal focolare sottostante. Nel trattato XXXIV della stessa opera, Ǧābir descrive un'installazione fluviale simile, con moto rotatorio continuo. Nell'anno 134/751, dopo la battaglia di Atlakh o Talas, i prigionieri di guerra cinesi introdussero nella città di Samarcanda le tecniche di fabbricazione della carta, utilizzando stracci di lino, cotone o canapa. In breve tempo, mulini per la fabbricazione della carta simili a quelli di Samarcanda si diffusero a Baghdad, nello Yemen, in Egitto, in Siria, in Iran, nell'Africa del Nord e in Spagna. La preparazione dell'impasto avveniva senza dubbio pestando la materia prima per mezzo di magli idraulici; in uno scritto del 435/1044 ca., al-Bīrūnī afferma infatti che questo metodo era usato per polverizzare le rocce dei banchi auriferi, "così come a Samarcanda si pesta il cotone per fare la carta". I musulmani adottarono l'energia idrica anche per follare i tessuti, segare il legname e lavorare la canna da zucchero. Non è stato ancora accertato in quale misura l'esempio dei paesi islamici possa avere influito sull'uso industriale dei mulini in Europa. Un trasferimento tecnologico di questo tipo appare ipotizzabile nel caso della Penisola Iberica, dove i cristiani entrarono in possesso di molte installazioni musulmane ancora funzionanti, compresi i mulini per la fabbricazione della carta di Jativa.
È probabile che il mulino a vento fosse conosciuto nel Sistan (la zona occidentale dell'odierno Afghanistan) già prima dell'avvento dell'Islam. Secondo al-Mas῾ūdī, un persiano dichiarò al califfo ῾Umar di saper costruire un mulino a vento e questi gli ordinò di mettere in pratica le sue parole. I mulini di Sistan sono menzionati dai geografi arabi del X sec., ma la prima descrizione completa si trova nella Nuḫbat al-dahr (L'essenza del tempo) di al-Dimašqī, scritto intorno all'anno 669/1271. Non erano come i mulini a vento europei, con asse orizzontale e una coppia di ingranaggi, bensì erano installati in apposite strutture di sostegno, collocate sulle torri dei castelli o sulla sommità delle colline, e comprendevano due locali, uno superiore con le mole e uno inferiore che ospitava il rotore. L'asse verticale era dotato di dodici o sei pale ricoperte di tela. Nelle pareti del locale inferiore erano praticate alcune aperture a imbuto, con l'estremità più stretta rivolta verso l'interno, che avevano lo scopo di aumentare la velocità del vento battente sulle vele. Questo tipo di mulino si diffuse in tutto l'Islam, oltre che in Cina e in India. Nell'Egitto medievale era impiegato per la lavorazione della canna da zucchero, sebbene la sua utilizzazione principale fosse la macinazione del grano.
L'espressione 'meccanica di precisione', applicata al passato, comprende una vasta gamma di congegni e macchine, destinati a usi molto diversi: orologi ad acqua, fontane, giocattoli, automi e strumenti astronomici. Alcuni di questi congegni erano ideati per misurare il tempo o per essere utilizzati nelle indagini scientifiche; altri avevano il solo scopo d'intrattenere e divertire. Ciò che li accomuna è il notevole grado di abilità tecnica richiesto dalla loro fabbricazione e la presenza di meccanismi e dispositivi di controllo altamente sensibili. Molte idee sfruttate per la realizzazione di questi congegni influirono in seguito sullo sviluppo della tecnologia meccanica.
Nell'indagare le origini della meccanica di precisione, è inevitabile che la nostra attenzione si rivolga al mondo ellenistico e, in particolare, ad Alessandria. Scopriamo così che il primo orologio ad acqua complesso e il primo automa musicale sono attribuiti entrambi da Vitruvio a Ctesibio, un ingegnere egiziano attivo ad Alessandria intorno al 250 a.C., e che il primo importante trattato sui congegni meccanici fu composto da Filone di Bisanzio, un contemporaneo di Ctesibio. L'opera di Filone fu ripresa e ampliata da Erone di Alessandria, attivo intorno alla metà del I sec. d.C.; in particolare, l'astrolabio ha solide radici nella Scuola di Alessandria; è quasi certo che Tolomeo lo conoscesse e, inoltre, fu descritto da Teone di Alessandria (350 d.C. ca.), le cui opere ci sono giunte attraverso il trattato composto da Severo Sebokht a Qenneshrin (Siria settentrionale) prima del 660 d.C., vale a dire pochi anni dopo l'occupazione araba del paese.
Gli studi di meccanica di precisione, che non erano mai stati interrotti del tutto, ricevettero un nuovo impulso dopo l'avvento dell'Islam. In Siria proseguì l'installazione di orologi ad acqua monumentali nei luoghi pubblici. I califfi abbasidi s'interessavano di orologi e congegni meccanici. La storia dell'orologio donato da Hārūn al-Rašīd (786-809) a Carlo Magno nell'807 è ben nota. Ibn Abī Uṣaybi῾a riferisce inoltre che l'interesse ossessivo di al-Mutawakkil (m. 861) per i congegni meccanici (lett. ālāt mutaḥarrika, macchine mobili) lo portò a favorire i Banū Mūsā, che sfruttarono l'ossessione del califfo per perseguitare i propri nemici. Fu in questo periodo che i Banū Mūsā scrissero il Kitāb al-Ḥiyal (Libro dei procedimenti ingegnosi) e questa coincidenza sembra avvalorare l'ipotesi che costruissero e azionassero i loro congegni proprio per compiacere il califfo. Nel Kitāb al-Ḥayawān (Libro degli animali), al-Ǧāḥiẓ afferma a proposito della misurazione del tempo: "I nostri re e i nostri scienziati usano di giorno l'astrolabio e di notte i binkāmāt (orologi)". Gli storici, inoltre, riferiscono che Nāṣir al-Dawla di Diyarbakir (m. 1061) aveva costruito un binkām (orologio) pubblico per la città di Mayyafariqin nel 1012. Quando due secoli dopo al-Ǧazarī scrisse il suo libro a Diyarbakir, si riallacciò quindi a una tradizione fermamente radicata in quella regione. Le fonti riferiscono inoltre dell'installazione di orologi in luoghi pubblici in altre città dell'oriente islamico.
Questa tecnologia si diffuse nella Spagna musulmana e nel Maghreb. Intorno all'anno 1050, al-Zarqālī costruì un grande orologio ad acqua sulle rive del Tago a Toledo, in Spagna, ancora funzionante quando i cristiani occuparono la città nel 1085. In un manoscritto redatto nell'XI sec., Ibn Ḫalaf al-Murādī descrive gli orologi monumentali andalusi. Altri orologi ad acqua furono costruiti in luoghi pubblici nel Maghreb e i resti di un orologio di questo genere sono ancora visibili a Fes.
Intorno al 1160, Muḥammad al-Ḫurāsānī al-Sā῾ātī (l'orologiaio) costruì a Damasco un orologio monumentale, descritto da numerosi viaggiatori e ancora funzionante nel XIV sec., all'epoca della visita di Ibn Baṭṭūṭa. Suo figlio Riḍwān al-Sā῾ātī ricostruì l'orologio e fornì una descrizione dettagliata della sua fabbricazione nel 1203. Il libro di al-Ǧazarī scritto nel 1206 a Diyarbakir e il Kitāb al-Ḥiyal dei Banū Mūsā sono i trattati di meccanica di precisione più importanti che ci siano stati tramandati. Si ha notizia, inoltre, di una taḏkira, o trattato, sulle 'macchine spirituali', scritto dall'astronomo ῾Alā᾽ al-Dīn al-Qušǧī (m. 1474). L'ultimo autore importante in questo campo fu Taqī al-Dīn ibn Ma῾rūf, che compose un libro sugli orologi ad acqua nel 1552 e un altro sugli orologi meccanici nel 1556 cui accenneremo più avanti.
Oltre agli orologi ad acqua e ai congegni meccanici, per molti secoli nel mondo islamico si continuarono a fabbricare astrolabi e dispositivi astronomici a ingranaggi. La nostra conoscenza della meccanica di precisione islamica continuerà a migliorare a mano a mano che saranno pubblicati i risultati delle nuove ricerche. Poiché una disamina dei traguardi raggiunti dagli ingegneri musulmani nel campo della meccanica di precisione richiederebbe ampio spazio, ci limiteremo a prendere in considerazione alcune delle realizzazioni più importanti, mettendone in risalto le caratteristiche innovative.
I congegni dei Banū Mūsā
I Banū Mūsā erano tre fratelli ‒ Muḥammad, Aḥmad e al-Ḥasan ‒ attivi alla corte del califfo abbaside al-Ma᾽mūn (r. 198-218/813-833) e dei suoi successori. La grande fioritura della scienza araba ebbe inizio in questo periodo, con la traduzione di opere greche e siriache, ma anche con realizzazioni scientifiche e tecnologiche originali. Questa attività si svolse in gran parte sotto la guida e il patrocinio dei Banū Mūsā, scienziati e ingegneri loro stessi, e autori di una ventina di trattati, di cui solo due ci sono pervenuti. Ci occuperemo qui del Kitāb al-Ḥiyal, scritto a Baghdad intorno al 235/850. In esso troviamo la descrizione di centinaia di dispositivi, per la maggior parte recipienti truccati, oltre a lampade ad alimentazione e regolazione automatiche, una maschera antigas da utilizzare nei pozzi inquinati e un braccio meccanico. I recipienti truccati rivelano una gamma sorprendente di artifici.
Questi artifici, e molti altri ancora, erano ottenuti combinando fra loro numerosi componenti idraulici e meccanici. Uno di questi componenti è un doppio sifone concentrico: il tubo bd passa attraverso la piastra f che separa ermeticamente il vano superiore da quello inferiore. Il tubo a-cc, posto all'estremità b del tubo bd, è attaccato a esso con una saldatura stagna. L'estremità a di questo tubo è chiusa. Un altro pezzo di tubo e-gg, chiuso all'estremità, è fissato all'estremità d del tubo bd. L'effetto ottenuto introducendo questo congegno in un sistema idrodinamico è quello di creare un vuoto d'aria quando si interrompe il flusso del liquido, in modo che esso non possa essere ripristinato se non a certe condizioni. Era quindi possibile sorprendere gli spettatori con effetti imprevisti. Non esistono opere greche né, per quanto ne sappiamo, altre opere arabe in cui si parli del sifone concentrico, il cui funzionamento è regolato da principî di meccanica dei fluidi eccezionalmente complessi.
Un altro meccanismo è illustrato nella fig. 20B. La base b di una valvola conica è saldata all'estremità di un tubo a, e l'otturatore c della valvola è saldato all'estremità di uno stelo verticale, l'altra estremità del quale è saldata alla parte superiore di un galleggiante f. Sopra il galleggiante, e a esso collegato, si trova il piccolo serbatoio d, dotato di un piccolo foro nella parte inferiore di uno dei suoi lati. Il galleggiante riposa sulla superficie dell'acqua contenuta nel serbatoio g, leggermente più grande. L'acqua versata in a defluisce attraverso la valvola nel serbatoio d; il peso del liquido nel serbatoio d impedisce allo stelo della valvola di sollevarsi, lasciandola quindi aperta. Quando si smette di versare il liquido, il contenuto del serbatoio d defluisce nel serbatoio g attraverso il foro e, il galleggiante f si solleva e la valvola si chiude. Non è quindi possibile immettere altro liquido. Le valvole coniche non compaiono nelle opere di Filone ed Erone e si ha notizia di un solo caso di utilizzazione di questo tipo di valvola prima dei Banū Mūsā. Le valvole erano realizzate quasi sempre in bronzo, fondendo insieme l'otturatore e la sede della valvola in un unico stampo, quindi smerigliando il pezzo con polvere abrasiva per renderlo a tenuta stagna.
L'uso delle valvole coniche come parte integrante dei sistemi idrodinamici deve essere considerato quindi un tratto distintivo dell'opera dei Banū Mūsā. Più in generale, essi dimostrarono di possedere una straordinaria abilità empirica nell'usare piccole variazioni della pressione idrostatica e aerostatica per produrre effetti diversi. Nonostante la notorietà di cui godettero le loro opere nel mondo musulmano per diversi secoli, nessuno dei loro successori tentò mai di emularli. Di fatto, i Banū Mūsā avevano realizzato in questo campo tutto ciò che consentivano i materiali e le tecniche allora disponibili e niente di analogo fu realizzato in seguito, fino all'introduzione dei moderni apparecchi pneumatici.
Il trattato di al-Murādī
Un altro importantissimo trattato, il Kitāb al-Asrār fī natā᾽iǧ al-afkār (Libro dei segreti sui risultati dei pensieri), fu scritto nella Spagna musulmana dell'XI sec. da al-Murādī. Sfortunatamente, il pessimo stato di conservazione dell'unico manoscritto dell'opera che ci è pervenuto non consente di dedurre precisamente come fossero costruite le macchine di cui si sta parlando. Si tratta per la maggior parte di orologi ad acqua, tranne le prime cinque macchine che invece erano dei grandi automi, notevoli sotto vari aspetti. Ogni automa, per esempio, era azionato da una vera ruota idraulica; un metodo che nello stesso periodo era utilizzato in Cina per azionare un imponente orologio ad acqua monumentale. Gli automi erano del tipo comunemente impiegato negli orologi ad acqua; per esempio, una serie di porte allineate, che si aprivano una dopo l'altra mostrando delle figure mobili. Nel testo sono citati gli ingranaggi epicicloidali e quelli a settore, nei quali una delle due ruote del meccanismo di accoppiamento ha il perimetro dentato solo in parte, consentendo la trasmissione intermittente della potenza. Sebbene per altri versi siano del tutto incomprensibili, le illustrazioni mostrano chiaramente treni di ingranaggi comprendenti entrambi i tipi. Si tratta di un dato molto importante: come abbiamo visto, esistevano ingranaggi semplici nei mulini e nelle macchine per il sollevamento dell'acqua, ma questo è il primo caso conosciuto di ingranaggi complessi utilizzati per trasmettere una grande coppia motrice. È anche la più antica testimonianza in nostro possesso dell'uso di ingranaggi a settore ed epicicloidali. In Europa, i primi ingranaggi complessi per la trasmissione di una grande coppia motrice furono quelli utilizzati nell'orologio astronomico realizzato da Giovanni Dondi tra il 1349 e il 1364.
Le macchine di al-Ǧazarī
Nell'anno 602/1206, a Diyarbakir, al-Ǧazarī terminò il suo splendido trattato sulle macchine. Si tratta dell'opera di ingegneria meccanica più significativa che ci sia giunta, da qualsiasi parte del mondo, prima del Rinascimento. Il libro fu composto per volontà del maestro di al-Ǧazarī, il quale desiderava che le informazioni sulla costruzione di questi fragili congegni restassero a disposizione delle future generazioni di artigiani, molto tempo dopo la loro distruzione. Ciascuno dei 50 capitoli, perciò, comprendeva istruzioni dettagliate che dovevano consentire ai futuri artigiani di ricostruire i meccanismi descritti nel libro. Al-Ǧazarī raggiunse il suo scopo, visto che molti dei suoi congegni, compreso un orologio ad acqua monumentale, sono stati costruiti da artigiani moderni sulla base delle istruzioni fornite nel libro. Gli scritti di altri autori, pur descrivendo il funzionamento delle macchine in modo soddisfacente, spesso forniscono soltanto indicazioni sporadiche sulla loro fabbricazione. La volontà e la capacità di comunicare le conoscenze acquisite con il tirocinio, l'esperienza e la sperimentazione consapevole conferiscono alle opere di al-Ǧazarī un valore unico.
Al-Ǧazarī era un ingegnere fiero di portare avanti una lunga tradizione di tecnologia meccanica, e per molti versi il suo lavoro può essere considerato la quintessenza e il culmine della ricerca scientifica musulmana in questo campo. Tranne una o due notevoli eccezioni, quali il complesso ingranaggio di al-Murādī, si può affermare che al-Ǧazarī fosse a conoscenza della maggior parte delle macchine usate dai suoi predecessori, a cui apportò una serie di innovazioni e miglioramenti. Spesso, infatti, si dichiara in debito con gli ingegneri del passato, per esempio Archimede o i Banū Mūsā, in relazione a una determinata tecnica o tipo di macchina, e descrive i congegni del passato in modo particolareggiato prima di spiegare i miglioramenti da lui stesso apportati. Per esempio, sia gli ingegneri ellenistici sia quelli musulmani utilizzavano negli orologi ad acqua un particolare regolatore di flusso. Al-Ǧazarī, avendo scoperto per via sperimentale che il meccanismo non era accurato, descrive come avesse realizzato uno strumento più preciso, calibrando attentamente un piccolo foro per generare le giuste velocità di flusso in presenza di diversi dislivelli.
Per farsi un'idea dei metodi di al-Ǧazarī e dei tipi di congegni che realizzò, sarà sufficiente menzionare i macchinari idraulici e alcuni dei relativi meccanismi impiegati nel suo terzo e nel suo quarto orologio ad acqua. Questi orologi erano azionati da una tazza a immersione, o ṭarǧahār, un dispositivo impiegato normalmente per regolare i tempi di distribuzione dell'acqua per l'irrigazione. Questi due orologi sono gli unici esempi noti dell'impiego del ṭarǧahār per la misurazione del tempo ed è probabile che il sistema fosse un'invenzione originale di al-Ǧazarī. Sarebbe impossibile descrivere dettagliatamente anche soltanto uno degli orologi, dato il numero di automi e dei relativi meccanismi di azionamento che questi comprendevano, alcuni dei quali molto ingegnosi.
Tenteremo però di descrivere i principî di base. La tazza a, dotata di un foro calibrato sul fondo, galleggia sulla superficie dell'acqua nel serbatoio n, al quale è collegata per mezzo di tre giunture piatte con legami a spillo b. Alla tazza è saldato trasversalmente un listello, con il foro k al centro. In cima all'orologio, sostenuto da quattro colonne, è situato il 'castello', una scatola quadrata di ottone, con una cupola amovibile. All'interno del castello si trova il meccanismo di rilascio della pallina (non visibile), dal quale parte un canaletto che porta alla testa f di un uccello. La coda del serpente, che in realtà è una puleggia, ruota su un asse poggiato su traverse fissate tra ciascuna coppia di colonne. La bocca aperta del serpente si trova proprio sotto la testa dell'uccello. Una catenella d unisce il fondo della tazza a una forcella posta nella coda del serpente. Il filo h è collegato al foro k e al meccanismo di rilascio della pallina. La tazza vuota, che all'inizio dell'intervallo di tempo (un'ora o mezz'ora) galleggia sulla superficie dell'acqua, comincia a immergersi lentamente e alla fine dell'intervallo affonda repentinamente. Il filo h aziona il meccanismo di rilascio della pallina, la quale rotola attraverso la bocca dell'uccello e, uscendo dal becco incernierato, cade nella bocca del serpente. La testa del serpente si abbassa e la catena d solleva la tazza, che s'inclina per l'azione combinata della catena e delle giunture b, lasciando fuoriuscire il suo contenuto. La pallina cade dalla bocca del serpente su un campanello e la testa del serpente si solleva tornando nella posizione originale. La tazza vuota ritorna in posizione orizzontale sulla superficie dell'acqua e il ciclo si ripete. Si tratta quindi di un sistema a ciclo chiuso, dato che l'orologio continuerà a funzionare finché ci saranno palline nel caricatore. Il concetto di funzionamento continuo ricorre in altre parti dell'opera di al-Ǧazarī: nel suo primo orologio, per esempio, il dislivello dell'acqua sopra il foro è mantenuto costante da un sistema di controllo idraulico a retroazione.
Le opere di al-Ǧazarī contengono molte idee e tecniche inedite, come la pompa a doppio effetto con tubi di aspirazione e l'uso di una manovella in una macchina (entrambi già citati); la calibrazione degli orifizi; la laminazione del legno da costruzione per ridurne la deformazione; il bilanciamento statico delle ruote; l'uso di modelli di carta nella progettazione; la fusione dei metalli in stampi chiusi con terra a verde. Da alcuni riferimenti si deduce che egli conoscesse anche un metodo per controllare la velocità di una ruota per mezzo di un qualche tipo di scappamento. Si tratta di un dato molto significativo, specie se lo si mette in relazione alla descrizione di un orologio contenuta in un'opera spagnola del 1277, composta interamente di traduzioni o parafrasi di scritti arabi precedenti. L'orologio consisteva in un grosso tamburo di legno di noce o di giuggiolo, dotato di giunture molto serrate e sigillate con cera o resina. L'interno del tamburo era diviso in dodici compartimenti, messi in comunicazione da piccoli fori attraverso i quali scorreva del mercurio; ogni compartimento era riempito soltanto a metà di mercurio. Il tamburo era montato sullo stesso asse di una grande ruota azionata da un meccanismo a pesi avvolto attorno alla ruota. Sull'asse si trovava anche un pignone con sei denti che s'ingranavano in 36 denti di quercia lungo la circonferenza di un astrolabio. Per compiere una rivoluzione completa, il tamburo pieno di mercurio e il pignone impiegavano quattro ore, mentre l'astrolabio ventiquattro. Sappiamo che gli orologi dotati di tale meccanismo funzionavano in modo soddisfacente, dato che se ne fabbricarono molti in Europa nel XVII e nel XVIII secolo. Questo tipo di dispositivo di misurazione del tempo, tuttavia, con il suo efficace scappamento a mercurio, era già noto nel mondo islamico sin dall'XI sec., almeno 200 anni prima della comparsa in Occidente degli orologi azionati da pesi.
L'astrolabio
L'astrolabio era lo strumento astronomico per eccellenza del Medioevo; ideato in età ellenistica, fu perfezionato dagli scienziati e dagli artigiani musulmani. Essenzialmente si tratta di un disco piatto, detto 'timpano', collocato all'interno di un anello graduato, saldato al bordo di una base circolare detta 'madre'. Sul timpano sono incise le linee di azimut e di altezza per la latitudine a cui si trova l'osservatore. Attorno a un perno centrale fissato alla madre ruota la rete, detta anche aracnea, fatta di metallo traforato. La rete è sostanzialmente una mappa siderale, in cui le principali stelle fisse sono rappresentate da fori o da pietre preziose; vi è anche un anello che raffigura l'eclittica solare. Sopra alla rete ruota un'alidada. Sia sul timpano sia sull'alidada sono incise alcune proiezioni stereografiche. L'astrolabio, in genere fatto di ottone, consente di risolvere rapidamente molti problemi astronomici che senza di esso richiederebbero lunghi calcoli. È stato accertato che i primi trattati europei sull'astrolabio erano di ispirazione araba e furono scritti in latino all'inizio dell'XI sec. nell'abbazia di Ripoll in Catalogna. Da questo centro, la conoscenza dell'astrolabio si diffuse nel resto dell'Europa.
Altri strumenti di calcolo musulmani
Nel Tardo Medioevo, nel mondo musulmano furono ideati altri strumenti di calcolo, il più importante dei quali è forse l'equatoriale, inventato nella Spagna musulmana all'inizio dell'XI secolo. Esso permetteva di stabilire la longitudine di un pianeta in un determinato momento. A questo scopo si doveva riprodurre in scala, con mezzi meccanici e grafici, la configurazione tolemaica per quel determinato pianeta nel momento stabilito. Così come era accaduto per l'astrolabio, la conoscenza dell'equatoriale si diffuse in Europa dal mondo musulmano.
Un aspetto importante della meccanica di precisione islamica è la tradizione degli strumenti astronomici a ingranaggi, documentata nella letteratura araba. L'esempio più notevole è il meccanismo astronomico a ingranaggi descritto da al-Bīrūnī, che lo chiamò ḥuqq al-qamar (scatola della Luna). Dal testo di al-Bīrūnī si comprende che questo tipo di meccanismi era già utilizzato nell'astronomia islamica. Un esempio che ci è pervenuto è il calendario a ingranaggi costruito da Muḥammad ibn Abī Bakr al-Ibārī al-Iṣfāhānī, risalente al 1221/1222 e montato sul retro di un astrolabio; attualmente è conservato presso il Museum of the History of Science di Oxford. La tradizione degli strumenti astronomici a ingranaggi continuò per molti secoli; infatti, in al-Ṭuruq al-saniyya di Taqī al-Dīn troviamo la descrizione di un meccanismo a ingranaggi chiamato ḥuqq al-qamar, come lo strumento di al-Bīrūnī. Taqī al-Dīn afferma che "per quanto riguarda il modo di impiego, esistono trattati appositi e non occorre quindi discuterne qui" (Dublino, Chester Beatty Library, 5232, f. 4).
Nel descrivere il meccanismo rinvenuto ad Anticitera, Derek J. de Solla Price osserva che "probabilmente la tradizione di cui questo meccanismo faceva parte s'inseriva in un complesso di conoscenze andate perdute ma che erano note agli Arabi. Essi le svilupparono e le trasmisero all'Europa medievale, dove divennero la base di tutta una serie di invenzioni successive nel campo dell'orologeria" (de Solla Price 1959, pp. 60-67).
I meccanismi astronomici a ingranaggi appena citati erano manuali. Come abbiamo detto, tuttavia, la macchina di al-Murādī mostra un sistema d'ingranaggi per la trasmissione della coppia molto più complesso di qualsiasi altro ingranaggio non manuale che, per quanto ne sappiamo, esistesse all'epoca.
Molti concetti incorporati in seguito nell'orologio meccanico erano stati introdotti secoli prima della sua invenzione: treni complessi di ingranaggi, ingranaggi a settore in al-Murādī e al-Ǧazarī; ingranaggi epicicloidali in al-Murādī; simulazioni astronomiche e biologiche negli automi meccanici e negli orologi ad acqua ellenistici e islamici; meccanismi di azionamento a pesi nelle pompe e negli orologi a mercurio islamici; scappamenti a vasi di mercurio; e altri metodi di controllo delle velocità delle ruote idrauliche. Si potrebbero anche paragonare i pesanti galleggianti degli orologi ad acqua a pesi, e il sistema di dislivello costante a uno scappamento.
Sappiamo che in Spagna i cristiani appresero la tecnologia degli orologi ad acqua musulmani non soltanto attraverso la traduzione di testi arabi in spagnolo, ma anche osservando direttamente gli orologi reali in funzione a Toledo. Queste conoscenze furono trasmesse al resto dell'Europa, determinando nell'XI sec. un notevole progresso delle tecniche di misurazione del tempo con meccanismi idraulici. In un trattato del 1271, Roberto Anglico accenna al fatto che gli orologiai (vale a dire i fabbricanti di orologi ad acqua) stavano cercando di risolvere il problema dello scappamento meccanico ed erano sul punto di raggiungere questo obiettivo. Il primo scappamento efficiente comparve qualche anno più tardi. Questo fatto costituisce una prova, benché solo indiziaria, di un'influenza islamica sull'invenzione dell'orologio meccanico.
Intorno alla metà del XVI sec., giunsero nell'Impero ottomano gli orologi meccanici fabbricati in Germania e in altri paesi europei. In al-Kawākib al-durriyya fī 'l-binkāmāt al-dawriyya (Le stelle più luminose per la fabbricazione degli orologi meccanici), composto nel 1556, Taqī al-Dīn descrive un orologio che incorpora alcune delle sue invenzioni. Egli si riferiva all'orologio da tasca (a molle), da ciò deduciamo che si trattasse di un oggetto molto comune.
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