La civilta islamica: scienze della vita. La professione medica
La professione medica
L'educazione e l'etica medica nel mondo islamico furono influenzate in modo rilevante dalla filosofia e dalla medicina ellenistica. La stessa tradizione che tradusse la vasta opera di Galeno dal greco in arabo introdusse il curriculum canonico degli studi di medicina insieme a metodi specifici d'istruzione. L'influenza della tradizione ellenistica sulla cultura medica islamica fu preponderante, sebbene la pratica e l'esperienza medica spesso precedessero e accompagnassero lo studio della teoria galenica, e generi non scientifici, come la poesia e i trattati religiosi, testimoniano la diffusione nella medicina islamica d'epoca medievale di elementi religiosi, popolari e magici.
I medici musulmani trasmisero il giuramento ippocratico (con alcune interessanti modifiche di carattere monoteistico), La legge e il Testamento ascritto a Ippocrate. La legge elogia la medicina come la più nobile di tutte le scienze, in contrasto con l'incompetenza di molti fra coloro che la praticano (un argomento di base della maggior parte delle riflessioni sullo stato dell'arte), e richiede un'idonea disposizione naturale del giovane che intende dedicarsi agli studi medici. Il Testamento ippocratico prescrive in dettaglio le qualità specifiche del carattere, della condotta e dell'aspetto dello studente di medicina: buona costituzione fisica, eloquenza, castità, coraggio, comprensione con i pazienti, pulizia, ecc. Un'altra evidenza della posizione centrale di Ippocrate è la durevole popolarità dei suoi Aforismi nella tradizione araba ed ebraica. Su questa collezione di osservazioni mediche furono scritti un gran numero di commentari. Il suo primo frammento, il celebre: "La vita è breve, l'Arte è lunga, il tempo è angusto, l'empirismo è rischioso, la decisione difficile" (in una delle varie versioni dei commentari arabi), fu interpretato, per esempio, da Ibn Hindū (m. 1019 o 1029), come includente un ammonimento per il medico in ognuna delle sue parole. I primi tre punti esortano il medico a comporre opere, in quanto la vita dell'individuo è troppo breve per apprendere tutto il sapere medico, ma gli sforzi combinati della comunità dei medici assicurano, o quasi, la perfezione dell'Arte. Il quarto punto, 'l'empirismo è rischioso', implica, se questo non è accompagnato dalla teoria, una conoscenza teoretica che formula diagnosi differenti di condizioni patologiche simili. L'ultimo punto, 'la decisione è difficile', sollecita il medico alla vigilanza, all'attenzione e all'osservazione oculata di tutti gli sviluppi di una data malattia.
La disciplina medica, sia nel mondo greco-latino sia in quello islamico, non deteneva una posizione stabilita nell'enciclopedia delle scienze. Al-Ḫwārizmī (X sec.), compilatore di un dizionario terminologico, include la medicina nella sezione dedicata alle 'scienze straniere'; l'andaluso Ibn Ḥazm (m. 456/1064) pone la medicina fra le 'discipline universali', non associata a una particolare comunità, come le scienze religiose o la storia. Il filosofo al-Fārābī (m. 950) omise la medicina dalla sua classificazione delle scienze, mentre l'influente Avicenna (m. 1037), nelle sue varie enciclopedie, esemplifica la relazione fra le scienze principali e le discipline dipendenti con l'esempio della disciplina subordinata della medicina, la quale acquisisce i suoi principî dalla scienza della Natura. In ogni caso gli autori medici insistettero sullo status filosofico della medicina. Il loro maggior esponente fu Galeno, profondamente versato nella storia della filosofia, autore del trattato programmatico Quod optimus medicus sit quoque philosophus, tradotto in arabo e spesso citato dagli autori arabi, nel quale idealizza Ippocrate come figura archetipica del medico che abbraccia tutti i campi del sapere e postula l'uso della logica e la fondazione di tutta la pratica medica sulla teoria. La rivalità fra la medicina e la filosofia si basava anche su motivi di ordine materiale: la filosofia, nella tarda scuola alessandrina, non era una carriera pubblica e i filosofi dipendevano parzialmente dai compensi dati dagli studenti. Olimpiodoro (m. 565) domandò: "Perché la filosofia non ha onorari esatti, come le altre arti e mestieri? La risposta è che queste non professano di formare il carattere dei loro studenti, ma solo di farne degli specialisti: il filosofo, comunque, si impegna a fare dei suoi studenti delle buone persone, e quindi considera sé stesso meritevole della loro gratitudine" (Westerink 1964, p. 140).
Numerosi aristotelici traevano il proprio guadagno lavorando come retori, grammatici e medici; l'ultimo gruppo diede il proprio apporto al quadro teoretico della medicina e contribuì a stabilire la norma secondo la quale il medico, come il filosofo, non doveva essere remunerato.
All'opportunità o meno del compenso del medico, sebbene questo fosse un argomento marginale all'interno dell'etica medica, un ignoto autore dell'XI sec., ῾Abd al-Wadūd ibn ῾Abd al-Malik, dedicò un intero trattato, Ḏamm al-takassub bi-ṣinā῾at al-ṭibb (Disapprovazione del ricevere profitto dall'arte della medicina). L'argomentazione principale dell'autore riguarda la discrepanza esistente fra i requisiti della difficile e nobile arte della medicina e gli interessi di coloro che la praticano. Particolare rilievo è dato alla bassezza della presente generazione di giovani studenti e alla mancanza d'istruzione dei medici. Due interessanti sezioni, dirette contro i religiosi suoi contemporanei, sono dedicate alla confutazione della propaganda di coloro che affermano che la medicina non è in grado di fare nulla per il corpo umano, e dell'altrettanto fallace principio secondo il quale ciò che il medico ascrive a sé è in realtà opera di Dio. Molto spazio ed enfasi sono riservati alle lamentevoli relazioni fra colleghi, alla loro avidità e riluttanza ad assumersi congiuntamente la responsabilità e la remunerazione nei casi di diagnosi complesse che richiedono l'intervento di più medici. Lo scritto elenca numerosi esempi di ignoranza, di trattamenti medici insensati, di mancanza di conoscenza degli scritti di base di Ippocrate e Galeno e di insensibilità verso il carattere unico della medicina. L'incompetenza, secondo l'autore, è frutto della brama per il denaro, ed esercitare la medicina con il solo fine di lucrare ostacola l'ideale della scienza medica.
Tale argomentazione era fondamentalmente derivata dal pensiero di Galeno. Il suo trattato, De optimo medico cognoscendo, sul modo per riconoscere il miglior medico, perduto nell'originale greco ma esistente in traduzione araba con il titolo di Miḥnat al-ṭabīb (Esame del medico), merita di essere qui menzionato, in primo luogo per cogliere l'origine della tradizione alla quale ῾Abd al-Wadūd e molti altri suoi colleghi si ricollegano, e anche per comprendere il contesto all'interno del quale ebbe luogo il dibattito 'sull'esame del medico'. Questo fu il titolo di trattati di autori come Yūḥannā ibn Māsawayh (m. 243/857) e il suo allievo Ḥunayn ibn Isḥāq; inoltre una parte considerevole dell'argomentazione di Galeno fu ripresa da al-Rāzī nella sua opera. Igiene, gentilezza e una profonda conoscenza degli autori antichi erano considerate attributi indispensabili del medico. Galeno focalizzò la sua discussione sull'etica ippocratica in contrapposizione alla corruzione morale e professionale dell'alta società romana del suo tempo. Secondo Galeno, l'esame per stabilire la competenza di un medico si doveva basare sulla sua capacità di formulare una prognosi corretta che includesse l'analisi della malattia (ed escludesse le misure terapeutiche adottate da altre persone) e provasse, quasi ex eventu, soprattutto per la pratica futura, l'abilità del candidato. Galeno, fra le autorità, nomina in primo luogo Ippocrate e poi Erasistrato, Diocle, Erofilo e altri. Galeno presenta sé stesso come il medico perfetto e offre una serie di insigni diagnosi e prognosi da lui eseguite. Gli elementi della sua argomentazione che si perpetuarono nella tradizione islamica sono: a) la credenza nell'autorità canonica scritta; b) la convinzione che l'esperienza sia il criterio ultimo della competenza professionale; c) l'intuizione che la competenza del medico non possa essere separata dalla sua rettitudine morale. In particolare quest'ultimo aspetto, oltre che da Galeno, fu ripreso in alcuni paragrafi degli scritti di al-Rāzī, ῾Abd al-Wadūd e altri.
Io [Galeno] affermo che chiunque voglia distinguere fra il migliore e il peggiore dei medici deve in primo luogo chiedersi quali sono le attività cui il candidato dedica la maggior parte del suo tempo. Queste sono la lettura dei testi e il trattamento dei pazienti? O egli pensa (solo) a bussare alle porte dei benestanti, vagando da una casa a un'altra e accompagnandoli nei loro viaggi? Se si apprende che il candidato fa tali cose non vi è alcuna necessità di esaminarlo, in quanto si scoprirebbe che egli possiede soltanto il sapere di un impostore, di un portinaio e di un compagno di bevute. (De optimo medico cognoscendo, p. 114)
Il controllo dei professionisti privati, in una città media islamica, era uno dei compiti del muḥtasib, l'ispettore statale degli affari morali e pubblici. Egli poteva richiedere al medico di recitare il giuramento ippocratico ed esaminarlo su una serie di testi, ma in realtà, la funzione pubblica del muḥtasib come esaminatore medico era un fenomeno relativamente raro. Per una spettacolare casualità, nel 931, il califfo al-Muqtadir incaricò il medico Sinān ibn Ṯābit di esaminare i medici di Baghdad. Il medico e filosofo aristotelico ῾Abd al-Laṭīf al-Baġdādī (m. 1231), uno dei tanti commentatori degli Aforismi di Ippocrate, in un breve trattato sul diabete, descrive l'ignoranza dei suoi colleghi contemporanei e osserva che a Baghdad, Cairo e Damasco i medici erano abilitati a esercitare solo con una licenza, mentre ad Aleppo non vigeva tale regola.
Un simile divario fra pretese letterarie e realtà esisteva probabilmente a proposito della remunerazione del medico. Varie opere sulla condotta del medico, di aforismi medici, e su polemiche simili a quelle di ῾Abd al-Wadūd, contengono ammonizioni analoghe alla seguente massima di Isḥāq ibn Sulaymān al-Isrā᾽īlī: "Sii diligente nel visitare e curare i poveri e i bisognosi, in quanto non vi è carità maggiore di questa" (Mūsar hā-rôfe᾽īni, massima 30). Si notino anche altre massime più orientate praticamente: "Stabilisci la tua parcella con il paziente quando la malattia è al suo stadio più grave, perché quando egli starà meglio si dimenticherà di quello che hai fatto per lui"; "Quanto più domandi per il tuo lavoro e quanto più caro è il tuo trattamento, tanto più rispettata sarà la tua opera dall'uomo"; "Il medico non deve dedicare i suoi pensieri e attenzioni al trattamento gratuito dei pazienti. Le sue gambe non lo porterebbero a casa e il suo trattamento non sarebbe di alcuna utilità" (ibidem, massime 39, 40, 41). Fino a oggi si conoscono solo pochi esempi di medici che agivano in accordo ai principî di ῾Abd al-Wadūd. Un antico, forse leggendario, esempio d'eminenza medica unita a disinteresse per il profitto è riferito da Ibn Ḥaǧar al-῾Asqalānī a proposito del medico personale del califfo omayyade ῾Umar ibn al-῾Abd al-῾Azīz (r. 717-720), un certo Ibn Abǧar, il quale era un compilatore di tradizioni religiose e un esperto medico che non accettava remunerazioni. Il famoso storico della medicina Ibn Abī Uṣaybi῾a narra di un medico di Siviglia, Abū Bakr al-Zuhrī (X sec.), il quale trattava gratuitamente i pazienti, guadagnandosi da vivere scrivendo per essi. Lo stesso Ibn Abī Uṣaybi῾a offre altri esempi di medici che svolgevano diversi mestieri, come ῾Abd al-Mun῾im al-Ǧilyānī (m. 1206), il quale, oltre a guadagnare dalla composizione di panegirici, aveva uno studio medico a Damasco, o Raḍī al-Dīn al-Raḥbī (m. 1234) che lavorava nella bottega di un farmacista dove copiava libri e si occupava di commercio, o Kamāl al-Dīn al-Ḥimṣī (m. 1215), che aveva un negozio a Damasco ed era avverso a guadagnare dalla pratica medica. Un esempio più tardo è quello citato nel XVII sec. da al-Ġazzī, il quale riferisce di un medico di Damasco, ῾Abd al-Qādir ibn Muḥammad, che visitava i poveri nelle loro case, a volte senza domandargli neanche il costo delle medicine. La professione medica nell'Islam medievale era spesso esercitata anche da cristiani ed ebrei. Goitein (1967-1988) nel suo studio sulla comunità ebraica del Cairo, riferisce che la professione medica si esercitava insieme ad altre come l'insegnamento ai bambini, il commercio dei libri, la lavorazione dello zucchero. Altri due esempi si ritrovano fra i medici cristiani: Ibn al-Tilmīḏ (m. 1165), direttore del rinomato ospedale ῾Aḍudī di Baghdad, il quale non accettava regali se non da califfi e sultani, e Ibn al-Muṭrān (m. 1191). Questi esempi indicano che, nella maggior parte dei casi, il rifiuto di accettare compensi per la professione medica era legato all'esercizio di altre professioni o al mecenatismo.
Gli esempi di remunerazioni elevate o esorbitanti sono certamente più rari e quasi sempre legati al mecenatismo regale. Ogni califfo abbaside era assistito da un gruppo di medici guidati da un direttore (ra᾽īs al-aṭibbā᾽); i medici che assistevano il direttore erano sotto il suo diretto controllo e ricevevano un onorario alquanto inferiore. Il califfo abbaside Hārūn al-Rašīd (m. 809), corpulento e amante del buon cibo, era operato di flebotomia due volte all'anno dal suo medico personale Ǧibrīl ibn Baḫtīšū῾ (m. 827), il quale riceveva 50.000 dirham per ogni operazione. Sotto il califfato del figlio di Hārūn, al-Ma᾽mūn (r. 813-833), Ǧibrīl fu posto agli arresti e fu riammesso al servizio medico solo nell'825, quando il califfo si ammalò seriamente. Dopo la guarigione dovuta alla eccezionale abilità di Ǧibrīl, il califfo lo reinvestì della sua antica posizione, gli restituì le proprietà confiscate e lo remunerò con un milione di dirham.
Nella tradizione galenica, lo studio di un certo numero di testi e manuali di base era considerato un requisito indispensabile per la competenza del medico. Secondo l'opinione di un medico contraria alla vasta maggioranza, invece, chi apprende attraverso l'istruzione orale dai maestri impara meglio e più facilmente di chi studia sui libri. Quest'affermazione fa parte della diatriba epistolare del 1049-1050 tra due ben noti medici del Cairo: ῾Alī ibn Riḍwān e Abū 'l-Ḥasan ibn Buṭlān. Il secondo sosteneva che l'apprendimento dalla viva voce era preferibile perché, tra gli altri motivi, le parole del maestro possono accordarsi alle capacità degli studenti, e inoltre il testo può essere ambiguo o alterato. Ibn Riḍwān si poneva invece all'altro estremo: la scienza medica può essere appresa solo dai libri. In realtà una combinazione di teoria e pratica si situava alla base degli studi medici e quasi tutti i manuali di medicina comprendevano una sezione teorica seguita da una sezione pratica. La conoscenza degli scritti di Ippocrate e Galeno era ritenuta indispensabile. Del Corpus Hippocraticum erano studiati in primo luogo gli Aforismi, seguiti dai Prognostica, De diaeta acutorum, De aëre, aquis et locis. Alcune opere di Galeno, De sectis, Ars medica, De pulsibus ad tirones e Ad Glauconem de methodo medendi facevano parte degli studi di base degli studenti, seguite dal De elementis ex Hippocrate, De temperamentis, De facultatibus naturalibus, De accidenti et morbo, De locis affectis, De pulsibus, De differentiis febrium, De crisibus, De diebus decretoriis, De methodo medendi e infine De sanitate tuenda. L'etica medica si basava, naturalmente, sul giuramento ippocratico, mentre gli elementi di base dell'esame medico erano contenuti nella menzionata Miḥnat al-ṭabīb di Galeno. Come Galeno, che insiste sull'autorità di Ippocrate quale laudator temporis acti, così gli autori arabi lodano entrambe le due autorità classiche e ne deplorano il superficiale trattamento "dovuto al desiderio di compendiare le loro opere, di scrivere commentari su queste, e di apprendere rapidamente la medicina" (Lyons 1961, p. 69). La maggior parte delle opere di Ippocrate e Galeno fu tradotta in arabo, insieme ai lavori di Rufo di Efeso e altri; molte di queste, in epoca alessandrina, furono ridotte in compendi e sinossi, i cosiddetti Ǧawāmi῾ al-Iskandarāniyyīn o Summaria Alexandrinorum.
In parte ispirati dagli Aforismi di Ippocrate, e dal loro particolare ricorso a informazioni succinte e variegate, nel mondo arabo furono composte numerose opere in forma di brevi definizioni o assiomi, come quelle di Yūḥannā ibn Māsawayh, al-Rāzī, ῾Ubayd Allāh ibn Baḫtīšū῾ (m. dopo il 1058), gli aforismi di Maimonide e Isḥāq al-Isrā᾽īlī.
I manuali che raccolgono le discipline mediche della tradizione ellenistica (e in una certa misura indiana) ‒ il modello scientifico della dottrina degli elementi, la fisiologia, l'anatomia, la nosologia, la diagnostica e la terapeutica, insieme alla chirurgia e alla farmacologia ‒ sono un prodotto del X-XI sec.: la vasta opera di compilazione del Kitāb al-Ḥāwī fī 'l-ṭibb (Libro comprensivo della medicina) di al-Rāzī, e il suo Kitāb al-ṭibb al-manṣūrī (Libro di medicina dedicato ad al-Manṣūr), del quale il nono libro sulla patologia e la terapeutica a capite ad calcem riscosse una particolare fortuna nel mondo latino; il Kitāb Kāmil al-ṣinā῾a al-ṭibbiyya (La summa dell'arte medica) di al-Maǧūsī, apprezzato per la chiarezza dell'esposizione e per la sua sistematicità; e il compendio finale, il Canone del grande Avicenna, che il medico generale probabilmente utilizzava meno del manuale di al-Maǧūsī, ma la cui forza d'integrazione e la raffinatezza scolastica affascinò generazioni di medici, le quali, al fine di rendere il Canone più utilizzabile, composero numerosi commentari e compendi.
La riflessione deontologica era esplicitamente assente in questi manuali e discussa solo marginalmente nelle collezioni di aforismi. L'etica professionale, nella letteratura araba, era trattata principalmente in due generi di opere: nei lavori sull'adab, vale a dire la 'buona educazione' o regole della condotta di una professione (per es., il giudice, l'insegnante, il cortigiano, il segretario), e nei testi polemici contro la classe medica. Un classico esempio dell'ultimo genere è l'Adab al-ṭabīb (L'etica del medico) composto nel IX sec. da Isḥāq ibn ῾Alī al-Ruhāwī di Edessa. Questo autore, di incerta affiliazione religiosa, noto solo per quest'opera, per alcune referenze bibliografiche a proposito della compilazione di una parte dei Summaria Alexandrinorum e per un trattato sull'esame del medico, fu un fine osservatore del pensiero e della pratica medica del suo tempo, un difensore dell'argomentazione razionale, un oppositore della teoria della predestinazione e ben versato nella letteratura medica ed etica d'epoca ellenistica. I venti capitoli del suo lavoro sono divisi in due parti. La prima tratta dei fondamenti religiosi della professione medica, e include la credenza nella ricompensa e punizione nella vita futura (con consistenti citazioni dal Fedone di Platone). I capitoli della prima parte trattano la cura del corpo (in particolare di quello del medico), le precauzioni per i pazienti difficili, le istruzioni per i membri della famiglia che assistono i pazienti, il buon comportamento di coloro che visitano il malato, le regole per la somministrazione dei farmaci semplici e composti, le regole per interrogare il paziente o chi lo assiste, in accordo alle quattro categorie dell'esistenza, della quiddità, della qualità e della ragione. La seconda parte dell'opera tratta della relazione fra il paziente e il medico, affermando che quest'ultimo è sia medico sia filosofo e rivendicando la sua competenza tanto per il corpo quanto per lo spirito. Altri capitoli trattano: l'utilità, legittimità, nobiltà e finanche l'origine divina della medicina; le ragioni dello stato di decadenza contemporanea della disciplina, fra le quali l'autore menziona la negligenza degli studenti nello studio e nella pratica, l'inadeguatezza degli onorari che costringono il medico a esercitare un doppio lavoro, l'infiltrazione di elementi incompetenti all'interno della comunità medica, la credenza che la medicina sia inutile e la sua pratica indice di un serio attacco alla fede religiosa; gli elementi per l'esame del medico, concernenti in particolare gli strumenti medici e l'uso appropriato dei farmaci; l'etica medica; un'interessante difesa della specializzazione professionale, in quanto colui che pretende di padroneggiare l'intera scienza medica è così stupido che non necessita di un'ulteriore verifica; i criteri per conoscere la differenza fra gli espedienti leciti (ḥiyal) usati dal medico e gli inganni dei ciarlatani (dastkāriyya); ammonizioni per il medico al fine di prendere precauzioni contro le malattie della vecchiaia quando egli è ancora in salute.
Altri trattati minori sull'etica medica furono composti fra l'XI e il XII secolo. Fra questi, il Tašwīq al-ṭibb (La passione per la medicina), composto nel 1072 dall'autore cristiano Ṣā῾id ibn al-Ḥasan, che contiene un elenco esemplare di domande da formulare allo studente di medicina agli esami; il breve trattato di ῾Alī ibn Riḍwān, Fī 'l-taṭarruq bi-'l-ṭibb ilā 'l-sa῾āda (Sul raggiungimento della felicità attraverso la professione medica), che tratta principalmente della tradizione ippocratica; il libro Iḥyā᾽ al-ṣinā῾a al-ṭibbiyya (La rivivificazione dell'arte medica), dedicato al sultano ayyubide Ṣalāḥ al-Dīn, del medico ebreo Ibn Ǧumay῾ (m. 594/1198), il quale divise il suo lavoro in tre capitoli: qualità e problemi della medicina, ragioni del suo declino (che include una breve presentazione della sua storia), strade per rinnovare l'arte medica. Più lungo e sostanziale di questi fu il più antico al-Miftāḥ fī 'l-ṭibb (La chiave della medicina) del letterato e ufficiale governativo Ibn Hindū. Il suo lavoro si propone di essere un'introduzione alla medicina per gli studenti e contiene sezioni considerevoli di carattere programmatico. Una delle principali intenzioni dell'autore è di chiarire la relazione fra Dio, la Natura, le influenze esterne e la medicina. Citando Ippocrate, il quale nell'opera Le epidemie disse che la Natura è sufficiente a curare le malattie e che il medico è il suo servitore, Ibn Hindū afferma che il medico è una specie di custode incaricato da Dio del compito di preservare la salute dell'uomo attraverso l'alimentazione e la medicina, e che questo custode non può essere accusato se il paziente non guarisce dopo che egli l'ha trattato in accordo con tutto ciò che è nel potere della medicina. Connesso a questo problema è il parere di Ibn Hindū sui religiosi, i quali temono che il riconoscimento della medicina implichi il contrapporsi alla volontà divina sul destino umano. Essi, osserva Ibn Hindū, dovrebbero smettere di mangiare quando hanno fame e di bere quando hanno sete, e in ciò non vi sarebbe nulla di sorprendente, in quanto, secondo l'autore, la credenza che la medicina non sia conciliabile con la visione religiosa, li ha portati a compiere azioni ben più eccentriche.
Nei secoli successivi la trattazione razionalistica dell'argomento s'indebolisce. Un autore come Ibn al-Quff (m. 685/1286) fu molto più rispettoso verso gli argomenti teologici e, sebbene fosse un cristiano, la sua posizione è chiaramente legata al pensiero religioso islamico. Nel suo commentario agli Aforismi di Ippocrate, Ibn al-Quff afferma che, avendo Dio creato la salute, Egli ha anche creato la medicina al fine di conservarla.
All'encomio dell'arte medica si contrapponeva il biasimo dei suoi praticanti. La polemica contro impostori e ciarlatani era un soggetto caro sia alla satira sia alla letteratura medica. Il caso più noto a questo riguardo fu probabilmente la satira di Ibn Buṭlān nella Da῾wat al-aṭibbā᾽ (Il banchetto dei medici), opera della quale alcuni manoscritti contengono varie illustrazioni. Questo lavoro racchiude molti pregiudizi popolari sulla medicina e i suoi praticanti: l'ignoranza delle autorità antiche, l'incompetenza del medico generico, dell'oftalmologo, del chirurgo, del flebotomo, del farmacista, una schiera di deficienze morali caratteristiche del medico (avidità, invidia fra colleghi, pomposità) e le caricature del medico ammazza persone e di quello che non è in grado di curare sé stesso e sfuggire la morte.
È al momento difficile offrire stime esatte a proposito della trasmissione del sapere medico nelle istituzioni islamiche, se questo avvenisse in prevalenza attraverso la lettura dei testi e dei manuali, l'insegnamento orale o la pratica. Come in altre discipline si conoscono numerosi casi nel quale il sapere e la pratica medica erano trasmessi di padre in figlio, alle volte anche per varie generazioni. L'esempio più famoso di dinastia medica è quello della famiglia dei Baḫtīšū῾, i quali svolsero un ruolo rilevante nella trasmissione del sapere ellenistico, in particolare attraverso il siriaco, all'interno della medicina araba. Ǧurǧīs, fondatore della dinastia, fu il direttore dell'ospedale di Jundishapur e fu chiamato alla corte del califfo abbaside di Baghdad nel 765. L'ultimo discendente noto, dopo sette generazioni di medici, fu ῾Alī ibn Ibrāhīm, un oftalmologo che visse nella seconda metà dell'XI secolo. Un ruolo importante era svolto dagli ospedali metropolitani, che oltre a dedicarsi al trattamento dei malati disponevano di una biblioteca e istituivano corsi di lezioni tenute dal direttore e dai suoi colleghi. I più importanti medici furono anche professori della loro disciplina e lavoravano sia negli ospedali sia alle corti di califfi, sultani e regnanti locali, che costituivano un altro luogo classico per l'istruzione medica. Infine, si conoscono numerosi casi di medici urbani che accettavano stranieri come studenti, i quali a volte erano successivamente inviati presso il muḥtasib, al fine di sostenere gli esami per conseguire la licenza.
Oltre alle regole d'autodisciplina della comunità medica il controllo pubblico della professione, come detto, era affidato al muḥtasib, il quale, incaricato dallo Stato attraverso il governatore o il giudice, agiva in collaborazione con quest'ultimo e la polizia. Due noti testi sulla ḥisba, la disciplina del muḥtasib, sono quelli del siriano ῾Abd al-Raḥmān al-Šayzarī (m. 1193) e quello dell'egiziano Ibn al-Uḫuwwa (inizio del XIV sec.). Al-Šayzarī dedica vari capitoli della sua opera alla professione medica: il diciassettesimo tratta dei farmacisti fraudolenti che sostituiscono le medicine con surrogati più economici; il trentatreesimo fa alcune osservazioni sulle pratiche illecite dei veterinari; il trentaseiesimo tratta gli errori di flebotomi e coppettatori e il successivo gli errori di oftalmologi, chirurghi e ortopedici. Il testo di Ibn al-Uḫuwwa, diviso in settanta capitoli, inizia con alcune considerazioni generali, prosegue con un elenco dei commerci del mercato pubblico e quindi tratta dei farmacisti, bagni pubblici, flebotomi e coppettatori, medici generici, oftalmologi e chirurghi e infine illustra vari mestieri, dall'astrologo al precettore dei ragazzi. Secondo Ibn al-Uḫuwwa i flebotomi devono possedere una buona cognizione dell'anatomia di organi, vene e arterie, avere una specifica serie di lancette e conoscere i casi nei quali è opportuno procedere con cautela o consultare un medico. L'ultimo paragrafo di questo capitolo stabilisce la responsabilità del medico se l'operazione è eseguita male e il paziente è leso o muore, e la cifra che deve essere corrisposta per il danno. Il capitolo successivo inizia con una discussione della deplorevole scarsità dei medici musulmani. Secondo Ibn al-Uḫuwwa, nei paesi è difficile incontrare un medico che non sia un ḏimmī, vale a dire un non musulmano, prevalentemente cristiano o ebreo. Il medico generico deve avere una buona conoscenza dell'anatomia umana, dei temperamenti degli organi, delle malattie, delle loro cause, delle qualità e dei sintomi, della terapia, dei farmaci e dei sostituti di quelli non reperibili al momento. I medici devono avere un direttore (muqaddam) della loro corporazione e seguire una procedura rigorosa quando visitano i pazienti. Se il paziente guarisce, il medico deve ricevere il suo compenso e onorario (uǧra wa-karāma), se questi muore, il parente più vicino deve presentare all'autorità le ricette date dal medico. Se queste sono giudicate consone ai requisiti della scienza medica e non si riscontra negligenza o errore da parte del medico, significa che la vita del paziente aveva raggiunto il lasso di tempo che gli era stato concesso dal destino. Ma se il giudizio era opposto: "Esigi il prezzo del sangue per il tuo parente dal medico, perché è lui che lo ha ucciso con la sua poca abilità e inesperienza" (Ma῾ālim al-qurba fī aḥkām al-ḥisba, p. 57).
È dovere del muḥtasib ascoltare dai medici il giuramento ippocratico. Ibn al-Uḫuwwa cita il trattato di Ḥunayn ibn Isḥāq, Kitāb al-῾Ašr maqālāt fī 'l-῾ayn (Dieci trattati sull'occhio), come il più importante manuale che deve essere conosciuto dagli oculisti, descrive alcuni strumenti indispensabili e precauzioni contro gli oculisti disonesti che operano per strada. Il Kitāb Qāṭāǧānas (derivato dal greco katà génē, 'in accordo ai generi', sottinteso dei medicamenti) di Galeno è il libro di testo per i chirurghi, ai quali è richiesta anche un'appropriata conoscenza dell'anatomia e degli strumenti chirurgici.
È difficile dare un giudizio oggettivo sulla misura nella quale questo ampio sistema di regole e controlli fosse effettivamente applicato. Si sa di alcuni casi nei quali il medico fu ammonito e di altri nei quali furono imposte le sanzioni menzionate da al-Šayzarī e Ibn al-Uḫuwwa, ma si può ipotizzare che la reale competenza professionale del medico sfuggisse al controllo del muḥtasib più frequentemente della bilancia truccata dei venditori. Si deve ammettere che l'attuale conoscenza degli aspetti quantitativi delle istituzioni mediche islamiche è relativa. Non si conosce precisamente quanto fosse obbligatorio il curriculum dei testi da studiare, quale sia stato il reale impatto del codice etico della professione e quanto l'azione di controllo del muḥtasib fosse realmente esercitata. Studi ulteriori sulle fonti e la letteratura, non solo strettamente medica, ma anche storica, biografica, etica e giuridica, potranno contribuire a dare una visione più chiara di tali argomenti nei diversi periodi e regioni del mondo islamico.
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