La civilta islamica: condizioni materiali e intellettuali. Linguistica e lessicografia
Linguistica e lessicografia
La questione del posto riservato alle scienze del linguaggio nell'Islam coinvolge la stessa idea della rivelazione. Poiché, infatti, l'arabo è la lingua della rivelazione e finisce, in un certo senso, per coincidere con la rivelazione stessa, ogni indagine linguistica è immersa nel dato religioso e, viceversa, ogni dato di fede dell'Islam appare, almeno in parte, riconducibile a un fenomeno linguistico. Non sono quindi soltanto le discipline specificamente linguistiche ‒ come la retorica e la poetica, la fonologia, la morfologia, la sintassi e la lessicografia ‒ a interessare il linguaggio: si può anzi dire che ogni branca degli studi islamici ‒ la critica testuale e l'esegesi del Corano, la teologia, la logica, la giurisprudenza e la semantica elaborata dai giuristi ‒ coinvolga, sotto diversi aspetti, lo studio della lingua e della grammatica arabe. In tal senso, nella civiltà arabo-islamica ‒ spesso descritta come logocentrica, scritturalista e intertestuale ‒ il rapporto che i grammatici e i lessicografi istituiscono con la lingua è fondamentalmente diverso da quello che i moderni linguisti occidentali hanno con il linguaggio. Il termine di paragone più prossimo all'arabo è costituito probabilmente dal latino medievale, che da sant'Agostino in poi divenne il solo strumento depositario della conoscenza religiosa e che proprio nel grammatico ebbe a un tempo il proprio custode e interprete. Non devono essere dimenticati, inoltre, due aspetti caratteristici: l'importanza pratica che lo studio della lingua rivestiva nell'amministrazione e il rapporto che la grammatica ha sempre instaurato con il potere, sia in senso religioso ‒ la grammatica è strumento dell'interpretazione dei testi sacri nei quali va in certo qual modo incluso anche l'intero sistema giuridico ‒ sia in senso sociale, quale chiave d'interpretazione di una lingua di straordinaria espressività letteraria.
Con l'ovvia eccezione degli anonimi pionieri, che si limitarono a raccogliere dati, è ragionevole ritenere che coloro i quali, nelle diverse epoche, si occuparono di grammatica fossero consapevoli dell'ordinamento scientifico della loro disciplina, che andò comunque via via precisando i limiti e il senso del proprio statuto di scienza. Le fasi che è possibile distinguere nella scienza grammaticale medievale sono sei: (a) la fase della cosiddetta grammatica primitiva; (b) quella della prima grammatica sistematica; (c) gli inizi della metodologia pedagogica; a esse si può far seguire ciò che è possibile chiamare (d) lo sviluppo di una teoria; infine, si distinguono (e) la fase dell'assimilazione della grammatica e del diritto nel curriculum scolastico; e (f) quella finale, caratterizzata dalla vera e propria elaborazione della grammatica scolastica. Tuttavia, è bene tenere presente che in queste fasi vanno ravvisati essenzialmente sei punti di riferimento: non si può infatti pretendere di poter dare a ogni autore una collocazione precisa all'interno di questo schema.
L'unica fonte di informazioni affidabile di cui disponiamo per lo stadio più antico della grammatica è costituita dalla prima vera opera grammaticale scritta in arabo: il Kitāb del persiano Sībawayh (m. 180/795 ca.). In virtù di questo suo duplice carattere ‒ è appunto la prima vera opera grammaticale ma è al tempo stesso una fonte per il periodo precedente ‒ è opportuno considerare lo scritto di Sībawayh congiuntamente alla grammatica primitiva. Del resto, il primo problema che si incontra nell'analisi del Kitāb di Sībawayh è proprio quello dei suoi eventuali antecedenti: a dispetto della voluminosità (nelle due edizioni comunemente più usate il Kitāb occupa più di 900 pagine a stampa) ‒ che suggerirebbe quindi l'idea di una raccolta di fonti precedenti ‒ non è stato finora possibile individuare alcun antecedente dell'opera. Le poche pagine che Aristotele dedica alla grammatica e che furono tradotte presumibilmente dal figlio del celebre Ibn al-Muqaffa῾ (m. 139/757 ca.) non sono sufficienti a fornire un modello sistematico per Sībawayh, e i tentativi di rinvenire concetti grammaticali nelle prime esegesi del Corano raggiungono risultati talmente scarsi che l'originalità del genio di Sībawayh ne risulta semplicemente rafforzata. A questi primi elementi bisogna aggiungere che gli studi tentati in Occidente per mostrare la connessione ‒ diretta o indiretta ‒ della grammatica araba con il siriaco e con il greco mancano di prove documentarie, mentre la trattazione araba tradizionale, benché plausibile da un punto di vista meramente biografico, non è in grado di spiegare come Sībawayh abbia potuto creare una descrizione coerente e completa dell'arabo, basata inoltre su una concezione unificata del linguaggio. Così, ciò che è tutt'al più possibile dedurre a partire dal Kitāb si riduce a tre elementi: in primo luogo, all'epoca di Sībawayh doveva essere stata raccolta una gran quantità di dati; in secondo luogo, su di essi doveva essersi sviluppata, forse lungo due generazioni, una discussione grammaticale relativamente sofisticata in cui ci si dovette servire di un vocabolario tecnico abbastanza esteso e di un certo numero di assiomi linguistici che si possono attribuire al maestro di Sībawayh, Ḫalīl ibn Aḥmad (m. 175/790 ca.); infine, fu comunque soltanto lo stesso Sībawayh a organizzare ed elaborare le varie idee grammaticali in un sistema strutturato.
Per Sībawayh il linguaggio naturale è un fenomeno razionale e i parlanti fanno quindi un uso consapevole di schemi analogici a tutti i livelli, da quello sintattico a quello fonologico; il parlare in sé stesso è invece una manifestazione di superficie, un atto fisico esterno alla mente. L'arabo è descritto allora soltanto in termini che denotano movimenti lineari, come un modo di comportarsi, laddove il termine naḥw (modo, quindi 'modo di parlare'), che per Sībawayh non è che una parola generale, più tardi divenne inevitabilmente il termine tecnico per 'grammatica' e fu poi utilizzato per tradurre téchné grammatikḗ.
Nell'approccio di Sībawayh è forse possibile ravvisare l'influenza degli studi giuridici che, pur in un'epoca in cui la giurisprudenza islamica era ancora agli inizi, costituirono il primo campo d'indagine del grande grammatico. I criteri linguistici di Sībawayh sono infatti strettamente pragmatici: un'espressione deve essere grammaticalmente ben formata (ḥasan, che significa bello e da cui proviene buono in senso etico) e deve comunicare ciò che si intende significare, essendo in tal caso corretta (mustaqīm, che significa dritto, diritto ed è termine con una spiccata caratterizzazione etica). Non ha pertinenza, invece, che l'espressione sia vera o falsa e persino espressioni mal formate (per indicare le quali è usato il termine qabīḥ, brutto, cattivo in senso etico) sono accettabili, se comunicano ciò che s'intende significare. Sono le espressioni autocontraddittorie quali 'sono venuto da te domani', a essere etichettate come 'sbagliate' ‒ il termine usato è muḥāl (deviato; in filosofia significherà impossibile) ‒ e quindi escluse dal discorso accettabile: esse, infatti, non possono mai significare alcunché. È notevole allora che l'unità linguistica secondo Sībawayh sia il kalām (il parlare, il discorso), fisicamente scambiato tra un parlante (mutakallim) e un ascoltatore (muḫāṭab 'colui cui ci si rivolge'); la nozione di proposizione (ǧumla) comparirà soltanto più tardi. Al Kitāb ‒ anche se, probabilmente, non allo stesso Sībawayh ma a Ḫalīl‒, si deve inoltre l'introduzione del meccanismo di base della morfologia araba, e cioè la rappresentazione dei paradigmi e delle forme derivate di una radice per mezzo del verbo fa῾ala (fare), assunto come modello; una rappresentazione che più tardi sarà adottata anche dai grammatici siri ed ebrei e poi, di conseguenza, dagli orientalisti e dai semitisti occidentali.
L'innovazione più importante ascrivibile al periodo immediatamente successivo a quello di Sībawayh consiste nello sviluppo di una grammatica pedagogica; è, infatti, questo il momento in cui, nell'opera di Ibn Saḥnūn (m. 256/870), si trova per la prima volta una prova non aneddotica del fatto che l'insegnamento dell'arabo ai bambini fosse considerato in modo professionale. In questo contesto furono prodotte opere come il Muḫtaṣar fī 'l-naḥw (Compendio di grammatica; un titolo comune a molte altre opere sulla materia) di Luġda al-Iṣfahānī (m. nel tardo IX sec.), il Muwaffaqī fī 'l-naḥw (Compendio di grammatica dedicato a[l principe] al-Muwaffaq) di Ibn Kaysān (m. tra 299 e 320/912 e 932) ‒ composto probabilmente per i bambini ‒ e un certo numero di grammatiche più avanzate che sono utili ancora oggi, come il Mūǧaz (Compendio) di Ibn al-Sarrāǧ (m. 316/928), il Ǧumal (Sommario) di al-Zaǧǧāǧī (m. 337/949), il Luma῾ (Bagliori) di Ibn Ǧinnī (m. 392/1002). Stimolata dai crescenti bisogni della nuova civiltà islamica, la grammatica della scuola non si limitò alla mera rielaborazione in chiave pedagogica della grammatica già sviluppata, ma contribuì allo sviluppo di una vera e propria teoria. Se al-Mubarrad (m. 285/898) nel suo Muqtaḍab (L'abbreviato) si limitò a rielaborare i contenuti del Kitāb di Sībawayh in modo da renderli più adatti alla pedagogia, a un suo allievo, Ibn al-Sarrāǧ, va il merito di aver fatto fare un importante passo avanti alla grammatica. Laddove, infatti, Sībawayh, esaminando il più vasto numero di casi possibile, aveva induttivamente ricavato i principî generali del comportamento linguistico, Ibn al-Sarrāǧ è il primo a distinguere tra le regole induttive ‒ ora chiamate esplicitamente 'principî generali', uṣūl ‒ e le loro basi razionali, anch'esse chiamate uṣūl, cioè i fondamenti logici del ragionamento grammaticale. Questi ultimi, esplicitamente esclusi da Ibn al-Sarrāǧ, non costituiscono oggetto d'indagine della sua opera, Uṣūl al-naḥw (I fondamenti della grammatica; e si noti che già da ora naḥw di per sé indica la grammatica). In essa, infatti, Ibn al-Sarrāǧ si propone soltanto di definire le regole generali della grammatica, completando così il passaggio dalla grammatica descrittiva di Sībawayh a quella prescrittiva di al-Mubarrad; ma, da questo momento, i grammatici saranno esplicitamente interessati alla struttura logica di quelle regole, e la grammatica si immetterà sulla strada che la renderà una scienza.
Ad al-Zaǧǧāǧī, un altro allievo di al-Mubarrad, più giovane di Ibn al-Sarrāǧ, si deve un ulteriore passo avanti. Con una formazione chiaramente dialettica e una buona capacità di dominare le questioni teologiche e filosofiche a essa legate, al-Zaǧǧāǧī esamina i presupposti teoretici della grammatica nell'intento di dimostrare che essa è ormai una scienza razionale e autonoma; insieme a molti altri temi, egli riesamina i concetti di causalità grammaticale, la priorità logica delle categorie linguistiche di base e la natura della flessione. Egli difende inoltre ‒ ed è questo uno degli elementi più importanti nella sua opera ‒ la scienza della grammatica, che aveva appena raggiunto una certa autoconsapevolezza, contro gli attacchi che le erano mossi da due fronti: la scuola rivale dei grammatici di Kufa, da una parte, e la tradizione filosofica e logica, dall'altra; soltanto poco tempo prima, infatti, con le traduzioni delle opere greche, i musulmani avevano cominciato ad assimilare le concezioni della filosofia e della logica. L'opera di al-Zaǧǧāǧī non lascia dubbi: le sue idee si formarono in un contesto di profonda ricerca intellettuale e di curiosità filosofica. Una conseguenza immediata e lampante dell'impatto del pensiero greco su quello arabo fu, infatti, il sorgere di una serie di dibattiti che animarono logici e grammatici; il più conosciuto è quello che coinvolse, da una parte, il cristiano Mattā ibn Yūnus (attivo nel periodo 320-330/932-942) e, dall'altra, il suo avversario musulmano Abū Sa῾īd al-Sīrāfī (m. 368/979); il loro dibattito fece parte di una famosa disputa sui rispettivi meriti della logica e della grammatica che ebbe luogo intorno al 320/932.
Le cosiddette 'Scuole' di Bassora e di Kufa sono un elemento di rilievo nel panorama intellettuale dei secc. IX e X e rappresentano quella fase in cui la grammatica tentava di definire sé stessa come scienza. Nel periodo più antico la controversia tra grammatici ebbe tuttavia carattere perlopiù personale; soltanto in seguito, retrospettivamente, essa è stata acuita nel contrasto formale tra due opposte scuole di grammatica, associate a due grandi figure attive a Baghdad: quella di al-Mubarrad di Bassora, appunto, e quella di Ṯa῾lab (m. 291/904) di Kufa (il quale a Baghdad si portò dietro un'ostilità più personale che scientifica). I grammatici di Bassora sono tradizionalmente caratterizzati dal fatto di assumere l'assoluta regolarità della lingua e si servono quindi del principio universale dell'analogia (qiyās); i grammatici di Kufa, invece, sono noti per la loro insistenza sul valore da attribuire ai dati isolati (le eccezioni: šawāḏḏ) e all'essenziale irregolarità della lingua. Da fonti che risalgono al X sec. sappiamo che questa opposizione è il risultato di un'iniziativa della Scuola di Bassora, che definì il corpus dei dati linguistici per convalidare le conclusioni cui i grammatici erano arrivati induttivamente. In sostanza, i grammatici di Bassora chiusero o fissarono la lingua nella forma che essa aveva assunto all'epoca e rifiutarono di considerare possibile un suo qualunque mutamento. Tale iniziativa fece sì che i grammatici di Kufa restassero i soli ad asserire che l'induzione era ancora realizzabile, fintanto che era possibile scoprire nuovi fatti linguistici.
Le motivazioni che spinsero i grammatici di Bassora a delimitare il corpus grammaticale furono le stesse riscontrabili nelle altre scienze islamiche ‒ vale a dire le scienze coraniche, dei tradizionisti e la giurisprudenza ‒, le quali intorno alla medesima epoca operarono un'analoga delimitazione allo scopo d'impedire l'espansione incontrollata del corpus di testi islamici ai quali attribuire lo statuto di autorità. Nel periodo immediatamente successivo a quello di Sībawayh non vi furono progressi degni di nota nella grammatica descrittiva, anche se, specialmente a Baghdad (fondata nel 145/762), dove era appena stata stabilita la nuova capitale islamica, alcune personalità eminenti contribuirono a consolidare lo statuto di scienza emergente della grammatica. Fra le figure che, in tale contesto, rappresentano la tradizione grammaticale della città di Kufa deve essere menzionato al-Farrā᾽ (m. 207/822), poco più anziano di Sībawayh (non sono tuttavia convincenti i racconti che lo vogliono a Baghdad a disputare con lui). Al-Farrā᾽ non ha lasciato un'opera grammaticale in senso stretto; è al suo dettagliato commento linguistico del Corano, il Kitāb Ma῾ānī 'l-Qur᾽ān (Libro dei significati del Corano), che bisogna affidarsi per conoscere le sue teorie. Il Kitāb Ma῾ānī 'l-Qur᾽ān rivela d'altronde un sistema grammaticale ben sviluppato, anche se, laddove un confronto diretto è possibile, esso appare meno profondo e completo di quello di Sībawayh.
Nel X sec. la disputa sull'induzione raggiunse la sua fase più acuta; fu la Scuola di Bassora, infine, a prevalere, relegando i grammatici di Kufa nel ruolo storico di 'non-conformisti'. La storia della grammatica dei periodi successivi, pur non mancando di personalità originali e distanti dall'ortodossia, è infatti essenzialmente la storia della grammatica così come è stata formalizzata dalla Scuola di Bassora, che sfruttò il patrimonio di dati ‒ quasi del tutto completo ‒ del Kitāb di Sībawayh, al quale in seguito fu aggiunto molto poco (la scuola mista, la cosiddetta 'Scuola di Baghdad', che sarebbe stata il risultato della fusione delle due precedenti scuole, è probabilmente soltanto una finzione della letteratura biografica più tarda).
Ad assumere una posizione radicalmente filosofica sulla lingua fu al-Fārābī (m. 339/950), il quale rese in arabo i termini grammaticali greci in modo letterale, scegliendo mustaqīm (dritto) per casus rectus (orthos); kalima (parola) per verbo (rhema); rābiṭa (connettore) per congiunzione (syndesmos). Ora, anche se le traduzioni del faylasūf (filosofo) al-Fārābī non ebbero seguito ‒ in quell'epoca i metodi grammaticali e la terminologia erano stati infatti già fissati ‒, i grammatici presero a prestito dai logici tutto ciò che avvertirono come necessario alla costruzione di una scienza della grammatica coerente che si mantenesse fedele ai nuovi principî aristotelici. Il fenomeno più evidente in questo senso è che l'unità di base di Sībawayh ‒ il discorso (kalām) ‒ fu in gran parte sostituita dalla nuova unità ‒ la proposizione (ǧumla) ‒ che trasferì l'attenzione dei grammatici dalle reali espressioni della lingua all'astrazione di un discorso consistente essenzialmente in proposizioni; in tal modo la lingua cessò di essere una comunicazione lineare nel tempo reale ‒ come l'aveva concepita Sībawayh ‒ e divenne invece una forma di logica verbale. Le gerarchie di elementi (che nell'analisi di Sībawayh erano una caratteristica relativamente poco sviluppata) assunsero quindi una posizione rilevante; il taqdīr ‒ il giudicare, cioè il fatto di ristabilire congetturalmente elementi perduti ‒ divenne sempre più diffuso e frequente e vi furono persino tentativi (benché privi di seguito) d'introdurre in grammatica le categorie aristoteliche dei vari tipi di proposizione. Un sempre maggior numero di nomi astratti ‒ come ismiyya (nominalità), fi῾liyya (verbalità), ecc. ‒ fu introdotto con successo per esprimere concetti lasciati fino ad allora impliciti; anche i nomi e i verbi furono ridefiniti in termini aristotelici. Verità e falsità (esplicitamente escluse da Sībawayh) furono aggiunte ai criteri linguistici ‒ prova questa della contaminazione con la logica ‒ e così fu aggiunta anche la categoria della informatività (fā᾽ida, lett. guadagno), che in gran parte si sostituì alla concezione di Sībawayh secondo la quale un'espressione corretta avrebbe dovuto sia comunicare sia essere compresa con lo stesso significato con cui il parlante l'aveva intesa. Inoltre, la nozione di causalità grammaticale fu estesa a un terzo livello, quello speculativo-filosofico, superiore ai livelli normativo e tecnico, identificato nel concetto di sapienza (ḥikma), cioè la conoscenza di una regola linguistica ovvero la conoscenza della ragione logica della regola stessa.
I grammatici non videro nella filosofia e nella logica soltanto una sfida alla loro autorità professionale, ma anche un attacco alle fondamenta dello stesso Islam. Nell'approccio essenzialmente pragmatico e giuridico di Sībawayh la lingua era una particolare forma di comportamento, che aveva il suo simbolo nel termine naḥw (modo), a sua volta sinonimo del termine sunna, il modo islamico per eccellenza; per i logici, invece, la lingua era semplicemente un'espressione del pensiero, qualcosa di analogo ai processi mentali interiori. Vi era così una diretta contraddizione tra le teorie del linguaggio ispirate al diritto e quelle filosofiche. In giurisprudenza un atto è giudicato sulla base della sua forma esterna, in quanto si ritiene che esso rifletta effettivamente la volontà e l'intenzione di una persona adulta e sana; poiché gli atti legali sono tutti definiti dall'Islam, essi sono determinati nei dettagli (anche il parlare correttamente arabo finì per essere compreso fra le virtù religiose, almeno presso una certa parte della popolazione). L'approccio logico, al contrario, considera la forma linguistica una variante determinata in senso meramente locale di un processo mentale universale che può essere interpretato da chiunque conosca le regole della logica. Da un punto di vista logico, inoltre, l'arabo non si distingueva dal greco, dal persiano e dalle altre lingue dell'epoca. È facile vedere, quindi, perché tali opinioni furono rifiutate da una religione ‒ come l'Islam ‒ così dipendente da un evento storico linguistico: una tale visione riduce l'unicità della rivelazione in arabo (e dunque la parola stessa di Dio) a una mera sottoapplicazione dei principî universali del pensiero; come ha puntualizzato Abū Sulaymān al-Siǧistānī (m. dopo il 391/1001), "la grammatica è una logica araba, mentre la logica è una grammatica razionale"; un'idea che al-Zaǧǧāǧī aveva già anticipato, dichiarando che "gli obiettivi dei logici non sono i nostri e i nostri obiettivi non sono i loro". È degno di nota, in tal senso, che l'esistenza di una causalità linguistica fosse stata del tutto negata da una figura piuttosto tarda, Ibn Maḍā᾽ al-Qurṭubī (m. 592/1196) che apparteneva alla scuola giuridico-teologica della ẓāhiriyya, o dei letteralisti, secondo la quale ogni interpretazione che andasse al di là del significato piano e letterale del testo (ẓāhir è il senso apparente, manifesto delle cose) era infondata. In conformità a questa concezione Ibn Maḍā᾽ arrivò a sostenere che, poiché ogni atto è creato da Dio e la lingua non è affatto diversa da qualunque altro tipo di comportamento, nessun principio di causalità, sia esso grammaticale o d'altro tipo, può essere applicato agli atti linguistici.
Alcuni autori musulmani persistettero comunque nell'applicare alla grammatica lo stesso genere di rigorosa logica che taluni teologi stavano utilizzando per razionalizzare la dottrina islamica; anch'essi si attirarono l'accusa di eterodossia. Il grammatico al-Rummānī (m. 384/994) ‒ un convinto mutazilita (e cioè uno dei teologi ultrarazionalisti) e una delle menti più audaci del suo tempo ‒ tentò instancabilmente di costringere la scienza grammaticale nel modello razionalista dei mutaziliti. La sua opera, il gran commento al Kitāb di Sībawayh, originale quasi in ogni particolare, deve però ancora essere pubblicata (ne sopravvivono i quattro quinti perché sfortunatamente il primo volume è andato perduto); essa segue lo schema della rigorosa serie di quaestiones e responsa che gli Arabi ereditarono dalla Tarda Antichità. La terminologia di quest'opera, come accade del resto anche per altri scritti di al-Rummānī, è manifestamente ricavata dalla logica: mawḍū῾ e maḥmūl stanno per soggetto e predicato e sostituiscono gli originari mubtada᾽ e ḫabar; iṯbāt (lett. affermazione), utilizzato tanto in teologia quanto in filosofia per affermare l'esistenza di qualcosa e indicare il risultato di una dimostrazione, compare in luogo di īǧāb con il significato di 'asserzione affermativa'; le voci ṣūra e mādda (forma ‒ nel senso della morfologia ‒ e materia, cioè sostanza ‒ nel senso della semantica ‒ di una parola) introducono esplicitamente nella grammatica i termini dell'ilemorfismo aristotelico. In conformità al suo gusto per l'ordine, tipico di un logico, al-Rummānī si impegna nella costruzione di gerarchie dei diversi tipi di soggetti, dimostrativi, interrogativi, e così via; tutte nozioni, queste, che non trovavano alcun posto nell'originario sistema della grammatica, anche se, occasionalmente, i grammatici più tardi le riconobbero utili. Gli sforzi dei razionalisti non furono del tutto vani: alcune idee mutazilite finirono per essere adottate in grammatica, come pure in altre scienze islamiche. Inoltre, l'influenza che al-Rummānī esercitò su discipline più tarde, come la retorica e la semantica, deve ancora essere indagata.
La nascita di una riflessione professionale sulla grammatica portò, a partire dal IX sec., a una specializzazione della disciplina. Il termine generico naḥw (il modo in cui la gente parla e quindi grammatica) fu ristretto alla pura sintassi, mentre la voce ṣarf, precedentemente applicata al processo di derivazione delle forme verbali, passò a ricoprire l'intero campo della 'morfologia'. Quella che ora è nota come 'fonologia' non era invece indicata da un termine specifico; lo studio dell'aspetto materiale della lingua era sussunto dalla morfologia sotto ciò che ora potrebbe corrispondere alla morfofonologia o alla fonosintassi. L'ordine 'sintassi ‒ morfologia ‒ fonologia' è la sequenza con cui i vari argomenti erano già trattati nel Kitāb e da sola esprime, in modo eloquente, la concezione della lingua di Sībawayh. I fonetisti arabi ‒ tra i quali si distinse particolarmente Ibn Ǧinnī ‒ compirono una descrizione accurata e molto dettagliata dei fonemi dell'arabo, dando conto dei diversi punti e del differente modo di articolazione, dei vari processi di assimilazione e di mutamento dei suoni e, allo stesso tempo, dei fattori condizionanti ‒ come la facilità e la frequenza dell'articolazione ‒ e persino dei mutamenti che derivano dalle limitazioni morfofonologiche; tali descrizioni sono talmente sofisticate da interessare anche gli odierni teorici della fonologia generativa. Nel campo della pura morfologia fu ancora Ibn Ǧinnī a distinguersi con il suo metodo meticoloso e dettagliato, anche se ‒ come si è già osservato ‒ è al Kitāb che si deve per la prima volta l'utilizzazione dei paradigmi morfologici.
La grammatica araba si nutrì del rapporto con le altre discipline ma, nello stesso tempo, costituì essa stessa una ragione di sviluppo per altri campi del sapere. Una volta esaurito il processo di assimilazione di alcuni principî dalla logica, i grammatici incominciarono ad avvicinarsi sempre più alla giurisprudenza, una scienza che a sua volta doveva la propria metodologia dialettica a quella greca e che aveva raggiunto la maturità di sistema, più o meno contemporaneamente alla grammatica, nei secc. X e XI. Un tenace sostenitore dell'alleanza con la giurisprudenza ‒ e della necessità che essa si aprisse alla grammatica ‒ fu Ibn Fāris (m. 395/1005), che nel suo Kitāb al-Ṣāḥibī (così chiamato dal nome del suo dedicatario, il visir al-Ṣāḥib ibn ῾Abbād) affermò che, poiché l'arabo è il mezzo espressivo di ogni autorità e di ogni coscienza religiosa, i musulmani hanno il dovere di dominarne le regole per dedurre, interpretare e applicare correttamente la legge; Ibn Fāris è particolarmente critico nei confronti del basso livello di competenza grammaticale dei giuristi della sua epoca. Una posizione simile si riconosce inoltre nelle opere di Ibn al-Anbārī (m. 577/1181), il quale esaminò con attenzione il rapporto tra scienza giuridica e scienza grammaticale, dimostrando che esse sono effettivamente basate su identici principî metodologici ‒ almeno fin tanto che si tratta delle regole di ragionamento analogico e della validità della trasmissione delle prove ‒ e che, dunque, un'approfondita conoscenza della grammatica è un requisito necessario per ogni attività giuridica.
Il rapporto della grammatica con il diritto mostra come il suo sviluppo non possa essere spiegato al di fuori del contesto delle scienze islamiche del tempo e della riflessione sullo statuto scientifico delle diverse discipline. Il concetto di 'scienza' non è qui soltanto quello definito dalle opere logiche greche, quali l'Organon di Aristotele o l'Isagoge di Porfirio; la formale struttura educativa all'interno della quale le varie scienze erano inserite e, più precisamente, la definizione di alcune discipline come 'scienze islamiche' ‒ le scienze coraniche e le tradizioni del Profeta, la grammatica, la dottrina teologica e, come si è già osservato, la giurisprudenza ‒ influenzarono non solamente la riflessione sullo statuto delle scienze ma in certo modo il loro stesso sviluppo. Le scienze islamiche erano infatti consapevolmente distinte dalle 'scienze straniere', tra le quali si annoveravano principalmente la logica, la filosofia naturale, la metafisica e la medicina. Per quanto riguarda la grammatica, ciò comportò la nascita di una disciplina grammaticale scolastica, profondamente formalizzata e fondata sulle auctoritates, utile all'insegnamento nell'istituzione, appena fondata, della madrasa, scuola o accademia ‒ un lontano parente e, per alcuni, persino un possibile precursore dell'università occidentale ‒, che sorse nel tardo X sec. e, a partire dall'XI, fiorì in tutto il mondo islamico. Quasi immediatamente, infatti, il bisogno di libri di testo che si avvertiva in questi nuovi centri d'insegnamento superiore si riflesse nella struttura dei trattati di grammatica.
Le grammatiche didattiche che troviamo nella madrasa sono alquanto diverse, comunque, da quelle della prima fase della pedagogia cui si è già fatto cenno. Con la madrasa, il terreno in cui si mostrava l'originalità delle grammatiche era costituito fondamentalmente dalla presentazione della materia, dal modo in cui la grammatica era divisa in brevi sezioni e distribuita artificialmente in un libro di testo. Si contano così i più diversi modi di presentazione. Una delle trattazioni più schematiche delle strutture linguistiche che si sia mai avuta in qualsiasi lingua, e non soltanto in riferimento all'arabo, è costituita dal Mi᾽at ῾āmil (I cento operatori) di al-Ǧurǧānī (m. 471/1078): esso condensa in modo irriverente l'intera materia in 100 brevi paragrafi. La Muqaddima (Introduzione) di Ibn Bābašāḏ (m. 469/1077) va notata invece perché divide in modo netto la propria trattazione in 10 categorie che impongono un rigido ordine pedagogico alla materia, con scarsa attenzione per le realtà linguistiche. Questa sistemazione divenne talmente popolare che si legge persino di altre grammatiche composte 'nello stile di Bābašāḏ'. Al-Mufaṣṣal (Il suddiviso) di al-Zamaḫšarī (m. 538/1144) ‒ come implica il suo stesso nome ‒ ripartisce invece la materia grammaticale in quattro categorie principali distribuite su 759 paragrafi, ben pianificati, anche se ancora in certo modo arbitrari nella loro divisione; il libro ha goduto fra l'altro di un particolare favore nella tradizione europea degli studi grammaticali arabi proprio perché è molto vicino alla nostra idea occidentale di classificazione ragionata.
Con il XII sec., quello che era stato soltanto un invito da parte dei grammatici fu accolto fra i precetti della religione islamica: i membri responsabili della comunità avevano l'obbligo religioso di essere padroni della lingua araba; da questo momento in poi la grammatica, come le altre 'scienze arabe', diventa una componente pienamente integrata del sistema religioso e culturale islamico. A ciò fece seguito un'inevitabile e universale immobilità intellettuale che, comunque, non deve essere considerata sintomo di decadenza o stagnazione degli studi: l'elaborazione scolastica acquista un carattere spiccatamente erudito e le maggiori grammatiche (cioè quelle più diffuse e influenti) sono prodotte proprio in questo periodo.
I grammatici impegnarono del resto molto ingegno nell'individuare nuovi modi per presentare la loro materia. In epoca islamica erano apparse relativamente presto, ispirate da un'antica tradizione di versificazione usata a scopi mnemonici, grammatiche nella forma di poemi didattici: Ibn Durayd (m. 321 h.) scrisse al-Qaṣīda al-maqṣūra (Poema rimato in ā), uno strumento per comunicare informazioni di morfologia sotto forma di poesia. L'età dell'oro della versificazione pedagogica, con l'intera grammatica espressa in rima, è tuttavia più tarda. Il grande al-Ḥarīrī (m. 516/1102) arrivò a scrivere una grammatica in versi, la Mulḥat al-i῾rāb (Divertimento con la flessione), mentre Ibn al-Mu῾ṭī (m. 628/1231), il cui talen-to per la versificazione sembra fosse il-limitato, scrisse il poema grammaticale al-Durra al-alfiyya (La perla dai mille versi), così chiamato per il numero approssimativo di versi che contiene. Ibn al-Mu῾ṭī fu a sua volta messo in ombra da un versificatore altrettanto felice, Ibn Mālik (m. 672/1274), il quale nella sua grammatica in rima al-Ḫulāṣa al-alfiyya (Il sommario dai mille versi) ‒ ancora oggi uno dei testi più largamente diffusi ‒ non nasconde il suo disprezzo per Ibn al-Mu῾ṭī.
A partire da quest'epoca si trovano, all'estremo opposto del percorso scolastico, varie opere popolari scritte per i bambini. Il Miṣbāḥ (La lampada) di al-Muṭarrizī (m. 610/1213) fu composto per il suo figlioletto ed è basato ‒ come riporta l'autore stesso ‒ sul Mi᾽at ῾āmil di al-Ǧurǧānī. Un altro manuale per fanciulli, la Muqaddimat al-Ḍarīrī (Introduzione di al-Ḍarīr) di al-Quhandizī (m. 666/1267), allo scopo di semplificare la terminologia usa il termine mubtada᾽ (soggetto, lett. principio [della frase]) per indicare anche l''agente' (fā῾il) del verbo (ma la maggior parte dei grammatici più seri rifiuterà tale uso impreciso). Il Marāḥ al-arwāḥ (Il luogo di ristoro dello spirito)di Aḥmad ibn ῾Alī ibn Mas῾ūd (m. inizi XIV sec.) va segnalato invece per la decisa affermazione con cui si apre, secondo la quale ṣarf (la morfologia) è la madre di tutte le scienze, mentre naḥw (qui sintassi) ne è il padre.
Tuttavia, il libro di testo per principianti più largamente diffuso di tutta la storia della grammatica è probabilmente l'Āǧurrūmiyya di Ibn Āǧurrūm (m. 723/1327). Quest'opera ha prodotto un'enorme quantità di commenti e di parafrasi (circa 60 in base a una prima ricognizione); una delle maggiori caratteristiche della grammatica scolastica era, infatti, la pratica di scrivere diverse versioni della stessa opera ‒ una breve, una media e una lunga ‒ ognuna delle quali poteva essere ampliata fino a divenire un commento o un supercommento, talvolta persino per mano dell'autore dell'opera originale. La maggior parte di ciò che conosciamo della teoria grammaticale araba si deve a queste fonti interne di letteratura secondaria, fra le quali devono essere annoverati il commento di Ibn Ya῾īš (m. 643/1245) al Mufaṣṣal di al-Zamaḫšarī, quelli di Abū Ḥayyān (m. 745/1378), di Ibn ῾Aqīl (m. 769/1367), di al-Ušmūnī (m. 872/1467) e di altri alla Alfiyya (Mille versi) di Ibn Mālik e, infine, il commento di Šayḫ ḫĀlid al-Azharī (m. 905/1499) alla Āǧurrūmiyya.
Nel XIII sec. la grammatica scolastica raggiunse il culmine sia per diversità formale sia per capacità professionale. Ibn Mālik scrisse diverse altre opere oltre alla Alfiyya e nello stesso periodo fu attivo l'influente Ibn al-Ḥāǧib (m. 646/1249), di cui va ricordato il brillante, sottile e acuto commentatore, Raḍī al-Dīn al-Astarābāḏī (m. 688/1289). Tuttavia, si ritiene che la grammatica abbia raggiunto l'apice con Ibn Hišām (m. 761/1360), considerato persino un grammatico 'migliore di Sībawayh' (anḥā min Sībawayh). È chiaro che, una volta che il genio innovativo di Sībawayh sia comparato con l'abilità espositiva, comunque indubbia, di Ibn Hišām, questa opinione appare bizzarra. Essa non è comunque del tutto priva di fondamento: Ibn Hišām impressiona a ogni livello per la chiarezza e l'opportunità della sua presentazione; lo studente può cominciare con un testo elementare come il suo I῾rāb ῾an qawā῾id al-i῾rāb (Classificazione delle regole della flessione), progredire passando a opere intermedie come lo Šuḏūr al-ḏahab (Lampi d'oro) e il Qaṭr al-nadā wa-ball al-ṣadā (Gocce di rugiada che placano la sete) ‒ ambedue opere molto concise che, come era tipico, l'autore stesso ha arricchito del proprio commento ‒, e continuare poi con trattati più difficili come il Muġnī 'l-labīb ῾an kutub al-a῾ārīb (Libro che rende inutili al lettore sagace i libri dei grammatici).
La grammatica condivide con altre scienze islamiche il fatto di essere caratterizzata da una sorta di eterna giovinezza: ogni posizione è dibattuta come se fosse cosa di ieri, l'intera letteratura è una griglia di riferimenti incrociati, sia in senso orizzontale con i contemporanei, sia ‒ ciò è molto più rilevante ‒ in senso verticale con i predecessori. È come se ogni nuova generazione di grammatici si sentisse chiamata ad agganciarsi in modo visibile alla tradizione, riaffermandone le questioni, ripetendo i nomi delle varie autorità e riproponendo quei testi poetici che, familiari a ogni grammatico, funzionavano come testi probatori (šawāhid, testimonianze, laddove è evidente la metafora di ispirazione giuridica). Questo entusiasmo spinse talvolta gli autori in direzioni avventurose e persino fantasiose. Casi esemplari sono un grammatico anonimo del XIV sec. (forse XV sec.), capace di leggere non meno di 1.800.000 diversi schemi grammaticali in un singolo verso, e un autore che sostenne la tesi che una stessa proposizione in prosa potesse essere analizzata grammaticalmente anche in 2.700.001 modi diversi.
La produzione di nuove opere grammaticali non diminuì mai veramente; in senso quantitativo non si conoscono pause o fasi di decadenza nella riflessione grammaticale, neppure durante le 'epoche buie' del periodo ottomano; personalità come al-Damāmīnī (m. 827/1424), Šayḫ Ḫālid al-Azharī, al-Suyūṭī (m. 911/1505), al-Širbīnī (m. 977/1570) e al-Ṣabbān (m. 1206/1792) furono infaticabili nel tenere viva la tradizione. Nonostante l'imponente eredità del passato, le loro opere non mancano del tutto di originalità; inoltre, non si può svalutare l'importanza della riesposizione dei fenomeni grammaticali come prova della continua forza della lingua e della sua costante importanza per una parte molto influente della popolazione. Durante il periodo della soggezione islamica alla dominazione militare, economica e politica occidentale, insigni studiosi appartenenti a comunità non islamiche, come i cristiani Ǧarmānūs ibn Farḥāt (m. 1145/1732) e Nāṣīf al-Yāziǧī (m. 1287/1871), giocarono un ruolo importante nella rivitalizzazione dell'arabo, confermando così, indirettamente, l'impegno degli Arabi cristiani in ogni aspetto della rinascita letteraria e culturale del XIX secolo.
In tal senso, ai movimenti riformistici moderni si presenta la scelta di consolidare ed estendere l'eredità ricevuta o invece di rifiutarla in favore di un radicale mutamento. Nei suoi termini essenziali, la scelta è tra il mantenere il legame con il passato islamico della lingua araba ‒ ma questo significa perpetuare una forma della lingua avvertita ormai come sempre meno naturale ‒ e il rompere questo legame, adottando gli standard dei diversi (e fra loro antagonisti) dialetti arabi. Questi ultimi differiscono dall'arabo classico tanto quanto alcune lingue romanze differiscono dal latino e ‒ come accade quando la religione, la politica, l'identità nazionale e persino la storia coloniale si incontrano ‒ le questioni storiche a essi legate si somigliano. La grammatica del XX sec. è inoltre profondamente influenzata dalla linguistica occidentale; a ciò si aggiunge un altro elemento che complica ulteriormente la questione: il fatto che molti di coloro che partecipano attivamente al dibattito sulla riforma della lingua sono ‒ da ambedue le parti ‒ linguisti arabi formatisi in Occidente dove hanno anche conseguito i loro titoli accademici.
Sebbene con il nome di ῾ilm al-luġa (scienza del lessico) la lessicografia fosse riconosciuta come scienza, nelle opere non si rintraccia la stessa consapevole struttura sistematica che si trova nella grammatica. Il termine ῾ilm sembra qui avere il senso originale di 'conoscenza' di un corpus di dati ed è in tal senso più precisamente accostabile all'uso che si rivela nell'espressione ῾ilm al-ḥadīṯ, che denota la conoscenza del corpus delle tradizioni profetiche (ḥadīṯ) e delle procedure per trattarne. Infatti, se la grammatica si è conformata ai principî stabiliti dal concetto greco di scienza, ed è in tal senso stata concepita anche sul piano formale come una 'scienza', la lessicografia è invece rimasta essenzialmente una branca della storia, chiamata a registrare e preservare un aspetto specifico del passato: il suo patrimonio di parole. La lessicografia rappresenta, dunque, un tentativo di sostituirsi alla conoscenza intuitiva del significato delle parole che gli Arabi avevano al tempo del Profeta; una conoscenza che le comunità urbane ed eterogenee che formavano la maggioranza della nuova popolazione islamica avevano ormai perduto. I grandi dizionari furono quindi preceduti da liste di parole, come nomi di animali, caratteristiche meteorologiche, termini fra loro quasi omonimi, termini difficili per il genere o la morfologia, ecc., fondate su informazioni raccolte direttamente dai beduini, in base all'idea che essi conservassero l'autentico uso coranico e precoranico dei termini, in gran parte testimoniato dalla lingua della poesia preislamica. Si possono ricordare, allora, i nomi dei più eminenti rappresentanti in questo campo: Abū ῾Amr ibn al-῾Alā᾽ (m. 144-147/771-774), Abū ῾Ubayda (m. 209/824), Abū Zayd al-Anṣārī (m. 215/830-831) e al-Aṣma῾ī (m. 213/828), il quale fu evidentemente in imbarazzo nell'applicare la propria conoscenza mondana all'interpretazione dei testi sacri.
Il primo vero e proprio dizionario compare già nel tardo VIII sec.; è attribuito a Ḫalīl ibn Aḥmad, anche se alcuni lessicografi medievali ritengono che l'autore dell'opera sia il suo allievo al-Layṯ ibn al-Muẓaffar (m. 190/805). Probabilmente, Ḫalīl fornì l'ispirazione e al-Layṯ completò l'opera; in ogni caso il Kitāb al-῾Ayn (Libro della lettera ῾ayn), così chiamato da quella che, nel suo ordine alfabetico, è la prima lettera, è il più antico dizionario.
La struttura dell'arabo fa in modo che non sia pratico dare un ordinamento ai dizionari a partire dalla prima lettera della parola (i dizionari persiani e quelli turchi e persino alcuni dei moderni dizionari arabi seguono, però, un ordine strettamente alfabetico in base alla prima lettera). Le varie parole sono, invece, ricondotte alla loro etimologia o, più esattamente, alle consonanti radicali che le costituiscono: aftaḥu (io apro), miftāḥ (chiave), iftataḥa (fu aperto), infataḥa (si aprì) sono, per esempio, voci elencate tutte sotto la radice f-t-ḥ (e più precisamente sotto la forma con cui essa viene citata: il perfetto semplice del verbo fataḥa, aprì); gli altri elementi ‒ come i prefissi, gli infissi e i suffissi ‒ sono ignorati. Tale etimologizzazione è puramente formale; tutte le parole che contengono le stesse consonanti radicali sono in genere raggruppate, siano esse o meno apparentate da un punto di vista storico (i dizionari occidentali moderni, d'altra parte, tentano frequentemente di separare tali radici, senza ricavarne sempre un grande vantaggio). In virtù della struttura della lingua, si sono potuti dunque distinguere quattro ordini alfabetici diversi: il permutativo/fonologico; il permutativo/alfabetico; l'alfabetico in base alla prima lettera radicale e, infine, l'alfabetico secondo l'ultimo radicale.
1) L'ordine permutativo/fonologico procede in modo crescente a seconda dei punti di articolazione, dalle gutturali alle labiali, e prevede le semivocali all'ultimo posto (l'ipotesi di origini indiane per questo alfabeto deve ancora essere provata). Quest'ordine è usato nel Kitāb al-῾Ayn di Ḫalīl, e anche nel Muḥīṭ (Il comprensivo) di al-Ṣāḥib ibn ῾Abbād (m. 385/995), nel Bāri῾ (L'ingegnoso) di al-Qālī (m. 356/967), nel Tahḏīb (La rettifica) di al-Azharī (m. 370/980) e nel Muḥkam (L'esatto) di Ibn Sīda (m. 458/1066). Ogni voce comprende tutte le possibili permutazioni dei radicali dati, sia quelle utilizzate (musta῾mal) sia quelle inutilizzate (muhmal); così f-t-ḥ si trova sotto ḥ nel gruppo ḥ-t-f (e questo perché ḥ è la lettera che precede le altre in quest'ordine alfabetico), con tutte le sue possibili permutazioni, compresa f-ḥ-t che, di fatto inesistente, è etichettata come inutilizzata;
2) l'ordine permutativo/alfabetico segue l'ordine alfabetico arabo standard, che è un adattamento dell'antico alfabeto semitico. Qui le radici sono raggruppate a seconda delle permutazioni, come nel caso precedente; così f-t-ḥ si trova ora sotto t-ḥ-f (perché t in questa sequenza è la prima lettera in ordine alfabetico), con tutte le sue possibili combinazioni. Soltanto un dizionario utilizza tale ordinamento, la Ǧamhara (La collezione) di Ibn Durayd, che riprende il Kitāb al-῾Ayn, ampliandolo e arricchendolo di brevi monografie su argomenti quali le parole straniere, la teoria delle permutazioni, la relativa frequenza delle consonanti arabe;
3) nell'ordine alfabetico in base alla prima lettera radicale ogni radice è elencata separatamente a partire dal suo primo radicale nell'ordine alfabetico standard e la sequenza interna è determinata dalla seconda e dalla terza lettera radicale; così, f-t-ḥ occorre tra f-t-ǧ e f-t-ḫ. Quest'ordinamento storicamente è piuttosto raro: un antico esempio ne è il Kitāb al-ǧīm di al-Šaybānī (m. 213/828 ca.), che prende il nome dalla lettera ǧ per ragioni ancora ignote. Molti dizionari specializzati, comunque, e in particolare quelli di termini tecnici, preferiscono questo ordinamento; tra essi, l'Asās al-balāġa (Le basi dell'eloquenza) di al-Zamaḫšarī, notevole per l'attenzione che dedica ai significati metaforici delle parole. È a partire dal XIX sec. che, sul modello occidentale, i dizionari arabi seguono quest'ordine, anche se si registrano due importanti esempi medievali dell'uso di tale ordinamento: il Mu῾ǧam maqāyīs al-luġa (Dizionario dei paradigmi della lingua) e quello che ne è la forma abbreviata, il Muǧmal (Sinossi), ambedue di Ibn Fāris. Questi due dizionari sono tuttavia ulteriormente complicati dal fatto di seguire un ordinamento ciclico: la prima uscita sotto la lettera f è f-q-m (che è la radice in cui compaiono la seconda e la terza consonante successive a f), e così via fino a f-y-n, quando l'alfabeto ricomincia e passa così infine per f-t. Tale ordinamento è senza dubbio originale (e inimitato) così come era originale la pratica ‒ estremamente interessante ‒ di Ibn Fāris di fornire un generale significato di radice per ogni gruppo di radicali;
4) nell'ordine alfabetico secondo l'ultimo radicale ogni radice è elencata separatamente, a partire dall'ultimo radicale e in base all'ordine alfabetico standard; così f-t-ḥ si trova sotto ḥ, con la sequenza interna determinata dal primo e dal secondo radicale. Questo è l'ordinamento seguito da tutti i maggiori dizionari e deve essere considerato l'ordinamento normale (il fatto che i dizionari che lo seguono siano anche rimari è probabilmente una semplice coincidenza; non sembra, infatti, che i poeti li abbiano utilizzati come tali). Il più antico dizionario di ampio respiro composto in questa forma è il Ṣiḥāḥ (La forma corretta [delle parole]) di al-Ǧawharī (m. 393/1003); fra i grandi dizionari che, in un periodo più tardo, seguono lo stesso ordine vanno compresi il Lisān al-῾Arab (La lingua degli Arabi) di Ibn Manẓūr (m. 711/1311), il Qāmūs al-muḥīṭ (Il dizionario esauriente) di al-Fīrūzābādī (m. 817/1415) e l'imponente Tāǧ al-῾arūs (La corona della sposa) di al-Zabīdī (m. 1205/1791), in cui si trovano riassunti di fatto i contenuti di ogni opera precedente. Lo stesso al-Zabīdī dichiarò che il suo dizionario comprendeva 120.000 voci contro le 80.000 contenute nel Lisān e le 60.000 del Qāmūs.
Si può dire che la lessicografia araba moderna sia stata stimolata dal grande ma incompleto Madd al-Qāmūs, an Arabic English Lexicon di E.W. Lane, pubblicato tra il 1863 e il 1893 (Lane morì nel 1876 quando erano apparsi soltanto i due terzi della sua opera; dal 1970 il dizionario ha continuato a essere pubblicato da varie accademie delle scienze tedesche con il titolo Wörterbuch der klassischen arabischen Sprache). Il dizionario di Lane è essenzialmente un'opera in cui si trovano fusi tutti i diversi dizionari arabi locali e il fatto che quelli del tardo XIX e del XX sec. ‒ quali il Muḥīṭ al-Muḥīṭ (L'onnicomprensivo) di Buṭrus al-Bustānī (1819-1883), il Bustān (Giardino) di ῾Abd Allāh al-Bustānī (1854-1930) e il Mu῾ǧam matn al-luġa (Dizionario della lingua scritta) di Aḥmad Riḍā (1872-1953) ‒ siano stati chiaramente influenzati da Lane e da altri dizionari europei occidentali è, per ironia, un prodotto incidentale del colonialismo: tutte queste opere arabe seguono, infatti, metodi e principî di ordinamento occidentale.
Il Mu῾ǧam al-kabīr (Grande dizionario) dell'Accademia Araba del Cairo è, fino a oggi, la più ambiziosa impresa lessicografica di questo tipo; si distingue perché cita, ogni qual volta è possibile, i sommari generali che Ibn Fāris forniva per il significato delle radici; tuttavia, la pubblicazione dell'opera, che ha avuto inizio nel 1956, finora non è andata oltre le prime lettere dell'alfabeto.
Gli studiosi europei tendevano un tempo a essere piuttosto sdegnosi nei confronti della grammatica e della lessicografia arabe, dimenticando forse che i grammatici arabi avevano da tempo acquisito molti elementi che gli studiosi occidentali hanno intuito soltanto di recente e che la lessicografia europea era appena agli inizi quando il Tāǧ al-῾arūs coronava una tradizione già vecchia di mille anni. È vero, del resto, che la lessicografia araba non si propone di seguire la storia o l'origine delle parole alla maniera occidentale e ancor meno di registrare i loro mutamenti di forma o significato. L'etimologia, ῾ilm al-ištiqāq (scienza del derivare [una parola dall'altra]), esiste certamente ma indica il ricongiungimento di una parola ai suoi radicali: la radice, formalmente parlando, è già nota e tutto ciò che è richiesto è di spiegare questa sua particolare uscita, che talvolta è giustificata ricorrendo a un ragionamento alquanto tortuoso, vicino a quello delle etimologie medievali europee. D'altronde, l'ampio spettro di significati spesso associati a un particolare gruppo di radicali deve aver fornito a ogni singola parola una risonanza semantica molto più profonda di quella che si può avere nelle lingue europee, anche se lo studio della semantica, ῾ilm al-waḍ῾ (scienza dell'imposizione), emerse nel Tardo Medioevo, di pari passo con la scienza ‒ relativamente più giovane ‒ della retorica (῾ilm al-bayān, scienza dell'esposizione). Come già la grammatica, sia la semantica sia la retorica devono molto al precedente sviluppo della semantica elaborata dai giuristi e confermano la particolare simbiosi delle varie discipline linguistiche con gli aspetti più strettamente religiosi dell'Islam. L'interesse della linguistica araba non è comunque meramente storico o culturale ed è probabilmente giunto il momento di riesaminare tutte le scienze arabe del linguaggio alla luce dei recenti progressi della linguistica occidentale.
Auroux 2000: History of the language sciences. An international handbook on the evolution of the study of language from the beginnings to the present, edited by Sylvain Auroux [et al.], Berlin-New York, de Gruyter, 2000-2001, 3 v.; v. I, 2000, pp. 245-336.
Bakalla 1983: Bakalla, Muhammad H., Arabic linguistics: an introduction and bibliography, 2. ed. rev., London, Mansell, 1983 (1. ed.: Bibliography of Arabic linguistics, London, Mansell, 1975).
Bohas 1990: Bohas, Georges - Guillaume, Jean-Patrick - Kouloughli, Djamel E., The Arabic linguistic tradition, London, Routledge, 1990.
Carter 1981: Carter, Michael G., Arab linguistics. An introductory classical text with translation and notes, Amsterdam, Benjamins, 1981.
‒ 1989: Carter, Michael G., Arab linguistics and Arabic linguistics, "Zeitschrift für Geschichte der arabisch-islamischen Wissenschaften", 4, 1989, pp. 205-218.
‒ 1991: Carter, Michael G., Lexicography. Grammar, in: Religion, learning and science in the Abbasid period, edited by M.J.L. Young [et al.], Cambridge, Cambridge University Press, 1991, pp. 106-138, 531-533.
‒ 1994: Carter, Michael G., Writing the history of Arabic grammar, "Historiographia linguistica", 21, 1994, pp. 387-416.
‒ 1999: Carter, Michael G., The struggle for authority. A re-examination of the Basrian and Kufan debate, in: Tradition and innovation. Norm and deviation in Arabic and semitic linguistics, edited by Lutz Edzard and Mohammed Nekroumi, Wiesbaden, Harrassowitz, 1999, pp. 55-70.
Diem 1983: Diem, Werner, Bibliographie. Bibliography. Sekundärliteratur zur einheimischen arabischen Grammatikschreibung, in: The history of linguistics in the Middle East, edited by Cornelis H.M. Versteegh, Konrad Koerner and Hans-J. Niederehe, Amsterdam, Benjamins, 1983, pp. 195-250.
Gätje 1985: Gätje, Helmut, Arabische Lexikographie: ein Überblick, "Historiographia linguistica", 12, 1985, pp. 105-147.
Goldziher 1994: Goldziher, Ignaz, On the history of grammar among the Arabs. An essay in literary history, trans. and ed. by Kinga Dévényi, Tamás Iványi, Amsterdam, Benjamins, 1994.
Gully 1995: Gully, Adrian, Grammar and semantics in medieval Arabic. A study of Ibn Hishām's 'Mughnī l-labīb', Richmond, Curzon, 1995.
Haywood 1965: Haywood, John A., Arabic lexicography. Its history and its place in the general history of lexicography, 2. ed., Leiden, E.J. Brill, 1965 (1. ed.: 1960).
Owens 1990: Owens, Jonathan, Early Arabic grammatical theory, heterogeneity and standardization, Amsterdam, Benjamins, 1990.
Rundgren 1973: Rundgren, Frithiof, La lexicographie arabe, in: Studies in Semitic lexicography, a cura di Pelio Fronzaroli, Firenze, Istituto di Linguistica e di Lingue Orientali dell'Università di Firenze, 1973, pp. 145-159.
Sezgin 1982-84: Sezgin, Fuat, Geschichte des arabischen Schrifttums, Leiden, E.J. Brill, 1967-; v. VIII: Lexikographie (bis c. 430 H.), 1982; v. IX: Grammatik (bis c. 430 H.), 1984.
Versteegh 1987-92: Versteegh, Cornelis H.M., Die arabische Sprachwissenschaft, in: Grundriß der arabischen Philologie, Wiesbaden, Reichert, 1982-1992, 3 v.; v. II: Literaturwissenschaft, hrsg. von Helmut Gätje, 1987, pp. 148-176; v. III: Supplement, hrsg. von Wolfdietrich Fischer, 1992, pp. 269-274.
‒ 1995: Versteegh, Cornelis H.M., The explanation of linguistic causes, az-Zaǧǧāǧī᾽s theory of grammar: introduction, translation, commentary, Amsterdam-Philadelphia, Benjamins, 1995.
‒ 1997: Versteegh, Cornelis H.M., The Arabic linguistic tradition, London, Routledge, 1997.
Weiss 1987: Weiss, B., ῾Ilm al-waḍ῾. An introductory account of a later muslim philological science, "Arabica", 34, 1987, pp. 339-356.
Wild 1965: Wild, Stefan, Das Kitāb al-῾ain und die arabische Lexikographie, Wiesbaden, Harrassowitz, 1965.
‒ 1987-92: Wild, Stefan, Arabische Lexikographie, in: Grundriß der arabischen Philologie, Wiesbaden, Reichert, 1982-1992, 3 v.; v. II: Literaturwissenschaft, hrsg. von Helmut Gätje, 1987, pp. 136-147; v. III: Supplement, hrsg. von Wolfdietrich Fischer, 1992, pp. 264-269.