La civilta islamica: condizioni materiali e intellettuali. Kalam e filosofia naturale
Kalām e filosofia naturale
Il rapporto tra Kalām e filosofia naturale è assai complesso e articolato; in un arco di tempo di quasi un millennio i mutakallimūn (teologi-filosofi) si contano a centinaia e, tra le varie scuole o, persino, tra i singoli autori delle varie scuole, non sono rare le divergenze. Questi pensatori hanno comunque un elemento in comune: tutti hanno cercato di determinare il rapporto esatto delle sostanze, degli accidenti e degli eventi del mondo con l'onnipotenza divina. È questo originario impegno ontologico e teologico che ha assicurato al Kalām, al di là dell'estrema ramificazione delle sue correnti, dei meandri dottrinali e delle polemiche interne, un'unità e una propria fisionomia; ed è ugualmente questo l'elemento che, pur garantendo alle varie risposte via via formulate un carattere non di rado innovativo, ne ha fissato i limiti storici.
La fisica del Kalām, nel suo rapporto con l'ontologia generale dei teologi, è già stata oggetto di diversi studi (Frank 1978). In questa sede le dottrine fisiche dei teologi saranno esaminate da un'angolatura molto più ristretta, quella del loro rapporto con le scienze del tempo. Se tale approccio è stato finora trascurato ‒ dalla ricerca più antica come da quella recente ‒ ciò è dovuto tanto alla difficoltà di accedere ai testi quanto al radicamento e alla persistenza di una serie di pregiudizi storiografici. L'ostacolo maggiore è rappresentato proprio dal fondamento ontologico e teologico del pensiero del Kalām che, a molti studiosi, sembra escludere ogni serio rapporto con la scienza; opinione, questa, tanto più credibile in quanto costituisce il moderno riflesso del giudizio che gli aristotelici arabi esprimevano sui loro diretti rivali e di quello che spesso persino gli stessi teologi avevano riguardo alla loro disciplina. In tal senso, proprio il loro occasionalismo più o meno asserito è invocato oggi a giustificazione della pretesa mancanza di attitudine da parte dei teologi per lo studio della fisica: se la Natura non è nulla, e non è nulla perché ogni evento è creato da Dio, l'idea stessa di una scienza come la fisica sembra perdere il suo senso. La filosofia naturale del XVII sec. costituisce tuttavia un buon esempio contro questa posizione. Malebranche e i suoi seguaci teorizzarono l'occasionalismo entro una cornice galileiano-cartesiana e lo stesso Leibniz non se ne disfece mai completamente: l'occasionalismo si oppose in modo assoluto alla filosofia della Natura aristotelica, ma certamente non alla scienza fisica. Cambia solamente lo status della legge fisica, in virtù del fatto che si postulano in luogo della natura dei corpi alcune 'abitudini' di Dio, da interpretarsi come forma estrema di 'positivismo'.
Ciò detto, si impone immediatamente una restrizione, in quanto vi è un dato della cultura islamica che distingue nettamente le sue produzioni culturali da quelle del Medioevo latino (XIV sec. incluso): l'esistenza di una ricerca scientifica di alto livello e di una vera e propria specializzazione. Le scienze del linguaggio erano, nel mondo islamico, dominio di quelli che nel senso moderno del termine si potrebbero chiamare 'linguisti'. I loro studi comprendono infatti la teoria della codificazione, l'indagine sulla lingua parlata, la linguistica comparata e la combinatoria; le branche più matematiche della fisica costituiscono il campo d'indagine di veri e propri matematici; e, in seno alla stessa matematica pura, non si stenta a riconoscere un filone di geometri e algebristi. Il discorso, inoltre, potrebbe essere ulteriormente precisato; in tal senso, le sole vere scienze fisiche possibili all'epoca ‒ ossia la statica, l'ottica, l'astronomia e l'acustica ‒ devono essere cercate nelle opere degli scienziati; sarebbe assurdo attendersi da un teologo, anche da un teologo mutazilita, lo sviluppo di una scienza matematizzata di tale o tal altra categoria di fenomeni.
È proprio questo dato di storia della scienza a rendere particolarmente delicato lo studio della fisica del Kalām. Alexandre Koyré propose, a suo tempo, una periodizzazione generale della storia della fisica finora indiscussa: a condizione di non assumere l'idea di successione in un senso troppo rigidamente cronologico, si può postulare che alla fisica aristotelica delle forme sostanziali sia succeduta quella dell'impetus e a quest'ultima la fisica archimedea di Galilei. Quali che fossero le oscillazioni riguardo alla fine dell'aristotelismo fisico e agli inizi delle teorie dell'impetus, un elemento della ricostruzione di Koyré (1939) sembrava cronologicamente inattaccabile, ossia il carattere di radicale novità della rinascita archimedea del XVI-XVII secolo.
Va subito detto che, se la periodizzazione di Koyré ha avuto lunga vita, è perché essa resta, a livello generale, sufficientemente giustificata. Non è 'torturando' i testi di Tommaso Bradwardine e di Nicola Oresme che si arriva a Galilei. Tuttavia essa è falsa dal punto di vista della storia della matematica: la prima lettura in grado di padroneggiarne il testo, e quindi 'fruttuosa', del matematico di Siracusa non risale al XVII ma al IX sec., agli ambienti scientifici abbasidi. Oggi è stata raccolta, edita e studiata una sufficiente quantità di testi per poter legittimamente parlare, a partire dai Banū Mūsā, di una vera tradizione di matematica 'neoarchimedea' (Rashed 1992; v. cap. XXXI).
È chiaro allora che, non appena si tenti di determinare la situazione della fisica del Kalām, partendo dalla tripartizione di Koyré, contrariamente alle scienze fisiche esatte del tempo, la fisica del Kalām nella sua globalità appartiene al secondo dei tre stadi individuati da Koyré. I mutaziliti, probabilmente in ragione delle loro motivazioni teologico-metafisiche, si sono sempre attenuti a una dinamica dell'impetus. È in quest'epoca che la nozione stessa di impetus si è, se non creata, almeno sviluppata e imposta presso diversi aristotelici e questo fatto è in sé sufficiente ad attirare l'attenzione degli storici; è, infatti, nel IX sec. che la filosofia aristotelica perde il proprio monopolio, perché è in questo secolo che si assiste, per la prima volta e in modo generalizzato, cioè tale da superare l'orizzonte di un qualche precursore, all'abbandono delle forme sostanziali.
Tuttavia, nella semplice coabitazione storicamente attestata e plurisecolare tra le due ultime fasi della tripartizione di Koyré non vi sarebbe ancora nulla di straordinario. La difficoltà storica è originata piuttosto dal fatto che esiste un rapporto diffuso tra lo sviluppo della fisica mutazilita e la nascita della matematica neoarchimedea. Nell'individuare la portata e le implicazioni di questo rapporto senza esagerarne l'impatto consiste la difficoltà con cui lo storico si trova a confrontarsi e sulla quale non si insisterà mai troppo. Non si tratta, infatti, soltanto di una questione di periodizzazione: è la logica sotterranea delle alleanze tra neoarchimedismo e teorie dell'impetus ‒ di contro al sistema del mondo di Aristotele e di Alessandro di Afrodisia ‒ che fa sorgere la vera questione teorica. Non è certamente un caso se i due principali problemi cui si sono interessati i mutaziliti, quello della sostanza-atomo e quello della forza, presso gli scienziati puri (aṣḥāb al-ta῾ālīm) avevano, per così dire, i loro 'equivalenti' nella questione delle determinazioni infinitesimali e in quella della statica. Senza giungere a parlare d'influenza, limitiamoci per ora a constatare questa rilevante concomitanza e a usarla come filo conduttore; tratteremo, quindi, in un primo tempo gli aspetti dell'atomismo del Kalām, poi ci soffermeremo sulla sua cosmologia e sulla sua dinamica.
Di tutti i capitoli della fisica del Kalām, la dottrina atomista è oggi quella meglio conosciuta. Essa ha costituito l'oggetto di un certo numero di articoli e, recentemente, di un'importante monografia (Dhanani 1994). È perciò possibile evitare qui di entrare nei dettagli delle varie argomentazioni cui i teologi hanno fatto ricorso per dimostrare l'esistenza e le caratteristiche delle 'parti indivisibili'. Si insisterà, invece, soprattutto su ciò che ‒ a un livello fondamentale ‒ ci sembra peculiare della rinascita dell'atomismo presso i teologi dell'Islam, e che è stato finora trascurato dall'esegesi moderna: la nuova configurazione dei rapporti tra fisica e matematica, sul piano sperimentale e su quello concettuale dell'immaginazione.
Secondo l'interpretazione classica, inaugurata da Kurd Lasswitz (1890), gli argomenti matematici opposti da Aristotele all'atomismo, prima del XVII sec. e della rivoluzione del calcolo differenziale, non potevano essere confutati se non in due modi e cioè postulando l'esistenza del vuoto oppure la struttura discontinua dello spazio. Uno dei principali meriti di Lasswitz è di avere riconosciuto che ambedue le vie erano state battute dai mutakallimūn, i quali, secondo la sua interpretazione, avrebbero suscitato un'intensificazione senza precedenti del dibattito intorno alla questione del continuo, creando così le condizioni teoriche necessarie alla rinascita della matematica archimedea nel XVI secolo. Certo, il loro ruolo non poteva che essere 'negativo' (senza che questo termine abbia qui la minima connotazione peggiorativa), poiché essi, nella grande maggioranza, negavano l'esistenza del continuo matematico: il Kalām ha elaborato una serie di argomenti inediti contro la distinzione potenza/atto.
Scoperte testuali recenti permettono di arricchire una tale ricostruzione, anche se in una direzione per Lasswitz insospettata. Nella tradizione greca, almeno a partire dal De caelo di Aristotele, l'asse portante della polemica contro l'atomismo è che la sua concezione discreta del continuo si oppone alle scienze matematiche. D'altronde, numerosi epicurei si erano sentiti obbligati a criticare i fondamenti della geometria euclidea. Il mutazilismo della Scuola di Bassora, in Iraq, tentò, al contrario, deliberatamente di fondare il proprio atomismo su considerazioni di ordine matematico, aprendo così un'autentica questione epistemologica, che, al centro delle preoccupazioni di un Galilei o di un Cavalieri nel XVII sec., doveva restare viva fino alla scoperta del calcolo infinitesimale.
Una teoria del discontinuo
È necessario partire dalla celebre disputa tra Abū 'l-Huḏayl (m. 227 h.), fautore degli indivisibili, e al-Naẓẓām (m. 235 h.) che sostiene l'infinita divisibilità delle grandezze e difende, forse esplicitamente, l'esistenza dell'infinito in atto. Nonostante le apparenze, le posizioni non sono quelle cui ci hanno abituato i dibattiti greci. Abū 'l-Huḏayl prende atto della critica di Aristotele all'atomismo di Democrito e, in particolare, alla sua supposta dottrina dell'indivisibilità matematica delle parti atomiche. Egli postula, dunque, gli atomi ma, contrariamente a Democrito, li concepisce senza grandezza, identici gli uni agli altri, incorporei.
Non c'è bisogno di sottolineare il carattere astratto di tali entità, che non hanno niente a che vedere con i concreti corpuscoli degli alchimisti della Tarda Antichità. L'ipotesi di Abū 'l-Huḏayl mira a rendere conto, a un livello molto generale, della composizione dei corpi e del loro movimento, senza entrare nei dettagli delle loro trasmutazioni. Gli storici della filosofia si sono interrogati molto sulle origini dell'atomismo di Abū 'l-Huḏayl; c'è chi vi ha visto un'influenza della filosofia indiana (Pinès 1936); chi, invece, quella della dottrina epicurea degli indivisibili, interpretata alla luce della testimonianza di Simplicio (Dhanani 1994). Il commentatore alessandrino (In Aristotelis Physicorum libros quattuor priores commentaria) sosteneva, infatti, che di fronte alle critiche di Aristotele contro Democrito, gli epicurei furono costretti a rimodellare l'atomismo dei loro predecessori e a distinguere l'indivisibilità fisica dall'indivisibilità matematica. Gli atomi di Epicuro, fisicamente indivisibili, sono comunque composti da 'indivisibili' i quali soltanto, come punti, sono matematicamente indivisibili. Si potrebbe persino aggiungere, a sostegno di una tale ricostruzione storica, che un frammento inedito trasmesso dal codice parigino della Bibliothèque Nationale gr. 1853 (f. 68v) provi come il testo di Simplicio derivi in effetti dal commentario di Alessandro di Afrodisia alla Fisica, tradotto in arabo, a differenza di quello di Simplicio (Rashed 2001).
Non si può negare che vi sia una qualche affinità tra le due risposte atomistiche; sembra comunque necessario limitarne la portata per attirare invece l'attenzione su di un fatto nuovo, che conferisce alla dottrina di Abū 'l-Huḏayl la sua originalità. Rispetto alla matematica euclidea, la teoria epicurea degli atomi conduceva a un doppio divorzio: bisognava, ben inteso, rinunciare al continuo nel senso aristotelico del termine (tra due punti ne esiste sempre un terzo), ma, una volta posto il discreto, bisognava farsi carico di una doppia distinzione, quella tra due atomi e quella tra i molteplici indivisibili dello stesso atomo. Questa doppia distinzione rendeva gli sforzi di chiarificazione piuttosto verbosi, perché a costituire un problema era esattamente la riduzione del continuo fisico al continuo geometrico operata da Aristotele. Concordando, su questo punto, con Aristotele, Abū 'l-Huḏayl accettava di caratterizzare il proprio atomismo in termini geometrici e l'estensione, priva della continuità, ritrovava una perfetta omogeneità. La differenza con Epicuro è radicale.
Abū 'l-Huḏayl, però, non si ferma qui. Rifiutandosi di rilevare in termini misurabili gli intervalli tra i punti atomici, egli mostra come il dibattito con al-Naẓẓām si situi al livello dell'interpretazione stessa della divisibilità. La tradizione non ha conservato testi espliciti al riguardo, ma è probabile che la posizione di Abū 'l-Huḏayl consistesse nel ritenere che il numero dei punti di un segmento ‒ sebbene superiore a ogni misurazione possibile ‒ fosse necessariamente finito. La sola differenza rispetto ad al-Naẓẓām consiste nel fatto che per quest'ultimo tale numero deve essere infinito in atto. Prima di essere un problema di fisica corpuscolare, la divergenza riguarda ciò che si deve intendere per divisione 'indefinita' delle grandezze. Il discontinuismo di Abū 'l-Huḏayl non si contrappone dunque frontalmente alla matematica. Si tratta di critiche puntuali che si estendono fino a considerare la contraddizione tra la finitezza del numero degli indivisibili e l'incommensurabilità del lato di un quadrato e della diagonale. Certo, se si esamina la questione degli indivisibili alla maniera dei dogmatici ‒ nel senso della verità come adaequatio rei et intellectus ‒ si giunge a individuare persino una contraddizione con la teoria delle grandezze incommensurabili. Tuttavia Abū 'l-Huḏayl non si spinge così lontano perché rifiuta ‒ i testi sono su questo punto unanimi ‒ di suggerire un'effettiva quantificazione metrica. Egli am- mette che le parti saranno tanto piccole quanto si vorrà, soltanto chiede che non lo si obblighi a calcolarle. Crediamo, a differenza di altri (Gimaret 1990), che nessun grande mutakallim del livello di Abū 'l-Huḏayl abbia cercato di specificare la misura dell'atomo o di quantificare l'istante indivisibile. Informazioni di questo tipo non si trovano che in autori relativamente minori (Abū Isḥāq al-Šīrāzī) o in avversari mossi da intenzioni polemiche (Maimonide). Le nostre ragioni non sono comunque meramente dottrinali; proviamo a supporre che Abū 'l-Huḏayl abbia determinato quantitativamente le dimensioni degli atomi: quale dossografo non si sarebbe subito impadronito di dati così facilmente reperibili?
Tale determinazione negativa è in qualche modo il riflesso della posizione infinitista estrema, secondo la quale i punti di un segmento 'esistono' infiniti in atto senza che sia tuttavia possibile esibirli uno a uno. Abū 'l-Huḏayl e al-Naẓẓām, nonostante tutto ciò che li oppone, hanno dunque in comune il fatto di voler pensare la divisibilità indefinita delle grandezze senza fare appello al deus ex machina della potenza e dell'atto. È proprio questo elemento, d'altronde, a conferire alle innumerevoli dispute arabe sulla questione dell'infinito un tratto caratteristico, ossia il fatto che ambedue i partiti facciano appello alla matematica. Tra i sostenitori dell'infinito, si contano due gruppi a loro volta contrapposti: da un lato, gli aristotelici e i loro affini, che mantengono la distinzione fondante tra potenza e atto (alcuni tale e quale, altri, come Avicenna, trasformandola), dall'altro i sostenitori dell'infinito in atto, matematici o teologi che siano. Tra i 'finitisti' si osserva una divisione simmetrica tra coloro che non sono lontani dall'affermare la positività degli indivisibili (e dunque dal rifiutare come false le teorie matematiche) e coloro che, come Abū 'l-Huḏayl, rifiutano di pronunciarsi sulle modalità di esistenza del finito. Una tale ripartizione non corrisponde che parzialmente alla sistematizzazione delle dottrine fisiche proposta da Faḫr al-Dīn al-Rāzī (1150-1210) nel volume VI dei Maṭālib al-῾āliyya (Le ricerche superiori), poi ripresa da al-Īǧī (m. 1355) nei Mawāqif (Le soste) e prima di lui da Mīṯam ibn ῾Alī al-Baḥrānī (636-699 h.) nei Qawā῾id al-marām (I fondamenti dell'aspirazione). Faḫr al-Dīn si serve di due criteri per classificare le dottrine fisiche: la distinzione tra atto e potenza e quella tra finito e infinito. Tutte e quattro le combinazioni possibili a partire da queste distinzioni sono storicamente identificabili: quella dell'atto e del finito è la tesi della maggior parte dei mutakallimūn, quella dell'atto e dell'infinito è la tesi di al-Naẓẓām, quella della potenza e del finito rimanda ad al-Šahrastānī, quella della potenza e dell'infinito è la tesi dei falāsifa (filosofi).
I finitisti e la matematica
La direzione 'matematizzante' impressa al dibattito sul continuo fisico da Abū 'l-Huḏayl e al-Naẓẓām, ancora implicita nella loro disputa, è stata rinforzata e resa esplicita dai successori di Abū 'l-Huḏayl. Tre testimonianze provano che i finitisti del secolo successivo a quello dei due mutakallimūn si richiamavano deliberatamente alla matematica. Esamineremo tali testimonianze in successione.
a) Una nota allusiva di al-Ǧuwaynī. Nel Kitāb al-šĀmil (Libro esauriente) al-Ǧuwaynī (419-478/1028-1085), proprio all'inizio della discussione sugli indivisibili, opera la seguente distinzione:
Le genti dell'Islam sostengono che la divisione dei corpi è finita e che essa giunge a delle unità; che nessuna parte indivisibile ha la minima estremità; che una parte indivisa non ha un principio di distinzione [leggo secondo l'edizione Naššār, ma con una diversa punteggiatura: wa-kullu ǧuz᾽in lā yataǧazza᾽u, fa-laysa la-hu ṭarfun wāḥidun; wa ǧuz᾽un šā᾽i῾un lā yatamayyazu; Klopfer: fa-laysa la-hu ṭarfun wāḥidun šā᾽i῾un lā yatamayazzu]. Ed è analogamente a questa posizione che si sono attenuti coloro che hanno approfondito la geometria [al-muta῾ammiqūn fī 'l-handasati: Naššār; '(alcuni) di coloro che hanno approfondito la geometria' (ba῾ḍu al-muta῾ammiqīna: Klopfer]; essi dicono 'punto' per 'parte' e hanno concluso che il punto non può essere diviso in parti. La maggioranza dei filosofi è dell'opinione che la divisione dei corpi sia infinita e questa ‒ fra quelli che hanno avuto a che fare con la filosofia ‒ è anche la tesi di al-Naẓẓām. (p. 143)
Il passaggio è difficile, forse corrotto nell'unico manoscritto che l'ha trasmesso. Si può comunque notare la nettezza con la quale al-Ǧuwaynī classifica i geometri (alcuni? uno solo?) e i teologi da una parte, e i falāsifa dall'altra. Al-Ǧuwaynī, il maestro di al-Ġazālī, non ci dà alcuna informazione circa l'identità dei primi e, allo stato attuale delle conoscenze, appare difficile poter supplire a questa lacuna. Sappiamo soltanto che Ibn al-Hayṯam (m. dopo il 1040) ha composto il trattato Fī 'l-ǧuz᾽ allāḏī lā yataǧazza᾽u (Sugli indivisibili), oggi perduto (Rashed 1993). Il solo matematico musulmano di cui possediamo ancora una vera e propria trattazione dedicata a questo tema è al-Bīrūnī il quale, nella sua quarta 'domanda' ad Avicenna, tratta degli indivisibili. A dispetto di una netta preferenza, esplicitamente antiaristotelica, per gli indivisibili, il matematico e filosofo confessa comunque di essere consapevole delle difficoltà suscitate dalla dottrina avversa:
Per quale ragione Aristotele ha messo in dubbio l'affermazione dei fautori degli indivisibili, quando le conseguenze che devono affrontare i fautori della divisibilità all'infinito sono tanto più confutabili ‒ tanto che un mobile non può raggiungere un altro mobile, entrambi muovendosi nella stessa direzione, e questo anche quando il mobile che è davanti si muove più lentamente? Prendiamo allora l'esempio del Sole e della Luna: se tra essi esiste una distanza data per ipotesi e la Luna si muove, il Sole si deve muovere durante [lo stesso periodo] di tempo su di un certo intervallo; ⟨e poi>, se la Luna ⟨continua a> muoversi, anche il Sole deve muoversi su una distanza più piccola, e così di seguito all'infinito, di modo che noi potremmo vedere la Luna precedere il Sole. Certo, i fautori dell'indivisibile devono anch'essi affrontare numerose conseguenze ben note ai geometri. Tuttavia, gli ostacoli che incontrano i loro avversari e che ho menzionato sono più [facilmente] rimovibili. Come dunque sfuggire alle conseguenze assurde che derivano da ciascuna delle due posizioni? (al-As᾽ila wa-'l-aǧwiba, pp. 17,7-18,3)
Questo testo è di grande interesse. Se un matematico della statura di al-Bīrūnī afferma che una tesi è 'più revocabile' di un'altra a sua volta revocata in dubbio dai geometri, bisogna che la prima ponga problemi matematici ancora più seri.
Due testi, l'uno già segnalato da Dhanani, l'altro mai citato, a nostra conoscenza, prima d'ora, possono chiarire i fondamenti e i presupposti di una tale posizione.
b) Il postulato dell'atomo secondo Abū 'l-Qāsim al-Balḫī e Abū Hāšim al-Ǧubbā᾽ī. Capo della Scuola mutazilita di Baghdad intorno al 900 d.C., Abū 'l-Qāsim al-Balḫī, citato da Ibn Mattawayh (m. 496 h.), menziona almeno due 'autorità' antiche a favore degli indivisibili: la teoria dell'angolo curvilineo (noto come angolo di contingenza) e la definizione euclidea della retta. Il passo del De caelo in cui Aristotele definisce geometricamente lo spazio cosmico, citato anche da Ibn Mattawayh, deriva probabilmente da un'opera di Abū Hāšim al-Ǧubbā᾽ī (m. 321 h.). Non sfuggirà certo l'ironia antiperipatetica nell'aver schierato le due grandi figure del continuismo ‒ Aristotele ed Euclide ‒ sotto l'egida degli indivisibili.
L'interesse dei filosofi per l'angolo di contingenza non è nuovo all'epoca di al-Balḫī. È comunque il nostro teologo a costituire la prima testimonianza esplicita di un ricorso a questo esempio di carattere matematico per difendere la teoria degli indivisibili. "Vi può essere un angolo tale che nessuna cosa sia più stretta di esso, a tal punto che non se ne possano far uscire due rette. Ciò ‒ secondo costoro ‒ induce a supporre l'indivisibile perché altrimenti bisognerebbe che tutti gli angoli fossero uguali riguardo al fatto che se ne possano far uscire delle rette" (Ibn Mattawayh, al-Taḏkira, p. 162).
Dhanani, il quale ha notato che al-Balḫī fa allusione alla prop. III, 16 di Euclide sugli angoli curvilinei, suggerisce come possibile fonte di questo passo un commento come quello di al-Nayrīzī, che sembra considerare l'angolo di contingenza indivisibile. I mutakallimūn si sarebbero così accontentati di riprendere una semplice formula, senza coglierne l'esatta portata. Una conferma a tale interpretazione potrebbe venire da Avicenna, il quale riconosce che l'argomento veniva utilizzato dagli atomisti e che, a giusto titolo, critica l'indivisibilità dell'angolo di contingenza. Ci si può tuttavia domandare se per gli atomisti più lucidi l'argomento non avesse piuttosto un carattere difensivo. È in ogni caso come tale che esso si presenta, pur in tutt'altro contesto, in un frammento arabo del commento di Filopono alla Fisica: l'argomento appare in Filopono in relazione all'idea di Aristotele per cui se una realtà A può essere più grande o più piccola di una realtà B, essa può esserle anche uguale. Ora, dice Filopono, un angolo curvilineo può essere più grande o più piccolo di uno rettilineo, ma non può essergli uguale.
Il caso di un angolo più piccolo rispetto a un qualsiasi angolo formato da due rette secanti ‒ vicine quanto si voglia ‒ e la smentita che queste entità matematiche fornivano all'assioma di Eudosso-Archimede non potevano che allertare alcuni pensatori cui gli avversari opponevano l'argomento della dicotomia. Anche se Jules Vuillemin (2000) suppone che essa potesse essere ‒ in maniera intuitiva ‒ alla base delle discussioni dove s'inserisce l'atomismo di Democrito, bisogna attendere i mutakallimūn e Avicenna perché questa connessione sia menzionata in maniera esplicita.
Al-Balḫī riporta in seguito la definizione euclidea del punto: "Euclide ha menzionato nel suo libro il fatto che il punto non ha parti e che la distanza del centro del cerchio rispetto alla sua circonferenza è una distanza unica da tutti i lati. E se la parte fosse divisibile, vi sarebbero infinite distanze" (al-Taḏkira, p. 162). Questo passaggio lascia pochi dubbi circa l'orientamento generale di un tale atomismo: è la definizione matematica del punto a costituirne lo schema esplicativo. Ibn Mattawayh non sviluppa ulteriormente la posizione di al-Balḫī e lascia nell'ombra, in particolare, la concezione del rapporto tra fisica e matematica che la fonda.
La terza autorità che appare in Ibn Mattawayh non dà alcuna informazione supplementare, ma è ugualmente di grande interesse strategico: "Aristotele ha menzionato nel trattato De caelo et mundo il fatto che la linea si divide in parti in lunghezza ma non in larghezza, che la superficie si divide nelle due direzioni e che il corpo si divide in parti nelle tre direzioni. Si è anche detto che secondo Aristotele e altri la linea possiede una sola dimensione, la superficie due e il corpo tre" (ibidem).
Ibn Mattawayh cita qui il passo iniziale del De caelo di Aristotele (I, 1, 268a 7-8): "Delle grandezze, quella che ha una dimensione è linea, quella che ne ha due è superficie, quella che ne ha tre è corpo". Questo riferimento è tanto più impressionante in quanto Aristotele, nelle righe immediatamente precedenti, riaffermava la divisibilità all'infinito delle grandezze: "continuo è ciò che è divisibile in parti sempre divisibili, corpo ciò che è divisibile secondo tutte le dimensioni" (ibidem, 268a 6-7). La fonte di Ibn Mattawayh prende Aristotele in parola: non è un caso se il solo passo della Taḏkira in cui Aristotele è citato con approvazione è uno dei pochi in cui lo Stagirita si esprime a proposito del mondo fisico in termini matematici. Perché è proprio per descrivere il Cosmo che Aristotele comincia con l'evocare le sue tre dimensioni. Ibn Mattawayh fa seguire la citazione di Aristotele dalle seguenti considerazioni: "Abū Hāšim ha dunque detto: ciò concorda con quello che noi diciamo della parte perché altrimenti, se non ci si arrestasse a un limite, bisognerebbe che la linea e la superficie fossero come il corpo, nel senso che esse avrebbero dimensioni, all'infinito, e non si potrebbero distinguere [le linee, le superfici e i corpi] gli uni dagli altri" (al-Taḏkira, p. 162).
Non è impossibile, dato che Abū Hāšim ha consacrato un intero libro alla critica del De caelo e che questo libro risulta citato altrove nella Taḏkira da Ibn Mattawayh, che il passo di Aristotele precedentemente riportato si debba a questo stesso trattato, dove esso sarebbe seguito dalla nota di Abū Hāšim. Quest'ultimo avrebbe opposto già all'inizio le due prime frasi della riflessione di Aristotele, l'una tale da postulare la divisione indefinita delle grandezze e l'altra il carattere unidimensionale della retta. Se la retta è tale, risponderebbe in sostanza Abū Hāšim, è perché ci sono, come in Euclide, realtà senza dimensioni e non c'è dunque una divisibilità all'infinito.
c) Le prove matematiche dell'atomismo riferite da Faḫr al-Dīn al-Rāzī. Avicenna menziona esplicitamente l'angolo di contingenza in un testo allusivo delle Mubāḥaṯāt (Le ricerche; par. 1136, pp. 363-364). Egli aggiunge due dimostrazioni 'matematiche' che non appaiono in Ibn Mattawayh, senza menzionarne l'autore. Ecco la traduzione del testo:
Hanno stabilito [l'esistenza] della parte indivisibile per mezzo delle seguenti dimostrazioni: (i) il movimento di una sfera su di un piano, perché vi è contatto istante dopo istante, di modo che essa tocchi una cosa (šay᾽an) indivisibile; (ii) il movimento di una retta su di un'[altra] retta grazie a successivi contatti, in modo che il contatto abbia luogo con qualcosa (bi-amrin) di indivisibile; (iii) la dimostrazione del Libro III di Euclide in cui egli ha mostrato l'esistenza di un angolo più piccolo di ogni angolo acuto costituito da due linee rette. È con queste dimostrazioni, e con altre, che essi hanno stabilito l'indivisibilità.
Avicenna non dice nulla di più su queste dimostrazioni (barāhīn) e passa immediatamente a confutarle. Le prime due sono, tuttavia, lungamente sviluppate nel capitolo 5 del Libro VI dei Maṭālib al-῾āliyya di Faḫr al-Dīn. Il titolo del capitolo non lascia alcun dubbio sul progetto complessivo: 'Sulle prove che stabiliscono l'atomo indotte a partire dai principî della geometria' (fī 'l-adilla al-dālla ῾alā iṯbāt al-ǧawhar al-fard al-mustanbaṭa min al-uṣūl al-handasiyya). Senza aggiungere nulla di essenziale rispetto al nucleo dell'argomentazione degli atomisti, la discussione di Faḫr al-Dīn prova con quale attenzione essi si siano dedicati alla questione delle tangenze. La terminologia utilizzata da Avicenna per descrivere questi punti (amr, šay᾽), che si ritrova immutata in Faḫr al-Dīn (inna-hu šay᾽), è rivelatrice dello sforzo di astrazione che si fece per pensare 'cose' che, in quanto tali, non hanno posto in un'ontologia sostanzialista (in senso peripatetico).
Faḫr al-Dīn ci dà tuttavia, alla fine della discussione, una informazione positiva importante, che prova come egli non si fosse accontentato fino a quel momento di chiosare il testo di Avicenna: il geometra della seconda metà del X sec. al-Šannī ha composto un lungo trattato per confutare quello che, secondo Faḫr al-Dīn, costituiva il più forte argomento tra quelli avanzati dai sostenitori dell'atomismo dedotto a partire dai principî della geometria: quello di una retta perpendicolare a un'altra retta e posta su di essa con un movimento regolare di traslazione. Non si può negare ‒ sostiene l'argomento ‒ che in ogni istante la retta in movimento tagli la retta immobile in un punto diverso dal precedente e che tale punto sia esistente in atto. La retta immobile è dunque composta dall'insieme dei singoli punti toccati dalla retta mossa.
È facile cogliere le implicazioni di una tale polemica. Essa non oppone delle corporazioni ‒ matematici, falāsifa, mutakallimūn ‒ ma divide questi stessi gruppi al loro interno. Così, è probabilmente a un matematico anteriore o contemporaneo che al-Šannī risponde, a un matematico che sosteneva una tesi fondamentale per il mutazilismo basriano e il cui trattato dovette essere rapidamente recuperato da questa corrente e dalle scuole a essa affini. In favore dell'origine matematica dell'argomento va notato che il modello qui impiegato (una retta mossa su di un piano al quale essa è perpendicolare) aveva già goduto del favore di Ṯābit ibn Qurra, che l'aveva proposto in un tentativo di dimostrazione del postulato delle parallele (v. cap. XXVIII); e che esso si ricollega a una serie di questioni sui fondamenti della geometria e l'impiego del movimento. Questi sono stati inaugurati nel IX sec. e discussi con accanimento durante i tre secoli successivi. La massa dei matematici del IX e X sec., anteriori ad al-Šannī, rende impossibile, allo stato attuale delle nostre conoscenze, ogni tentativo di identificazione.
Ciò che è in germe nella discussione tra Abū 'l-Huḏayl e al-Naẓẓām e che percorrerà tutta l'epoca classica non è, dunque, una grossolana opposizione tra continuo e discontinuo; si tratta della concezione stessa dell'infinito. Domandare ai discepoli di Abū 'l-Huḏayl, a proposito del segmento della retta A-B, se il numero dei suoi punti sia finito o infinito sarebbe intentare loro un falso processo. Bisogna piuttosto supporre una risposta a due livelli. Obbligati a pronunciarsi a proposito della struttura atomica della diagonale in rapporto al quadrato, i basriani non potrebbero che invocare la discontinuità della materia, per precisare però, immediatamente dopo, che si può fare a meno, a livello operativo o pratico, dell'infinito. È sufficiente postulare che gli atomi siano più piccoli di qualunque misura si voglia loro assegnare o che, qualunque sia la coppia di punti che il matematico voglia prendere, tra di essi ve ne sarà sempre un terzo. In breve, l'intuizionismo di Abū 'l-Huḏayl, che tende ad assimilare verità e costruttività, dipende dal carattere 'indefinito' del numero di punti di un segmento che un matematico non può sezionare che un numero 'finito' di volte.
Di fronte ad Abū 'l-Huḏayl vi sono due principali posizioni: l'infinitismo radicale di al-Naẓẓām e l'infinitismo mitigato dal gioco della potenza e dell'atto dei neoaristotelici. Non è questo il luogo per esaminare il secondo (v. cap. XLIX); esamineremo invece il primo.
L'infinitismo di al-Naẓẓām
È noto che, per salvare la possibilità del movimento dal punto A al punto B, nonostante un numero infinito di punti in atto tra A e B, al-Naẓẓām suggerì l'ipotesi del salto (ṭafra): un mobile non si posa su tutti i punti (infiniti) della sua traiettoria, ma soltanto su alcuni, 'saltando' gli altri. Il modo in cui al-Naẓẓām da una parte e Abū 'l-Huḏayl dall'altra concepiscono il movimento è molto meno divergente di quanto spesso si crede: i due teorici non si oppongono tanto per la descrizione cinematica del processo, che, contro Aristotele, è concepito da entrambi come un passaggio successivo da un punto 'determinato' a un altro, quanto, piuttosto, sul suo fondamento ontologico. Mentre per al-Naẓẓām gli spazi tra i punti di riferimento sono infinitamente divisibili, ossia 'riempiti' essi stessi da un'infinità di punti in atto, secondo Abū 'l-Huḏayl è falso che tra due punti ne esista, indipendentemente da qualunque processo di costruzione effettiva, un terzo. Al di fuori di questa divergenza ‒ che non incide affatto sull'effettività di un processo di traslazione, poiché Abū 'l-Huḏayl si guarda bene dal fissare quantitativamente la soglia atomica e al-Naẓẓām dal determinare il numero minimo di punti in atto su una traiettoria data ‒ i due autori concordano su di una concezione 'sequenziale' del movimento. In altri termini, sia l'uno sia l'altro sostengono l'esistenza 'reale' dei punti descritti dal mobile.
Al-Naẓẓām ha dunque contribuito a liberare il problema del continuo dal suo involucro aristotelico e questo nel modo più radicale possibile per il IX secolo. Non si può negare l'esistenza di un numero infinito di punti tra A e B; ma non si può neppure negare che, qualunque sia la distanza finita tra due punti dati, un mobile che parta da uno dei due punti arrivi all'altro in un tempo finito. La conclusione è inevitabile: il movimento suppone una sorta di miracolo rinnovato con il quale Dio fa saltare al mobile alcuni spazi riempiti da una infinità di punti. Una tale transcreatio sarà la soluzione che Leibniz adotterà, ancora nel 1676, appena prima della 'riforma della dinamica' (De corporum concursu, 1678). Tale ricorso a Dio, che, rispetto al modello (in certa misura) autonomo di Aristotele, potrebbe apparire come una regressione, non è che il riflesso di un'esigenza esplicativa superiore, ma insoddisfatta: meglio Dio che una sofisticheria verbale, dicono in sostanza i sostenitori della transcreatio.
Vi sarebbe molto da dire sui rapporti tra il sistema di Leibniz e le discussioni dei mutakallimūn. Anche senza voler parlare della metafisica matura della monade, non si può negare la grande influenza che alcune pagine della Dalālat al-ḥā᾽irīn (Guida dei perplessi) di Maimonide hanno esercitato sull'esposizione del Pacidius Philalethi, composto nell'autunno del 1676. Leibniz presenta due tesi, le quali non sono altro che quelle di Abū 'l-Huḏayl e di al-Naẓẓām. Dopo aver mostrato le grandi difficoltà che risultano dalle due ipotesi, in particolare dalla prima, Leibniz si schiera dalla parte di al-Naẓẓām, accettando la soluzione della transcreatio e attribuendo l'effettivo processo di percorso dell'infinito in atto a un miracolo divino che ricomincia sempre senza posa. Le annotazioni di Leibniz alla Guida dei perplessi (consultata nella traduzione di Johannes Buxtorf apparsa a Basilea nel 1629) testimoniano con quale interesse egli abbia letto quest'opera, in particolare il capitolo I, 73, dedicato all'esposizione delle tesi dei loquentes. Il fatto, poi, che tali annotazioni siano probabilmente posteriori al 1676 non prova, ovviamente, che Leibniz non abbia consultato la Guida anche in una data anteriore e cioè prima o durante la redazione del Pacidius Philalethi. Va infine notato che la teoria della transcreatio, pur con alcuni aggiustamenti, sopravviverà dopo la 'riforma della dinamica' fino agli anni 1678-1685 (Robinet 1986).
Una conferma dell'atomismo matematico: la disputa della quies media
È difficile rintracciare nei testi ‒ cioè attraverso la 'lente' delle dossografie e delle confutazioni ‒ una traccia autentica delle dottrine della scuola di Abū 'l-Huḏayl. È, tuttavia, una posizione di numerosi autori mutaziliti l'opposizione alla dottrina della quies media che, correttamente interpretata, mostra bene l'ispirazione matematica del loro atomismo. È il continuo matematico, o almeno una sua interpretazione intuizionista, a essere servito da modello ai mutakallimūn.
Se la maggior parte dei mutakallimūn ha criticato la quies media, non è soltanto perché essa costituiva a loro avviso un momento particolarmente debole della cosmologia aristotelica. È difficile determinare quale sia stata la prima ragione della loro innata sfiducia nei riguardi di Aristotele e della necessità di combattere il concettualismo dello Stagirita, necessità che si impone una volta dato il giusto sviluppo alle loro premesse. È invece evidente che i due momenti si generano e si confermano reciprocamente. Come è certo che la Fisica occupa un posto privilegiato nella tradizione aristotelica e costituisce perciò un avversario d'elezione: questo trattato offre tutte le chiavi per leggere in modo sistematico la cosmologia di Aristotele. Il 'filosofo' vi sviluppa, a un livello astratto, la sua concezione del luogo, del tempo e del movimento; ma vi propone anche, dimostrando l'esistenza del primo motore, una giustificazione d'insieme della sua fisica antiplatonica. Le modalità di una tale dimostrazione hanno già dato luogo a una delle grandi polemiche interne alla falsafa (filosofia) islamica. Si tratta della questione della dimostrazione dell'esistenza del primo motore, che ha opposto i sostenitori di una prova concettuale a quelli di una prova ostensiva, che risalga dall'effetto alla causa (Steel 1997). Le conseguenze cosmologiche, però, non hanno dato luogo a dubbi né per gli aristotelici né per i loro avversari: questo essere sempiternamente immobile impone al primo mosso il proprio eterno movimento e questo movimento eterno deve essere circolare. Aristotele ha messo una grande cura nello stabilire tale implicazione reciproca, cercando di dimostrare la discontinuità di ogni movimento rettilineo in un mondo di dimensioni finite. Il commentatore antico di gran lunga più sensibile alla sfida della dimostrazione di Aristotele è Alessandro di Afrodisia. Fin dalla prima Quaestio (I, 1, in: Scripta minora), egli espone la questione nella maniera seguente: se si ammette anche un solo istante di quiete totale nella storia dell'Universo, non si può spiegare il ritorno al movimento, poiché ci si troverebbe allora nella necessità di supporre un motore per il motore, cadendo così sotto i colpi di un regresso all'infinito. Vi è dunque un movimento continuo da tutta l'eternità ed esso non può essere che circolare. Si comprende, quindi, facilmente, l'importanza strategica che viene ad assumere la dimostrazione dell'esistenza di un istante di arresto tra due movimenti rettilinei opposti: la distruzione di una simile tesi rendeva nulla la condizione privilegiata del primo mosso e minava la concezione aristotelica, di fatto puramente meccanicista, del primo motore.
Si possono distinguere due tipi fondamentali di risposte nei testi dei mutakallimūn. La prima, per così dire positiva, corrisponde alla concezione atomistica del movimento e fa capo alla posizione inaugurata da Abū 'l-Huḏayl. Occorre però distinguere, in questo caso, tra la posizione storica del maestro e quella dei suoi seguaci. Per Abū 'l-Huḏayl ogni corpo è un 'aggregato' di atomi affetti da accidenti; la velocità dell'aggregato è determinata dalla proporzione relativa, nel corpo mosso, di atomi affetti rispettivamente dall'accidente 'movimento' e dall'accidente 'riposo'. I suoi continuatori, a seguito delle critiche di al-Naẓẓām e fino a Gassendi e Leibniz, hanno ricondotto l'argomento a quello della composizione atomica dello spazio percorso: il movimento ha luogo in atomi che occupano uno spazio; tra due movimenti atomici sopravviene un momento di risposo; più questo tempo di riposo è lungo, più il movimento è lento (van Ess 1991-97). È chiaro che, per i sostenitori di questa teoria, è contraddittorio supporre una differenza di velocità tra i diversi corpi celesti, pur mantenendo la continuità del loro movimento. L'argomento è esplicitamente sviluppato da Ibn Mattawayh:
La validità del principio che abbiamo presentato, del carattere contraddittorio delle due localizzazioni ⟨simultanee>, implica che la loro affermazione, quando essi sostengono che un movimento è rapido e l'altro lento, è errata. Non è vero, in effetti, che ogni movimento percorra più di un solo luogo, poiché se ne percorresse due bisognerebbe attribuirgli due contrari. Uno dei due corpi è in effetti più rapido dell'altro, in ragione della presenza del tempo di riposo che intercorre tra i movimenti dell'uno piuttosto che dell'altro […] di modo che la loro affermazione non potrebbe verificarla chi vuole da una parte che gli astri, come la volta celeste, non si fermino ma siano sempre in moto e, d'altra parte, che la volta celeste abbia un movimento più rapido dei pianeti. Perché questa è una cosa che non è possibile rappresentarsi. (al-Taḏkira, p. 466)
È interessante notare come l'autore sembri consapevole della differenza tra questa concezione e quella di Abū 'l-Huḏayl. Anche se egli non lo cita, è la sua teoria quella che confuta nelle righe immediatamente successive: "La quantità dei movimenti nei corpi non ha influenza sul percorso. Per questa ragione, se un corpo si muovesse durante dieci tempi di dieci movimenti consecutivi e un altro corpo si muovesse durante cinque tempi di migliaia di movimenti consecutivi ma si trovasse poi in riposo per cinque tempi, il primo corpo arriverebbe più velocemente al termine, pur essendo i movimenti del secondo più numerosi".
Benché una tale teoria dei riposi intermedi abbia potuto confortare alcuni mutakallimūn nel loro sospetto riguardo alla cosmologia di Aristotele, essa era tuttavia un debole strumento polemico, dato che, per quanto li riguardava, gli aristotelici erano convinti di avere smascherato le contraddizioni della fisica atomista. Restava dunque la critica della quies media, che in modo semplice ed elegante permetteva una distruzione interna della Fisica interpretata come sistema. La sola fonte mutazilita in cui appaia la questione della quies media in questo contesto preciso è, tuttavia, abbastanza tarda. Si tratta del testo nuovamente edito di Taqī al-Dīn al-Niǧrānī, al-Kāmil fī 'l-istiqṣā᾽ (L'analisi perfetta). L'autore critica l'eternità del tempo cosmico degli aristotelici e la sua dipendenza dal movimento circolare della volta celeste. Egli menziona a questo proposito il loro argomento: legare il tempo al movimento rettilineo porterebbe a introdurre degli 'strappi' temporali in quanto un riposo verrebbe necessariamente a interporsi fra due movimenti rettilinei. La critica è rapida e allusiva:
E poi, anche se noi riconosciamo che il tempo è uno dei concomitanti del movimento, perché esso non potrebbe essere un concomitante del movimento rettilineo? La sua risposta: perché ogni movimento rettilineo termina in un riposo. Noi diciamo: noi questo non lo riconosciamo. La sua risposta: se non fosse così, si avrebbe necessariamente la contiguità dei due ⟨istanti>. Noi diciamo: e perché questa non dovrebbe essere possibile? Dire che questo è impossibile significa asserire la dottrina che sostiene la falsità degli indivisibili. Ma noi non ne riconosciamo la falsità. (al-Kāmil fī 'l-istiqṣā᾽, p. 410, II, 4-8)
Anche se siamo posti di fronte a un risultato di cui non conosciamo ancora le giustificazioni, è certo che al-Niǧrānī stabilisce una correlazione tra l'atomismo e la negazione della quies media. Il modello soggiacente è senza dubbio lo stesso con il quale si spiegava il movimento di una retta su di un piano perpendicolare. Nella fattispecie: siano t0 l'istante in cui ha inizio il regresso, t−1 l'istante precedente e t+1 quello successivo. Non c'è alcuna ragione di postulare che in t+1 il mobile sia ancora nella stessa posizione p0 che occupava in t0. Ciò sarebbe arbitrario quanto postulare che il mobile cominci a muoversi in t+2 o in t+n. A ogni nuovo istante, il mobile occupa una nuova posizione. Tuttavia come nel caso del segmento mosso su di un piano perpendicolare, è impensabile voler determinare metricamente lo scarto tra le posizioni o gli istanti consecutivi. Nella pratica effettiva non c'è un intervallo più piccolo, mentre per il matematico è sempre possibile costruire un terzo punto tra due punti dati. È a livello ideale delle condizioni di possibilità del movimento che dobbiamo postulare parti indivisibili senza grandezza. Si perverrà alla stessa conclusione ‒ sottintende al-Niǧrānī ‒ partendo dalla posizione opposta, la correlazione aristotelica tra continuità e quies media: l'assenza di punti di immobilità tra due movimenti contrari renderebbe la loro successione impensabile, perché non si disporrebbe di nessun limite in cui arrestare in atto il primo e iniziare in atto il secondo. Lo studio degli argomenti, che ci sono stati trasmessi dalla Fisica di al-Šifā᾽ (La guarigione), conferma questa opposizione.
Avicenna è la nostra unica fonte indipendente per tre degli argomenti mutaziliti (Pinès 1937).
Il primo argomento consiste nel dire che, se c'è riposo intermedio, deve esserci una ragione e sarà o per l'assenza o per la presenza di qualche causa determinante. Supponiamo che il corpo si immobilizzi in ragione dell'assenza in esso di un principio di movimento verso il basso. Bisognerà, dunque, che esso sia stato in precedenza affetto da un cambiamento per poter incominciare la sua discesa. È d'altra parte assurdo supporre la presenza di una cosa che si impone al corpo per costrizione esterna o per volontà interna. Non c'è, dunque, necessariamente riposo tra due movimenti contrari.
Il secondo argomento non fa più appello all'ontologia, ma al modo in cui noi immaginiamo che il mobile A si comporti urtando il mobile B, laddove A e B procedono in direzioni opposte, nel caso in cui la quantità del movimento di A sia trascurabile se paragonata a quella di B. Supponiamo, per esempio, che si lanci un sassolino verso l'alto e che esso colpisca, in piena ascesa, una mola che si è lasciata cadere da una certa altezza. L'istante d'arresto del sassolino imporrebbe necessariamente, al momento del contatto, un istante d'arresto concomitante della mola in caduta libera, il che è aberrante. La risposta di Avicenna, e di un certo numero di suoi continuatori, consiste nel dire che non è al momento del contatto con il corpo pesante che quello leggero cambierà direzione, ma prima, sotto l'effetto dell'aria agitata, spinta in avanti, durante la caduta. Avicenna, in altre parole, si affida alla fluidità ed elasticità dell'aria per spiegare che la mola non è interessata dall'immobilizzazione del sassolino.
La terza critica ha un carattere più sperimentale. Supponiamo una sfera fissata sul bordo di una ruota idraulica in movimento; immaginiamo un piano orizzontale situato al di sopra della ruota, che la sfera, nel suo punto più alto, tocca in un unico punto. Poiché la ruota si muove di un movimento continuo, non c'è nessun punto d'arresto nel momento in cui la sfera tocca il piano e la tesi di Aristotele è di conseguenza invalidata. Questo terzo argomento è affine, lo si noti, a una delle due 'prove matematiche' dell'atomismo ricordate prima: esso, infatti, è valido soltanto se il contatto tra la ruota e il piano orizzontale ha luogo in un solo punto geometrico, sicché la ruota idraulica possa girare senza urto e la sfera a sua volta possa effettivamente toccare il piano. Questo è in sostanza anche uno degli argomenti che al-Šahrastānī attribuisce agli atomisti: lanciamo una sfera perfetta su di un piano; essa lo colpirà o su un punto indivisibile o su di una parte essa stessa divisibile; nel secondo caso, non si tratterà di una sfera perfetta, dunque ci sono degli indivisibili. Questa coincidenza è un indizio del nesso sempre più stretto ‒ che troverà il suo compimento tra i matematici ‒ del problema del continuo e di quello del movimento. Purtroppo Avicenna non ci dà alcuna informazione sull'identità o la professione dell'autore di questo modello. Ci si potrebbe domandare in che cosa l'ultimo modello confuti veramente la tesi dell'arresto tra due movimenti 'rettilinei' contrari, poiché non si tratta in fondo che di un movimento circolare, come quello delle sfere celesti. Tale 'errore', tuttavia, è forse rivelatore del contesto che fa da sfondo alla questione, in quanto il suo autore doveva implicitamente considerare che si può impercettibilmente passare dal cerchio all'ellisse e dall'ellisse al segmento di retta. Ora, è proprio questo ciò che rifiutano gli aristotelici, i quali in questo 'passaggio' non vedono che un cattivo uso dell'immaginazione.
Gli argomenti di Avicenna e l'osservazione di al-Niǧrānī concordano dunque e si integrano nel quadro generale dell'atomismo matematico del Kalām. Lungi dal volersi opporre alle scienze matematiche, l'atomismo definisce i suoi indivisibili fisici il più vicino possibile alle entità geometriche ultime, i punti. E così facendo, tuttavia, è il significato stesso dell'atomismo antico a essere capovolto: infatti, non si tratta di derivare 'analogicamente' un mondo infrapercettibile dal mondo percepito, costruendo una teoria corpuscolare, ma di affidare all'immaginazione matematica il compito di concepire l'infinitamente piccolo. Un cambiamento decisivo dal punto di vista storico, che non si mancherà di mettere in relazione con il fatto che almeno due matematici neoarchimedei di primo piano, Ṯābit ibn Qurra nel IX sec. e Abū Sahl al-Qūhī nel X, hanno consacrato un opuscolo alla dimostrazione della falsità della tesi della quies media.
Le fonti antiche attestano che Ṯābit ne aveva criticato il principio e che ciò gli aveva procurato l'ostilità del matematico e fisico Ibn Karnīb (Rashed 1999). Sfortunatamente si ignora tutto della forma e del contenuto della sua confutazione e, in particolare, se si trattasse del riposo tra due movimenti contrari oppure tra un moto violento (l'ascesa della pietra gettata in aria) e un moto naturale (la caduta verso il basso della stessa pietra). Si vedrà più avanti, con Abū Hāšim, che si poteva supporre, in uno stesso autore, la negazione della prima tesi e l'affermazione della seconda. Non si può escludere la negazione della tesi forte da parte di Ṯābit. D'altronde, è questa la tesi che al-Kindī sembra aver esplicitamente sostenuto, il che implica, fra l'altro, che essa fosse discussa in quanto tale nel IX sec.; nonostante il suo carattere corrotto, il titolo quale esso si presenta in al-Qifṭī sembra infatti sottintendere una risposta di Ibn Qurra ad al-Kindī.
Sotto una forma o sotto l'altra, la confutazione di Ibn Qurra presupponeva una concezione infinitesimalista del movimento che non poteva passare inosservata. Ciò spiega come oltre ai tre argomenti trasmessi da Avicenna, si sia conservata una quarta critica della quies media, tramandata dal medico Ibn Buṭlān di Baghdad, il quale ci indica come autore Abū Sahl al-Qūhī (testo arabo e traduzione inglese in Rashed 1999). In un trattato dedicato al sovrano mecenate buwayhide ῾Aḍud al-Dawla, il grande matematico del X sec. dimostrava la falsità della tesi aristotelica per mezzo dell'esperimento seguente. Si prenda un regolo forato al centro e vi si faccia passare un piombo attaccato a un filo della lunghezza del regolo; si muova quindi l'estremità del filo opposta al piombo lungo il regolo; il piombo scenderà regolarmente fino al momento in cui raggiungerà il buco e risalirà immediatamente a partire da questo medesimo istante, fino a che non arriverà all'altra estremità. C'è dunque un 'salto' della velocità quando il piombo cambia direzione.
Roshdi Rashed (1999) osserva che un tale salto è caratteristico quanto il fenomeno dello choc, ma che "in questo caso è meno agevole affermare che tali movimenti non sono separati da uno stato di riposo: non abbiamo informazioni su ciò che succede nell'istante dello choc" (p. 18). Il secondo argomento anonimo, sopra menzionato, quello dell'impatto tra il sassolino e la mola, conferma come i fisici musulmani fossero essi stessi perfettamente consapevoli di questo accostamento. Prescindendo dal dispositivo sperimentale, va constatata la parentela tra la concezione del movimento di al-Qūhī e certi aspetti della cinematica di al-Ǧubbā᾽ī: disinteresse assoluto per un'ontologia che faccia intervenire le nozioni di atto e di potenza, concezione rigorosamente indifferenziata del continuo, una certa noncuranza per il problema della natura del punto. Al-Qūhī si limita qui a determinare le posizioni (situs) del piombo e a confutare l'idea di un arresto nella posizione estrema. Non si tratta di corpuscolarismo fisico, ma di una rappresentazione matematica infinitesimalista del movimento, che si ritroverà come tale soltanto alla fine del XVI sec., in particolare in Giovanni Battista Benedetti (Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber). Se si pensa che in questa intuizione infinitesimalista di Benedetti c'è chi (Lasswitz 1890) ha riconosciuto l'atto di nascita della scienza moderna, non si potrà che ammirare la profonda originalità teorica dei suoi predecessori di più di sei secoli.
È molto probabile che questa convergenza (antiaristotelica) tra le dottrine dei mutakallimūn e le rappresentazioni dei matematici sia stata notata già all'epoca. Si assiste così a una riconfigurazione del campo del sapere che passa attraverso una generale rimessa in questione della fisica di Aristotele e di Alessandro di Afrodisia.
Un'aporia: riempire lo spazio o pensare il movimento?
Tutta una serie di argomenti, esposti da Dhanani (1994), sembra tuttavia contraddire una tale interpretazione dell'atomismo islamico: i mutaziliti hanno in realtà lungamente discusso della forma (al-šakl, al-hay᾽a) degli atomi e della questione del numero minimo di atomi necessari a costituire un corpo (ǧism). Non si tratta, dunque, in questo caso di proporre un modello matematico dell'estensione che permetta di pensare il movimento, ma, al contrario, di una teoria corpuscolare che renda conto della composizione spaziale della materia e dei corpi. Ora, questi due obiettivi sono, almeno a un certo grado, contraddittori.
Va notato innanzi tutto che la contraddizione ha disturbato per primi gli stessi teologi. Non è qui possibile seguire la storia di tutti gli aggiustamenti che sono stati immaginati per conciliare questi due aspetti del loro atomismo. Ci accontenteremo di sottolineare due punti, ossia la netta tendenza della tradizione basriana a privilegiare un atomismo matematico del movimento e il carattere, esso stesso geometrizzante, delle riflessioni suscitate dalla questione del riempimento dello spazio per mezzo dei solidi regolari.
a) La questione della forma dell'atomo secondo i basriani. Il disagio che i basriani dimostrano nel descrivere la forma dei loro atomi e la composizione corpuscolare del corpo minimo è rivelatore della loro inclinazione a concepire l'atomo come un punto matematico. Si assiste così, da Abū 'l-Huḏayl alla scuola di Abū Hāšim, a una progressiva spoliazione dell'atomo privato dei suoi attributi concreti. Al termine di questo processo, Ibn Mattawayh e al-Ǧuwaynī si accontentano, relativamente alla questione della forma dell'atomo, di chiamare in causa una semplice 'assimilazione' al cubo, che operiamo in ragione delle limitate capacità della nostra immaginazione: "L'affermazione secondo cui l'atomo sarebbe in contatto con sei dei suoi simili, si fonda sul fatto che, nel caso in cui si assimili l'atomo a qualcuna delle figure, è al quadrato che esso risulta più simile (iḏā šubbiha al-ǧuz᾽u bi-šay᾽in min al-aškāli, fa-huwa bi-'l-murabba῾i ašbah). Noi intendiamo dire con ciò che questa, tra tutte le figure, ha la caratteristica di avere i lati e le delimitazioni uguali, senza differenza tra di esse" (Ibn Mattawayh, al-Taḏkira, p. 173).
Il passivo šubbiha (è assimilato, sarà assimilato) è particolarmente importante in questo contesto: esso indica che la pretesa forma degli atomi presi uno a uno non è che quella che la nostra limitata capacità immaginativa attribuisce loro. Il quadrato (sicuramente si deve intendere cubo) è scelto non tanto per la sua forma, quanto per la sua capacità di colmare simmetricamente lo spazio.
è dunque lecito chiedersi quale sia la realtà dell'atomo. Si è notato in precedenza che nella discussione delle prove geometriche dell'atomo, Avicenna e al-Rāzī avevano scelto di caratterizzare tale entità semplicemente come una 'cosa', impiegando i due termini più astratti del lessico ontologico arabo, ossia šay᾽ e amr. L'elemento essenziale della caratterizzazione, nell'analisi ǧubbā'ita, sembra essere consistito nella nozione di situs (ḥayyiz, ǧiha): è il situs ad assicurare all'atomo sia la sua unicità, perché non può esserci che un solo atomo per ogni situs, sia la sua assenza di dimensioni. Una tale concezione della posizione o 'sito' ha la funzione di sfuggire all'aporia della composizione di una grandezza (il corpo) a partire da non-grandezze (gli atomi). Ibn Mattawayh ci dice, d'altronde, che la disputa interna al mutazilismo basriano, attraverso la quale si doveva determinare se l'atomo "ha parte all'estensione" (la-hu ḥaẓẓun min [gli editori leggono fī] 'l-misāḥati), era, almeno in parte, terminologica. I dossografi, con la loro formulazione, lasciano di fatto ben trasparire l'estrema prudenza terminologica dei grandi mutaziliti su questo punto: al la-hu ḥaẓẓun min al-misāḥati di Ibn Mattawayh corrisponde il la-hu qisṭun min al-misāḥati di al-Nīsābūrī (Masā᾽il [Questioni]); la formula si ritrova fino a Faḫr al-Dīn al-Rāzī che si chiede se "[per i mutakallimūn] l'atomo ha parte alle lunghezze e alle larghezze (hal la-hu ḥaẓẓun min al-aṭwāl wa-al-῾urūḍ)" (al-Maṭālib al-῾āliyya, VI, p. 21). Secondo Faḫr al-Dīn "tutti, tra gli antichi mutaziliti, hanno negato questo punto, con l'eccezione di Abū 'l-Ḥusayn al-Ṣāliḥī" (ibidem).
Una tale questione non si confonde in effetti con quella di sapere se l'atomo 'sia' esteso. Le fonti basriane, sufficientemente analizzate, sono unanimi nel negare questo punto. Tutta la questione si risolve piuttosto nel sapere se l'estensione sia una potenzialità dell'atomo preso allo stato isolato o non scaturisca piuttosto con l'accidente della composizione che affetta l'atomo legandolo ai suoi simili. In altri termini: la 'posizione' denota un'attribuzione assoluta oppure relativa? La questione è, ben inteso, tutta teorica e, dunque, ancor più fine, poiché l'atomo nella realtà è sempre in composizione con altri atomi.
Ciò detto, si capisce la scelta del cubo come forma più prossima alla 'cosa' che per essenza non ha forma, in quanto la forma del cubo si cancella dietro l'indifferenziazione della sua simmetria, cioè a dire la possibilità di essere combinato con altri cubi in 'tutte' le direzioni. Se il punto geometrico avesse una forma, dicono in qualche modo i basriani, essa sarebbe quella di un cubo.
b) Il riempimento dello spazio per mezzo dei solidi regolari. Anche se, rispetto al cubo, la sfera ha più piani di simmetria, Ibn Mattawayh ci spiega perché gli atomi non possono essere assimilati a questo solido regolare: "Se si assimilasse l'atomo alla figura circolare, la composizione degli atomi in modo compatto risulterebbe impossibile: una composizione tale che non vi fosse alcun interstizio tra di essi, sarebbe, cioè, impossibile. Perché quando si congiunge un cerchio a un altro cerchio, fra di essi vi è un'apertura e quindi, in quel dato luogo, vi è qualcosa di più piccolo dell'atomo" (al-Taḏkira, p. 181). Questo tipo di riflessioni è direttamente in linea con le speculazioni greche sulla forma degli atomi. Nel De caelo (III, 8, 306b 3-9) Aristotele aveva per primo rimproverato a Platone di considerare come elementari dei solidi regolari la cui giustapposizione non permetteva di colmare tutto lo spazio. Poiché Platone rifiutava l'esistenza del vuoto, una tale ipotesi era contraddittoria. Un atomismo che non ammettesse il vuoto non poteva accettare che la piramide regolare e il cubo, e ciò spiega senza dubbio che siano queste, sfera a parte, le due forme atomiche riferite dai dossografi islamici.
Possiamo osservare, in primo luogo, che l'ammissione dell'esistenza del vuoto da parte dei ǧubbā᾽iti rendeva questo tipo di speculazioni meno interessante; non si aveva più bisogno, infatti, di colmare 'tutto' lo spazio. In secondo luogo, e in maniera parallela, la questione della forma degli atomi e del problema fisico che essa costituiva nella tradizione greca venne a poco a poco a trasformarsi in una questione di geometria dello spazio, rispetto alla quale lo stesso Aristotele era giudicato in difetto. Il filosofo e matematico del XII sec. Ibn al-Ṣalāḥ redige un intero trattato per dimostrare che lo Stagirita si sbaglia affermando che si possa colmare lo spazio con piramidi regolari; soltanto il cubo permetterebbe una tale operazione. Questa critica ad Aristotele sarà nuovamente rintracciabile per la prima volta nel 1585 nel già citato Diversarum speculationum di Benedetti.
Che si tratti dunque della tradizione fisica del Kalām o dei suoi aspetti più direttamente matematici, gli indizi convergono comunque verso la stessa conclusione: la questione della forma degli atomi e della loro giustapposizione non ha mai deviato verso un corpuscolarismo meccanicista (atomi uncinati/ruvidi per rendere conto dell'amarezza, atomi lisci per la dolcezza del miele, ecc., quali si trovano in Lucrezio) ma, al contrario, è sempre stata posta in termini di occupazione integrale di uno spazio tridimensionale. Questo stesso approccio ha ceduto poi il passo, nella tradizione basriana, a un atomismo del moto, ossia a una teoria del situs piuttosto che dei corpuscoli. Nel XII sec. Ibn al-Ṣalāḥ non discute più che un problema di geometria, legato alle ricerche contemporanee sull'angolo solido.
L'atomismo del Kalām: una conclusione provvisoria
La discussione tra Abū 'l-Huḏayl e al-Naẓẓām, riportata dai discepoli di Abū 'l-Huḏayl, segna dunque il ritorno sulla scena filosofica dell'intuizionismo e del realismo. Rintracciabili attraverso le critiche tendenziose degli avversari concettualisti di tradizione peripatetica, queste interpretazioni del continuo, contemporanee all'attività matematica del IX-X sec., riappariranno nel XVI-XVII secolo. Come quella di Epicuro prima di lui, come quella di Descartes dopo, la concezione della verità di Abū 'l-Huḏayl non è dogmatica, ma costruttivista (Vuillemin 1984). La verità non esiste al di fuori del processo intellettuale che la produce. Per un filosofo della levatura di Abū 'l-Huḏayl, non c'era bisogno che di un'informazione onesta sulle aporie aristoteliche del continuo e sul loro sostrato 'euclideo'. Se ora si torna sul piano storico, non si può non ammettere che le grandi linee dell'opera di Aristotele fossero conosciute già dall'VIII secolo. Come spiegare altrimenti l'opera di Ḍirār ibn ῾Amr, ancora in pieno VIII sec., se non si presuppone una conoscenza delle teorie aristoteliche della sostanza fisica? Senza dubbio sarebbe stato molto interessante poter leggere per intero il Radd ῾alā Arisṭūṭālīs fī 'l-ǧawāhir wa-'l-a῾rāḍ (Confutazione di Aristotele sulle sostanze e gli accidenti) e il Radd ῾alā aṣḥāb al-ṭabā᾽i῾ (Confutazione dei sostenitori delle nature). Già questi titoli, conservati dal bibliografo al-Nadīm, sono sufficienti in ogni caso a provarci che Abū 'l-Huḏayl non fu il primo critico della filosofia naturale aristotelica. Sembra interessante sottolineare la notizia, anche se riportata dalle fonti antiche in maniera allusiva, secondo la quale Abū 'l-Huḏayl ebbe contatti con Sahl ibn Hārūn, il direttore della 'Casa della sapienza' a Baghdad. È chiaro che in un tale ambiente nessuno poteva ignorare le prove, estremamente semplici, dell'incommensurabilità della diagonale.
Si potrebbe essere tentati di vedere in queste concezioni divergenti del continuo solamente dei modi di parlare del mondo, poco influenti sulla fisica. Ciò però significherebbe ignorare che l'edificio cosmologico aristotelico poggiava sulla distinzione tra moto rettilineo e moto circolare e che questa distinzione, una volta ammesso l'atomismo, aveva poche possibilità di rimanere intatta. L'aristotelismo è dunque stato preso nella morsa di due critiche distinte ma connesse, quella della sua dinamica e quella della sua cosmologia. A differenza degli scolastici latini, che sono sempre restati più o meno aristotelici a livello cosmologico, i mutaziliti non hanno conservato quasi nulla dell'eredità dello Stagirita. È possibile d'altronde rappresentarsi la loro cosmologia come una risposta, punto per punto, a quella di Aristotele. La prima grande divergenza concerne il mondo preso nel suo insieme: i mutaziliti non ammettono né la 'quinta sostanza' (l'etere), né la teoria dei luoghi naturali e tantomeno accettano la concezione aristotelica del leggero e del pesante. È senza dubbio questo radicale ripensamento che spiega come essi siano giunti a idee innovatrici riguardanti la caduta dei gravi.
La critica dei luoghi naturali e della quinta sostanza
I mutakallimūn non hanno accettato né l'esistenza dei 'luoghi naturali' né quella della quinta sostanza. È già possibile supporlo per una data antica, ma diventa una certezza con Abū Hāšim al-Ǧubbā᾽ī, che dedica un suo scritto, non pervenutoci, alla confutazione del De caelo di Aristotele. Si sono conservati tre frammenti espliciti di questa confutazione, due in al-Taḏkira di Ibn Mattawayh e uno nel Taḥdīd nihāyāt al-amākin (Definizione dei limiti estremi delle posizioni) di al-Bīrūnī (Gimaret 1976, che non menziona comunque al-Bīrūnī). I primi due trattano del movimento naturale e del rapporto tra dinamica e cinematica; il terzo, quello di al-Bīrūnī, concerne la forma dell'acqua, che non è sferica (quindi, contro il De caelo). Un altro argomento legato ad al-Bīrūnī, riguardante questa volta l'unicità del Cosmo e rivolto contro i basriani, potrebbe ugualmente trovare una spiegazione in tale contesto. Se a ciò si aggiunge la probabile lacunosità delle prime righe del De caelo (II, 4, 287a-300b 14), si è in grado di supporre l'esistenza di una critica, parola per parola, da parte di Abū Hāšim.
I mutakallimūn hanno discusso a lungo sulla questione dei luoghi naturali. Abū Hāšim nega che ci sia un moto intrinseco dell'aria verso l'alto e suo padre, Abū ῾Alī, lo rifiutava persino al fuoco; si passa così dalla tesi aristotelica, secondo la quale alcuni corpi sono 'leggeri' e altri 'pesanti', a un mondo in cui i corpi sono tutti più o meno pesanti. L'analisi del moto naturale, in un mondo in cui l'etere, lo si vedrà, non esiste più e in cui anche l'aria diventa pesante, dovrà prendere atto di una riconfigurazione dei dati. La teoria del mondo del De caelo di Aristotele fu certo oggetto delle critiche di Filopono e di altri meno famosi prima di lui, ma bisogna insistere sulla distanza che separa i due approcci al testo aristotelico. Persino nelle sue critiche, Filopono resta un commentatore di Aristotele e il linguaggio della sua fisica, una volta apportato qualche rimaneggiamento, resta quello del maestro. La frattura tra Aristotele e i mutakallimūn è più radicale. Anche se questi ultimi sono debitori, senza dubbio in misura maggiore di quanto non siano disposti ad ammettere, nei confronti del peripatetismo, non si può negare né il loro fondamentale antiaristotelismo su molti punti, generali ma anche di dettaglio, né soprattutto il fatto che le due tradizioni siano state percepite molto presto come antagoniste. Basterà ricordare il celebre rifiuto, espresso dall'aristotelico Yaḥyā ibn ῾Adī, una volta letta l'opera di Abū Hāšim: "Io non comprendo il linguaggio dei teologi e loro non comprendono il mio, esattamente come nella sua Lettura critica al-Ǧubbā᾽ī non ha compreso la minima cosa del linguaggio di Aristotele" (al-Qifṭī, Ta᾽rīḫ al-ḥukamā᾽, p. 40). Il passaggio meno conosciuto di al-Bīrūnī citato sopra conferma perfettamente questa posizione: l'aneddoto parallelo introduce un altro aristotelico, Abū Bišr Mattā, che sembra anch'egli aver considerato le critiche al De caelo come del tutto infondate.
Per quanto riguarda la quinta sostanza, l'attacco filoponiano consisteva nell'esibire, nella sfera celeste, 'irregolarità' che potevano suggerire uno stato di composizione e dunque di corruttibilità. Già conosciuto dalla tradizione greca è il noto caso delle macchie lunari che rendevano poco probabile che la Luna fosse assolutamente semplice (Plutarco, De facie orbis Lunae). La Luna non era tuttavia un controesempio ideale in quanto la sua posizione intermedia tra le due sfere cosmiche, quella celeste e quella sublunare, poteva giustificare alcune leggere irregolarità. Nel corso del XVII sec., in ogni caso, la disputa sulla montuosità della Luna assumerà una notevole ampiezza perché essa si accompagnerà alla scoperta, ben più grave per l'aristotelismo, delle macchie solari. Un breve testo di Faḫr al-Dīn, passato inosservato fino a oggi, sembra indicare che gli astronomi dell'Islam erano pervenuti a questa conclusione al più tardi intorno al 1200: "Gli specialisti (al-muḥaqqiqīn) sono dell'avviso che la macchia sensibile sulla faccia della Luna si produca semplicemente perché piccoli astri si sono fissati sulla faccia della Luna. Altri hanno detto che si produce sulla faccia del Sole, al di sopra (fawqa) del punto che è come il centro del disco solare, un punto nero (nuqṭatun sawdā᾽), come un 'neo' sulla faccia del Sole. Tuttavia, questo punto non è visibile, a causa dell'intensità della luce del Sole" (al-Maṭālib al-῾āliyya, VIII, 2, p. 154).
La precisione della descrizione (è dimostrato che le macchie solari appaiono 'nere' e che esse sono tutte situate nella regione dell'equatore solare e dunque 'al di sopra' del centro del disco; l'autore insiste, infine, sul fatto che la macchia non è direttamente visibile, il che conferisce un peso supplementare all'affermazione secondo cui essa lo è indirettamente) non lascia quasi alcun dubbio sulla portata delle affermazioni di Faḫr al-Dīn, che attribuisce d'altronde queste osservazioni a 'specialisti'. Finora nel mondo islamico, a differenza della Cina, si conoscevano solamente due allusioni chiare alle macchie solari: (1) una menzione nella Maqāla fī ḏawāt al-ḏanāb (Trattato sulle comete) di Ibn al-Muktafī (906-977), che riporta un'apparizione della fine del regno del califfo al-Mu῾taṣim e l'interpretazione che ne avrebbe dato al-Kindī; (2) un passaggio, ancora inedito, del Muḫtaṣar al-Maǧisṭī (Compendio dell'Almagesto) di Averroè tramandato solamente in versione ebraica. I due autori interpretano la presenza di una o addirittura di due "macchie nere" sul disco solare come un'interposizione di Mercurio e di Venere. Ed è sempre nell'ambito del dibattito sulla posizione di questi pianeti che lo Pseudo-Avicenna evoca il fenomeno, per quanto in modo poco chiaro. Il testo di Ibn al-Muktafī (riportato da Ibn Hilāl al-Ṣābi᾽) è il seguente:
Nell'anno 225 durante il califfato di al-Mu῾taṣim, è apparso nel Sole un segno nero vicino al centro. Ciò è accaduto martedì 19 Raǧab dell'anno 225 [25 maggio 840]. Due giorni dopo questa data, il 21, ebbero luogo gli eventi. E al-Kindī ha detto che questa macchia era durata 91 giorni, dopo i quali morì al-Mu῾taṣim [morto il 18 Rabī῾ I 227/4 gennaio 842!]. Prima della morte di al-Mu῾taṣim erano apparse anche delle comete, come ce n'era stata una serie prima della morte di al-Rašīd. Al-Kindī ha detto che questa macchia era l'eclisse del Sole ad opera di Venere e che questa adesione al Sole era durata per il tempo menzionato. (Maqāla fī ḏawāt al-ḏanāb, pp. 422-423)
Averroè, che non aggiunge niente alla sostanza del problema, attesta che la questione era discussa anche nell'Occidente musulmano. È inoltre per il suo tramite, attraverso Pico della Mirandola, che Copernico (De revolutionibus, I, 10) è venuto a conoscenza del dibattito arabo:
Uno dei nostri amici, fra quelli che hanno concentrato i loro sforzi su tali questioni, mi ha raccontato che fra i dotti moderni si è trovato qualcuno (penso che si tratti di al-Zarqālluh) che aveva riconosciuto l'oscuramento del Sole [per opera di questi pianeti, vale a dire Venere e Mercurio]. Abū Isḥāq ibn Wādi῾ mi ha detto che il nipote di Ibn Mu῾āḏ, giudice e matematico, gli aveva riferito di aver visto dal tempo di Ibn Mu῾āḏ due macchie nere nel Sole. Quando io l'ho interpellato su questa cosa mi ha ordinato di calcolare davanti a lui [con l'aiuto delle tavole delle equazioni] la posizione di Venere e di Mercurio e abbiamo trovato che, allora, erano in congiunzione col Sole all'epoca di al-Kindī. Interrogato al riguardo, al-Kindī ne ha attribuito la causa [al fatto] che in quel momento, uno di due pianeti si trovava sotto il Sole. (Testo citato dalla traduzione inedita di Juliane Lay)
è dunque evidente quanto la posizione di al-Rāzī sia distante da quella di al-Kindī e di Averroè. Laddove indubbiamente per gli ultimi due è importante innanzi tutto spiegare il fenomeno delle macchie solari in un quadro aristotelico e dunque interpretarle come l'interposizione di Venere e di Mercurio, per gli 'specialisti' che cita al-Rāzī sembra scontato che si tratti proprio di macchie 'sul' Sole. Non è impossibile che questo cambiamento nel modello esplicativo ‒ la posizione di al-Kindī sulla questione gli era sicuramente nota ‒ sia da mettere in relazione con il progresso dei metodi di osservazione astronomica.
Non potendo ricorrere a lenti d'ingrandimento che proiettino un'immagine ingrandita del Sole su di un muro, un procedimento ipotizzabile sarebbe quello, teorizzato matematicamente da Ibn al-Hayṯam, della camera oscura. Si presuppone, nel caso dell'osservazione del Sole, un osservatorio fisso il cui muro verticale sia almeno di 20 m di altezza. In questo caso, in effetti, il diametro dell'immagine solare osservata sulle placche di rame al suolo è di 18 cm, una misura probabilmente sufficiente per cominciare a distinguere, benché in una maniera ancora piuttosto confusa, la più grossa macchia solare sotto forma di 'neo'. Nel XV sec., l'Osservatorio di Samarcanda disponeva di un muro di 40 m di altezza, il che permetteva di avere un'immagine al suolo di 36 cm, e dunque una visibilità molto più netta. Ma nulla autorizza a supporre che una costruzione simile esistesse già nel XII secolo.
Si può tuttavia formulare un'ipotesi sull'Osservatorio che, costruito dopo le ricerche di Ibn al-Hayṯam e prima della redazione dei Maṭālib al-῾āliyya di al-Rāzī, avrebbe permesso la rilevazione della più grossa macchia scura del Sole, ossia quello di Malikšāh, attivo tra il 1074 e il 1092. Si tratta di uno strumento per l'osservazione non portatile, che permetteva, dunque, indagini alquanto precise. Inoltre, gli scienziati che vi lavorarono per diciotto anni accordarono un'attenzione tutta particolare al Sole, poiché giunsero a un nuovo computo dell'anno solare, la cosiddetta 'era Ǧalālī'. Infine, non vi sarebbe nulla di stupefacente se Faḫr al-Dīn fosse stato al corrente dei loro risultati, poiché è attestato che ῾Umar al-Ḫayyām vi lavorò ed è noto che egli fu il maestro di Šaraf al-Dīn al-Mas῾ūdī, egli stesso maestro di Faḫr al-Dīn.
Più che le prodezze della tecnica, è il radicale mutamento nella rappresentazione del mondo che deve attirare l'attenzione. Il movimento tra scienza e filosofia naturale è qui evidentemente doppio: l'astronomia fornisce argomenti alla critica ad Aristotele, ma è il generale ripensamento della cosmologia peripatetica che ha permesso, almeno in una certa misura, questo nuovo 'sguardo' sulle cose.
Una nuova dinamica
È con il Kalām che la questione della caduta dei gravi e del movimento dei proiettili comincia a occupare una posizione di primo piano nella fisica. Se queste riflessioni non furono sufficienti a superare definitivamente il mondo delle forze naturali di Aristotele, esse contribuirono in notevole misura a metterne a nudo i presupposti e le difficoltà.
a) Uno scritto perduto di Mu῾ammar sul Qarasṭūn. Secondo il Fihrist di al-Nadīm, Mu῾ammar avrebbe composto uno scritto sulla bilancia e lo specchio. Sfortunatamente non si è conservato alcun frammento di questo Kitāb al-Qarasṭūn wa-'l-mir᾽āt (Libro della bilancia romana e degli specchi), né alcuna allusione si trova in autori successivi. Di fronte a una tale notizia è, peraltro, inevitabile sollevare alcune questioni. Ci si può innanzitutto chiedere quale fosse la forma di questo scritto, se cioè si trattava di un'opera di statica nel senso archimedeo del termine, oppure se la trattazione era già influenzata da discussioni dialettiche sulla questione dell'i῾timād (spinta). Si dovrà supporre che Ṯābit ibn Qurra sia stato a conoscenza di questo scritto e che abbia poi scelto di non farne menzione? Tutte questioni alle quali, allo stato attuale delle conoscenze, non possiamo dare risposta. Quale che sia la soluzione di questo enigma storico, la portata di tale impegno fisico è considerevole. Ci dà la certezza del fatto che già a partire da una data molto alta i basriani erano consapevoli dell'importanza che le considerazioni di carattere statico rivestivano per una teoria unificata dell'i῾timād. Il solo testo in cui queste considerazioni tecniche appaiono è un passaggio aporetico della Taḏkira di Ibn Mattawayh, che si accontenta di sottolineare il carattere paradossale del principio della leva, senza però proporne la spiegazione. Il carattere paradossale delle questioni di meccanica che fanno intervenire il principio della leva appare ugualmente nella forma aporetica dei Mechanica aristotelici.
Che uno stesso contrappeso possa avere un effetto diverso su di un carico in funzione del posto da esso occupato sul braccio della bilancia è di fatto difficile da spiegare nel quadro di una teoria in cui la spinta è un accidente in qualche modo assoluto della sostanza atomica.
b) La nozione di attrazione. Uno dei tentativi più efficaci per superare la nozione di luogo naturale è la riaffermazione, con toni nuovi, della possibilità dell'azione a distanza. Si vede così apparire per la prima volta in al-Naẓẓām la nozione di attrazione (ǧaḏb) del simile con il simile: le 'nature' elementari attirano a sé ciò che somiglia loro. In un improbabile aneddoto riportato da al-Iṣfahānī, la teoria di al-Naẓẓām per cui "le nature attirano ciò che somiglia loro per affinità e inclinano verso ciò che è loro vicino per armonia (al-ṭabā᾽i῾ tuǧāḏibu mā šākala-hā bi-'l-muǧānasa, wa-takmīlu ilā mā qāraba-hā bi-'l-muwāfaqa)" (Kitāb al-Aġānī, VIII, pp. 248-249) è d'altronde presentata come qualcosa che già al tempo di al-Naẓẓām era nota in forma di proverbio. Certo, presso il mutakallim della prima metà del IX sec., questo concetto non è ancora distinto da quello dell'inclinazione (mayl) di alcuni corpi verso altri. È grazie alla ricerca nel campo della statica del IX sec., la quale passa, anch'essa, attraverso la discussione di un'azione meccanica a distanza, che comincia veramente a emanciparsi questa nozione assente nella fisica greca.
L''attrazione' è così al centro della cosmologia di Ṯābit ibn Qurra. Un testo dei Mabāḥiṯ al-mašriqiyya (Le ricerche orientali) di Faḫr al-Dīn al-Rāzī, rilevato a suo tempo da Shlomo Pinès (1936, 1937), ci ha conservato la critica radicale alla quale Ṯābit sottometteva l'idea aristotelica del luogo naturale.
Si ignora sfortunatamente tutto del contesto in cui apparivano queste riflessioni. Il punto di partenza evidente di Ṯābit, benché non menzionato precisamente, è un passaggio del Libro IV del De caelo, dove Aristotele afferma innanzitutto che ogni corpo naturale è trasportato "verso la sua forma propria". Ciò gli suggerisce la seguente osservazione: "è così che andrebbe inteso il detto degli Antichi che il simile va verso il simile. Perché questo fenomeno non si verifica in tutti i casi; se infatti si ponesse la Terra dove ora è la Luna, ogni sua parte non si porterebbe già verso di essa, ma nella direzione in cui anche ora si porta" (IV, 3, 310b 1-5).
Non è un caso che Ṯābit si serva esattamente della stessa esperienza di pensiero per sostenere l'opinione contraria: "Se si immaginasse la Terra intera tirata su a livello della sfera del Sole e si lasciasse una pietra nel luogo che la Terra occupa oggi, questa pietra se ne andrebbe verso la Terra perché tenderebbe alla più grossa cosa simile a sé stessa". La sua teoria si sviluppa su due livelli. Sono innanzitutto i corpi della stessa composizione a essere attirati gli uni verso gli altri; tuttavia tale fenomeno è egualmente caratteristico dei corpi in quanto corpi, quale che sia la loro natura propria: l'acqua e la Terra saranno così, in quanto corpi, attirate l'una dall'altra. Il fatto che la Terra permanga al centro e il fuoco sulla circonferenza, senza che i due corpi si mescolino gli uni agli altri, si spiega non perché il fuoco creato nel mondo sublunare tenderebbe verso un qualunque 'luogo proprio', ma perché la frizione con la sfera celeste ingenera continuamente una tale combustione.
Si tratterebbe però di un ritorno, tramite al-Naẓẓām, a una vulgata presocratica, quella a cui Aristotele si opponeva esplicitamente nel citato passaggio del De caelo? Non è possibile crederlo. Sebbene l'insistenza di Ibn Qurra, a livello dei fondamenti della fisica, sul ruolo del 'simile' resti nell'orizzonte dei cosmologi greci, la sua novità, che lo distingue dalle speculazioni presocratiche, consiste nel ruolo soggiacente delle concezioni statiche, estese qui al livello cosmico. Innanzitutto Ibn Qurra riconosce per la prima volta chiaramente che l'impulso dei gravi a cadere 'verso il basso' si spiega con l'attrazione terrestre: "Quanto al fatto che una zolla di terra gettata verso l'alto ricada verso la terra, la ragione è che ogni parte di un elemento tende per essenza verso le altre parti di questo elemento, ogni cosa tende in effetti verso il proprio simile".
Bisogna poi sottolineare che la parola 'attrazione', sconosciuta alle fonti greche, è qui chiaramente al centro della riflessione di Ṯābit. L'idea appare d'altronde fin dalle prime righe del suo trattato di statica, il Kitāb fī 'l-qarasṭūn (Libro della bilancia romana; Jaouiche 1976, p. 146, leggendo bi-ǧaḏb). Il contesto statico generale è ancora precisato da una serie di tre osservazioni che mostrano come Ṯābit fosse senz'altro guidato qui dall'idea di baricentro:
(i) Se tu immagini i luoghi vuoti, come si è detto, e immagini che una parte di Terra sia collocata in un qualche punto nel vuoto e il resto altrove, la più grossa parte attirerà necessariamente la più piccola. (ii) Se si dividesse la Terra in due metà e le si separasse, ognuna cercherebbe egualmente l'altra fino a che esse non si incontrerebbero nel centro […]. (iii) Allo stesso modo, se si immaginasse la Terra tagliata in pezzi e questi li si disseminasse in tutto l'Universo, essi si dirigerebbero gli uni verso gli altri e non si arresterebbero che là dove tutti si rincontrerebbero. Non lascerebbero quindi un luogo per un altro luogo, perché non c'è differenza tra il luogo che la Terra occuperebbe e quello che essa ha oggi. E se delle parti fossero separate dalla Terra in questo punto, esse [vi] tenderebbero esattamente come accade oggi. (Faḫr al-Dīn al-Rāzī, al-Mabāḥit al-mašriqiyya, II, pp. 63-64)
Purtroppo ci manca l'essenziale, ossia il collegamento di tali teorie alla realtà concreta dei fenomeni. Quali sono i dispositivi sperimentali che portano Ṯābit alla sua concezione? Quali conclusioni ne trae riguardo alla caduta dei gravi? La storia dei testi non ci permette di avere le risposte. Resta la certezza di un rifiuto sovrano del Cosmo aristotelico ‒ si sarà notata la libertà di tono di Ibn Qurra, che ha un atteggiamento quasi insolente verso al-Qūhī ‒ a vantaggio di una concezione più meccanicista o 'archimedea' del mondo.
Non è possibile ora tracciare la storia dello sviluppo della nozione di attrazione. Limitiamoci a notare che la teoria dell'attrazione di Ṯābit è menzionata, benché la maggior parte delle volte in modo anonimo, dai dossografi musulmani più tardi. Si veda, per esempio, al-Baġdādī, a proposito dell'immobilità della Terra: "altri hanno detto: la causa dell'immobilità della Terra è l'attrazione (ǧaḏb) esercitata su di essa dal cielo da tutti i lati" (Kitāb Uṣūl al-dīn, p. 61). Essa appare ugualmente nel X sec., ma per difendere la tesi della rotazione della Terra: un eminente astronomo suo contemporaneo, secondo al-Bīrūnī, avrebbe postulato due movimenti per ogni grave separato dalla Terra, uno circolare, che accompagna il movimento di quest'ultima, e l'altro dovuto all'attrazione della sua sostanza (li-inǧiḏābi-hi ilā ma῾dani-hi), dove si noterà il tono 'classico' di tali discussioni (Pinès 1956; Koyré 1973). Così è particolarmente interessante, a questo proposito, ricordare come la teoria dell'attrazione sia stata discussa da Averroè e da Avicenna e come, per loro tramite, sia stata conosciuta dai latini (Goddu 1985). Ancora una volta Ṯābit ibn Qurra è (anonimamente) all'origine di tutta una corrente di ricerca dei Moderni.
c) Abū Hāšim al-Ǧubbā᾽ī e la densità dei mezzi. Il modello cosmologico dell'attrazione non ha riscosso i consensi di tutta la tradizione basriana, senza dubbio per la sua fedeltà all'insegnamento di Abū 'l-Huḏayl sulla questione dell'accidente e, al tempo stesso, per la sua diffidenza nei confronti delle 'innovazioni' di al-Naẓẓām. Ciò non significa però, in alcun modo, il rifiuto di una lettura 'statica' dei fenomeni. L'ancoraggio dei basriani a una tale tradizione spiega anche perché Abū Hāšim al-Ǧubbā᾽ī non si sia limitato a rimproverare ad Aristotele la sua teoria dei movimenti naturali, ma abbia inquadrato la questione della densità dei mezzi in modo nuovo. Verso la fine della parte edita della Taḏkira, Ibn Mattawayh riassume in due brevi pagine una controversia che vide protagonisti Abū Hāšim e suo padre Abū ῾Alī a proposito del galleggiamento di certi corpi e dell'immersione di altri. Per Abū ῾Alī, la causa di questi fenomeni è la seguente: i corpi che galleggiano contengono più aria nei loro interstizi rispetto ai corpi che affondano nell'acqua. L'aria interstiziale, essendo attirata dal suo simile (lo strato d'aria al di sopra dell'acqua), impedisce al corpo di affondare al di sotto della superficie. Abū Hāšim, al contrario, propende, secondo Ibn Mattawayh, per una diversa spiegazione:
La spinta del corpo che galleggia è inferiore rispetto alla spinta dell'acqua, il che fa sì che la spinta dell'acqua resista alla generazione ⟨di una pressione> nella sua direzione, in modo che è necessario che ⟨la spinta> sia generata nella direzione opposta. Se dunque questo corpo incontra l'acqua, e la situazione è tale, l'acqua lo respinge e si trova come il corpo tenuto immobile tra due persone che esercitino la loro forza. Quanto a ciò che si immerge, la sua immersione è dovuta al fatto che la spinta di ciò che incontra l'acqua è superiore alla spinta che è nell'acqua sulla porzione che incontra, di modo che affonda nell'acqua in ragione della forza della sua spinta. Ecco perché l'oro affonda nel mercurio mentre il mercurio galleggia sull'oro, perché la spinta dell'oro è superiore alla spinta del mercurio. (al-Taḏkira, pp. 604-605)
Queste poche righe di Ibn Mattawayh dimostrano che le discussioni dei mutaziliti sull'i῾timād erano meno ingenuamente filoponiane di quanto spesso si crede. Abū Hāšim riformula nei termini ǧubba᾽iti dell'i᾽timād la legge fondamentale dell'idrostatica antica: la capacità di affondare un corpo A in un corpo B è proporzionale al rapporto fra la 'spinta' di A e quella di B. L'esempio dell'oro, il metallo più pesante conosciuto dai fisici ‒ che per questa ragione sarà il campione di al-Bīrūnī per la determinazione del peso specifico dei metalli ‒, non è certo scelto a caso. È un indizio supplementare del contesto di statica generale della discussione di Abū Hāšim.
d) La tradizione basriana e la densità dell'aria. Un tale approccio è tanto più interessante in quanto ambedue i Ǧubbā᾽ī, padre e figlio, sono stati sostenitori del vuoto. È noto come più tardi, in seguito alle esperienze di Torricelli e dei suoi continuatori, la tesi della pressione dell'aria e quella del vuoto siano apparse intimamente legate. Le linee generali della loro disputa contro Abū 'l-Qāsim al-Balḫī e i bagdadiani sulla questione sono note (Dhanani 1994). Uno dei tratti caratteristici del dibattito islamico consiste nella neutralizzazione dell'argomento dell'horror vacui. Tutti i fenomeni che i sostenitori del pieno attribuiscono a questo principio sono spiegati dai basriani in termini di differenze relative nella spinta degli elementi in questione (per lo più l'aria e l'acqua).
Un argomento illustra una divergenza particolarmente interessante in seno alla stessa Scuola di Bassora. Mentre Abū Hāšim, a partire dal fatto che la vita o la combustione sono impossibili in fondo ai pozzi profondi, traeva la conclusione dell'assenza di aria e dunque del vuoto, i suoi discepoli suggerivano che non fosse l'assenza di aria a dover essere chiamata in causa, ma la presenza di un'aria densa inutilizzabile dall'organismo o dalla fiamma della candela.
Al-Nīsābūrī e Ibn Mattawayh non offrono alcuna spiegazione, nel loro capitolo sul vuoto, sulla ragione di questa maggiore densità dell'aria in fondo ai pozzi. La spiegazione appare soltanto nella Taḏkira, nel corso di una discussione sul ritorno degli oggetti gettati in aria. Ibn Mattawayh riferisce che il Qāḍī ῾Abd al-Ǧabbār si era opposto alla spiegazione di Abū Hāšim, che si richiamava a uno studio sulla variazione del rapporto tra la spinta intrinseca e quella estrinseca. Secondo il Qāḍī, è la pressione dell'aria accumulata verso l'alto a impedire che alla fine il proiettile proceda verticalmente. È possibile farsi un'idea di questa pressione osservando la variazione di alcuni fenomeni a seconda della loro altitudine; alcuni indizi mostrano che l'aria, a un'altezza inferiore al livello del suolo, è più densa dell'aria al suolo e che quest'ultima a sua volta è più densa dell'aria in alta montagna:
Tu puoi chiarirlo così: il debole non può gettare la pietra verso l'alto tanto lontano quanto il forte, perché il forte arriva a respingere quest'aria densa e non il debole. Allo stesso modo, gli uccelli deboli non possono compiere evoluzioni come l'aquila e altri uccelli. Ora, se non ci fosse nell'atmosfera aria densa, ciò non sarebbe vero. E se questo è vero, lo si può ritenere la causa del ritorno della pietra (piuttosto che la sua durezza) al momento della compressione provocata dalla pietra gettata verso l'alto, così come lo stato di densità delle arie vicine alla Terra in opposizione a quelle che ne sono lontane. È la ragione per la quale l'uccello ⟨debole> può compiere evoluzioni nelle parti dell'atmosfera diverse da quelle vicine alla Terra. E lo stesso vale per i pozzi profondi: l'aria qui è più densa rispetto alla parte che ne è vicina. (p. 598)
Il nostro dossografo non ci dice sfortunatamente niente di più preciso. Si coglie tuttavia immediatamente quanto era contenuto in germe nella tesi del Qāḍī secondo cui la densità (kaṯāfa) dell'aria decresce in proporzione all'aumento dell'altitudine, soprattutto poiché si tentava di spiegare tutti i fenomeni di ventosa e di sifone sulla base di differenze di pressione tra i vari corpi.
e) La teoria ǧubba᾽ita della caduta dei gravi nel vuoto. La riforma della teoria fisica del leggero e del pesante e l'interesse per la questione del mezzo compie un passo in avanti nell'analisi della caduta dei corpi. Alcuni ǧubba᾽iti hanno rimesso in questione il rapporto diretto, alla base della dinamica aristotelica, tra peso e velocità di caduta. Nonostante l'estremo interesse della posizione basriana, dobbiamo fare i conti ancora una volta con la mancanza di fonti primarie. Il passaggio più esplicito è di una brevità sconfortante. Ibn Mattawayh si limita nella Taḏkira alla nota seguente: "Ciò per cui la caduta del corpo leggero differisce da quella del corpo pesante è l'aria che è nell'atmosfera. Perché senza di essa, se noi lanciassimo una pietra e una piuma, entrambe cadrebbero nello stesso tempo. L'aria, comunque, impedisce la discesa del corpo leggero, mentre il corpo pesante la fende. Ec-co la verità sulla causa di tale fenomeno secondo i nostri maestri, anche se Abū Hāšim ha preso le distanze a questo riguardo" (ibidem, p. 488, 9-12; passaggio parallelo, p. 473, 9-11).
A questo testo va aggiunto quello parallelo delle Masā᾽il (Questioni) di al-Nīsābūrī. Il contesto è un po' diverso, poiché si tratta di criticare al-Balḫī, secondo il quale la continuità del movimento è possibile per il corpo pesante ma non per i corpi leggeri:
La verità, secondo noi, è che la continuità dei movimenti è possibile nel caso del pesante e del leggero. Tuttavia, quando gettiamo un corpo leggero, il suo movimento non è, dal punto di vista della velocità, quello del corpo quando è pesante. È inevitabile che l'ostacolo dell'aria impedisca il moto del corpo leggero e non quello del pesante. E la continuità [leggendo fa-tawālī per fa-mutawālī] dei movimenti nell'aria nel caso del corpo pesante è possibile in quello del corpo leggero: io ignoro allora in quale senso egli abbia inteso ciò che ha detto. E quando i due corpi non si muovono in un mezzo [lā fī makān], pur essendo uno dei due pesante e l'altro leggero, essi si muovono in modo identico, ed è impossibile che il leggero sia impedito ad andare verso il basso. Il nostro maestro Abū Hāšim ha preso le distanze da ciò ma la verità, secondo i suoi compagni, è che i due corpi si muovono nello stesso tempo, secondo una stessa progressione. (Masā᾽il, pp. 200-201)
Queste righe confermano il testo di Ibn Mattawayh, tanto per quanto riguarda l'uguaglianza della velocità di caduta nel vuoto quanto per ciò che concerne la precisazione storica a proposito della ritrattazione di Abū Hāšim. Il fatto che i dossografi presentino questo cambiamento di posizione come individuale mostra che l'uguale velocità della caduta nel vuoto doveva essere generalmente ammessa presso i mutakallimūn posteriori ad Abū Hāšim.
Tuttavia, quale poteva essere l'argomentazione che permetteva di giungere a una tale conclusione? La ragione fondamentale risiede certamente in una considerazione più attenta del mezzo e del peso nel quadro della teoria atomista, poiché, anche se i testi non lo dicono, sembra legittimo supporre un ragionamento del tipo di quello che, qualche secolo più tardi, portò Benedetti a un risultato simile. Supponiamo due atomi separati che cadono nel vuoto alla stessa velocità; questa velocità è determinata dalla sola gravità intrinseca a ciascuno di essi. In virtù dell'indifferenziazione fondamentale degli atomi del Kalām, questa velocità è identica. Supponiamo adesso che questi due atomi siano legati fra loro dall'accidente di composizione (ta᾽līf). Va da sé che questo ac-cidente non aumenta la somma del peso di ogni atomo preso separatamente. Il corpo formato da due atomi uniti cadrà dunque, nel vuoto, alla stessa velocità di ognuno dei due atomi separati. Una piuma e una pietra, essendo sia l'una sia l'altra aggregati di atomi più o meno densi, cadono dunque nel vuoto alla stessa velocità. In sostanza si ha quindi il risultato seguente (galileiano soltanto nella sua formulazione esterna, benedettiano nelle sue ragioni profonde): v=c(P−Pm)/P; dove v rappresenta la velocità, P la 'spinta' (densità) del grave e Pm la 'spinta' (densità) del mezzo. Tutti i gravi, qualunque sia la loro composizione, cadono alla stessa velocità c nel vuoto (dove Pm=0). Certamente, i basriani non hanno mai formulato matematicamente una tale legge; la necessità di formularla in tale linguaggio forse non li ha neppure sfiorati, tuttavia in assenza di fonti ci si guarderà dall'affermarlo. I testi di Ibn Mattawayh indicano però in maniera indubitabile che essa era sottesa alla loro rappresentazione della caduta dei gravi. L'interesse dei basriani per questo tipo di questioni fisiche è attestato da un altro passo della Taḏkira, dedicato all'osservazione del moto pendolare. Ibn Mattawayh classifica quest'ultimo tra i fenomeni che una teoria compiuta dell'i῾timād doveva essere in grado di spiegare: "la lampada [al-qindīl] del santuario (o altra cosa) sospesa a una catenella, se la tiriamo verso di noi e poi la rilasciamo, ritornerà con lo stesso percorso in una direzione determinata, senza che il suo ritorno prenda direzioni differenti. Quale ne è la causa?" (p. 603, 4-6). È appena il caso di ricordare che, secondo la tradizione, sarà ugualmente il moto delle lampade sospese nella Cattedrale di Pisa a suggerire a Galilei di studiare il moto pendolare. È perciò superfluo rammaricarsi di non conoscere le ipotesi esplicative in questione e di non sapere in quale misura le problematiche dei mutakallimūn abbiano attirato l'attenzione dei matematici contemporanei.
Il moto e la forza
L'approccio ontologico dei mutakallimūn, cioè la loro attenzione nel distinguere i diversi tipi di accidente che investono la sostanza-atomo, li ha condotti a interrogarsi sui rapporti complessi tra ḥaraka (movimento) e i῾timād. Questa discussione ‒ che finora non ha costituito l'oggetto di alcuno studio ‒ rappresenta senz'altro il cuore del dibattito fisico interno al mutazilismo.
a) Tra cinematica e dinamica. Uno degli sforzi più meritori della fisica mutazilita è l'avere cominciato a distinguere tra cinematica e dinamica domandandosi se sia il movimento o non piuttosto la spinta a generare un altro movimento. La questione, invero, è più subita che dominata e si esprime soprattutto attraverso un insuccesso, poiché non si riuscì a formulare una dottrina coerente del moto violento; ciò non impedisce, comunque, che essa occupi, almeno a partire dal IX sec., un posto preponderante nella loro riflessione.
Una certa oscillazione nelle fonti antiche può metterci sulla buona strada; mentre al-Īǧī ritiene che sia Abū ῾Alī al-Ǧubbā᾽ī ad aver negato l'esistenza della quies media, Abū Rašīd al-Nīsābūrī e Ibn Mattawayh, seguendo molto probabilmente in questo il Qāḍī ῾Abd al-Ǧabbār, affermano che è Abū Hāšim a negarla. Anche se gli ultimi si basano molto probabilmente su un testo di Abū Hāšim, è possibile che l'informazione di al-Īǧī risalga a una situazione alquanto ingarbugliata fin dall'inizio. È d'altronde lo stesso al-Īǧī a dirci che Abū Hāšim ha esitato a proposito della questione se due spinte possano coesistere nello stesso corpo. Gli storici si sono basati, per lo più, sulla sola versione di al-Īǧī (Massignon 1914-21; Pinès 1937; Hasnaoui 1984), senza dubbio a torto, in quanto i testi ǧubba᾽iti sono più affidabili e corrispondono meglio a quel movimento dottrinale d'insieme che si osserva tra Abū ῾Alī e Abū Hāšim. Le esitazioni dei ǧubba᾽iti su tale questione dipendono in realtà dal loro ricorso ad analisi tanto cinematiche quanto dinamiche. Ora, se secondo la rappresentazione cinematica e atomistica del processo nulla obbliga a postulare un riposo intermedio tra due movimenti opposti, la traiettoria di un grave lanciato in aria e poi in ricaduta potrebbe, in quanto processo dinamico, presupporre un riposo nel punto estremo della traiettoria.
A livello cinematico, ancora una volta, l'analisi dei ǧubba᾽iti doveva essere pressappoco la stessa che si intravede in un testo di al-Niǧrānī qualche secolo più tardi. È necessario prendere le mosse da una formula di Abū Hāšim, in cui alcuni non hanno visto che un gioco di parole ma che deve invece essere considerata con la più grande attenzione: "un movimento che permane è una quiete (iḏā baqiyat [scil. al-ḥaraka] kānat sukūnan)" (al-Nīsābūrī, Masā᾽il, p. 173). Abū Hāšim concepisce l'atomo-sostanza come una sorta di punto di fissazione di accidenti diversi. Fondamentale è senz'altro quello della 'localizzazione' (kawn). La localizzazione può essere considerata essa stessa sotto diversi aspetti, secondo la sua evoluzione nel corso del tempo. Se resta identica per almeno due istanti, si può dire che è 'riposo' o 'quiete'; se invece subisce un cambiamento, sarà 'movimento'. In quanto tale, cioè considerata in un istante unico, la localizzazione è dunque tanto movimento quanto riposo o, più esattamente, è la localizzazione a essa susseguente che farà decidere retrospettivamente la denominazione più corretta.
Le conseguenze di questa teoria sulla rappresentazione del movimento sono molto importanti, poiché essa abolisce di fatto la rigida demarcazione, stabilita da Aristotele, tra moto e quiete. Non soltanto un movimento infinitamente rallentato tende verso la quiete, ma non rappresenta più una difficoltà sostanziale concepire la quiete o 'riposo' come un movimento infinitamente lento. Mentre nella tradizione greca e nell'aristotelismo arabo si tenta di sapere cosa accade nell''atto' del movimento ‒ al punto di sviluppare una vera ontologia del divenire, con tutte le difficoltà che comporta ‒ Abū Hāšim si colloca a un livello deliberatamente più semplice, bloccando il problema al di qua delle aporie fisiche che non mancano di sorgere se si spinge l'analisi oltre la descrizione matematica del continuo. La perdita ontologica è evidentemente compensata dal guadagno in senso fisico. Una volta abbandonati "l'atto della potenza in quanto tale" e la distinzione tra infinito di divisione e infinito di estensione, non resta altro movimento che l'idea di un punto che muta continuamente di posizione lungo una retta. L'accantonamento della questione dell'essenza della posizione riguarda poco la fisica, proprio come accade con l'essenza del punto rispetto alla geometria. Abū Hāšim è, in tal senso, uno dei primi filosofi ad avere deontologizzato la questione del movimento o, se si preferisce, ad avere radicalmente semplificato la sua ontologia. Il paradosso di questa 'deontologizzazione' è che essa si inserisce in uno dei sistemi ontologici più coerenti e più sottili che siano mai stati concepiti. Non bisognerà, dunque, chiedere ad Abū Hāšim di spingere fino alle estreme conseguenze tutte le intuizioni fisiche soggiacenti alla sua teoria del moto. Non si può, tuttavia, che restare impressionati dalle affinità che la sua teoria del moto presenta con le teorie dei geometri coevi che si occupano degli infinitesimi.
Non appena si passa al livello dinamico, la discussione si presenta sotto una luce diversa. Le fonti più antiche conservate ‒ che sono purtroppo di parte ‒ se da un lato concordano contro al-Īǧī per attribuire ad Abū Hāšim l'adozione della quies media, dall'altro divergono nell'indicare il suo avversario in questa materia: Abū 'l-Qāsim al-Balḫī secondo Abū Rašīd, Abū ῾Alī al-Ǧubbā᾽ī secondo Ibn Mattawayh. È d'altronde possibile che l'uno e l'altro siano stati d'accordo su questo punto. Comunque sia, Abū Hāšim è fautore di una teoria classica dell'impetus ed è questa struttura dinamica soggiacente che spiega la necessità della quies media. La testimonianza più esplicita a riguardo ci è fornita dal passaggio di Ibn Mattawayh (al-Taḏkira, pp. 596-597): si imprima a un corpo una spinta di intensità m verso l'alto; questa spinta entrerà in conflitto con la somma n della spinta intrinseca del corpo verso il basso e della resistenza al centro. Se m≤n, il corpo non si solleverà; supponiamo m>n, cioè a dire m=pn+r con r⟨n (nell'esempio di Abū Hāšim, m=1000, p=10, n=100 e r=0). A ogni momento discreto del tempo t≤p, il mobile percorrerà una certa distanza verso l'alto. Alla fine di un numero p di istanti discreti, esso non avrà più l'energia sufficiente per annullare le forze contrarie e, dopo un istante di immobilità corrispondente allo stato di equilibrio dinamico, comincerà la discesa.
Se una tale analisi del movimento ascendente del proiettile appare molto più impacciata rispetto alle riflessioni sulla velocità media della caduta dei gravi nel vuoto, ciò accade perché non la si può far prescindere dalla variabile tempo. L'incapacità di superare questo ostacolo sembra d'altronde far emergere i limiti della fisica del Kalām. I due punti deboli della dimostrazione di Abū Hāšim ‒ il tempo in essa è discreto, il che ipoteca alla base l'analisi di un processo continuo e, soprattutto, non si trova traccia dell'idea che la velocità decresca a mano a mano che il tempo passa (o che il mobile si alza) ‒ sono legati: essi tradiscono entrambi lo scacco subito nel pensare il differenziale. Il modello trasmesso da Ibn Mattawayh non è che la traduzione maldestra, seppure la sola possibile, di un processo continuo in linguaggio discreto.
b) Le prime critiche interne dell'impetus. Si possono distinguere due tipi di critica alla nozione di impetus. Il primo viene da coloro che vi si oppongono radicalmente, in massima parte gli aristotelici ortodossi del tempo; il secondo passa attraverso un ripensamento della nozione tra coloro che vi avevano fatto ricorso. Le premesse di un tale ripensamento vanno cercate nelle polemiche tra Abū Hāšim, da una parte, suo padre e Abū 'l-Qāsim al-Balḫī, dall'altra. Da quanto si intuisce attraverso le dossografie, la situazione è la seguente: Abū Hāšim ritiene che sia l'impetus a generare il movimento, mentre secondo suo padre e al-Balḫī soltanto un movimento ne può generare un altro. In al-Nīsābūrī troviamo la critica seguente alla dottrina di al-Balḫī:
E [al-Balḫī] ha detto riguardo al corpo pesante sul quale abbiamo esercitato delle spinte dall'esterno, che dopo un certo tempo esso ritorna a ciò che era, anche se non vi è nulla nell'aria che lo impedisca. Ma anche questo è falso. Se in effetti non c'è impedimento, questa pietra non ritorna che a causa [leggendo illā li-mā per ilā mā] del suo peso; oppure una volta che noi abbiamo esercitato su di essa una pressione esterna. Al contrario, è persino necessario che la sua spinta aumenti in proporzione al tempo che passa. (Masā᾽il, pp. 201, 205-207)
Nonostante la relativa oscurità, dovuta in parte a problemi testuali, questo passo tenta di descrivere il movimento di un corpo gettato in aria sul quale non si eserciterebbe né la spinta intrinseca verso il basso né la resistenza del mezzo. Secondo al-Balḫī ‒ come per Filopono prima di lui, nonché per molti latini nel XIV sec. ‒ la spinta cesserebbe da sé anche nel vuoto e in assenza di una forza contraria. Secondo i ǧubba᾽iti, al contrario, questo movimento durerebbe in perpetuo.
Si comprende allora la portata del dibattito. Mentre secondo Abū Hāšim, nella linea filoponiana, la spinta produce il moto, per Abū ῾Alī e al-Balḫī essa non ne è che il risultato. Questo punto, implicito nei testi di al-Nīsābūrī e di ῾Abd al-Ǧabbār già ricordati, è confermato da un altro passo delle Masā᾽il: "è più probabile che Abū 'l-Qāsim designi con 'spinta' il riposo o il movimento; e alcuni dei suoi sostenitori (ba῾ḍ al-muntasibīn ilay-hi) ne hanno negato l'esistenza" (p. 229, 2-3).
La nozione di impetus, per gli avversari di Abū Hāšim, cambia dunque radicalmente di significato. Non si tratta più di una sorta di 'motore portatile' acquisito dai proiettili ma, semplicemente, della forza viva 'conseguente' al movimento. Uno o più fautori di al-Balḫī hanno persino negato alla spinta ogni realtà. Emerge così, da tutte queste deboli eco, il primo tentativo storico di superare quella vaga entità che è l'impetus. Il movimento diviene poco a poco esso stesso la sua propria spiegazione, senza che vi sia bisogno di un'altra entità per spiegarlo. Appartiene alla sua natura perpetuarsi. Abū Hāšim non è certo giustificato quando rimprovera al suo avversario di introdurre la necessità di un movimento infinito anche in un mezzo resistente, perché, come afferma lo stesso al-Nīsābūrī, la resistenza interverrà alla fine di questo movimento. La sua osservazione, tuttavia, rivela a un livello più profondo la sua chiaroveggenza, perché la tesi di al-Balḫī suppone effettivamente che il movimento nel vuoto prosegua indefinitamente. Si deve dunque parlare di chiara intuizione del principio inerziale? Sembra di no. Abū Hāšim è continuista ma intende l'impetus come un motore; i suoi avversari vedono giustamente nell'impetus una conseguenza del movimento, ma postulano la discontinuità della traiettoria del mosso. Non si può tuttavia che essere colpiti dalla facilità con cui questi ultimi considerano l'indefinita prosecuzione del movimento 'in quanto movimento'.
Il trattato di al-Niǧrānī, al-Kāmil fī 'l-istiqṣā᾽, fa supporre che la questione sia stata lungamente dibattuta. Secondo l'autore, Abū Hāšim si sarebbe opposto agli altri maestri affermando che la spinta ingenera nell'oggetto non solo un 'muoversi' (taḥarruk=moveri), ma anche un'entità 'movimento' (ḥaraka=motus). Piuttosto che i rapporti ipotizzati tra impetus e movimento, è la distinzione tra movimento come stato del mobile e movimento come entità supposta (a buon diritto secondo Abū Hāšim, a torto secondo gli altri) a interessare gli interlocutori. Al-Niǧrānī attesta che per molti mutaziliti, come per Guglielmo di Ockham qualche secolo più tardi, il termine 'movimento' (ḥaraka, motus) non era che un'abbreviazione della lingua naturale. Si vede immediatamente come tali considerazioni, se si interpreta l'impetus come la forza risultante del movimento e non come il suo motore, portassero direttamente a una prima anticipazione del principio di inerzia. Non è questo il luogo per trattare il rapporto storico tra la dinamica del Kalām e quella del XIV sec.; si può soltanto notare quanto la teoria dei modi essendi di Pietro Olivi si avvicini a una certa concezione degli akwān (modi di essere) delle discussioni bagdado-basriane. "Il movimento non è assolutamente per Olivi un accidente reale, ma soltanto un modus essendi […] "Il movimento locale non è niente altro che il perpetuo essere-altro del mobile in rapporto alle parti di una retta o di diversi ubi"" (Maier 1958, p. 321). Una tale teoria ha permesso, secondo A. Maier, che Olivi giungesse molto vicino al principio di inerzia: "La differenza non sta più in un solo punto: secondo la meccanica moderna, un tale movimento, se non fosse impedito da ostacoli esterni, durerebbe in eterno; per Olivi invece, esso dura finché non ha raggiunto il termine previsto dal motore iniziale […] il terminus motus è per Olivi, come per tutti i filosofi scolastici, l'essenziale" (ibidem, pp. 324-325). Alcuni mutaziliti intuirono che si sarebbe potuta spingere più in là la deontologizzazione del movimento. La non differenziabilità dell'atomo rispetto al moto o alla quiete, ossia l'equivalenza fondamentale tra queste due esteriorizzazioni della localizzazione, implica che esso perseveri indefinitamente, se non è impedito, nello stato che gli è proprio. L'antiaristotelismo dei mutakallimūn è d'altronde troppo puro perché essi abbiano accordato una tale importanza al terminus motus. Questa non è che una localizzazione tra altre che si distingue soltanto per il fatto che il mobile vi resta almeno per due istanti consecutivi. Tale differenza con i latini è fondamentale, perché mette in gioco la questione della velocità in un punto (v. cap. XLIX, par. 2).
La questione della caduta accelerata dei gravi
Resta il problema posto dalla frase conclusiva dell'ultimo testo citato di al-Nīsābūrī: "[…] è anzi al contrario necessario che la sua spinta aumenti in proporzione al tempo che passa". Suggerendo che l'oggetto proiettato non soltanto non si arresterebbe mai ma vedrebbe la propria 'spinta' crescere indefinitamente, al-Nīsābūrī sembra confondere la questione del movimento inerziale e quella del mobile sul quale si esercita una forza costante. È però probabile che si debba imputare questo errore semplicemente a una lieve negligenza da parte sua. Certo, la discrezione delle dossografie islamiche sulla questione del moto provocato da una forza costante sembra riflettere ‒ a prescindere dal naufragio testuale ‒ un profondo disagio a concepire il differenziale: la sola allusione propriamente mutazilita rimane il testo problematico di al-Nīsābūrī. Tuttavia l'idea appare in tutta la sua chiarezza in Abū 'l-Barakāt al-Baġdādī, per il quale la "forza del mayl aumenta […] per tutto il tempo in cui persiste il movimento" (Pinès 1937, pp. 73-74). Considerare le Masā᾽il di al-Nīsābūrī, dunque, ci permette senza dubbio di spostare la prima negazione della tesi aristotelica indietro di due secoli e di cogliere la linea teorica in cui si inserisce Abū 'l-Barakāt (v. cap. XLIX, par. 3).
Conclusioni
A conclusione di questa trattazione si può affermare che la fisica del Kalām ha un triplice significato per la storia delle scienze.
1) Sul piano epistemologico, la fisica del Kalām ha riattivato e sviluppato in direzioni nuove alcune questioni sui fondamenti della scienza che erano state ignorate per secoli. È, in particolare, il caso della riflessione sul continuo e dell'apparire dell'atomismo matematico, che definisce la cornice entro cui il problema sarà formulato fino a Leibniz nel 1676.
2) Sul piano propriamente scientifico, alcune osservazioni fisiche dei mutakallimūn meritano tutta la nostra attenzione: le ricerche sul vuoto, l'affermazione della densità dell'aria, la formulazione della velocità media della caduta dei corpi in un mezzo (isotachia nel vuoto) o le innumerevoli discussioni sull'impetus sono altrettanti esempi dell'attitudine dei teologi a leggere anche 'il grande libro della Natura'.
3) Sul piano ideologico, la fisica del Kalām segna l'inizio della messa in questione del sistema del mondo aristotelico. Il Cosmo di Aristotele non è più che una concezione del mondo tra altre, soggetta a critica. Gli argomenti dei mutakallimūn, trasmessici attraverso le confutazioni che ne hanno dato i peripatetici (Avicenna, Averroè e Maimonide principalmente), innervano in modo diffuso l'antiaristotelismo medievale e rinascimentale. Compito delle ricerche future sarà quello di scoprire sia le condizioni sia le modalità storiche di questa trasmissione, ancora troppo poco conosciuta.
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