La civilta islamica: condizioni materiali e intellettuali. I supporti della scrittura
I supporti della scrittura
I supporti della scrittura, ossia quei materiali che sono stati utilizzati nel corso del tempo per scrivere, si diversificano in genere in base alla loro destinazione d'uso, a seconda cioè che siano impiegati per la redazione di libri o invece di documenti amministrativi, atti giuridici, corrispondenza ufficiale, brevi missive, scritture contabili o promemoria.
Nei paesi del Mediterraneo orientale, tra l'VIII e il XV sec., si usarono, a volte contemporaneamente, tre tipi di supporti. Se infatti nell'VIII sec. i più utilizzati per la copia degli scritti letterari e documentari furono il papiro e la pergamena, verso la fine del secolo, a Baghdad, si iniziò a fabbricare la carta, già conosciuta da molti decenni come prodotto d'importazione. Nel IX sec. fu sempre più usata e Ibn ῾Abd Rabbih (m. 329/940) nel Kitāb al-῾Iqd al-farīd (Libro della collana di perle) narra per esempio che uno studioso, morto nel 307/919, aveva scritto a un amico chiedendogli dei calami da utilizzare su fogli di papiro, di pergamena e di carta, dal momento che nel paese in cui egli risiedeva non vi erano canne.
Nel X sec. la carta sembra sostituire sempre più la pergamena e il papiro viene definitivamente soppiantato. La carta che si fabbricò in Italia a partire dal 1280 ca. si diffuse molto rapidamente prima nell'area del Mediterraneo occidentale e dopo in quella del Mediterraneo orientale; alcuni libri arabi redatti dopo il XIV sec. furono prodotti con carta filigranata. La produzione locale destinata all'esportazione cessò verso il 1450 nel Maghreb e circa un secolo più tardi anche nell'area del Vicino Oriente.
Vi erano poi i supporti non costituiti da fogli flessibili (ossa, nervature di palma, cocci, cuoio, pelli conciate, ecc.); tali furono, per esempio, quelli su cui, secondo la tradizione, si registrò una parte dei versetti del Corano, al tempo del Profeta, e sui quali ci informano recenti studi (Johannes Pedersen, Adolf Grohmann, Habib Zayyat).
Ricavato da una pianta perenne coltivata nelle aree paludose del territorio egiziano sin dal III millennio a.C., il papiro è stato il principale veicolo di trasmissione della letteratura greca fino al II sec. d.C., periodo in cui si diffuse l'uso della pergamena che successivamente, nel IV sec., finì per prevalere su quello del papiro come supporto della produzione letteraria del Vicino Oriente.
Plinio il Vecchio descrive il processo di fabbricazione dei fogli di papiro: la parte interna dello stelo della pianta veniva tagliata in strisce quanto più possibile sottili e larghe; queste venivano poi collocate una accanto all'altra su un supporto di legno; si tagliava quindi una seconda serie di strisce identiche che venivano disposte perpendicolarmente alle prime; successivamente si martellava l'insieme così composto con un mazzuolo. La natura della sostanza adesiva necessaria alla fabbricazione dei fogli di papiro è stata oggetto di numerose ipotesi. Secondo Plinio, essa era ricavata dal fango del Nilo, ma Ibn al-Bayṭār (m. 646/1248), che scrive in un periodo in cui in Egitto la produzione del papiro come supporto della scrittura era cessata ormai da più di due secoli, sostiene, citando a tale proposito il suo maestro Abū 'l-῾Abbās al-Nabātī, che la sostanza agglutinante era ottenuta grazie alla dissoluzione nell'acqua dei semi del loto blu. È a Naphtali Lewis (1934) che va riconosciuto il merito di aver dimostrato che i due strati di strisce si agglutinavano semplicemente grazie al succo che colava dalle fibre della pianta durante il processo della martellatura.
I fogli di papiro che ci sono pervenuti misurano tra i 12,7 e i 37 cm di larghezza e tra i 30 e i 58 cm di lunghezza, valori molto vicini a quelli indicati da Plinio. Dopo essere stati lisciati con un brunitoio, i fogli venivano incollati l'uno accanto all'altro in modo da formare rotoli composti da venti fogli che potevano essere divisi in unità più piccole, indipendenti dai raccordi, come nel caso del ṭumūs (dal greco tómos, sezione), che equivaleva a mezzo rotolo, e soprattutto del ṭūmār (dal greco tomárion, piccola sezione), corrispondente a 1/6 di rotolo, un termine a volte impiegato come sinonimo di 'rotolo di papiro'. Si preferiva scrivere sul lato in cui le strisce si presentavano in posizione orizzontale ma, dal momento che si trattava di un prodotto piuttosto costoso, spesso si riutilizzavano i fogli scrivendo anche sul verso.
Nel mondo arabo-islamico il papiro fu adottato molto rapidamente come supporto di atti e documenti, non solo in Egitto, ma anche all'interno dei servizi amministrativi del califfato omayyade poi abbaside. Il suo impiego per la trascrizione di testi letterari sembra essere più tardo e la letteratura occupa sicuramente una posizione di secondo piano tra i documenti papiracei arabi giunti fino a noi. Oltre ad alcuni frammenti di vari testi letterari, ci sono pervenuti solo tre libri papiracei e tutti risalgono al IX secolo.
Il codice si era affermato nel Mediterrano orientale come la forma più diffusa di libro nel corso del IV sec. e nella produzione libraria araba il rotolo (rotulo) è piuttosto raro (ancorché venisse utilizzato per lungo tempo per scritti di tipo documentario, quali cataloghi di biblioteche). Tuttavia, dei tre libri redatti su papiro giunti fino a noi, il più antico è un rotulo lungo circa due metri, oggi conservato presso l'Institut für Papyrologie dell'Università di Heidelberg, in Germania, che contiene le tradizioni raccolte dal giudice ῾Abd Allāh ibn Lahī῾a e trasmesse dal suo diretto discepolo, ῾Uṯmān ibn Ṣāliḥ (m. 219/834). Gli altri due libri sono invece dei codici: il più antico, conservato anch'esso a Heidelberg, contiene due opuscoli attribuiti a Wahb ibn Munabbih, tra i quali il Ta᾽rīḫ Dāwūd (Storia di Davide) e fu copiato nell'844. Il secondo codice, custodito presso la Biblioteca Nazionale del Cairo, contiene un frammento del Ǧāmi῾ fī 'l-ḥadīṯ (Raccolta di tradizioni) di Ibn Wahb ed è databile grazie a due certificati di lettura (iǧāza, lett. licenza) secondo i quali il libro fu studiato nella città di Asnā nel 274 o 275/889.
Alcuni dei documenti su papiro giunti fino a noi non provengono originariamente dall'Egitto, benché vi siano stati rinvenuti. Un autore arabo, al-Ya῾qūbī (m. 284/897), afferma che il califfo al-Mu῾taṣim, dopo essersi stabilito nell'836 a Samarrā, aveva chiamato in questa città specialisti della fabbricazione dei fogli di papiro (Kitāb al-Buldān, p. 264; Ta᾽rīḫ al-Ya῾qūbī, II, p. 473). Dāwūd al-Anṭākī (m. 1008/1599), per la sua parte, ricorda che il papiro era coltivato nei pressi di Suwaydiyya (probabilmente al-Suwaydā᾽) e nella ġūṭa, l'oasi di Damasco. Sappiamo, infine, grazie al Kitāb ṣūrat al-arḍ (Libro della forma della Terra) di Ibn Ḥawqal (m. dopo il 378/988), che nel X sec. in Sicilia ci si dedicava alla coltivazione del papiro e che questo veniva utilizzato non soltanto dai fabbricanti di cordami ma anche dai servizi amministrativi dei prìncipi dell'isola, ai quali era riservata una parte della produzione.
L'avvento della carta come supporto della scrittura soppiantò in pochi decenni la produzione millenaria del papiro. In tal senso è interessante seguire l'evoluzione dei supporti scrittori nella straordinaria collezione di documenti dell'arciduca Ranieri conservata a Vienna. Copiati tra la fine dell'VIII sec. e l'anno 1388, provengono tutti dalla stessa regione egiziana. Gli studi di Joseph von Karabacek (1887) hanno dimostrato che tutti i novantaquattro documenti risalenti al IX sec. custoditi in questa collezione sono stati copiati su papiro, mentre, tra quelli scritti un secolo più tardi, nove sono papiracei e settantacinque cartacei e, infine, che tra quelli dell'XI sec., i papiri mancano del tutto. L'estinzione della produzione è attestata anche dai viaggiatori arabi: Ibn Ḥawqal e al-Muqaddasī non menzionano il papiro nei loro elenchi dei prodotti commercializzati dall'Egitto, che furono compilati rispettivamente nel 969 e nel 985.
La pergamena, che nel II sec. d.C. aveva cominciato a diffondersi nel Vicino Oriente, era diventata nel IV sec. la materia scrittoria più utilizzata in quest'area. Il suo attuale nome in italiano, così come nella maggior parte delle lingue europee (si pensi all'inglese parchment o al francese parchemin), deriva da quello della città di Pergamo; per questo si è a lungo ritenuto di dover attribuire a questa città la scoperta della tecnica di preparazione dei fogli di pergamena nel periodo del suo massimo splendore, vale a dire nel II sec. a.C. La tecnica di fabbricazione della pergamena potrebbe tuttavia essere stata conosciuta sin dall'inizio del I millennio a.C., perché a quest'epoca è possibile far risalire l'uso di una pelle non conciata ed essiccata sotto tensione quale supporto della scrittura. In ogni caso, l'esatta ragione del riferimento alla città di Pergamo è ignota.
Il termine greco diphtéra (pelle e, in seguito, foglio o rotolo) ha dato origine al vocabolo daftar impiegato dai Persiani e successivamente dagli Arabi: prima di assumere l'attuale significato di 'fascicolo dai fogli piegati', unità di base del codice (e nel linguaggio comune quello di 'quaderno'), questa parola potrebbe aver designato una sorta di taccuino dai fogli non piegati. In arabo, la pergamena è chiamata riqq o raqq, a volte anche ǧild (pelle, cuoio), ma per designare questo tipo di supporto si impiegavano anche i termini qirṭās (Tav. I) o waraq (foglio destinato alla scrittura).
La pergamena, che va distinta dalla pelle conciata, come dal cuoio (che non è sottoposto a essiccazione sotto tensione), è una pelle animale depilata e raschiata che ha subito un trattamento non conciante o solo lievemente conciante ed è stata sottoposta a essiccazione sotto tensione, in modo da renderla idonea ad accogliere la scrittura su entrambi i lati.
I dettagli della tecnica di fabbricazione della pergamena variano a seconda dei luoghi e dei periodi, ma la descrizione appena considerata, mutuata da Denis Muzerelle (1985), può essere considerata valida anche per l'Oriente: la pelle dell'animale veniva immersa in una soluzione di acqua e calce, la cui azione consentiva di estirpare senza difficoltà il pelo e serviva inoltre a facilitare la raschiatura e l'eliminazione dell'epidermide. Dopo una serie di immersioni in soluzioni a base di calce sempre più diluite, seguite da fasi in cui la pelle, per poterne asportare con un raschietto i resti della carne e livellarne lo strato epidermico, era collocata su un cavalletto, veniva lavata con abbondante acqua e quindi applicata a un telaio di legno dove è mantenuta in tensione e lasciata asciugare, prima di procedere alla pomiciatura finale. L'esecuzione di queste operazioni richiedeva un tempo variabile dalle sei alle dodici settimane. Nella fase dell'essiccazione sotto tensione le fibre della pergamena si disponevano in strati lamellari paralleli alla superficie della pelle e si orientavano nella direzione delle trazioni esercitate: è a questo riassetto che la pergamena deve la sua delicatezza e la sua flessibilità, grazie alle quali si distingue dal cuoio e dalle pelli conciate.
Le pelli più utilizzate sia in Oriente sia in Occidente erano quelle di pecora e di capra. Tra i fogli di pergamena più grandi oggi conosciuti vanno ricordati quelli di un Corano custodito a Parigi presso la Bibliothèque Nationale che, nonostante la rifilatura, misura 53,7×62 cm, e quelli di un documento conservato a Londra (BL, Or. 4684) che raggiunge le dimensioni di 85×82 cm.
I cataloghi dei manoscritti orientali menzionano frequentemente un materiale chiamato raqq ġazāl (pelle di gazzella). Probabilmente si tratta di un'espressione figurata, dal momento che Reinhart Dozy (1967) definisce il raqq ġazāl una 'pelle preparata di capretto o agnello nato morto'. Potrebbe dunque trattarsi di una sorta di velino ‒ il velino propriamente detto era fabbricato soltanto con la pelle dei vitelli che erano nati morti ‒ e in generale di una pergamena considerata di qualità superiore grazie alla sua delicatezza, al suo candore e alla sua levigatezza, ottenuta a partire da pelli di animali molto giovani.
La pergamena continuò a essere utilizzata molto a lungo dai cristiani orientali, mentre tra i musulmani del Vicino Oriente, dopo il X sec., l'uso di questo supporto fu ridotto e seguitò a essere impiegato solo in Occidente (Africa settentrionale e al-Andalus), da dove provengono alcuni manoscritti risalenti al XIV o persino al XV secolo. Cordova, Siviglia e probabilmente Qayrawan (in Tunisia) erano celebri per la qualità della pergamena fabbricata dai loro artigiani.
I manoscritti arabi pergamenacei sono spesso copie del Corano (il più antico Corano cartaceo datato risale all'anno 971), una circostanza che può essere spiegata con l'attaccamento alla tradizione e con l'estrema cura con cui si tentava di preservare il testo sacro. In Africa settentrionale la pergamena seguitò a essere utilizzata invece anche per la copiatura di testi profani, come il trattato giuridico al-Muwaṭṭā᾽ (Il sentiero spianato) di Ibn Mālik.
In generale i libri arabi sono codici. Tuttavia, nel diciannovesimo secolo sono stati rinvenuti a Damasco, in Siria, alcuni rotoli pergamenacei o cartacei contenenti quarantaquattro frammenti del Corano che potrebbero essere stati copiati tra il VII e il XII secolo. In alcuni casi, si può ipotizzare che si trattasse di 'libri tascabili' (analoghi rotoli di formato ridotto, contenenti il testo del Corano, seguitarono a essere utilizzati per un lungo periodo); non è facile invece spiegare le ragioni dell'esistenza di rotoli simili ma assai più voluminosi.
Numerosi codici pergamenacei di epoca abbaside, ancora una volta supporto del testo coranico, si distinguono per il loro formato 'oblungo', vale a dire per il fatto di essere costituiti da pagine che hanno una larghezza maggiore dell'altezza. I manoscritti arabi pergamenacei presentano però anche altri caratteri distintivi. Nell'Occidente medievale i copisti piegavano le pelli da una a quattro volte per ottenere fascicoli costituiti da 2, 4, 8 o 16 pagine. Del resto, le due facce di un foglio di pergamena (il lato esterno o 'fiore' e quello interno o 'carne') spesso possono essere distinte a occhio nudo (a eccezione dei fogli di pergamena di altissima qualità): la parte della 'carne' è più bianca, più elastica e più vellutata, mentre la parte del 'fiore' tende frequentemente al giallo e reca la traccia dei pori, visibili sotto forma di piccoli fori (soprattutto quando la pelle è di capra). Ora, aprendo un fascicolo ottenuto piegando lo stesso foglio, ci si trova sempre in presenza di due lati 'fiore' o di due lati 'carne' ed è questa circostanza che indusse il latinista Gaspar-René Gregory a formulare la celebre regola che porta il suo nome.
I fascicoli dei libri arabi pergamenacei sono invece costituiti da un numero dispari di bifogli (in Oriente essi sono spesso rappresentati da quinterni, vale a dire da fascicoli formati da 5 bifogli piegati in due o da 10 fogli) e quasi sempre, aprendo il libro, ci si trova di fronte a un lato 'fiore' e a uno 'carne'. Questa circostanza ha indotto gli specialisti a concludere che i fogli dei libri arabi medievali non derivano dalla piegatura dello stesso foglio ma sono invece formati a partire da fogli già tagliati, impilati (senza dubbio nello stesso senso, per esempio con il lato fiore in posizione esterna) e poi piegati per costituire i fascicoli. La pratica (riscontrabile anche nei manoscritti cartacei) di preparare fascicoli con fogli di diversa origine deve essere accostata al fatto che numerosi libri antichi in cui era stato copiato il testo del Corano contenevano uno o più 'falsi bifogli', preparati assemblando due fogli più piccoli.
Riassumendo, i libri arabi pergamenacei si distinguono per l'uso di fogli già tagliati, per l'utilizzazione di pelli di diversa origine nello stesso fascicolo, per la sequenza dei lati della pergamena e anche per la presenza di falsi bifogli costituiti da fogli spaiati, così come per la prevalenza di fascicoli costituiti da un numero dispari di doppi fogli. Questo insieme di regole si rivela valido, tuttavia, solo per quanto riguarda il Vicino Oriente, dal momento che nel Maghreb, dove i manoscritti pergamenacei erano spesso costituiti da ternioni (cioè da fascicoli di tre bifogli piegati in due o da sei fogli), la successione dei lati della pergamena è spesso conforme alla regola formulata da Gregory.
In poesia la pergamena è designata a volte con il termine ṭirs. Questo vocabolo indica in senso proprio il 'palinsesto', vale a dire il supporto (di pergamena o di papiro) su cui il testo originale è stato cancellato, attraverso un lavaggio o una raschiatura, e sostituito con un altro testo. In alcuni casi è possibile decifrare il testo cancellato: uno dei più antichi palinsesti, la cui scrittura superiore è in lingua araba, contiene un testo giuridico del VII sec. scritto su una pagina di una Bibbia latina del V secolo.
Supporti misti
Un libro poteva essere copiato su due tipi di supporti. Nei libri arabi la combinazione più utilizzata sembra essere stata quella della pergamena e della carta. In questo caso, ogni fascicolo è costituito da bifogli di carta piegati e inseriti tra uno o più bifogli di pergamena. Meno frequente il caso testimoniatoci da un manoscritto della Bibliothèque Nationale di Parigi, copiato nel 1166, molto probabilmente a Siviglia, in cui i primi e gli ultimi doppi fogli di ogni fascicolo sono in pergamena e che ‒ prima di subire una serie di alterazioni ‒ presentava anche fascicoli iniziali e finali in pergamena. Un fatto, questo, che sta probabilmente a testimoniare la diffidenza di certi utilizzatori nei confronti di un supporto sintetico ancora molto recente (la carta) e che mostra come i copisti utilizzassero le pergamene a loro disposizione, riservandole ai fogli dei volumi che occupavano una posizione strategica, come questi dei fascicoli iniziali e finali e i bifogli esterni e centrali dei fascicoli.
Inventata in Cina uno o due secoli prima dell'inizio della nostra era, la carta, che sul finire del II sec. d. C. iniziò a essere utilizzata come supporto della scrittura, giunse nel IV sec. in Sogdiana, nell'Asia centrale; i mercanti sogdiani stabilitisi in Cina utilizzarono infatti la carta cinese per scrivere a Samarcanda, capitale della Sogdiana. Da qui la carta si diffuse verso Occidente: all'inizio del VII sec. si trovava carta cinese d'importazione anche sulle rive del Mediterraneo orientale. Sappiamo inoltre con certezza che la cancelleria musulmana della città di Samarcanda, assoggettata dal 712 all'autorità del governatore del Khurasan nominato dal califfo, utilizzò in alcuni casi la carta cinese. Lo ha dimostrato l'analisi di una serie di documenti d'archivio che furono rinvenuti nel 1933 a 130 chilometri di distanza da Samarcanda, in un castello situato in un'area montagnosa, e che vennero pubblicati a Mosca trent'anni più tardi. Dei 76 documenti rinvenuti, 22 sono stati redatti su carta cinese d'importazione e tra questi ultimi figura anche una lettera scritta in sogdiano e firmata da un collaboratore del governatore arabo.
Si ritiene che la prima carta utilizzata dai musulmani sia stata fabbricata nell'anno 751 a Samarcanda, allora soggetta al dominio musulmano: secondo le fonti a nostra disposizione, infatti, al momento dell'instaurazione del califfato abbaside, il suo rappresentante nel Khurasan ordinò al governatore di Samarcanda di affrontare due eserciti turchi, uno dei quali era stato rinforzato con numerosi soldati cinesi. La battaglia, che si svolse a una trentina di chilometri a nord di Samarcanda, si concluse con la vittoria dei musulmani. Dopo aver subito gravi perdite, gli sconfitti ripiegarono in direzione della Cina e un gran numero di prigionieri cinesi fu condotto a Samarcanda: fu quindi grazie alla mediazione di tali prigionieri che gli abitanti della città avrebbero appreso la tecnica della fabbricazione della carta.
Secondo von Karabacek (1887), cinquant'anni più tardi fu fondata in Iraq la prima fabbrica di carta del Vicino Oriente, forse per iniziativa del barmecide al-Faḍl ibn Yaḥyā, ex governatore del Khurasan. Oltre a Baghdad, i primi centri di fabbricazione della carta menzionati dalle testimonianze sono Tripoli, Hama, Damasco e Tiberiade in Siria, Fustat e Fuwwa in Egitto, Fez in Marocco e Játiva in al-Andalus. A quanto sembra, a Samarcanda si seguitò a fabbricare la carta almeno fino all'XI sec., anche se, stando a quanto riportato da un autore in visita a Tripoli in Siria tra il 1035 e il 1042, la qualità della carta fabbricata in questa città equivaleva o superava quella della carta prodotta a Samarcanda.
L'ultima fase della storia di questa carta inizia con la diffusione della tecnica di fabbricazione nella Spagna riconquistata e nell'Italia meridionale, dove per un certo periodo la carta fu prodotta sulla base degli stessi procedimenti. Verso il 1280, a Fabriano, gli artigiani italiani introdussero importanti perfezionamenti nel metodo di fabbricazione, forse derivanti dalla scoperta della tecnica di trafilatura del rame. Infatti è proprio attraverso un filo di rame che essi riuscirono a imprimere un marchio di fabbrica sulla carta: la filigrana. In un primo momento questo evento non condizionò la produzione 'orientale', anche se, per esempio, i Bizantini preferirono da allora utilizzare carta italiana. Fu successivamente, grazie alla riduzione dei costi di fabbricazione e al dinamismo commerciale delle città della penisola nel Mediterraneo, che la carta italiana finì per aver ragione, verso il 1450, della produzione destinata all'esportazione nell'Africa settentrionale e, un secolo più tardi, di quella nei paesi del Levante (anche se in Persia si seguitò a fabbricare la carta secondo i metodi tradizionali fino al XVII sec.). Alla fine del XIV sec. l'Egitto iniziò a importare la carta veneziana e, nel secolo successivo, Venezia finì per estenderne la vendita in tutte le regioni della Siria. Uno dei più antichi manoscritti arabi datati della Bibliothèque Nationale di Parigi fu copiato su carta filigranata nel 1356.
Sia in arabo sia in persiano il termine più antico impiegato per designare la carta deriva da un vocabolo, molto probabilmente utilizzato in Sogdiana nel VII o nell'VIII sec., che è stato trascritto in diversi modi, il più frequente dei quali è kāġaḏ o kāġiḏ. In seguito gli Arabi attribuirono a questo materiale i nomi di altri supporti, divenuti sinonimi di 'foglio destinato alla scrittura', come, per esempio, qirṭās. Per designare la carta si impiega però da molto tempo anche il termine waraq (foglio).
Le attuali conoscenze relative alla fabbricazione della carta nel mondo musulmano derivano da tre tipi di informazioni: quelle fornite dall'osservazione materiale dei libri antichi; quelle offerte dallo studio delle tecniche di produzione oggi ancora in uso, soprattutto in Asia, e quelle derivanti dall'analisi delle fonti arabe. Tra queste ultime, ricordiamo una ricetta di fabbricazione della carta ṭalḥī compilata per Mu῾izz ibn Bādīs (1007-1061), che in quel periodo regnava sull'Ifrīqiya. Questa ricetta è stata più volte copiata e pubblicata (Le Léannec-Bavavéas 1998) e la tecnica di produzione di seguito descritta è ampiamente basata sulle sue indicazioni.
Il processo di fabbricazione della carta prevedeva tre fasi: la preparazione della pasta da carta, la realizzazione della 'forma' con l'attingimento della pasta da carta e, infine, il trattamento della superficie del foglio.
Sembra che la materia prima 'orientale' sia sempre stata costituita dalla canapa o dal lino, che ben presto iniziarono a essere utilizzati non allo stato naturale, ma sotto forma di prodotti di recupero: corde di canapa, indumenti usati (di canapa, di lino e in alcuni casi di cotone) ridotti in stracci (da qui deriva fra l'altro l'espressione francese papier de chiffe). Si iniziava con il disfare e cardare le corde oppure con il 'lisciare' gli indumenti usati che, in seguito, venivano posti a macerare nell'acqua di calce perché fossero 'sbiancati'. L'operazione successiva consisteva nel tagliare in pezzetti le fibre, che in seguito erano sottoposte a macerazione per altri sette giorni nell'acqua dolce perché fossero eliminati i residui di calce.
Si procedeva quindi al pestaggio, destinato a ridurre in poltiglia anche i frammenti di canapa o di lino. Nella summenzionata ricetta medievale ci si limita ad accennare a questa operazione, considerata invece estremamente ardua dagli artigiani italiani che, per eseguirla, posero in opera un complesso dispositivo: attraverso una ruota idraulica la forza motrice dell'acqua azionava un albero a camme che, a sua volta, metteva in moto una batteria di martelli di legno, alcuni dei quali chiodati, disposti in una serie di recipienti (o 'pile') di cui battevano alternativamente il fondo, dopo essere stati sollevati dalle corrispondenti camme. I frammenti di stracci passavano di pila in pila e venivano triturati e gramolati fino a essere ridotti in pasta.
Per quanto possa sembrare sorprendente, la ricetta di Ibn Bādīs si limita ad accennare all'operazione di pestaggio che di frequente era eseguita a mano. Essa del resto non menziona neppure un altro modo, piuttosto agevole, di facilitare la disgregazione delle fibre, la fermentazione (o decomposizione). Un'altra ricetta, pubblicata da Habib Zayyat (1992), si riferisce invece esplicitamente a questo processo.
Il materiale di base della carta è la pianta chiamata canapa. Essa è tagliata in pezzi e pestata, poi è attorcigliata in spesse corde destinate alle grandi navi. Una volta persa la loro resistenza, queste corde sono poste in vendita e pervengono presso i fabbricanti di carta, che le trasformano in carta: la qualità di quest'ultima dipende dall'umidità della regione in cui è stata fabbricata, dal periodo [dell'anno in cui è preparata], dalla durata della fermentazione [della pasta], dalla rilevanza della risciacquatura [della pasta], dalla purezza dell'acqua, dalla qualità dell'amido e, infine, dall'accuratezza della lisciatura, che è effettuata su entrambe le facce con un pezzo di vetro [levigato]. La carta migliore è quella fabbricata durante la primavera. (p. 79)
Per trasformare la pasta in fogli di carta bisognava preparare una 'forma' destinata a modellare i fogli e, nelle tecniche più recenti, ad attingere la pasta. Alcune recenti ricerche (Irigoin 1993) hanno messo in luce l'esistenza di molti tipi di forme, legate a diverse tecniche di attingimento.
La prima di queste tecniche è stata osservata in Nepal: in questo caso la forma, preparata con una semplice tela che costituisce il fondo di un telaio di legno, è immersa in una vasca e riportata in superficie: a questo punto si stende sulla forma la quantità di pasta necessaria alla preparazione di un foglio, livellandola con le mani. Quindi si estrae la forma dalla vasca e si lascia asciugare il foglio, che in questo caso può essere rimosso solo una volta che si sia completamente seccato e senza che venga staccato dalla forma, che quindi non può essere utilizzata nel corso del periodo necessario all'essiccamento. Oggi gli specialisti definiscono 'galleggiante' questo tipo di forma.
Essa è contrapposta alla 'forma flessibile', la cui parte principale è rappresentata da una sorta di setaccio costituito da canne segate o da giunchi disposti nel senso della lunghezza, i 'fili di vergatura', a cui si sovrappongono nel senso opposto e a intervalli regolari i 'fili di catenella' (spesso costituiti da crine animale). Al momento dell'attingimento, il reticolo formato dai fili di vergatura e di catenella veniva applicato a un telaio di legno delle stesse dimensioni, dotato di traverse parallele alla larghezza e, spesso, anche a una 'coperta': la forma era composta da questi due o tre elementi che nel corso dell'attingimento dovevano essere combinati tra loro e tenuti con entrambe le mani dal lato più corto. In questo caso non bisognava stendere a mano la pasta destinata alla preparazione di ogni singolo foglio. La pasta necessaria alla produzione giornaliera era depositata in un recipiente da cui si attingeva con la forma la quantità necessaria alla fabbricazione di un foglio; questa, sottoposta a oscillazione, si distribuiva sulla forma espellendo l'eccesso d'acqua. La pasta si fissava progressivamente sulla forma: quando il foglio assumeva la consistenza voluta il reticolo elastico che lo sosteneva veniva separato dal telaio e dalla coperta; a questo punto si poteva stendere il foglio su una superficie piana. In Oriente i fogli venivano spesso applicati a un muro caldo, fino a quando, come si afferma nella ricetta di Ibn Bādīs, "si asciugano e cadono a terra". La forma flessibile consentiva di accelerare l'espulsione dell'acqua e facilitava l'essiccazione del foglio. Essa inoltre presentava il vantaggio di essere immediatamente riutilizzabile. Questa descrizione è comunque essenzialmente una ricostruzione congetturale, dal momento che non sono state mai rinvenute forme elastiche antiche.
Nella 'forma rigida', infine, in cui i fili orizzontali e verticali (fili di vergatura e di catenella) erano metallici, il reticolo era applicato al telaio sin dal momento della sua fabbricazione e non era possibile arrotolarlo. Questo tipo di forma è stato utilizzato per la fabbricazione della carta italiana e, in generale, europea.
L'ultima fase della fabbricazione del foglio era rappresentata dal collaggio, attraverso il quale la carta diveniva impermeabile all'inchiostro. Nel corso di questo procedimento i fogli erano rivestiti di una pellicola impermeabile e incolore, in Oriente quasi sempre costituita da amido di riso o di grano applicato a mano o depositato, in forma di salda, in un recipiente in cui si immergevano i fogli. Nella fabbricazione della carta filigranata di origine italiana l'amido era sostituito da gelatina animale.
Nel corso dell'ultima fase il foglio era sottoposto alla satinatura che serviva a renderlo liscio e atto a facilitare lo scorrimento del calamo; la satinatura poteva essere eseguita con diversi strumenti: conchiglie, pietre dure levigate (onice oppure agata), uova di vetro, e così via.
Nelle tecniche di fabbricazione dei fogli di papiro e di pergamena non sono state riscontrate molte variazioni, mentre siamo in possesso di numerosi tipi di carta 'orientale'. Questi tipi di carta si distinguono tra loro per molte caratteristiche, fra le quali le meglio quantificabili sono il formato e le tracce lasciate sui fogli al momento della fabbricazione dall'impronta dei fili di vergatura e di catenella (nei casi in cui sono state utilizzate forme flessibili o rigide, dal momento che quelle galleggianti non lasciano alcuna traccia sulla carta).
Oggi si distinguono cinque tipi di 'carta non filigranata' anteriori al 1550: (a) la carta 'di Samarcanda' o 'del Khurasan' (o anche 'sogdiana'); (b) la carta fabbricata nell'area compresa tra Egitto e Iran dalla fine dell'VIII sec. al 1550 ca.; (c) la carta fabbricata in Marocco e nell'Andalus fino al 1450 ca.; (d) la carta fabbricata in Spagna dopo la riconquista; (e) la carta fabbricata in Italia nel XIII sec. prima dell'invenzione della filigrana. Lo studio di questi tipi (luoghi di produzione, aree di diffusione, metodi di fabbricazione) è ancora poco sviluppato, soprattutto se confrontato con quello relativo alla carta filigranata.
Per quanto riguarda i formati della carta orientale, le conoscenze attualmente disponibili derivano soprattutto dai lavori di Jean Irigoin (1993), i quali si basano su un accurato studio dei libri e dei documenti non soltanto orientali ma anche occidentali.
La carta utilizzata a partire dal IX sec. per la produzione di libri nel Vicino Oriente presenta tre formati compresi nei seguenti limiti: (1) grande, 660/720×490/560 mm; (2) medio, 490/560×320/380 mm; (3) piccolo, 320/370×235/280 mm. Si osserverà che, come dimostrano le dimensioni dei fogli, la larghezza di un dato formato equivale pressappoco alla lunghezza di quello immediatamente inferiore e alla metà della lunghezza di quello immediatamente superiore: tutto ciò sta a significare che il passaggio da un dato formato a quello superiore presupponeva il raddoppiamento della superficie del foglio. I diversi tipi erano quindi facilmente compatibili tra loro.
Gli ultimi due formati sono riscontrabili nella carta fabbricata nel Maghreb e nell'Andalus. Anche la carta prodotta nella Spagna dopo la riconquista presenta due tipi, il più piccolo dei quali sembra ammettere una serie di variazioni, soprattutto per quanto riguarda la larghezza: formato medio, 490/520×330/350 mm; formato piccolo, (a) 380/460×300/320 mm; (b) 360/450×270/290 mm.
Le dimensioni dei fogli di carta fabbricati nell'Italia del XIII sec. variano tra quelle del formato medio e quelle del formato spagnolo piccolo di tipo a, ovvero: verso il 1240, 490×350 mm; verso il 1255, 464×290 mm; successivamente si stabilirono i seguenti limiti: 410/450×275/300 mm. Questi formati non riguardano la carta del primo gruppo, fino a oggi ancora poco studiata.
La disposizione dei fili di catenella sembra essere l'elemento da cui oggi è lecito attendere il maggior numero di risultati utili per la classificazione della carta 'orientale'; questa, infatti, può avere i fili di catenella semplici o raggruppati. La disposizione in gruppi invece non si riscontra mai nella carta non filigranata 'occidentale' (vale a dire nella carta riconducibile ai gruppi c, d ed e). In quest'ultimo tipo la distanza che separa i fili di catenella non è mai inferiore a 30 mm e in media, nello stesso foglio, è sempre superiore a questo valore: essa può giungere a misurare 80 mm nella carta prodotta nell'Andalus e persino 100 mm in quella fabbricata nell'Italia meridionale.
Soltanto nella carta fabbricata nel Vicino Oriente i fili di catenella possono essere semplici o disposti in gruppi. Nei casi in cui sono semplici, questi fili sono separati da una distanza media (da 20 a 25 mm) sempre inferiore a quella dei fogli di carta occidentale.
Per quanto riguarda la carta in cui è riscontrabile la presenza di fili di catenella semplici, è stato dimostrato che, in quella più antica prodotta in Italia, la misura della distanza tra i fili di catenella consente una datazione approssimata di 10 o 15 anni. Per quanto riguarda invece la carta in cui i fili di catenella sono disposti in gruppi, è stata recentemente pubblicata una tipologia (Humbert 1998), secondo cui i tipi più frequenti di raggruppamento sono i seguenti: gruppi di due, tre, quattro o cinque fili di catenella, gruppi di due e di tre fili di catenella alternati in modo regolare o di-sposti in un ordine di successione non prevedibile (la disposizione /2/3/3/3/2/ sembra ricorrere con una certa frequenza) e, infine, fili di catenella semplici intervallati a gruppi di due o di tre.
Anche lo spessore dei fili di vergatura può fornire una molteplicità di indicazioni: alcuni tipi di carta del gruppo a, per esempio, si distinguono per l'estremo spessore dei loro fili di vergatura, che è associato a un colore piuttosto scuro (molto frequentemente tendente al rosso) nonché per la non visibilità dei fili di catenella.
In alcuni tipi di carta (quelli riconducibili ai gruppi c, d e, in alcuni casi, al gruppo e) si può osservare in trasparenza una traccia chiamata 'zig-zag'. Nei primi fogli in cui è stata osservata, questa traccia si presenta sotto la forma di una serie di linee formanti tra loro angoli alternativamente sporgenti e rientranti, circostanza da cui deriva il nome che le è stato attribuito. In alcuni tipi di carta originari dell'Andalus o del Maghreb occidentale sono state rilevate impronte analoghe dal tracciato discontinuo, anche queste designate per comodità con il termine 'zig-zag'. Sempre situati al centro del foglio, gli zig-zag non sono mai sovrapponibili tra loro: questa circostanza dimostra che furono tracciati separatamente su ogni singolo foglio.
L'interesse che lo zig-zag ha suscitato tra gli specialisti deriva dal fatto che questo fenomeno, di cui non si conosce lo scopo, è tipico della carta prodotta in un'area geografica ben definita e indica l'esistenza di una tecnica i cui segreti non sono ancora stati svelati.
La carta orientale è stata utilizzata per la copiatura di manoscritti arabi, bizantini, persiani, siriaci, copti, ebraici, latino-spagnoli, georgiani e armeni. La carta presentava molti vantaggi rispetto alla pergamena: spesso era più elastica, più leggera e, a parità di spessore, un manoscritto di carta conteneva più fogli di un manoscritto di pergamena. Si trattava inoltre di un prodotto che poteva essere fabbricato in qualsiasi luogo (a condizione, tuttavia, di poter disporre di una quantità sufficiente di acqua corrente), soprattutto a partire dal momento in cui si riuscì a preparare la pasta da carta con prodotti di recupero. ῾Abd al-Laṭīf al-Baġdādī (m. 629/1231) narra nel Kitāb al-Ifāda wa-'l-i῾tibār (Libro dell'informazione e della considerazione) che in Egitto i saccheggiatori di tombe vendevano ai fabbricanti di carta i lenzuoli funebri e i bendaggi di canapa in cui erano avvolte le mummie. Sembra che l'amministrazione abbaside preferisse la carta soprattutto per un'altra ragione: al contrario della pergamena e del papiro, questo materiale non poteva essere lavato e raschiato, e quindi i documenti a cui serviva da supporto erano difficilmente falsificabili.
Secondo molti autori antichi, nel mondo musulmano si utilizzava carta di origine cinese per la copiatura dei testi letterari: Ibn Isḥāq al-Nadīm (m. dopo il 380/990), attivo a Baghdad, afferma di aver preso visione di quattro fogli di carta cinese su cui era copiato un testo del celebre grammatico Abū 'l-Aswad al-Du᾽alī. La presenza della firma di un altro noto grammatico dimostra che questi fogli risalivano a un periodo precedente al 746. Inoltre al-Nadīm era in grado di distinguere la carta cinese da quella che egli definisce 'carta di Samarcanda' o 'carta del Khurasan' e indica i nomi di sei tipi di 'carta di Samarcanda', tra cui figura il ṭalḥī, di cui è sopravvissuta la ricetta di fabbricazione.
Il più antico libro databile copiato su carta 'orientale' è un manoscritto greco redatto, secondo i bizantinisti che si basano sulle caratteristiche molto particolari della sua scrittura, in una data molto vicina all'800. Un gran numero di documenti risalenti alla stessa epoca, ma non datati né precisamente databili, sono conservati a Vienna, nella collezione dell'arciduca Ranieri: secondo Adolf Grohmann (1967) furono copiati tra il 796 e l'816.
Fra i tre libri cartacei arabi più antichi datati o databili, figura una copia della Risāla (Epistola) di al-Šāfi῾ī, conservata al Cairo. Trascritto da un discepolo dell'autore, al-Rabī῾ ibn Sulaymān, questo manoscritto reca un certificato di lettura (iǧāza) datato 879. Probabilmente la copia del testo fu realizzata prima della morte di al-Šāfi῾ī (m. 819 o 820). Gli altri due testi contengono alcune tradizioni profetiche (ḥadīṯ). Ci riferiamo alla copia del Kitāb al-Masā᾽il (Libro delle questioni) di Aḥmad ibn Ḥanbal, conservata a Damasco, in cui si legge la più antica iǧāza conosciuta (879), e a un manoscritto conservato a Leida, che contiene il Ġarīb al-ḥadīṯ (Passi oscuri della Tradizione) di Abū ῾Ubayd, completato nell'866 (è il più antico manoscritto cartaceo datato che è conservato in Europa). Non si può affrontare il tema dell'avvento della carta senza accennare al ruolo di primo piano da essa svolto nello sviluppo della produzione dei libri e in quello della vita culturale delle regioni in cui era fabbricata.
Nell'area del Mediterraneo gli Arabi furono i primi a utilizzare la carta e, a partire dal IX sec., a impiegarla regolarmente per la produzione dei libri. La scoperta e la diffusione della tecnica di fabbricazione della carta determinarono la moltiplicazione dei libri e la nascita di biblioteche aperte al pubblico dall'inizio dell'XI secolo.
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