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Mestre, la città del Novecento

di Sergio Barizza - Storia di Venezia (2002)
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Mestre, la città del Novecento

Sergio Barizza

Flashback: l’immagine

1826 — Nuovo dizionario geografico universale, p. 1118: Mestre, Mestrium, grossa terra aperta del regno Lombardo Veneto; provincia è a 2 leghe nord ovest da Venezia, capoluogo di distretto, in vicinanza alle lagune, sul Marzenego, ruscello che colà termina colla formazione del canale di Mestre e dell’Osellino. Bene fabbricata, ha alcune chiese, alcuni belli palazzi, comodi pubblici alberghi, ed aveva vari monasteri d’uomini e donne e un teatro di buona costruzione. Assai frequentato per la sua vicinanza con Venezia è luogo di grande passaggio per mercanzie e forestieri che quivi trovano cavalli e vetture per ogni parte d’Europa. Vi si tiene, ogni venerdì, un mercato di biade e bestiami e due frequentate fiere al San Lorenzo e al San Martino [probabilmente un refuso perché tutte le testimonianze parlano di San Michele].

Conta 5.000 abitanti avendone 14.500 il suo distretto composto di 7 comuni. Ha un territorio ubertoso di biade e vini e, lungo la strada che conduce a Castelfranco, vi si trova qualche bell’edifizio, com’è adorna di bei palazzi di delizia tutta la larga e comoda strada, detta il Terragio, che da Mestre conduce direttamente a Treviso, da cui è distante 4 leghe. Non tanto come per lo passato, ma tutt’ora il popolo di Venezia quivi nei dì festivi si porta in numero a sollazzarsi. Aveva un castello che fu abbruciato dagl’imperiali nel 1514, al tempo della famosa lega di Cambrai. Apparteneva anticamente con piena giurisdizione al vescovo di Treviso.

1925 — Touring Club Italiano, Guida d’Italia, p. 221: Mestre, importante centro ferroviario e stazione di terraferma di Venezia. Metri 4, abitanti 12.701 (alberghi: Italia, piazza Umberto I, 40 camere; ai Tre Mori, 30 camere; al Gallo, 15 camere; Vivit, 16 camere). Tram elettrico per Malcontenta, per Treviso, per Mirano, per San Giuliano 5 km., 16 corse al giorno, 15 minuti, lire 1,60. Da qui vaporetto per Venezia. Grosso borgo, in parte a portici, ma privo di carattere architettonico. È centro industriale importante; vi fiorisce anche l’industria familiare dei pizzi veneziani. Mansione romana sulla via Altinate, Mestre, distrutta dagli Unni (V secolo) appartenne, dopo varie dominazioni, a Venezia dal 1337, cui fu fedelissima. Venne incendiata nel 1513 da Tedeschi e Spagnoli. Bella pagina nella storia del Risorgimento è la presa del forte di Marghera da parte dei patrioti di Mestre il 22 marzo 1848 e la cacciata dei Croati da Mestre il 27 ottobre, per parte dei difensori di Venezia. Il centro è formato dalla lunga piazza Umberto I, nella quale, a sud, la parrocchiale di San Lorenzo, disegno del Maccaruzzi, nel cui interno, discrete statue marmoree. Campanile di forme romaniche, della chiesa anteriore, distrutta da un incendio. Per la strada di fronte alla chiesa si va al teatro Toniolo (disegno di Giorgio Francesconi) ed alla piccola galleria Vittorio Emanuele II dei fratelli Toniolo. Riprendendo la piazza Umberto I verso nord, in fondo, la massiccia torre dell’orologio (1108), la sola rimasta delle 11 che la tradizione attribuisce al vecchio castello di Mestre. Continuando in via Palazzo, si trova in fondo a sinistra, la Provvederia, inferiormente romanica, superiormente rinascimentale. Proseguendo direttamente nel viale Garibaldi, si va a Carpenedo, km. 1,5, paese ridente e luogo di villeggiatura, con elegante parrocchiale di stile romanico-gotico, dall’alto campanile. A circa km. 6 ad est in località Tessera, la solitaria chiesetta di Sant’Elena, notevole per il campanile cilindrico, simile a quelli ravennati, che ha in alto bifore romaniche e inferiormente è un probabile avanzo di torre farea romana.

1985 — Touring Club Italiano, Guida d’Italia, pp. 696-698: Mestre, metri 3, abitanti 188.809, insediamento di antica origine pesantemente snaturato nella sua struttura urbana dall’espansione di questo secolo che, a ritmi incalzanti dagli anni venti agli anni settanta, ne ha accompagnato la crescente funzione di bacino residenziale e commerciale di Venezia. [...] Dal 1797 al 1814 Francesi e Austriaci si succedettero in due riprese nel governo della città, assegnandole, nella difesa di Venezia, un ruolo strategico molto più importante di quello conferitole a suo tempo dalla Repubblica. Così, a partire dal 1808, sorse attorno a Mestre un sistema difensivo incentrato su forte Marghera, che fu teatro di scontri sia tra Francesi e Austriaci, sia tra questi e i patrioti veneziani durante i moti del 1848. Nel periodo della seconda dominazione austriaca (1814-1866) fu costruita la linea ferroviaria Venezia-Milano che, superata la laguna con un ponte ultimato nel 1846, passava a un chilometro circa a sud dell’abitato di allora. La relativa stazione ferroviaria non influì immediatamente né sui collegamenti tra Venezia e Mestre (che continuarono a svolgersi preferibilmente per via d’acqua), né sulla struttura urbana. Questa infatti, pur subendo alcune trasformazioni di un certo rilievo verso la fine dell’Ottocento, cominciò a mutare profondamente solo con la formazione di Porto Marghera, avvenuta nel 1922 dopo un lungo periodo di dibattiti e di progetti per il risanamento economico di Venezia. Nel 1926 il comune di Mestre, autonomo dal periodo napoleonico, venne aggregato a quello di Venezia per accentrare il coordinamento delle operazioni connesse alla realizzazione del porto industriale. Ne derivarono fra l’altro, durante gli anni venti e trenta, la creazione del quartiere urbano di Marghera (dimensionato inizialmente per 30.000 persone), la costruzione del ponte automobilistico translagunare e un accentuato accrescimento di Mestre, soprattutto a sud, dove l’abitato si congiunse alla stazione ferroviaria. Fino al 1951 il motore dell’espansione fu soprattutto Porto Marghera, ma a questo si aggiunse in seguito il massiccio esodo da Venezia, provocato dal degrado del patrimonio abitativo della città insulare. L’azione combinata di questi due fattori ha fatto sì che, negli ultimi trent’anni, gli abitanti di Venezia si siano pressoché dimezzati, mentre quelli della concentrazione mestrina quasi raddoppiati.

Preambolo: Mestre nei «discorsi della corona»

Giobatta Gianquinto, 8 aprile 1946: Mestre, Marghera, devono avere tutte le nostre cure, anche in attesa della grande riforma amministrativa che sarà opera della Costituente, noi possiamo e dobbiamo operare subito per attuare un decentramento amministrativo a cui Mestre ha diritto. [...] Io assumo l’impegno preciso e lo manterrò, che il consiglio comunale non voterà una sola lira di spesa se questa lira non sarà ripartita equamente fra Venezia insulare e la terraferma, fra Venezia insulare, la terraferma e le frazioni. [...] Si rassicurino i compagni e gli amici, i rappresentanti di Mestre, i rappresentanti delle frazioni, si rassicurino che l’epoca dei privilegi è finita sino a che noi stiamo a questo posto, che Venezia, sino a che permane fissa la composizione attuale del comune, Venezia è una e non conosce né centro né periferia.

Giovanni Favaretto Fisca, 30 gennaio 1961: Il prevedibile rapido ritmo di accrescimento della popolazione di Mestre, la crescente diversificazione delle fonti di lavoro, la necessità e le deficienze già ora avvertite rendono quanto mai urgenti diversi provvedimenti e interventi sia di ordinaria che di straordinaria amministrazione dei quali il Comune deve essere, a seconda della loro natura, esecutore e propulsore. E mi riferisco a: scuole, biblioteche, viabilità (strade e marciapiedi), adeguamento delle disponibilità idriche, fognature, campi da gioco e verde pubblico, mercati e impianti sportivi.

Mario Rigo, 8 agosto 1975: Per Mestre vi è la necessità di una profonda riqualificazione urbana, tale da farne un centro vivo e vitale, organicamente legato in un’unica struttura territoriale a Venezia centro storico, alla zona industriale di Porto Marghera, al suo entroterra comprensoriale e capace di fornire ai lavoratori, ai cittadini, la gamma completa dei servizi sociali, culturali, di occasioni di lavoro.

Massimo Cacciari, 20 dicembre 1993: Vogliamo dare concretamente inizio ad uno sforzo di pianificazione urbanistica, nella terraferma, che soddisfi la domanda di alloggio, ma anche quella di città — che è altrettanto importante e avvertita — che si sforzi di porre fine alla storia stessa delle ‘periferie’. […] Il programma di questa Giunta e della coalizione che m’ha candidato a sindaco è chiarissimo: noi siamo per l’istituzione della città metropolitana di Venezia fondata sulle autonomie amministrative di Venezia, di Mestre e del Cavallino.

La storia

L’antefatto: la «grande Venezia»

Il Consiglio dei Ministri approva: schema di provvedimento per l’aggregazione dei Comuni di Mestre, Favaro Veneto, Zelarino e Chirignago e della frazione di Fusina del Comune di Mira al Comune di Venezia. Il sorgere del porto industriale e commerciale di Marghera in terraferma, in continuità di Mestre, ha intensificati i rapporti di vita e di interesse fra Venezia e Mestre. Venezia per giungere a Marghera, che è parte del suo territorio ed alla cui sistemazione vi ha necessità di provvedere, deve traversare l’abitato di Mestre. Per queste ragioni i due centri costituiscono ormai una unità di fatto. È pertanto necessario, anche in vista di una migliore organizzazione dei pubblici servizi e dell’armonico progresso di quelle popolazioni, dare unità amministrativa a quella che è unità di fatto, promuovendo l’aggregazione del Comune di Mestre a quello di Venezia. Similmente sono da aggregarsi i piccoli Comuni contermini di Favaro Veneto, Zelarino e Chirignago, nonché la frazione di Fusina. Questi centri abitati che immediatamente fanno corona a Mestre e a Marghera sono collegati da frequenza di rapporti e da Comunità di interessi e serviranno mirabilmente a consentire un più ampio respiro e ragionevole sfollamento della città(1).

La storia della Mestre del Novecento non può che iniziare da qui, da queste poche righe con cui i lettori del «Gazzettino», sul finire di giugno del 1926, apprendevano del definitivo allargamento degli storici confini municipali di Venezia, al di là delle acque della laguna, che da sempre ne costituivano le invisibili mura. La città, seppure marginalmente e un po’ in ritardo, era stata toccata da un processo non ignoto alla vecchia Europa, da Parigi a Francoforte dove, sotto la spinta dell’industrializzazione, della crescita demografica e dell’evoluzione dei trasporti, le mura si erano presto rivelate degli ingombri, destinate a lasciar spazio a giardini e viali alberati per connettere, senza soluzione di continuità, vecchi centri storici con le nuove periferie urbane e industriali. Anche la stessa piccola Mestre, con la demolizione nel 1876 della torre di Belfredo, una delle due rimaste dell’antica cinta muraria(2), e l’apertura, qualche anno dopo, di viale Garibaldi, per la cui costruzione era stato necessario rompere l’arco ideale degli Spalti che ancora circondavano il recinto del vecchio Castello(3), aveva vissuto un evento del tutto simile nel periodo della sua prima espansione urbana, ma quello che il quotidiano locale annunciava con enfasi, all’inizio dell’estate di quel 1926, era qualcosa di totalmente diverso. Qui non si trattava infatti di demolire mura che «per le città industriali erano spesso diventate dei vecchi ronzini»(4) al fine di unire centro e periferia, si trattava, all’opposto, di riempire uno spazio vuoto, occupato dall’acqua, di collegare due centri urbani diversamente sorti e cresciuti, di mutare in certo modo la natura stessa delle acque della laguna, da sempre definite e sentite come elemento di difesa, di restituirle forse alla loro più consona natura di acque di un «lago interno»(5) a un territorio vasto, variegatamente abitato. Si trattava, in senso proprio, di andare in controtendenza rispetto al comune modo di sentire dei veneziani che, su quelle isole, avevano concepito e costruito una sorta di sprezzante identità che portava a definire semplicemente «campagna» tutto quello che sorgeva al di là dell’acqua (e quanto sia difficile da superare questo modo di sentire è testimoniato dal titolo di fondo dell’edizione di Venezia del «Gazzettino» del 26 agosto 1999 che così annunciava l’apertura del Casinò a Ca’ Noghera, nei pressi dell’aeroporto internazionale Marco Polo: «La nostra America di campagna»).

Quelle secche righe del «Gazzettino» del 1926 rivelavano con spietata chiarezza l’anomalia più consistente: non si trattava di unire il centro ad alcune frazioni sorte per un naturale seppur impetuoso sviluppo, ma si veniva a sanzionare, sul piano amministrativo, quella ch’era stata ideata da alcuni, e vista e vissuta da molti, come una semplice occupazione di territorio sulla vicina terraferma per l’insediamento del porto industriale e commerciale di Venezia a seguito del decreto del 26 luglio 1917, che apriva la strada alla costruzione della zona portuale e industriale di Marghera, con annesso quartiere urbano, sul territorio della frazione di Bottenigo del Comune di Mestre, che veniva, ipso facto, annesso al Comune di Venezia(6).

Fiorirono, e furono addirittura subito inserite nello schema di decreto, le giustificazioni dell’operazione unitamente agli obiettivi futuri che da allora avrebbero pure trovato facile posto in saggi storici, programmi politici, quotidiani e riviste: i naturali «intensificati rapporti di vita e di interesse», la «riorganizzazione dei servizi» in primo luogo dei trasporti, ma soprattutto l’individuazione, nitida, dell’obiettivo di uno «sfollamento della città», mentre lì in mezzo continuava a rimanere una «laguna da riempire». Un territorio cresciuto con storie e modi di vita diversi veniva ridisegnato e le funzioni spartite sulla base di un disegno preciso che vedeva in Venezia la città d’arte e di storia, da alleggerire al più presto di alcune decine di migliaia di abitanti, e la terraferma dedicata alle industrie, che sarebbero sorte accanto alle banchine dei Bottenighi, e alla ricezione abitativa. Questa scelta ha condizionato da allora la crescita di Mestre, la cui natura di città era venuta via via maturando in modo autonomo, articolandosi e affermandosi negli ultimi decenni del XIX secolo e nei primi del Novecento(7). Le cronache parlano di una sostanziale adesione all’ipotesi di costruzione del grande comune per via dell’accorpamento a Venezia dei territori prima amministrati autonomamente da Mestre, Zelarino, Favaro, Chirignago e (in parte) da Mira.

L’opposizione era stata più consistente, addirittura rabbiosa, nel 1917(8) quando, al primo decollo dell’operazione Marghera, tutto il territorio della frazione di Bottenigo era stato ope legis aggregato a Venezia. Gli amministratori mestrini, di qualsiasi parte politica, incassata quella prima sconfitta avevano capito ch’era ormai solo questione di tempo perché Venezia mettesse le mani anche sui territori limitrofi e si limitarono a compilare elenchi di richieste su cui calarono, e sarebbero calate in modo del tutto analogo per decenni, abbondanti promesse(9).

Fu logico e naturale perciò che, dopo la Liberazione, alla fine di aprile del 1945, il comando di piazza inglese tornasse a insediare a capo dell’amministrazione della città di Mestre il socialista Ugo Vallenari(10), ultimo sindaco prima dell’avvento del fascismo, colui che maggiormente si era opposto al disegno volpiano, tout court sentito e vissuto come espressione diretta della politica del regime nel territorio veneziano. Non può altrettanto dirsi una grande scelta invece quella dell’assemblea delle autorità civili, militari e del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) di Mestre, che una decina di giorni dopo, il 9 maggio 1945, riconfermando l’unità territoriale del comune, così come era stato disegnato nel 1926, e rimandando semplicemente a tempi migliori la decisione sul ritorno all’autonomia amministrativa, destituiva Vallenari facendogli pure lo sgarbo di preferirgli il compagno di partito Arturo Valentini(11) per «svolgere le funzioni di sindaco per la città di Mestre, in qualità di vice sindaco per la terraferma del Comune di Venezia»(12). Un’occasione perduta, altrettanto pesante quanto quella, un paio d’anni dopo, di non affrontare con prontezza e decisione l’approvazione di un piano regolatore. Passò così intatto dal fascismo all’Italia repubblicana il disegno, e soprattutto la filosofia, sulla gestione del territorio.

Durante la prima amministrazione comunale democratica, guidata dal comunista Giobatta Gianquinto, a Mestre e Favaro sorsero dei comitati che cercarono di percorrere la strada, allora legalmente possibile, per ottenere il ritorno all’autonomia amministrativa. La richiesta dei cittadini di Favaro venne respinta in consiglio comunale (31 gennaio 1949), quella di Mestre non uscì neppure dalle secche della burocrazia(13). I tre referendum sulla separazione amministrativa tra Venezia e Mestre, celebrati successivamente (nel 1979: 27,59% di sì, 72,41% di no; nel 1989: 42,21% di sì, 57,79% di no; nel 1994: 44,43% di sì, 55,57% di no) stanno sì a testimoniare di una costante crescita degli «autonomisti», che per una pura questione di tendenza statistica potrebbero la prossima volta ribaltare il risultato a loro favore, ma all’interno di una costante, piagnucolosa sudditanza dei mestrini, spesso giocata sui temi della quotidiana amministrazione, mentre nessuno scatto d’orgoglio, nessun disegno strategico è venuto a contestare e contrastare i continui esiti — sul piano dell’organizzazione e della gestione della città — di quella scelta del 1926. È purtroppo vero che «l’esistenza di un comune non forma di certo una classe dirigente attenta ai problemi della città, però le consente, e anzi la costringe, a dare un nome a questi bisogni»(14), tant’è che, persa quella prima occasione al momento della riconquistata democrazia, il gioco si è troppo spesso avviluppato attorno ad alchimie e trame politiche che si sono, di volta in volta, appropriate del desiderio di autonomia (o del suo contrario) per meri fini di schieramento(15), mentre la città con troppi dei suoi problemi, soprattutto sul piano dell’adeguamento dei servizi, continuava per lo più a rimanere sullo sfondo.

Molti sono convinti (e tanti giocoforza si convincono sempre più) che la soluzione si trovi in prima istanza nel ritorno all’autonomia amministrativa. Può darsi, può essere il primo passo su una nuova strada. Rimane però l’interrogativo sul perché migliaia di persone — veneziani o provenienti un po’ da ogni dove — continuino a vivere, spesso mugugnando, in una città che non riconoscono come tale e persistano a guardare o, peggio, a misurarsi (gioco sempre perdente) con le altre, in primo luogo la vicina Venezia, sul piano dell’arte e della storia. Marino Berengo ha scritto di un’intervista a Roberto S. Lopez e di una affermazione che lo lasciò allora «sconcertato» per apparirgli poi invece «una linea giusta, la migliore da seguire: è l’autocoscienza dei suoi abitanti a rendere tale una città»(16). L’inizio di un nuovo cammino passa inevitabilmente da qui: da una presa di coscienza della qualità di Mestre come «città del Novecento». Più di altre, costruite dal nulla in zone bonificate o ai margini di metropoli o zone industriali, proprio per la sua vicinanza con Venezia, dove la contemporaneità non è riuscita a portare industrie e traffico, si può definire a pieno titolo la città del secolo appena trascorso, da cui è stata forgiata, con tutte le sue contraddizioni, pregi e difetti. Questa è la sua identità da scoprire, da capire, da spiegare, da accettare. Forse sarà più facile nei prossimi anni dato che ormai la zona industriale di Marghera, suo primo elemento fondante, sta velocemente trasformandosi, per assumere nuove funzioni.

Un ciclo si è aperto e chiuso, nel Novecento, sui bordi della laguna: sono nate e si sono impetuosamente sviluppate una cospicua zona industriale e una città dove vivevano molti di coloro che vi operavano, che addirittura sono sembrate per lunghi anni, pur se adiacenti, separate e lontanissime (l’apertura al pubblico, per una semplice visita, di alcuni reparti del Petrolchimico, sul finire del 1999, è stata salutata sulla stampa locale come la fine di questa separazione, sottolineata pure dai pareri dei visitatori alcuni dei quali rivelavano candidamente di non sapere nemmeno dove e cosa fossero gli stabilimenti…). Più che su alcuni momenti della storia passata connaturati con quella di Venezia, è sulla comprensione, analisi e riscoperta delle vicende del XX secolo, che l’hanno portata a essere quello che è, magari cancellando pure alcune delle poche testimonianze del suo passato, che Mestre può scoprirsi pienamente come città.

Ponti e teste di ponte, strade e metropolitane

Le implicazioni di quella scelta iniziale continuano ciclicamente a riaffiorare nell’elaborazione di alcuni fondamentali concetti di programmazione amministrativa come, ultimamente, nella coniazione del termine di «città bipolare», alla base dello studio sul nuovo piano regolatore(17), o addirittura nell’attività politica, se è vero che il primo tentativo di Massimo Cacciari di concorrere alla carica di sindaco avvenne con una lista di nuovo conio, appositamente denominata «Il Ponte», sotto cui si raggrupparono, e persero, le forze di sinistra nelle elezioni amministrative del 1990(18). Al di là del suo uso, magari un po’ banalizzato in politica, questa idea del ‘ponte’ fra Venezia e Mestre è gravida di contenuti e significati. In effetti si cercò di coprire il vuoto occupato dalle acque della laguna e mettere le premesse per superare l’isolamento e promuovere l’unione e l’integrazione, in primo luogo economica, di Venezia con la terraferma tramite la costruzione di due ponti, l’uno ferroviario (1846)(19), l’altro autostradale (1933)(20). L’esito, pur con un andamento un po’ a elastico, fu alquanto diverso: il primo favorì, di fatto, la crescita di Mestre come città, con una propria zona industriale tra ferrovia e canal Salso, il secondo, relegando nel più desolante abbandono la storica testa di ponte di S. Giuliano, la compresse progressivamente nelle maglie di un delicato snodo viario, il cui vertice è costituito dal cul de sac di piazzale Roma, che si sovrappose a quello ferroviario, i cui esiti, ora all’inizio del terzo millennio, sono emblematicamente raffigurati dalla tangenziale che unisce le autostrade per Milano e Trieste (aperta al traffico il 3 settembre 1972), che di fatto passa in mezzo alla città ed è ogni giorno intasata.

Venezia era rimasta per secoli un’isola. I collegamenti con la vicina terraferma avvenivano solo via barca sostanzialmente da tre teste di ponte: Fusina, Campalto, ma soprattutto Mestre, in particolare dopo che, nella seconda metà del Trecento, era stata scavata la fossa Gradeniga poi comunemente denominata e conosciuta da tutti come canal Salso. Lungo il suo asse, che faceva capo a piazza Barche, correva la linfa vitale della quasi totalità dell’economia mestrina. Piccoli commercianti, barcaioli, facchini, vetturali, osti, bottegai, contadini e lattivendoli, questi erano gli abitanti di Mestre(21) la cui attività si era dipanata, quasi immutata, per secoli, nel piccolo centro, tra piazza Maggiore, luogo del mercato, e piazza Barche, capolinea del trasporto merci e passeggeri per Venezia. La costruzione del ponte ferroviario (inaugurato l’11 gennaio del 1846) sconvolse questo assetto tradizionale. Quando i binari permisero di raggiungere direttamente il Canal Grande, pochi passeggeri continuarono a sostare nelle locande di Mestre, molte merci ‘saltarono’ i suoi depositi per accatastarsi sugli esigui spazi di S. Lucia. Da quel momento passeggeri e merci sarebbero stati nella quasi totalità dirottati dalle traballanti barche ai ben più sicuri, comodi e capienti vagoni.

Un sintetico confronto tra le cifre riscosse dall’esattore della tassa di navigazione, per conto dei Comuni di Venezia, Mestre e Gambarare, relativamente alle teste di ponte di piazza Barche e Fusina, nei primi cinque mesi e mezzo di esercizio ferroviario — dal 16 dicembre 1842 al 31 maggio 1843 (quando ancora il treno arrivava solo a Marghera, nella zona limitrofa al Forte, perché il ponte translagunare era ancora in costruzione) — e lo stesso periodo dell’anno precedente fa emergere, con estrema chiarezza, i contorni di una situazione del tutto nuova che preludeva a un futuro decisamente negativo per il tradizionale trasporto via acqua: a Fusina l’introito risultava praticamente dimezzato (da L. 2.162,48 a L. 1.069,92), a Mestre diminuito di circa un quinto (da L. 3.789,36 a L. 3.047,32)(22). Paradossalmente l’unione, anche se sarebbe meglio dire la dipendenza, con Venezia sembrava meglio garantita dalle barche, i cui tempi di percorrenza si contavano in ore rispetto ai minuti del convoglio ferroviario. Il ponte — di solito veloce emblema di raccordo e unione — risucchiando passeggeri e merci su Venezia si rivelò di fatto principale elemento di separazione, se non pure di disunione, in quanto fu la premessa per il distacco definitivo da Mestre, perché ne promosse il decollo come città essenzialmente legata allo sviluppo industriale (in modo autonomo nei primi due decenni del secolo, poi sull’effetto indotto dal complesso di Porto Marghera), caratterizzandola definitivamente come città contemporanea.

Questo esito non fu subito percepito, anzi: l’aver perso la qualità secolare di testa di ponte favorì al principio il maturare, in Mestre, quasi di una rincorsa a ripetuti tentativi di integrazione se è vero che negli anni seguenti, sull’onda di quel primo ponte che valicava la laguna, si tentò in vario modo di proseguire sulla linea dell’accorciamento delle distanze con Venezia. Basti ricordare il progetto di un ponte in ferro elaborato nel 1880 da Giovanni Antonio Baffo(23), che prevedeva il collegamento tra Campalto (la testa di ponte comunemente destinata al trasporto del latte), Murano e le Fondamenta Nuove per giungere potenzialmente fino ai SS. Apostoli; l’entusiasmo con cui fu salutata l’inaugurazione, il 3 ottobre del 1891, del tram a cavalli tra punta S. Giuliano e Mestre, che in pratica dimezzava i tempi di percorrenza verso Venezia; ma soprattutto l’istanza dei sindaci dei comuni della terraferma (Mestre, Chirignago, Zelarino, Martellago, Spinea e Marcon), all’inizio del 1898, trasmessa a Filippo Grimani, corredata da numerose firme di «possidenti, professionisti, commercianti e industriali», perché fosse al più presto costruito un ponte stradale accanto a quello ferroviario(24).

E mentre tutti continuavano a guardare a Venezia, quasi a volervisi aggrappare, maturavano invece velocemente, grazie ai meccanismi autonomi dell’economia, le condizioni di un distacco più accentuato. Un’inversione di rotta il cui inizio si può individuare nel 1883, anno dell’insediamento sulle rive del canal Salso della prima grande industria, quella di oli lubrificanti dell’alsaziano Federico Matter, e dell’apertura di viale Garibaldi(25). Nello stesso anno, a Mestre, apriva significativamente i battenti un’industria di lavorazione dei derivati del petrolio, segnando l’inizio di un mutamento epocale dell’economia cittadina da agricola a industriale e, demolita una parte dei suoi Spalti, si costruiva un maestoso viale, che raccordando il centro con Carpenedo, la più grossa delle frazioni, metteva le basi per lo sviluppo urbano sull’asse sud-nord.

Fino a quel momento la città era vissuta raccolta intorno a quel poco che rimaneva del Castello medievale, al traino dell’economia veneziana, il cui ‘braccio operativo’ era costituito, da più di cinque secoli, dal canal Salso: per questo forse, più ancora della prima industria, è proprio l’apertura di quel viale, con la demolizione di un tratto degli Spalti, a segnare il suo atto di nascita («la demolizione delle mura si colloca al centro delle metamorfosi, materiali e simboliche, della città moderna e contemporanea»(26)). Il salto di qualità è indotto dalla ferrovia(27), è legato a quell’immagine emblematica dell’Ottocento veneziano di una locomotiva fumante sul ponte translagunare, che segna l’inizio dell’industrializzazione. Vinte le resistenze dei notabili mestrini che volevano la stazione ferroviaria in aderenza a piazza Barche(28), la sua costruzione in aperta campagna, un paio di chilometri a sud del centro, divenne il volano del primo sviluppo industriale e urbano. Su quegli ampi spazi poté infatti prendere forma, nel primo decennio del secolo, un nodo ferroviario primario, all’interno del quale si organizzavano corsi di fuochisti e macchinisti per i ferrovieri di tutta Italia, su cui posarono ben presto gli occhi gli alti comandi militari che, dopo aver dato il via alla costruzione del campo trincerato(29), puntavano su Mestre come ultimo centro strategico a ridosso del fronte orientale per una, ritenuta più che probabile, guerra con l’Austria, erigendovi caserme, depositi e hangars per dirigibili (e scoppiata la guerra pure i forni militari), mentre la direzione delle ferrovie avviava la costruzione di un gigantesco parco ferroviario e di un quartiere di case per ferrovieri capace di ospitare quasi mille famiglie.

Se la ferrovia spacca il territorio e influisce con un’azione centrifuga sullo sviluppo urbano spingendo la crescita dalla stazione verso il centro e oltre, provoca invece un effetto centripeto sulle industrie. La prima, quella di Matter, si era insediata sul lato destro del canal Salso ma ben presto è dall’altro lato che cresce la prima zona industriale di Mestre perché, oltre a chiatte e barconi, si può approfittare, per comodi e facili trasporti, della diramazione dei binari(30) che permettono l’arrivo dei vagoni fin sulla soglia dei depositi, mentre ai loro lati, in prossimità della stazione, vengono progressivamente occupati tutti gli spazi liberi(31).

Al di là di piazza Maggiore (intitolata nel 1900 al re assassinato Umberto I), verso nord, uno sviluppo del tutto analogo, sul piano residenziale, si riscontrava prima lungo l’appena aperto viale Garibaldi e successivamente lungo l’asse collaterale di via Ca’ Rossa e fin verso Favaro. Se si analizzano le direttrici di questa crescita emerge chiaramente come, per quanto impetuosa, essa avvenisse in maniera che si potrebbe quasi definire naturale, lungo le strade da sempre presenti sulle mappe del territorio mestrino(32). Fin dai primi documenti disponibili in proposito risulta infatti evidente una loro disposizione a raggiera che convogliava le diverse direttrici del traffico verso l’unico punto costituito dall’abitato di Mestre: «Dal borgo di Santa Maria, sul lato ovest della cinta muraria, iniziavano la strada del Terraglio, che in direzione nord giungeva a Treviso e un’altra, detta l’Imperiale o Castellana, che conduceva a ovest verso Bassano passando attraverso la podesteria di Noale e di Castelfranco. Dal borgo di San Lorenzo, a sud di Mestre, partivano altre due strade: una in direzione sud conduceva a Padova attraverso Oriago e Dolo, l’altra portava a Marghera lungo la fossa Gradeniga. Dal borgo di Campo Castello, a levante di Mestre, iniziava la strada maestra verso Campalto, detta d’Urlando o via Bisiagola, continuando verso Altino e ripercorrendo in questo tratto l’antica via romana Emilia-Altinate»(33).

Per secoli l’assetto, così di massima disegnato, era rimasto praticamente immutato e pure su questo venne a incidere in modo sostanziale la costruzione della ferrovia. I binari tagliarono quegli assi stradali creando non pochi ostacoli alla mobilità — tuttora pesantemente presenti sul territorio — in particolare nelle zone della Gazzera e della Cipressina. Ma l’effetto più considerevole si ebbe verso meridione dove vennero troncate la rettilinea via Cappuccina, la via Ca’ Dolfin (prolungamento della mestrina Bachmann), che si perdeva poco più avanti tra i campi coltivati, e la via della Giustizia che andava diagonalmente a congiungersi con la Cappuccina nei pressi della chiesetta della Rana, disegnando sul territorio un triangolo con la base costituita dai binari. La ferrovia, è risaputo, si innesta come un diaframma sul territorio: la popolazione residente in quella frazione (Bottenigo) fu allontanata dal centro molto più da quel fascio di binari che dalla lunga strada polverosa da percorrere a piedi o su carri trainati da animali(34). Fu facile così, nel 1917, individuare in tutto quel territorio, a sud della ferrovia, lo spazio da dedicare all’operazione Marghera, scorporandolo amministrativamente dal comune di Mestre, mentre proprio all’interno del triangolo delimitato dalla Cappuccina e dalla Giustizia Pietro Emilio Emmer avrebbe disegnato il piano regolatore del nuovo quartiere urbano(35). La ferrovia ebbe inoltre un effetto ancor più vasto, seppur indiretto, sulla stessa struttura complessiva delle strade del territorio mestrino. Ciò si evince anche solo confrontando due elenchi ufficiali delle strade del comune di Mestre. Nel primo (1811) firmato da Giobatta Manocchi(36), il punto focale dell’intero sistema stradale è individuato nella testata del canal Salso («l’ubicazione della comune di Mestre è la più prossima alla città di Venezia tra quelle della terraferma e vi è maggiore il concorso di strade che nel capo luogo si uniscono per la più frequentata comunicazione con detta città ch’è quella per il canale di Malghera, San Giuliano e San Secondo»); nel secondo, firmato da Pietro Moro(37) che, nel 1872 all’indomani dell’annessione del territorio al Regno d’Italia, aveva avuto l’incarico di predisporre un progetto generale di sistemazione e manutenzione delle strade, il perno viene invece individuato in piazza Maggiore, evidenziando un andamento a stella da questa verso le frazioni e i comuni limitrofi e riducendo il canal Salso semplicemente a uno di questi raggi, quello che assicurava i collegamenti con Venezia, così come il Terraglio con Treviso, la Castellana con Castelfranco, la Miranese con Mirano, la Cappuccina con Padova.

Se la ferrovia — più propriamente il ponte ferroviario — riuscì a declassare il canal Salso da unica via privilegiata per Venezia a semplice strada statale, fu l’avvento dell’automobile e il suo uso sempre più diffuso, nei primi decenni di questo secolo, a modificare di nuovo la situazione. Mestre tornò a riscoprire, velocemente, la propria funzione di testa di ponte. Vecchie locande lasciarono il posto a moderni alberghi, con ristoranti e capienti garage, nei pressi della stazione (il Trieste, il Bologna di Enrico Tura, quello dei fratelli Zordan — oggi Plaza — e i garage di Giorgio Marcon) e a piazza Barche (l’Hotel Excelsior con un ampio semicerchio di box per vetture sul retro e il garage Reale della C.I.G.A. [Compagnia Italiana Grandi Alberghi]), ai cui approdi le gondole e le più capienti «barche da Mestre» erano ormai state soppiantate da rumorosi motoscafi. Ma soprattutto conobbe anni di floridezza la punta di S. Giuliano(38). Lì dove, dal 1891, avveniva lo scambio fra tram (prima a cavalli poi elettrificato dal 1904) e vaporetto per quanti si recavano da Mestre a Venezia e viceversa, sorsero un garage privato(39) e un altro, ben più ampio, voluto direttamente dalla C.I.G.A.(40) che aveva pure approntato, sul bordo della laguna, una pensilina coperta per il servizio di ferry boats fino al Lido per permettere ai propri clienti più facoltosi di arrivare con l’autovettura fin sulle soglie dei lussuosi alberghi lungo la spiaggia.

Stagione prospera ma breve. L’apertura del ponte autostradale attraverso la laguna, il 25 aprile 1933, ebbe un effetto del tutto analogo a quello provocato dal contiguo ponte ferroviario quasi un secolo prima. Le autovetture potevano ora giungere subito a Venezia, nel cui piazzale d’arrivo si stava pure costruendo un garage propagandato come uno dei più grandi d’Europa. Si rinsecchì ogni attività a S. Giuliano dove, invano, si era sperato, sulla base dei progetti che si erano succeduti nell’arco di quasi quarant’anni(41), che lì dovesse essere costruita la prima arcata del ponte che avrebbe dovuto puntare su Cannaregio, grosso modo nella zona del Macello. E invece le banchine e le fabbriche di Marghera avevano attirato il ponte dalla propria parte per permettere un facile e diretto collegamento, via strada, per il traffico pesante, tra il nuovo porto industriale e la Stazione marittima(42). Ma ormai i camion con le merci non andavano e venivano veloci solo da Venezia, ma pure da Padova perché qualche mese dopo, il 15 ottobre 1933, sarebbe stata aperta al traffico l’autostrada(43). Emerse così subito il problema dell’attraversamento di Mestre per favorire il facile scorrimento del traffico potenzialmente diretto verso Trieste e l’Istria: «È necessario ottenere che Mestre, nodo importantissimo […] di comunicazioni tra l’Alto e il Basso Veneto, e punto di passaggio obbligato per Venezia, non costituisca un intralcio allo svolgersi del traffico di mezzi veloci lungo i grandi percorsi, e non sia a sua volta congestionata da ingorghi di traffico»(44). Nel 1912, nel pieno della prima crescita urbana, era stata disegnata via Circonvallazione(45), per collegare la Miranese con la Castellana e permettere al traffico automobilistico, in veloce espansione, di non attraversare e intasare la vicina piazza; quasi vent’anni dopo, dal grande cavalcavia che permetteva di valicare l’ampio fascio di binari nei pressi della stazione, da dove si dipartivano le diramazioni per Venezia e per Porto Marghera, per chi avesse voluto proseguire verso est, senza intasare il centro, sui campi che costeggiavano l’appena rilevabile dalle mappe via Ronchi, sarebbe stata tracciata una nuova ampia strada(46) che, oltrepassato il canal Salso(47), si sarebbe innestata sulla Ca’ Rossa, la strada che storicamente portava da Mestre verso oriente. Una nuova arteria che, parallela com’era agli assi di via Piave, di via Cattapan (ex Bachmann poi Felisati) e della Cappuccina, si inseriva nell’assetto viario esistente semplicemente allargandolo, in sintonia con la crescita di quegli anni, tant’è che quel tracciato era stato sostanzialmente disegnato da Fulgenzio Setti e Pietro Emilio Emmer fin dal 1921, prevedendo lo sviluppo della «nuova Mestre» tra la ferrovia e il canal Salso in modo del tutto speculare al quartiere urbano di Marghera, curando di preservare intatto il corso del canale fino alla sua testata e soprattutto salvaguardando l’integrità del piccolo centro storico gravitante su piazza Umberto I e la vicina piazza Barche.

Erano solo i primi segnali: le conseguenze più pesanti del ponte autostradale dovevano ancora emergere del tutto. Non tardarono però a maturare: «L’orientamento verso Venezia ha un asse logico. Tale asse è il nuovo ponte del Littorio. Il ponte, con la strada che gli fa seguito, si manifesta ora come una arteria di arrivo in terraferma che percorre per lungo tratto, tangenzialmente, da est a ovest, un territorio già sistemato, efficiente, di grande valore, quale è Porto Marghera. Dal lato opposto, fino a oggi, terreni pressoché incolti, destinati solo potenzialmente ad essere valorizzati, opere militari inutilizzabili, per le mutate fisionomie della difesa e, più a est, verso laguna, il vero squallore»(48). Il ponte omologava a sé un nuovo tracciato urbano dove le strade correvano verso Venezia proiettando verso la laguna, su terreni «squallidi», lo sviluppo futuro della città di Mestre. È singolare, e per certi versi forse anche sconcertante, come le conseguenze di questo assetto abbiano pesato negli anni seguenti, fino ad oggi, non solo nel disegno della struttura urbana ma pure nella idea stessa di città quotidianamente e difficilmente vissuta. Pur sorvolando su quel «opera militare inutilizzabile» con cui, più di sessant’anni fa, si definiva la mole ingente di Forte Marghera, quando, praticamente vuoto da anni e inserito come nucleo sostanziale nel progetto del parco di S. Giuliano, non si riesce ancora oggi a restituirlo a un consono uso civile, ad attirare l’attenzione anche di un superficiale osservatore è il disegno dei due ampi assi stradali protesi verso Venezia, tracciati quasi a far da corona al ponte: sono loro a determinare da quel momento la linea di crescita della città ruotandola, di fatto, di novanta gradi. Il primo corrisponde a via Einaudi-via S. Pio X-viale S. Marco, che sfonda sul lato meridionale il recinto del vecchio Castello, passa davanti alla torre sciogliendo la naturale continuità tra via Palazzo e l’accesso verso piazza Ferretto, entra marginalmente nel parco Ponci sanzionando di fatto l’uso speculativo di quell’area preziosa in luogo del sognato e poi tanto idealizzato parco cittadino a ridosso del centro, e dal ponte di via Colombo diventa il viale destinato al più ingente insediamento abitativo degli anni della ricostruzione, non a caso denominato viale S. Marco. L’altro asse, di più lenta realizzazione, costituito da viale Vespucci-via Fradeletto-via Giovanni da Verazzano-via Ceccherini, si sviluppa prima parallelamente a viale S. Marco e speculare (correndo lungo l’Osellino) a via Forte Marghera (che costeggia sul lato opposto il canal Salso), interrompe la continuità che stava maturando tra Mestre e Carpenedo innestandosi fra i due abitati come una vera e propria autostrada urbana, in una zona acquitrinosa tra viale Garibaldi e la Ca’ Rossa nota nel secondo dopoguerra come «campo dei mori» (perché vi rimasero accampate a lungo truppe alleate di colore), per collegarsi infine con la tangenziale tramite il sovrappasso del Terraglio, aperto solo nel 1993(49). Se il primo rimarrà, con ogni probabilità, nel tempo come un irrecuperabile sfregio alla struttura urbana del recinto del vecchio Castello, oggi ancor più distintamente riconoscibile dopo il recupero e la ristrutturazione di piazza Ferretto e della contigua via Palazzo, il secondo non poteva che finire con ciclica frequenza nelle cronache giornalistiche per vivaci e frequenti contestazioni a causa del forte inquinamento e la conseguente scarsa vivibilità dovute all’intenso traffico di attraversamento, in una zona divenuta presto centralissima, signorile e densamente abitata. Un esito ben diverso dall’apertura di viale Garibaldi all’inizio della prima crescita urbana che aveva sì sfondato a meridione il recinto del Castello ma per divenire una elegante quinta scenografica tra Mestre e Carpenedo.

Le braccia protese verso Venezia di questi due assi viari erano destinate a incontrarsi nella grande rotonda di S. Giuliano(50), alle spalle di Forte Marghera, dove il collegamento, previsto fin dal primo piano regolatore, con il ponte translagunare ai Pili da un lato e il ponte di Pietra, nella zona del porto di Cavergnago, dall’altro, permetteva il recupero di una parte del tracciato della vecchia via Orlanda, abbandonata all’inizio dell’Ottocento in coincidenza con la costruzione del Forte. Questa nuova strada, aperta nel 1955, di fatto, sarebbe stata destinata a segnare il confine dello sviluppo urbano di Mestre verso la laguna. Da essa si sarebbe poi dipartita la circonvallazione est (via Martiri della Libertà)(51), tracciato che costituiva la prima parte dell’anello di scorrimento attorno al centro abitato, consono, nella geografia urbana contemporanea, a tutte le città toccate da autostrade. Il cerchio si sarebbe infine chiuso nel 1972 con l’apertura al traffico della tangenziale: una «moderna e funzionale metropolitana a cielo aperto», com’era definita in un opuscolo pubblicato per l’occasione a cura della Società delle Autostrade di Venezia e Padova(52), la cui funzione veniva esaltata nei riguardi di una Mestre ancora una volta presentata grossolanamente al cospetto di una Venezia solare, punto di riferimento e sogno esclusivo di ogni turista:

I sei chilometri e duecento metri del suo percorso interno si svolgono lungo una zona fra le più fittamente urbane e metropolitane del nostro paese qual è il territorio del comune di Venezia (il cosidetto ‘retroterra’ veneziano) intersecando alcune battutissime strade della stessa Mestre e quasi costantemente sfiorando, per lunghi tratti, popolosi rioni ed agglomerati industriali il cui traffico stradale (data anche l’infelice conformazione di Mestre, questo paesotto di nemmeno ventimila anime una cinquantina d’anni fa e fragorosa città di 210 mila abitanti in continua espansione oggidì, attraversata in lungo e in largo da linee ferroviarie) presenta difficoltà addirittura da capogiro. A ciò si aggiunga che la tangenziale in questione costituirà una specie di cordone ombelicale tra le tre zone industriali e il porto di Marghera (un comprensorio che dà lavoro a non meno di sessantamila persone) e le isole produttive le quali — in funzione appunto di Marghera e del suo scalo marittimo — sono sorte e fioriscono, sia in provincia di Venezia che in quelle di Treviso e Padova, lungo un semicerchio avente per centro Mestre, nonché un corridoio di facile percorribilità per il movimento turistico diretto a Venezia, caput mundi dopo l’Urbe grazie alla sua unicità e alla sua perenne attrazione ad onta di tutto ciò che […] si va dicendo sul conto della sua malferma salute.

C’era forse una vena d’ironica soddisfazione in quel definire la tangenziale una metropolitana a cielo aperto perché, da quando era sorta Marghera e Mestre aveva preso velocemente le forme di una città, più e più volte si era parlato della realizzazione di una metropolitana che le collegasse con Venezia e l’estuario, favorendo in primo luogo gli spostamenti, in particolare per le varie categorie di lavoratori pendolari. Non si può non convenire che poteva inoltre essere un mezzo efficace per consolidare la residenza all’interno del bacino lagunare e sollevare un po’ Mestre dall’incomoda posizione di unica testa di ponte. In forma organica il primo progetto era stato presentato all’Ateneo Veneto il 17 gennaio 1925. Ideato dall’ingegnere veneziano Antonio Salvadori(53) con il supporto tecnico di Achille Bassetti, capo dell’Ufficio tecnico per la metropolitana di Milano, prevedeva «una ferrovia sotterranea da Marghera al Lido per togliere quell’assurda condizione per cui occorre meno tempo per andare dalla Francia in Inghilterra attraverso la Manica di quello che s’impiega dagli Scalzi al Lido in vaporino»(54). La proposta sortì solo l’effetto di lunghe e quotidiane polemiche sul «Gazzettino». Con la costruzione del ponte l’argomento non poté non rientrare nel raggio d’azione dell’onnipresente ingegner Miozzi che si sbizzarrì nell’ipotizzare prima un anello stradale attorno a Venezia da piazzale Roma alle Fondamenta Nuove per raggiungere poi Treporti e il Lido (1935)(55), quindi, sullo stesso tracciato, un’autostrada galleggiante (1952)(56), una «metropolitana sublagunare» (1953)(57) (autostrada subacquea tra il Tronchetto e l’Arsenale lungo le Fondamenta Nuove, poi, verso le isole e l’estuario, su pontili galleggianti e terrapieni), per finire con una semplice «autostrada sublagunare» (1969)(58). Nel maggio del 1969, nel corso della presentazione al lettore dell’opuscolo che propagandava questa sua ultima ipotesi, Miozzi stesso precisava — e non poteva che venire dal padre del ponte automobilistico — di propugnarla a spada tratta «per contrapporla alla metropolitana la quale, nonostante i gravissimi danni che porterebbe all’economia della città e i sicuri dissesti statici che provocherebbe sta accogliendo i consensi di molte personalità». Il progetto cui Miozzi alludeva era quello elaborato e propagandato dal Comitato di iniziativa per la metropolitana veneta, costituito il 10 giugno 1967, di cui era presidente il senatore friulano Giusto Tolloy(59). Non furono però sufficienti, per passare alla fase realizzativa, né il sostegno di Tolloy, divenuto nel frattempo ministro dei Trasporti, né i consensi illustri, tra cui quello dello stesso presidente di Italia Nostra Giorgio Bassani, espresso nel corso del terzo congresso dell’associazione nel novembre del 1971(60). L’ultimo studio di fattibilità di una metropolitana nell’area comunale è dovuto alla Zollet Ingegneria S.p.A., incaricata di uno studio preliminare, nel marzo 1992, dalla giunta veneziana guidata da Ugo Bergamo(61). Gli studi e i progetti si accavallano e Mestre è sempre là con la sua storica funzione di testa di ponte che, ciclicamente debilitata dai due ponti e definitivamente rinvigorita dall’esplosione del turismo di massa, costituisce ormai una fonte non indifferente per la stessa economia cittadina grazie ai numerosi alberghi che nel frattempo sono sorti lungo la cintura compresa tra Fusina e Tessera(62).

La storia novecentesca di una città cresciuta sull’abbrivio degli insediamenti industriali e pesantemente condizionata dall’incentivazione del traffico motorizzato in funzione del collegamento con Venezia, rischiò di chiudersi con il passaggio da «testa di ponte» a «posto di osservazione» di Venezia. Nell’ambito del progetto per una Expo internazionale(63) prevista per il 1997 sul tema «Le nuove frontiere della mente», Renzo Piano, preoccupato per la fragilità della città (si prevedevano punte di 180.000 presenze al giorno quando si pensava la città potesse accoglierne dignitosamente 22.000) lanciò la provocazione di fermare una quota consistente di turisti, sempre più videocamera dipendenti, sul bordo della laguna per rimirare da lontano, fra nebbie e brume, il profilo di case, campanili e cupole: «Questa deve essere l’occasione per restituire a Venezia la sua inviolabilità di isola: anzi, se non si fa l’Expo, comunque qualcosa bisogna fare per risolvere il problema della inviolabilità di Venezia. Io continuo a pensare a Venezia come oggetto del desiderio talvolta impossibile. Secondo me l’ipotesi che un certo numero di persone arriva a Venezia, vede Venezia al di là della barriera della laguna e non la invade, non è improponibile»(64). Sarebbe stata per Mestre, al volgere del secolo, una vera e propria sublimazione.

Una città di case

Quelle stesse mappe che, debitamente raffrontate, evidenziano prima lo storico andamento a stella delle vie di comunicazione verso piazza Maggiore e piazza Barche e quindi un prolungamento verso Venezia quasi a volerla raggiungere e inglobare nella rete stradale, mettono pure in risalto come Mestre fosse storicamente al centro, geografico e amministrativo, di alcuni comuni minori che a essa facevano sostanziale riferimento per le funzioni vitali. Marocco, Carpenedo, Bissuola, Bottenigo, Gazzera con Brendole e Perlan erano le frazioni più rilevanti ma con loro anche i comuni di Chirignago, Zelarino(65), Favaro con Dese, Campalto e Tessera fino a quelli ancora oggi esistenti nella cintura come Mirano, Martellago, Spinea e Marcon gravitavano comunque su Mestre(66). Gli assi stradali più importanti risultano punteggiati di case e lì dove la presenza si infittisce compare, perfetto archetipo della campagna veneta, la chiesa lungo la strada: è così a Chirignago, Zelarino, Carpenedo, Favaro, Tessera, Campalto. Lo era sostanzialmente anche a Mestre dove il duomo di S. Lorenzo, con la facciata fuori asse rispetto alla linea dei portici del lato orientale della piazza, sembrava più sorgere sul lato di una vecchia strada dimenticata che sulla stessa piazza che, oltre tutto, agli occhi di un visitatore disincantato, risultava comunque una semplice strada allargata per esigenze di mercato. Su questa fitta rete si innestò il ciclone della crescita urbana indotta dallo sviluppo industriale. Già all’inizio del secolo appena trascorso si potevano fare i primi calcoli precisi: le statistiche sulla popolazione residente nel comune di Mestre (il centro con le frazioni di Marocco, Carpenedo, Bissuola, Brendole e Bottenigo) rilevate durante tutto l’Ottocento in occasione di vari censimenti e — dopo l’annessione al Regno d’Italia — confermate pure da rilevazioni riassuntive annuali, testimoniavano una sostanziale stabilità nella prima metà del secolo (6.434 abitanti nel 1811, addirittura 6.235 nel 1835, 8.735 nel 1861), una crescita costante e progressiva ma decisamente lineare nei decenni successivi (9.463 nel 1871, 10.474 nel 1881, 10.566 nel 1891, 11.944 nel 1901), per subire un’impennata sostenutissima («Il Gazzettino» l’avrebbe definita, un po’ enfaticamente, la più alta di tutto il Regno, quasi il 50% del valore) nel primo decennio del Novecento raggiungendo i 17.507 abitanti nel 1911. In particolare poi la «popolazione agglomerata» (quella che risiedeva nel centro urbano) sarebbe salita dagli 8.288 abitanti del censimento del 1911 ai 12.565 del 31 dicembre 1916. Era il preciso riscontro dello sviluppo conseguente alla prima industrializzazione legata, in prima istanza, agli insediamenti ferroviari e militari. La crescita si concentrava nei dintorni del centro (riviera XX Settembre, via Filzi e via Sauro)(67) e lungo l’asse di viale Garibaldi con la costruzione di villette per la piccola e media borghesia ma, in modo del tutto particolare, nei pressi della stazione dove alle casette che si allineavano ai lati della storica via Bachmann (ora via Felisati), si aggiunse presto il quartiere delle case dei ferrovieri dando vita quasi a una piccola cittadella con piazzetta, bar e cinema-teatro che occupava la prima parte di quello spazio vuoto che separava la stazione stessa dal centro, dove pure su strade appena segnate, e ancora senza nome, cominciarono presto a sorgere villette tutte eguali e piccoli condomini, premessa per l’urbanizzazione dell’immediato primo dopoguerra lungo l’asse della costruenda via Piave(68) e delle strade collaterali, subito battezzate con i nomi della vittoriosa guerra sull’Austria (Montello, Bainsizza, Sernaglia, Premuda, Podgora, Fagarè, Ortigara, Col di Lana, Monte Cengio, Monte Nero, Monte S. Michele, Monte Sabotino, Monte Piana…).

Ma mentre la città cresceva per una spinta endogena, stavano maturando velocemente per esplodere nel secondo dopoguerra, al di là della laguna, le condizioni per un ‘esodo’ ancora interminabile e, sembra, senza ritorno, le cui cifre sono ormai notissime(69), formano materia di analisi sociologiche e occupano costantemente uno dei primi posti nei programmi di ogni forza politica. Visto dal di fuori ha i contorni di una inevitabile fatalità se è vero che intravedendo con lungimiranza il trend di uno sviluppo che avrebbe sempre più privilegiato, in Venezia, lo sfruttamento a fini turistici, o comunque per insediamenti di servizi, degli immobili risanati e l’espulsione, in prima istanza, dei ceti popolari, l’avrebbe tratteggiato, a chiare linee, Piero Foscari fin dal 1911: «Le opere di risanamento di Venezia riescono soltanto ad agglomerare la popolazione nelle altre zone cittadine poiché quelle risanate si adibiscono soltanto ad alberghi, a pensioni, a uffici ecc. come avvenne in tutta la zona che va da San Luca a San Marco per calle Goldoni. E non siamo che alle prime manifestazioni del fenomeno di una sovrappopolazione temporanea di forestieri, i quali saranno sempre attratti a Venezia col migliorarsi delle vie di comunicazione, col sempre maggior bisogno di viaggiare e col crescente fascino che esercita la bellezza e la calma di Venezia nella turbinosa vita moderna… Bisogna spostare il porto per dare uno sfogo alla popolazione. Col porto emigrerà la mano d’opera relativa, emigreranno le industrie e saranno allora gli industriali che costruiranno le relative case operaie»(70).

E se questa era, espressa in modo inequivocabile, l’opzione politica, quella imprenditoriale era altrettanto chiara: «Per ovviare a che le strade nostre [di Venezia] siano deturpate da tutte queste nuove costruzioni economiche [erano gli anni in cui si costruivano interi quartieri di case ‘sane ed economiche’ a Castello, S. Rocco, Cannaregio], che sono tutte brutte e non possono non esserlo per indeclinabili condizioni, miglior partito sarebbe di conservar la città com’è ancora e come ancora si ammira da tutto il mondo e, prevedendo la sua futura espansione assai più forte dell’attuale, cominciar subito ad obbligarla ad estendersi nelle vicinanze più immediate che i moderni mezzi di comunicazione possono render assai vicine, come succede nelle altre grandi città, ed ivi costruire questa aggiunta alla Venezia antica, in maggior spazio e maggior luce e comodità degli edifici nuovi la cui ineleganza e modernità ivi non stonerebbero con l’arte dei nostri maggiori»(71). Forse l’ingegnere Fantino Bon, cui si deve la chiara previsione di questa linea di tendenza (15 marzo 1909), non pensava solo alla terraferma mestrina come luogo naturale della nuova espansione edilizia veneziana. Vi pensava invece sicuramente Filippo Grimani che avrebbe individuato, in quello stesso 1909, le linee di sviluppo del porto industriale con annesso quartiere urbano da costruire nella frazione di Bottenigo del comune di Mestre, previa annessione di quel territorio al comune di Venezia(72).

Da allora, per un paio di decenni, il quartiere urbano di Marghera divenne il Leitmotiv della politica della casa degli amministratori veneziani(73), messi fin dall’inizio in difficoltà da una profetica osservazione del sindaco di Mestre Carlo Allegri(74) sulla impossibilità di decidere a tavolino la residenza degli operai, ma ben presto sbugiardati pure dalla realtà ché le prime case, nella tanto decantata «città giardino», furono costruite da privati che intravedevano la semplice possibilità di arricchimento per soddisfare le necessità dei numerosi pendolari che alle fabbriche si recavano per lo più in bicicletta(75) (osterie e trattorie, il panettiere, il macellaio, il rivenditore di vino, latte, legna e carbone, utensili vari…), cui seguirono tecnici (in particolare delle ferrovie) e impiegati che potevano permettersi il pagamento di un mutuo o di un congruo affitto, e solo a cominciare dagli anni Trenta cominciarono a insediarsi, in primo luogo nella zona di via Calvi (nei pressi del piazzale dell’autostrada), operai e poveracci espulsi da Venezia in «case economiche», che tradivano ormai palesemente l’originaria filosofia del quartiere(76). Il ciclo si sarebbe emblematicamente chiuso — ormai a ridosso della guerra — con la costruzione dei tre villaggi di «case ultraeconomiche» (da tutti denominate semplicemente baracche) di Ca’ Emiliani, Ca’ Sabbioni, Ca’ Brentelle, presentati come un salutare ritorno alla terra e un rimedio sociale alla pericolosa coabitazione in affollati condomini(77), la cui troppo lunga presenza sul territorio sarebbe stata cancellata solo da una provvidenziale alluvione ai primi di marzo del 1974(78). Grazie al nuovo quartiere, Marghera (più precisamente la frazione di Bottenigo) era passata dagli 869 abitanti del 1917 (anno dell’annessione a Venezia) a 1.200 nel 1924, 5.376 nel 1927 e ai 10.952 del 1938, ma ciò che più colpisce è la percentuale di poveri che sale da circa un decimo della popolazione residente nel 1932 (739 su 6.173) a quasi un terzo nel 1938 (3.373 su 10.952)(79).

Al di là della ferrovia, a Mestre, la crescita avveniva con ritmi analoghi: 22.120 abitanti nel 1921, 53.937 nel 1931, 65.658 nel 1936(80). Mentre nell’area centrale, principalmente nella zona tra via Piave e la Giustizia, a Carpenedo tra viale Garibaldi e la Ca’ Rossa, all’inizio di via Bissuola, per commercianti, tecnici e professionisti continuavano a sorgere semplici villette, spesso lungo stretti tracciati stradali intersecantisi tra loro, e nell’immediata campagna circostante le «casette operaie» cominciavano ad affiancarsi a case coloniche con stalla, concimaia e latrina esterna (è in particolare in questo periodo che vengono riadattati a casa d’abitazione i caratteristici casoni col tetto di paglia, che veniva sostituito con il più confortevole «tetto a coppi»)(81), gli occhi degli speculatori cominciarono a cadere sull’appena disegnato nuovo asse di viale Principe di Piemonte e, usando le parole di Miozzi, sull’adiacente «vasta plaga ora adibita quasi esclusivamente a usi agricoli»(82). Se si eccettua la zona adiacente alla galleria e al Teatro Toniolo e qualche villetta nelle zone più centrali, la Mestre di quegli anni stava crescendo secondo le linee di una disarmante semplicità stilistica, ben rappresentata dalle casette che uscivano dalla penna del geometra Bruto Baso, che avevano fatto sbottare persino Emmer («per la eccessiva semplicità sono più adatte per costruzioni rurali e non per costruzioni cittadine»)(83). Quando arrivarono le prime richieste per disseminare anche il futuro corso del Popolo, e le sue ipotizzate laterali, di casette analoghe, fu Miozzi stesso a perorare per Mestre un futuro di città moderna: «Le domande avanzate dai richiedenti si riferiscono unicamente a piccoli edifici, a casette da villaggio di modeste dimensioni e di più modesta struttura. Concedere queste esecuzioni significherebbe pregiudicare sin dall’inizio la zona migliore di Mestre: il Comune, con le provvidenze governative, ha speso tesori per avviare Mestre sulla sagoma di una città, ha costruito strade larghissime, fognature, mezzi celeri di trasporto; altre strade sono in corso di esecuzione, sulla testata del canal Salso verrà aperta una nuova piazza con giardini. Tutta questa struttura attende edifici appropriati che valorizzino le spese fatte: di fronte a questi sforzi che il Governo Nazionale ed il Comune fanno per una degna risoluzione del problema civico, è possibile far naufragare tutto il lavoro fatto e pregiudicare l’avvenire, costruendo case da suburbio?»(84). Al di là dell’inevitabile epinicio pro regime sentiva la costruzione della «nuova Mestre» come una propria creatura (e del suo primo collaboratore Antonio Rosso)(85) e si può anche dire che vinse la battaglia se è vero che lungo la nuova arteria sorsero, in quegli anni, solo alcune dignitose costruzioni (il ginnasio liceo «Franchetti»(86), il palazzone in cemento all’angolo con via Tasso conosciuto dai mestrini come il «palazzo di Mantelli» e il cinema-teatro Principe, poi ribattezzato semplicemente Corso)(87), prodromi della moderna arteria che si sarebbe formata nei decenni successivi.

Dopo la guerra, alle prese con la ricostruzione(88), la città non trovò alcun difensore, seppur interessato e occasionale. Prima la necessità di offrire comunque una casa ai numerosi sfollati per i bombardamenti e ai profughi istriani e dalmati che occupavano per lo più gli edifici scolastici, poi l’incapacità di redigere e far rispettare delle norme(89), aprirono il varco, come spesso altrove in Italia in quegli anni, alla costruzione incontrollata, senza fine. L’avrebbe denunciato, in un convegno alla fine del 1955, Duilio Torres che con l’ingegnere mestrino Pietro Fontanin aveva elaborato, nel 1946, il piano di ricostruzione di Mestre che oltre al ripristino delle zone sinistrate dell’abitato prevedeva «lo sviluppo fiancheggiante il Canal Salso, da sfruttare intensivamente»(90). Il piano, redatto nel 1948, sarebbe stato approvato con molte limitazioni nel 1950 e Torres annotava con rammarico: «Le costruzioni sorgono fra un continuo cambiare e ricambiare di tracciati e di disposizioni, ispirate al vecchio piano Rosso mai approvato, al piano di ricostruzione scaduto, indirizzate non si sa a quale organicità di espansione. I regolamenti edilizi e di igiene sono ancora quelli del 1930, con nessuna correlazione con lo sviluppo di un esistente coordinato piano. Come può essere possibile così continuare senza compromettere, sempre di più, lo sviluppo generale?»(91).

Parallelamente alla costruzione di alloggi da parte di enti pubblici(92), in massima parte proiettati verso la gronda lagunare, mentre le case coloniche slittavano sempre più in una periferia contadina destinata presto a sparire, sui terreni fino a poco tempo prima coltivati a frumento o mais sorsero interi quartieri di casette, edizione riveduta e un po’ corretta, da qualche altro geometra, di quelle di Baso, spesso costruite dagli stessi futuri abitanti con materiale ricavato da demolizioni (ai lati delle vie Vallon, Pasqualigo, Miranese e Castellana, alla Gazzera, alle Catene, a Favaro, a Zelarino) con i quali si sarebbe chiuso il processo di assimilazione e omogeneizzazione a Mestre dei piccoli centri limitrofi, iniziato qualche decennio prima. Persino le chiese — unico ‘servizio’, con gli annessi patronati, a stare un po’ al passo con l’esplosione demografica e urbanistica — si adattarono, sorgendo, prima in prefabbricati o locali di fortuna, poi nella classica forma tradizionale, non lungo assi stradali rilevanti come un tempo o su nuove, spaziose, piazze ma spesso ai bordi di piccole, insignificanti traverse(93). Contemporaneamente, nell’area centrale, nelle stesse due storiche piazze e strade adiacenti, la struttura urbana di case, strade, fiumi e parchi che costituivano la sedimentazione del passato di Mestre cedeva il posto ad asfalto e condomini non sempre dignitosi, che avrebbero disgustato anche il modernista Miozzi(94). A Carpenedo, poco discosto dalla piazza, sulla strada che porta a Favaro, c’era lo stabilimento della Zampironi. Vi si producevano delle piccole piramidi di polvere grigiastra che, accese, bruciavano lentamente emettendo un fumo che allontanava le zanzare, numerosissime e voraci, nella zona, durante la stagione estiva. La carta intestata della ditta, assai elegante, riportava uno scorcio della laguna con gondola, in lontananza il profilo del campanile di S. Marco e la scritta «Ditta Zampironi-Mestre, presso Venezia».

Mestre aveva bisogno di Venezia per la propria riconoscibilità e ciò si trasfuse in un generalizzato poco rispetto delle tracce, anche se labili, dell’opera dell’uomo e del paesaggio sia agreste che urbano. Una connotazione che veniva colta e rimarcata anche dall’esterno: all’inizio degli anni Settanta il capocantiere dell’impresa romana che per conto di una società immobiliare della capitale stava costruendo un quartiere a Marghera, sull’area dove si era insediato, alla fine dell’Ottocento, lo stabilimento chimico del vicentino Alessandro Cita, poi distrutto dai bombardamenti, usava ripetere: «Qui costruiremo i Parioli di Mestre»(95). Non era comunque solo il desiderio di avere una città con qualche piazza e fontana, con strade contornate da portici o marciapiedi (un architetto bolognese, residente a Mestre, nel quartiere costruito dagli anni Sessanta tra via Ca’ Rossa e via Bissuola raccontava di uno strano malessere che lo coglieva al mattino uscendo di casa, quasi un senso di soffocamento, poi un giorno l’illuminazione: «Ma qui mancano i marciapiedi!»), di poter disporre di parchi e giardini: col tempo è stata soprattutto la mancanza dei servizi più elementari ad alimentare, e consolidare, la nomea di Mestre «non città».

«Riqualificare la Venezia di terraferma bloccando la speculazione edilizia e sanando il pauroso gap negli standards dei servizi pubblici», doveva essere questo, secondo Paolo Cacciari (prima assessore poi vicesindaco), nei riguardi di Mestre il fulcro della politica della sinistra, che nel 1975 aveva conquistato il Comune. Obiettivo in massima parte disatteso se è vero che nell’85, quando l’accordo tra socialisti e democristiani avrebbe rovesciato le alleanze, quei dieci anni di governo sarebbero stati salutati come «un’esperienza che non induce a molta nostalgia»(96). Sul piano dei servizi bastino esempi macroscopici: il museo cittadino, la stazione ferroviaria, l’ospedale, lo stadio.

Di un museo cittadino si comincia concretamente a parlare nel secondo dopoguerra (nessuna traccia di iniziative in questa direzione è stata rinvenuta nel fondo dell’Archivio Municipale di Mestre, se non quella di un improbabile «Museo scolastico» all’inizio del secolo)(97). Nel fervore dei primi anni seguiti alla Liberazione l’ipotesi di un museo si intreccia con quella di una «casa della cultura» propugnata da Serafino Riva, cui si era subito affiancato Giuseppe Urbani de Gheltof, e che aveva l’appoggio di alcuni notabili mestrini e artisti (Alberto Viani, Francesco Modena, Gigi Candiani, Vittorio Felisati, Bepi Pavan)(98). In un primo tempo si era fatta pressione sull’amministrazione comunale perché ottenesse dai militari l’ex convento delle Grazie, dismesso come distretto militare(99), poi si puntò su una nuova costruzione in piazzale Sicilia che non superò lo scoglio del consiglio comunale(100), infine il sogno sembrò realizzarsi quando il Comune acquistò dalla Fondazione Querini Stampalia villa Querini (all’angolo tra via Verdi e via Circonvallazione)(101), facendo intravedere allo speranzoso Riva la possibilità di un travaso di benefici culturali da Venezia a Mestre («non occorre considerare Mestre e la terraferma come la Beozia perché essendo parte integrante della città di Venezia ha diritto ai benefici della città di Venezia ed ai benefici che il munifico testatore ha lasciato al Comune di Venezia»). E invece qualcuno pensò proprio che Mestre fosse la Beozia ché all’interno della villa finirono (e vi sono tuttora) uffici comunali. Il solo Urbani non si arrese(102). Continuò a raccogliere materiali e promesse. Il suo testimone venne raccolto dal Centro Studi Storici di Mestre, mentre i reperti continuavano a languire in qualche deposito comunale e gli studenti del corso sperimentale dell’istituto per geometri «Massari» potevano esercitarsi tornando a individuare come sede privilegiata per l’ipotetico museo l’ex distretto militare, ch’era stato nel mirino di Riva trent’anni prima(103). Negli ultimi tempi il dibattito si è maggiormente articolato: al Centro Studi Storici che continua a privilegiare l’ipotesi di un museo ‘tradizionale’ che ripercorra le tappe della formazione della città dalla preistoria, si sono affiancate altre associazioni (storiAmestre e Terra Antica) che spostano l’attenzione in primis sulla storia del Novecento, che è l’humus in cui è cresciuta la Mestre attuale, optando per più sedi, diffuse sul territorio, che possano essere quasi il museo di se stesse e aprire spazi e prospettive di conoscenza dall’interno della loro stessa realtà (i forti del campo trincerato per l’importanza di Mestre come nodo strategico militare, una fabbrica di Marghera per la storia del lavoro, una «casetta operaia» del dopoguerra, una casa colonica per la cultura contadina, una villa signorile lungo uno degli assi stradali più rilevanti…). I sogni continuano a infrangersi contro l’amministrazione comunale che si limita a nominare commissioni (le ultime due in concomitanza con le elezioni) e contro quella militare che, come non ha ceduto (e non cede) per usi civili l’ex distretto, sta lesinando pure la cessione dei forti del campo trincerato dopo che, a cura del volontariato e di una cooperativa, sono stati ripuliti e posti talora a disposizione della cittadinanza per occasioni di svago e tempo libero.

La stazione ferroviaria, ovviamente rimaneggiata, è ancora quella di metà Ottocento. Un progetto dignitoso con un nuovo fabbricato viaggiatori e un’ampia piazza rettangolare dinanzi, che raccogliesse le direttrici del traffico di via Piave, via Dante e della Cappuccina, fu predisposto da Virgilio Vallot il 18 marzo 1943(104). Inserito nel piano di ricostruzione nel ’48, fu bloccato dal Ministero dei Lavori pubblici perché, «in quanto opera di piano regolatore, non poteva trovar posto nel piano di ricostruzione»(105). La stazione è sempre lì, cambia solo aspetto, e lo spazio destinato alla piazza è oggi per lo più disadorno, occupato da vetuste casette, garage e parcheggi.

L’ospedale è tuttora operante nello spazio in cui fu eretto il primo padiglione nel 1906, quando la città aveva poco più di 10.000 abitanti. Vari altri padiglioni vennero ad aggiungersi negli anni sulla stessa area (l’ultimo è tuttora in costruzione) che presto è divenuta centralissima e la cui strada di accesso (via Circonvallazione) ha il triste primato di essere fra le più inquinate dai gas di scarico degli autoveicoli. Un primo tentativo di ‘esportarlo’ nella verde periferia fallì nel 1925(106); trovò sempre posto nei progetti e nei piani più diversi che videro periodicamente la luce; sembrò sul punto di concretizzarsi dopo che, nel 1972, il Comune acquistò, per conto dell’amministrazione ospedaliera, un’ampia area verde, residuo e ultima testimonianza del bosco di Carpenedo(107) e poco dopo venne pure redatto un progetto di massima(108); si dissolse nuovamente nel 1988, di fronte alla testardaggine degli ambientalisti che non ritenevano possibile una sua convivenza con quel poco che rimaneva del bosco; fu dirottato in una zona non molto lontana, verso Zelarino, dove ancora svaniscono le disincantate speranze di semplici cittadini.

Lo stadio di Mestre, intitolato a Francesco Baracca, occupa ancora oggi, in un’area densamente abitata e senza alcun parcheggio, tutto lo spazio trasversale fra due strade che raccordano viale Garibaldi con via Ca’ Rossa. Fu costruito nel 1923(109), contestualmente alle molte casette che stavano sorgendo in quella zona (lungo le strade intitolate agli eroi della prima guerra Oberdan, Baracca e Toti) e ospitò, fin dall’inizio, anche una pista dove si svolgevano gare ciclistiche. Dal secondo dopoguerra la speranza di poter disporre di uno stadio moderno e funzionale venne progressivamente condivisa con i veneziani, ai quali risultava sempre più stretto e inadatto il vecchio Penzo a S. Elena(110). Forse più ancora dell’ospedale, lo stadio suscita la disincantata ilarità dei mestrini, tanto che lo si è pure sardonicamente definito «stadio con le rotelle»: da quando nel 1954 venne elaborato il primo progetto di stadio olimpionico ai Pili(111), prima a ridosso, poi addirittura all’interno di Forte Marghera(112), si è infatti progressivamente spostato nei ‘ghebi’ della vicina gronda lagunare, lungo via Orlanda verso Campalto fino a giungere, oggi, a Tessera, a ridosso dell’aeroporto Marco Polo, dove forse verrà realizzato nello scorcio di questo terzo millennio.

3. La difficile costruzione di un’identità, la vana ricerca di un mito

«Mestre è città controversa, amata, denigrata e unica nella sua straordinaria condizione anfibia tra campagna e laguna»(113). Così in un’intervista il prosindaco Gaetano Zorzetto (1940-1995), qualche mese prima di morire. L’amore per Mestre, specie dopo la consapevolezza della morte imminente, lo aveva portato a stravedere per la sua città dipingendola forse più come l’avrebbe voluta che com’era realmente. Ma l’intuizione, a lui tanto cara, della città «anfibia» non può che essere pienamente condivisa.

È del resto, si potrebbe ben dire, l’ultimo stadio evolutivo della storia di Mestre: la città «testa di ponte», dei quartieri e delle strade che si protendono verso Venezia, la città del porto industriale e oggi commerciale ai bordi della laguna, non può che immaginarsi un futuro ecocompatibile sempre verso quella gronda dove «solo Mestre, fra le città del mondo che possono costruire i più bei parchi urbani, può realizzarne uno in faccia a Venezia». E così l’idea di un grande parco (ultimo e più prezioso anello del «bosco di Mestre, 1.350 ettari, collocati lungo il Dese, tra il Terraglio e la laguna, due milioni di alberi, la più grande opera di forestazione mai realizzata in Europa nel secolo»)(114) che faccia da connessione, elemento di unione, lì dove non sono riusciti i ponti, il porto e l’industria, rimane il retaggio del XX secolo(115). Retaggio difficile se è vero che i primi lavori avviati sulla base del progetto vincitore del concorso (studio Comunitas di Boston, architetto Antonio Di Mambro) sono stati interrotti per la mancanza di appropriate misure di disinquinamento del territorio (aveva affermato lo stesso Zorzetto nella presentazione del progetto Di Mambro: «Gli industriali di Marghera da anni scaricavano a San Giuliano i rifiuti tossici che non riuscivano a piazzare altrove»)(116). La città di case, che negli anni Settanta registrava la percentuale di verde pubblico più bassa d’Europa, sembra potersi prendere qualche rivincita. Se è vero che la speculazione edilizia ha fatto sparire i due parchi cittadini preconizzati da Rosso a ridosso del centro (il parco di villa Erizzo-Bianchini(117) e quello dei Ponci(118)), un deciso segnale di cambiamento si era già intravisto con la realizzazione del parco della Bissuola(119). Questo parco era uno degli anelli portanti del «Progetto Mestre» così come era stato delineato nel piano programma della prima giunta di sinistra guidata da Mario Rigo (1975-1980). Era il tentativo di costruire un’identità per una città che era cresciuta come periferia («perché si parli di una città di Mestre volto intrinseco della città di Venezia e non più dormitorio»). Il suo centro veniva ovviamente individuato in piazza Ferretto. Su di essa già la precedente amministrazione comunale guidata da Giorgio Longo, nel 1973, aveva adottato un piano particolareggiato «sia perché piazza Ferretto è rimasta l’ultima testimonianza delle preesistenze storico-ambientali della vecchia municipalità di Mestre e inoltre è il vero unico cuore della città quale centro di attività sociali, economiche e religiose, sia perché la rivuole oggi proporre come la cerniera fondamentale della nuova struttura urbana il cui asse di sviluppo ha andamento da est a ovest»(120). Si rimaneva perciò sempre dentro al teorema dell’orientamento verso Venezia. Non più ponti e larghe strade con abitazioni popolari ma un asse cultural-ambientale che aveva come perno la piazza e si snodava verso la laguna con un sistema di parchi, verso la parte opposta con luoghi destinati alla cultura, al divertimento e allo sport.

Quel piano veniva trasfuso nel «Progetto Mestre» con questa manifestazione d’intenti decisamente ambiziosa: «Punto centrale della visione cui si ispira il progetto Mestre e terraferma veneziana è quello di rendere il territorio capace di esprimere consapevolmente una domanda culturale di tipo nuovo e di appoggiarla a un sistema di strutture in grado di soddisfarla. Si tratta di individuare progetti culturali che appoggiati a determinate realtà locali (circoli culturali di base, consigli di quartiere, centri civici, biblioteche comunali, forze dell’associazionismo democratico, spazi del sindacato ecc.) si colleghino nell’area mestrina, stimolando e coordinando le potenzialità delle istituzioni (ad esempio quelle attive nel Centro Storico: dal Teatro la Fenice alla Biennale, dai Musei Civici alle singole iniziative promozionali) e di tutte le multiformi manifestazioni della vita culturale, associata e individuale, oggi in una fase di interessante fermento e che conoscono risvolti dalle contraddittorie valenze, sia politiche che culturali»(121). Di questo grande progetto di coordinamento di iniziative e di trasfusione di linfa culturale da Venezia, il nuovo ‘cuore’ doveva essere il Centro dei Servizi Culturali, che doveva sorgere in una vasta area centrale (ora piazzale Gigi Candiani), a occidente di piazza Ferretto, a ridosso dell’ospedale. La sua progettazione fu affidata, sul finire del 1977, agli architetti Iginio Cappai e Piero Mainardis(122). Nel 1982, acquistato il terreno, per la sua realizzazione veniva prevista una spesa di 8 miliardi e mezzo ripartita nel triennio 1983-1985 e si invitava a «iniziare subito un dibattito pubblico sull’uso del centro affinché la sua destinazione sia prefigurata e costruita collettivamente, in modo che la struttura, una volta completata, corrisponda effettivamente alle caratteristiche progettuali»(123). Illusioni, utopie: con una spesa quasi quintuplicata il Centro è stato presentato al pubblico, alla fine del 1999, senza la sala teatrale (anche perché nel frattempo l’amministrazione comunale aveva provveduto ad acquistare il vicino Teatro Toniolo), desolantemente vuoto, dopo aver rischiato di far la fine di villa Querini, ché per un po’ si parlò di adibirlo a sede di uffici comunali. La megalomania (più di qualcuno aveva parlato di un Beaubourg mestrino) non ha pagato: l’avevano ben capito Gaetano Zorzetto e i suoi amici repubblicani che su quel progetto avevano votato contro, ripescando dalle nebbie della memoria l’opportunità di acquisire come centro culturale l’ex distretto di via Poerio per «recuperare il patrimonio esistente da restituire al corretto uso».

Se il Centro di piazzale Gigi Candiani è continuo oggetto di salaci critiche, quanto l’ospedale e lo stadio, accanto al parco della Bissuola, con i suoi impianti sportivi e il centro civico(124), un risultato notevole è stato raggiunto grazie al recupero della piazza, come centro ideale della città. Alcuni rilevanti elementi di novità — tuttora purtroppo irrisolti — si riscontravano già nel piano del 1973: in particolare la valorizzazione dei due accessi con la ‘liberazione’ da un lato della torre dell’orologio grazie alla demolizione del negozio di abbigliamento che le sta addossato e potenzialmente della scuola «De Amicis», e dall’altro dell’antica Scuola dei Battuti con la demolizione dell’edificio sede allora della Banca Cattolica del Veneto, ora invece stabilmente frequentato centro civico. Il primo necessario passo veniva comunque individuato nella sua pedonalizzazione, per ottenere la quale si susseguivano, frequenti, le manifestazioni dei primi gruppi ecologisti. Dovettero comunque passare circa quindici anni prima che la redazione di un progetto venisse affidata a quattro architetti (Guido Zordan, Bernhard Winkler, Roberto D’Agostino e Giorgio Sarto) unitamente alla proposta di recupero dei centri minori gravitanti su Mestre, ormai inglobati in un’unica struttura urbana, senza soluzione di continuità, che ne aveva appiattito le differenze e fatto sparire le distinzioni. Poi Zordan(125) restò solo a elaborare e guidare un progetto, portato a conclusione nel 1997. Vi fu più di qualche contestazione soprattutto da parte di coloro che, leggendo forse un po’ pedissequamente i segni della storia, avrebbero preferito che la piazza rimanesse una semplice strada allargata. Il nuovo disegno può essere invece letto opportunamente come l’emblematico punto terminale della storia tutta novecentesca della città, con l’esaltazione del suo ampio spazio destinato a luogo d’incontro di gente venuta qui ad abitare dai luoghi più diversi, con l’accentuazione della storica collocazione al di fuori del recinto del Castello tramite il dislivello rispetto al piano stradale della torre dell’orologio(126) e con la sottolineatura della peculiare modernità della città grazie alla collocazione, nel suo punto più largo, al centro di una vasca d’acqua, di una statua di Alberto Viani. Dopo la piazza è stata restaurata e pedonalizzata via Palazzo facendo emergere così una ben distinguibile ‘anima’ della città che aspetta, per definire completamente i propri lineamenti, solo il definitivo recupero della torre dell’orologio. Un osservatore che non conosca piani e progetti può riconoscervi ora distintamente la struttura di un piccolo centro urbano a forte connotazione artigianale e contadina, orientato sull’asse nord-sud su cui si era formato e cresciuto. Sembra quasi che la città si sia presa una rivincita.

Più di qualcuno sembra comunque non volersi testardamente capacitare di una storia tutto sommato assai semplice. Dall’annessione al Regno d’Italia, per un centinaio d’anni, Mestre, povera di testimonianze d’arte, si era ritagliata un proprio spazio nel mito risorgimentale(127), con l’esaltazione di alcuni episodi della rivoluzione del 1848 (in particolare la presa di Forte Marghera il 22 marzo e la sortita dallo stesso del successivo 27 ottobre quando Venezia era già assediata dalle armate austriache). Dalla festa di s. Michele patrono della città (29 settembre) a quella della Sortita era un mese di festa (l’iniziativa è stata ripresa come occasione di divertimento e incontri dal 1994). Per ricordare l’evento era stato eretto un monumento (una colonna marmorea sormontata da un leone alato in bronzo) in piazza Barche, che è stato per lunghissimi anni l’unico monumento presente in Mestre.

Negli ultimi anni si è riscontrata invece spesso una corsa alla sottolineatura di aspetti anche marginali dei segni storici. Ogni pietra che spuntava da uno scavo trovava posto sulle prime pagine dei quotidiani locali e innescava l’elaborazione delle ipotesi più svariate su un passato spesso lontanissimo e indecifrabile finendo poi, per lo più, per svaporare nel solito mugugno contro l’ingombrante vicina (Venezia) che avrebbe fatto di tutto per cancellare e annichilire le tracce del passato di Mestre. Una ventina d’anni fa si tentò persino, vanamente, di istituire un palio fra quartieri, mentre il Centro Studi Storici fece carte false perché Mestre fosse inserita, buona ultima, in una mostra (con catalogo edito direttamente dallo stesso Centro) sulle città murate del Veneto voluta dalla Regione(128). Ricercatori desiderosi di rintracciare comunque una presenza della loro città tra i solchi della storia si sono sguinzagliati negli archivi e nelle biblioteche per dare poi alle stampe opuscoli o saggi con le microstorie più diverse, purché vi apparisse comunque il nome di Mestre. Una città così poco fotografabile può annoverare diversi libri di immagini, della serie «come eravamo»(129), dove fanno bella mostra di sé foto spesso ripetitive, tra le quali molte cartoline(130).

Ma il punto più alto ed emblematico di questa ricerca delle tracce di Mestre un po’ ovunque è sicuramente costituito da un paio di pubblicazioni in cui sono state con certosina diligenza riportate le citazioni di «Mestre nella letteratura da Machiavelli a Ernest Hemingway»(131). A «Hemingway e Mestre» è stato addirittura dedicato un convegno alla fine di ottobre del 1999, in occasione del quale è stata pure distribuita una piccola antologia delle sue citazioni su Mestre(132). La cosa dev’essere sembrata per lo meno un po’ azzardata anche al prosindaco Gianfranco Bettin se nella breve presentazione esordiva mettendo chiaramente le mani avanti: «Non è per un vezzo un po’ provinciale che pubblichiamo questa piccola antologia hemingwayana dedicata ai luoghi di Mestre e del territorio circostante»(133).

Nell’autunno del 1998 è stata allestita a cura del Comune, in due luoghi deputati a esposizione nel centro di Mestre (presso la nuova sala ricavata nei locali dell’ex biblioteca all’inizio di via Piave e a villa Ceresa, sulla Miranese, poco discosto dalla rinomata trattoria all’Amelia), una mostra sull’opera dello scultore Alberto Viani. Mantovano di nascita, insegnante all’Accademia di Venezia, mestrino di fatto perché residente a lungo nei pressi della piazza. Si pensava a un risultato di una certa risonanza, a un interessamento della cittadinanza verso uno dei suoi più celebri concittadini. Delusione atroce: qualche centinaio di persone nei due mesi di apertura e addirittura un dibattito in Municipio a domandarsi il perché di tanto disinteresse.

E se i mestrini, come più di qualcuno si ostina a pensarli, non esistessero? Se fossero dei semplici cittadini del mondo, portati a vivere e lavorare sui bordi della laguna un po’ da ogni dove, attratti forse più dalle merci di Panorama, Auchan o Valecenter che da un museo per rimirarvi Tiepolo, Tiziano e persino Andy Warhol? Se solo volessero vivere, conoscersi, integrarsi dall’interno dei solchi e dei segni della memoria di quella «città del Novecento» in cui si trovano ad abitare?

  • Presso l’Archivio del Comune di Venezia, sito nell’ex convento della Celestia a Castello, sono conservati i fondi archivistici dei Comuni di Venezia (1806-1960), Malamocco (1816-1883), Murano (1808-1924) e Pellestrina (1806-1923). Il fondo più consistente è ovviamente quello relativo a Venezia che dispone di un ricco apparato di indici e guide, annuali e quinquennali, che rendono facile e veloce il reperimento dei fascicoli. Un analitico inventario del piccolo fondo di Malamocco è inserito in Sergio Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946. L’istituzione, il territorio, guida-inventario dell’Archivio Municipale, Venezia 19872. Il volume ricostruisce la storia dell’istituzione comunale veneziana e ne individua le competenze facilitando vieppiù la ricerca. Per il fondo archivistico muranese v. Id.-Giorgio Ferrari, L’archivio municipale di Murano, 1808-1924, Portogruaro 1990. L’archivio del Comune di Pellestrina è in fase di avanzata inventariazione su supporto informatico. Presso l’Archivio del Comune di Mestre, sito provvisoriamente all’interno dell’ex macello in via Torino, sono conservati i fondi archivistici della Podesteria di Mestre (XIV secolo-1797), del Comune di Mestre (1798-1952) e di quelli di Favaro, Zelarino e Chirignago. L’inventario dei fondi della Podesteria e del Comune, insieme a quello della Scuola dei Battuti (XIV-XIX secolo), conservato presso la Casa di riposo di via Spalti, sono consultabili direttamente su supporto informatico (nel 1998 è stato prodotto un CD dal titolo Mestre, la storia, le fonti, a cura di Sergio Barizza). I fondi dei Comuni di Zelarino e Favaro sono in fase di inventariazione su supporto informatico.

1. «Il Gazzettino», 29 giugno 1926.

2. Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Mestre, 1890, IX-11. Una ricostruzione dell’emblematica vicenda che portò alla demolizione della torre di Belfredo in Sergio Barizza, Storia di Mestre, Padova 1994, pp. 45-49.

3. Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Mestre, 1884, IX-2.

4. Cesare De Seta-Jacques Le Goff, La città e le mura, Bari 1989, pp. 8-9.

5. L’art. 2 del bando di concorso per il piano regolatore di Mestre (30 giugno 1934) recita: «Ragione essenziale del piano regolatore è quella di stabilire una rete di facili collegamenti fra le arterie del retroterra e la testata del ponte e di congiungere strettamente alla parte insulare della città i suoi quartieri che esistono o sorgeranno in terraferma, cosicché il ponte del Littorio possa divenire un viadotto interno della più grande Venezia, capoluogo della Regione Veneta». Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1931-1935, X-1-4.

6. Sulle vicende che portarono prima all’annessione del territorio di Bottenigo e poi dell’intero comune di Mestre a Venezia, v. Sergio Barizza, Storia di una fine annunciata. Cronaca dei piccoli passi verso la fine dell’autonomia amministrativa del comune di Mestre, in La città invisibile. Storie di Mestre. Atti del convegno, a cura di Domenico Canciani, Venezia 1990, pp. 71-91.

7. Il titolo di città venne concesso a Mestre, con decreto del re Vittorio Emanuele III, il 6 maggio 1923. La domanda era stata inoltrata sul finire del 1916. In essa, non potendo Mestre avanzare titoli di nobiltà d’arte o di storia, si sottolineava il suo apporto alla lotta del Risorgimento, in particolare durante il 1848, ma soprattutto la forte crescita demografica verificatasi nei primi anni del secolo e i servizi di cui la città si era in quello stesso arco di tempo dotata: le scuole, l’acquedotto, il macello, l’ospedale, il sistema fognario ancora in corso di realizzazione. Per maggior completezza v. Id., Storia di Mestre, pp. 21-100.

8. Al dibattito sull’operazione Marghera, in consiglio comunale a Mestre, il 17 agosto 1917, quando a Roma le decisioni erano già state prese, il sindaco Carlo Allegri, espressione di una maggioranza clerico-moderata, dopo aver stigmatizzato il modo di procedere dei veneziani, col loro sindaco Filippo Grimani, che avevano autonomamente deciso ogni cosa presentando ai mestrini il fatto compiuto, aveva rassegnato le dimissioni per ritirarle subito dopo in considerazione del grave momento che il paese stava attraversando per la guerra in corso e per le promesse avute dal governo di Roma di una maggiore attenzione, in futuro, ai molti problemi di Mestre. Ugo Vallenari, capo della minoranza socialista, rispose invece con un durissimo ordine del giorno che invitava alle dimissioni generalizzate quanti ricoprivano cariche pubbliche di qualsiasi genere, dichiarando di non credere alle promesse e accusando il governo di aver violato la legge «cancellando con un tratto di penna il diritto di Mestre all’irriducibilità del proprio territorio». Respinto l’ordine del giorno se ne andò imprecando e sbattendo la porta dell’aula consiliare, vanamente inseguito dagli inviti di Allegri a rimanere «per amor di patria». Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Mestre, 1917, I-21.

9. Il 23 agosto 1926 il commissario prefettizio di Mestre, Paolino Piovesana, indirizzava al capo del governo un dettagliato rapporto sui bisogni di Mestre nel momento in cui perdeva l’autonomia amministrativa, «un provvedimento che l’addolora ma che riconosce ispirato da necessità di ordine superiore, che accetta con coscienza di orgoglio e di italianità». Espresso il desiderio di conservare il proprio gonfalone si accennava al bisogno di pavimentare le strade, di costruire un sistema fognario, di ampliare l’acquedotto e l’illuminazione pubblica, di costruire un nuovo macello, il cavalcavia e un sottopasso per mettere in comunicazione la stazione con Marghera, di collegare Mestre con Venezia e le isole da un lato e gli altri centri della terraferma dall’altro con un servizio di trasporti più rapido ed economico, di espandere l’edilizia scolastica e infine predisporre e approvare un piano regolatore. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1926-1930, I-4-1.

10. Per una conoscenza più approfondita della figura di Ugo Vallenari v. S. Barizza, Storia di Mestre, pp. 276-286.

11. Per la figura di Valentini, ibid., pp. 286-289.

12. Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Mestre, 1945, I-5.

13. Sergio Barizza, Le richieste di autonomia municipale a Favaro e Mestre all’indomani della Liberazione, in Mestre infedele. Confini comunali in terraferma e rapporti tra Mestre e Venezia, a cura dell’Associazione storiAmestre, Portogruaro 1990, pp. 27-42.

14. Piero Brunello, Salvare Venezia. E salvare Mestre?, ibid., p. 127 (pp. 111-129).

15. Molto significative sono, al riguardo, una serie di argomentazioni a supporto della domanda di ritorno all’autonomia amministrativa, avanzata il 29 dicembre 1949 dal Comitato «Pro Mestre», in cui spiccava, in prima fila, la figura del senatore democristiano Raffaele Tommasini. Le promesse fatte nel 1926 erano ancora per lo più delle chimere, ma l’attacco sulla loro inadempienza era diretto alla giunta socialcomunista di Gianquinto, puntando, in particolare, l’indice accusatorio sulla costruzione del quartiere di case popolari di viale S. Marco che costituiva uno degli impegni qualificanti di quella giunta per rispondere al problema della carenza di abitazioni: «Sotto il pretesto di ottenere l’attuazione di un piano regolatore (sempre in fase di studio dal 1934!) il Comune ha soprasseduto ad ogni soluzione pratica ed ha invece sperperato milioni per eseguire, dalla località Barche sino al vecchio forte Marghera, in zona paludosa e deserta, un rilevato inservibile, non completo nemmeno nelle opere di riporto, che ha assorbito somme ingenti ed altre, più ingenti, dovrebbe assorbirne per il suo completamento, destinato a valorizzare aree semisommerse, non ancora bonificate, che sono, per la maggior parte, di proprietà della Società Immobiliare Veneziana». S. Barizza, Le richieste, pp. 39-40.

16. Marino Berengo, L’Europa delle città, Torino 1999, p. XIII.

17. Venezia. Il nuovo piano urbanistico, a cura di Leonardo Benevolo, Roma-Bari 1996.

18. Il concetto dell’integrazione delle due città è stato uno dei cardini del programma amministrativo delle due giunte rette da Massimo Cacciari (1993 e 1997). Massimo Cacciari, Idea di Venezia, «Quaderni della Fondazione Istituto Gramsci Veneto», 1989, nr. 5, pp. 17-27.

19. Adolfo Bernardello, La prima ferrovia fra Venezia e Milano. Storia della imperial-regia privilegiata strada ferrata Ferdinandea lombardo-veneta (1835-1852), Venezia 1996.

20. Il ponte del Littorio, Venezia 1934.

21. L’esempio più calzante, al riguardo, è legato alla penna di Pasquale Negri che descrivendo il viaggio di un ipotetico commerciante svizzero nella Venezia di fine Settecento, durante la permanenza a Mestre, gli fa frequentare il Teatro Balbi, che sorgeva nei pressi di piazza Barche, dove ammira i «palchetti pieni di dame superbamente acconciate e con vestiti di seta a ricami, o di broccato d’oro e di argento». Il poverino non poteva sapere ch’erano veneziani giunti in gondola dalla città o in carrozza dalle numerose ville della terraferma e il mattino seguente non vede l’ora di poter fare un giro per Mestre per ammirare tanta bella gente: «Ma quale fu la mia sorpresa! Un piccolissimo paese io vidi, e di poco superiore a un villaggio». Pasquale Negri, Misteri di Venezia tratti dagli scritti di Edmondo Lundy, Milano 1858, pp. 51-53.

22. Se poi si raffrontano gli introiti del 1841 (ultimo anno senza ferrovia) con quelli del 1846 (anno dell’arrivo a Venezia della prima locomotiva) si percepisce subito come Fusina fosse ormai stata definitivamente spazzata via come testa di ponte e come Mestre fosse in via di rapido ridimensionamento (Fusina: 1841-L. 4.589,02; 1846-L. 111,66; Mestre: 1841-L. 8.804,86; 1846-L. 4.760,93). Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1885-1889, I-3-6.

23. Ibid., 1900-1904, IX-2-13.

24. Ibid., 1895-1899, IX-2-14, e Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Zelarino, 1898, X-2. Questo il testo: «I sottoscritti cittadini del comune di […] ritenuto che il congiungimento di Venezia alla terraferma è reclamato dall’indole dei tempi e dalla necessità ora maggiormente sentita di avere sempre aperta una strada facile, economica ed accessibile a tutti, onde finalmente venga tolta l’anomalia e il danno di una città d’onde non si può né uscire né entrare senza spesa, ed isolata dalla sua provincia che pei suoi bisogni è costretta a rivolgersi alle città delle provincie vicine; ritenuto che della incolumità della laguna danno affidamento il parere dei tecnici competenti e il progresso delle industrie moderne che consentono metodo e sistemi diversi da quelli una volta praticati; fanno voti perché venga decretata la costruzione del ponte di congiunzione tra Venezia e Mestre ad incremento dei rispettivi commerci ed industrie ed a vantaggio delle classi povere».

25. La crescita economica e gli insediamenti industriali in Mestre prima di Porto Marghera in S. Barizza, Storia di Mestre, pp. 213-237.

26. C. De Seta-J. Le Goff, La città, p. 9.

27. Questa inversione di rotta che aveva aperto la prospettiva di una veloce crescita economica e urbana fu chiaramente percepita e descritta il 27 ottobre 1912, uno dei momenti topici della formazione della nuova città di Mestre, quando, in occasione della tradizionale commemorazione della Sortita, sarebbero stati inaugurati l’acquedotto cittadino ed il complesso edilizio, con la singolare galleria, costruito dall’imprenditore Domenico Toniolo nelle adiacenze del ponte della Campana, appena fuori dell’uscita meridionale della piazza. L’acqua corrente e il volto nuovo che si cominciava a delineare nell’area centrale furono conclamati come i segnali della «nuova Mestre», del suo ormai essere città, della crescita della ricchezza dei suoi abitanti legata ad attività commerciali in continua espansione e al moltiplicarsi di insediamenti industriali. A tratteggiare a grandi linee l’origine e la direzione di questa crescita fu Mario Crepet, nel suo pamphlet, dall’elegante copertina liberty, edito in occasione di quella festa: «Come fosse Mestre all’incirca trent’anni or sono ognuno, anche dei giovani, è in grado di saperlo. Venuto a mancare molti anni prima uno dei maggiori e davvero abbondanti cespiti di risorse colla attivazione della ferrovia Venezia-Milano, la nostra cittadina aveva visto cessare quasi completamente il traffico per via acquea tra la terraferma e Venezia, in maniera che ad essa non più convergevano, come era stato sino allora indispensabile, tutte le persone e le merci prima di compiere a mezzo di barche l’ultimo tratto del percorso. Il trapasso dai facili guadagni ad una vita di assai scarse risorse doveva conseguentemente essere difficile e penoso; la popolazione di allora era quasi tutta dedita ai trasporti terrestri ed acquei e l’agricoltura, che rimaneva così l’unica modesta fonte di profitti per il paese, era stata per tanti anni negletta e quasi tenuta in ispregio». Mario Crepet, Mestre inaugura il suo acquedotto, 27 ottobre 1912, Mestre 1912, p. 6.

28. Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Mestre, 1850, IX-12.

29. I forti del campo trincerato di Mestre, a cura di Piero Brunello, Venezia 1988; I forti di Mestre. Storia di un campo trincerato, a cura di Claudio Zanlorenzi, Verona 1997.

30. Basti ricordare i due insediamenti della Carbonifera, trasferitasi da Venezia nel 1908 (Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Mestre, 1909, V-10) e dei Magazzini Generali del Cotone (Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, II-5-1), appendice in terraferma di quelli costruiti a Sacca Fisola, i cui insediamenti sono tuttora visibili nella zona di via Torino, interessata sullo scorcio della fine di questo secolo alla costruzione del nuovo ponte sul canal Salso.

31. Oltre ad alcuni insediamenti che avrebbero poi consolidato la propria presenza all’interno della zona industriale di Porto Marghera (lo stabilimento di droghe della Paolini e Villani, il cantiere Odorico, i depositi di carburante della Società Italo-Americana del Petrolio poi Esso, lo stabilimento di saponi di Angelo Vidal) è da sottolineare come la presenza lungo la ferrovia di tre insediamenti — lo stabilimento per la lavorazione di pali iniettati di Tranquillo Rossi, il deposito di legnami di Agostino Scarpa e l’industria chimica di Alessandro Cita — condizionerà il piano del nuovo quartiere urbano di Marghera che verrà disegnato iniziando da una nuova grande strada (via Paolucci) tracciata parallelamente alla ferrovia, lasciando di fatto queste tre industrie all’interno dello spazio inizialmente destinato al quartiere, sulla lingua di terreno tra la nuova strada appunto e la ferrovia.

32. La testimonianza più autorevole sul tracciato delle strade si riscontra nel documento più antico conservato nell’Archivio della Podesteria di Mestre: una copia cinquecentesca, rilegata in pergamena, di un opuscolo sulle strade del territorio mestrino risalente al 1315, inventariato come «Decreti e deliberazioni intorno al ristauro delle strade». In esso si ritrovano non solo i grandi assi stradali che collegavano (e collegano) Mestre con Treviso, Castelfranco, Mirano, Padova e la direttrice per Trieste ma pure le strade interne alle frazioni che ancora oggi sono riconoscibili nella cintura (non più periferica ormai per la crescita urbana del secondo dopoguerra che ha occupato quasi tutti gli spazi vuoti) di Mestre: Asseggiano, Brendole, Chirignago, Zelarino, Tarù, Carpenedo, Bissuola, Dese, Favaro, Campalto, Tessera; v. Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio della Podesteria di Mestre, b. 74, Strade. Il fascicolo è stato riprodotto in copia anastatica, con trascrizione e commento a fronte: Mestre e le sue strade, a cura di Adriana Gusso, Mestre 1992.

33. Maria Grazia Biscaro, Mestre. Paesaggio agrario, proprietà e conduzione di una podesteria nella prima metà del secolo XVI, Treviso 1999, p. 20.

34. La conseguenza più notevole di questa cesura del territorio fu la costruzione, da parte del comune di Mestre, della scuola di Bottenigo, nel 1907, per permettere ai bambini della frazione di frequentare le elementari senza dover attraversare quotidianamente i binari: Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Mestre, 1910 e 1914, III-3. La richiesta di un facile collegamento tra Mestre e Marghera, divise dalla ferrovia, si riscontra pure nei desiderata espressi al momento dell’annessione. Per facilitare i collegamenti pedonali fu semplicemente costruita una passerella in ferro sopra i binari della stazione, nel 1932: Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Contratti 2/6075. Solo nel 1982 è stato aperto un primo sottopasso pedonale.

35. Pietro Emilio Emmer, Il Quartiere urbano di Porto Marghera, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 1, 1922, nr. 5, pp. 9-17.

36. Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Mestre, 1812-Strade.

37. Ibid., 1923, VII-2.

38. S. Barizza, Storia di Mestre, pp. 203-212.

39. Gestito da Galliano Gheller, la struttura è ancora esistente. Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Mestre, Edilizia 1926.

40. Il garage sarà demolito nel 1935, dopo ch’era divenuto del tutto inutile con l’apertura al traffico del ponte automobilistico nel 1933. Ibid., Edilizia 1927.

41. Carla Uberti, Il ponte automobilistico, in Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier, catalogo della mostra, a cura di Lionello Puppi-Giandomenico Romanelli, Milano 1985, pp. 243-251.

42. Nella prima seduta della consulta municipale dopo l’inaugurazione del ponte, il 23 maggio 1933, fu Gino Damerini a sottolinearne l’importanza commerciale: «Dopo lunghi anni di polemiche, in brevissimo tempo l’opera è stata eseguita. Essa contribuirà in modo grandioso al movimento del nostro porto […]. Vediamo fino dall’inizio che essa adempie alla sua funzione precipuamente commerciale, come risulta dalle statistiche di questo primo periodo, le quali ci rivelano che in pochi giorni oltre un centinaio di camion si sono avviati verso le banchine della Marittima». Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, verbale consulta 23-5-1933.

43. Alberto Magrini, L’autostrada Venezia-Padova, Trieste 1933.

44. Antonio Rosso, Piano regolatore di massima per l’ampliamento ed il risanamento dell’abitato di Mestre, Venezia 1937, pp. 45-46.

45. Si chiama ancora oggi così, anche se è una delle strade più trafficate e inquinate del centro.

46. La nuova strada venne inaugurata lo stesso giorno del ponte translagunare e intitolata «Viale Principe di Piemonte». Ora è il corso del Popolo.

47. Il canale subì pesantemente l’impatto della nuova strada e l’avvento della motorizzazione di massa con l’interramento dell’ultimo suo tratto, destinato a divenire parcheggio, mentre la piazza, ancora conosciuta semplicemente come «Barche» era il luogo individuato come capolinea degli autobus per Venezia. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1926-1930, IX-8-4, e 1931-1935, X-1-4.

48. A. Rosso, Piano regolatore di massima, pp. 63-64.

49. Il futuro prossimo vedrà affiancarsi a questi due un terzo asse proteso verso Venezia, quello di via Torino. A fronte di alcuni condomini nel tratto iniziale che si stacca da corso del Popolo, la strada che ospita i servizi più vari (ipermercati, «Il Gazzettino», la Cassa di Risparmio di Venezia, il mercato ortofrutticolo, l’Università, l’Enel, le poste…) finisce fra i campi a ridosso di Forte Marghera. Sul finire del 1999 sono iniziati, da parte di un’impresa privata, i lavori per la costruzione di un ponte sul canal Salso per creare un’altra direttrice di traffico sullo storico asse sud-nord, mentre sembra alle ultime battute il progetto comunale per un grande svincolo terminale che la colleghi da un lato alla direttrice per Venezia e dall’altro alla rotonda di S. Giuliano. Il suo progetto di riqualificazione è stato così presentato alla fine di gennaio del 2000, in un dépliant distribuito dall’Ufficio tecnico comunale: «Il ridisegno della strada deve esprimere un’idea di contemporaneità della città e del carattere dei suoi spazi, deve cercare di sviluppare con le architetture del suo intorno un rapporto di disegno organico, a volte assecondandone le morfologie, più frequentemente ricercando attraverso un disegno complesso le relazioni determinate dalla compresenza di architetture, di percorsi differenziati e specializzati, di aree di sosta, di arredi urbani, di parterre verdi, di alberature, di elementi di illuminazione».

50. «La costruzione di un manufatto allacciante direttamente il ponte del Littorio alla zona di San Giuliano è di una importanza basilare, tanto da potersi affermare che non si può prescindere dalla sua costruzione senza alterare tutto l’equilibrio del piano previsto, fino al punto di renderlo ineffettuabile». A. Rosso, Piano regolatore di massima, p. 68, e Id., Piano regolatore dell’abitato di Mestre. Variante al progetto 15 gennaio 1937, Venezia 1943, p. 15.

51. Il progetto dell’Ufficio tecnico della Provincia di Venezia è sempre dell’ingegner Eugenio Miozzi (30 ottobre 1957). Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Ufficio Tecnico.

52. Dall’autostrada Venezia-Padova del 1933 alla tangenziale di Mestre, Venezia 1972.

53. L’ingegner Salvadori era stato uno dei più strenui oppositori del progetto di nuovo porto ai Bottenighi, sostenendo fino all’ultimo l’opportunità di attrezzare a porto vaste aree dell’estuario prospicienti la bocca di porto del Lido. Antonio Salvadori, Per una più grande Venezia protesa verso il mare e contro il porto di Mestre. Considerazioni e proposte, Venezia 1917.

54. «Il Gazzettino», 18 gennaio 1925. Il progetto prevedeva il capolinea presso il porticciolo dei petroli a Marghera per puntare poi sulla Marittima, S. Andrea, gli Scalzi, il passaggio sotto il Canal Grande, la riva degli Schiavoni, S. Elena e il Lido. Veniva pure sottolineata una profetica attenzione ai mali del moto ondoso perché Venezia sarebbe stata «salvaguardata e protetta nella sua artistica bellezza: sparirebbero i vaporini sul Canal Grande, non più solcato se non dalle gondole».

55. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1931-1935, X-1-17. Il progetto veniva inserito nel «piano generale di massima della sistemazione della città» elaborato dallo stesso Miozzi (18 maggio 1935). Un’idea analoga, soprattutto in funzione di un collegamento diretto della progettata strada Romea con il Lido, Treporti, Jesolo e la direttrice per Trieste, era stata elaborata un paio d’anni prima dall’ingegner Francesco Nardi, v. Francesco Nardi, Progetto di massima di una translagunare a grande traffico che congiunge il piazzale Roma con il Lido e si biforca da una parte per Sant’Elena-punta Sabbioni e dall’altra per Malamocco-Chioggia, Venezia 1933.

56. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Fondo Miozzi.

57. Ibid., 1948-1955, X-1-16.

58. Eugenio Miozzi, L’autostrada sublagunare attorno a Venezia, estr. da Venezia nei secoli, IV, Venezia 1969, pp. 299-320.

59. Comitato di Iniziativa per la Metropolitana Veneta, Studio preliminare per la metropolitana veneta, s.n.t. (consultabile presso l’Archivio Storico Comunale di Venezia).

60. «Come mai, sino ad oggi, nessuno ha raccolto il nostro invito a studiare seriamente la possibilità che l’isola storica — proprio perché possa continuare, anche in futuro, a rimanere tale e viva al tempo stesso, abitata per sempre da tutta la sua gente, anche la più modesta — venga congiunta al retroterra veneto che non può non appartenerle, che non può non continuare a riguardarla da vicino, per mezzo di un metrò sublagunare?». Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Belle Arti, b. 25, fasc. 7.

61. Ibid., Legge Speciale.

62. Uno studio del C.I.S.E.T. (Centro Internazionale di Studi sull’Economia Turistica dell’Università di Venezia) prevedeva che in occasione del Giubileo del 2000 solo il 31% dei turisti si sarebbe fermato a dormire nella città di Venezia. «Il Gazzettino», 16 novembre 1999.

63. L’organizzazione di una Expo in laguna era stata formalizzata con una lettera congiunta del 22 settembre 1987 del sindaco di Venezia Nereo Laroni e del presidente della giunta regionale del Veneto Carlo Bernini a Jacques Sol-Roland, presidente del B.I.E. (Bureau International des Expositions). La proposta sarebbe stata respinta con voto del Parlamento europeo del 17 maggio 1990, in considerazione dell’abnorme flusso di visitatori che l’Expo avrebbe potuto riversare su Venezia. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Gabinetto del Sindaco, 1987 Expo.

64. Le idee di Renzo Piano sono raccolte in un dattiloscritto, risultato della registrazione del suo intervento al Comitato tecnico scientifico per l’Expo del 29 maggio 1987, consultabile presso l’Archivio Storico Comunale di Venezia.

65. Alla fine del 1898, in risposta a una delle ricorrenti circolari della prefettura che richiedeva notizie sulle scorte alimentari presenti e su una possibile risposta alla disoccupazione, il sindaco di Zelarino rispondeva: «Gli abitanti si provvedono al mercato di Mestre, molto vicino, ed in parte, in quantità superiore, dai mugnai di questo Comune, che sommano a sei, sempre nel genere di farina di frumento, la ordinariamente consumata. Pel pane provvedono i pizzicagnoli che sono in numero di quattro, i quali a loro volta fanno le provviste a Mestre e ad un forno esistente in Comune. Il prezzo dei generi è sempre quello della piazza della vicina Mestre». Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Zelarino, 1898, XV-7.

66. Piazza Ferretto era, fino a pochissimo tempo fa, il centro delle contrattazioni sulla compravendita di animali o terreni agricoli da parte di solerti mediatori. Luogo di incontro e di acquisti era lo storico mercato settimanale del mercoledì e del venerdì (v. Sergio Barizza, Mestre e la sua piazza, Venezia 1992) mentre la perdurante difficoltà di celeri comunicazioni tra gli abitati più periferici e il ‘centro’ trovava espressione in un icastico detto: «Tutto il mondo è paese all’infuori di Gaggio, Marcon e Dese».

67. Risale a questo periodo la ristrutturazione della parte meridionale dell’attuale piazza Ferretto che comportò la costruzione della galleria con i palazzi che l’affiancano e il Teatro Toniolo. Dopo la guerra (1920) furono costruiti il palazzo all’angolo con via Rosa e quello al ponte della Campana che ospita la storica farmacia oggi di proprietà Zannini. Infine, nel 1925, il palazzo sul lato di fronte prima sede di una banca, oggi di uffici comunali, mentre l’anno prima, sul lato opposto, in piazzetta Edmondo Matter la Cassa di Risparmio di Venezia aveva eretto la propria sede in terraferma, ristrutturando il palazzetto ch’era stato di proprietà dell’eclettico sindaco di Mestre Jacopo Rossi.

68. Nel 1920, quando venne redatto il progetto dell’apertura di via Piave, tra la stazione e il centro, la nuova arteria venne semplicemente denominata «Strada di circonvallazione». Correva tra i campi e gli unici ad averne un danno relativo furono le lavanderie militari che si videro praticamente dividere in due. Oltre al demanio militare i proprietari di terreno che subirono l’esproprio furono: Ettore Di Rosa, Domenico Toniolo, Vittorio Serena, Pietro Benetta, Iginio Nono, Elisa, Amalia e Teresa Bachmann, Leone Scattolin, Giovanni Michieletto e Vincenzo Morachiello: Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Mestre, 1921, VII-2.

69. Basti il confronto tra il 1951 e il 1999 riportato a tutta pagina dal «Gazzettino» del 20 gennaio 2000: nel 1951 i residenti nel centro storico erano 174.808 e nella terraferma 96.966; nel 1999 il centro storico ne contava 66.945, la terraferma 177.515.

70. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, verbali consiglio 3-2-1911.

71. Ibid., 1921-1925, IX-1-11, prot. 30744/1921.

72. Il 14 giugno 1909 Grimani esponeva in questi termini, a Raimondo Ravà, presidente del magistrato alle Acque, il suo «programma di sviluppo» dei Bottenighi: «Questa zona costituirebbe un sobborgo industriale dove troverebbero posto i lavoratori colle loro famiglie e dove potrebbe di necessità convergere gran parte della popolazione che ora trovasi a disagio nella città. L’amministrazione comunale deve certamente prendere in considerazione tutti i coefficienti che possono migliorare le condizioni delle abitazioni e dal momento che l’ampliamento del porto deve seguire a Marghera e nelle sue vicinanze, essa ritiene necessario che il Comune chiuda nei suoi allargati confini una zona che possa rispondere ai concetti suesposti». Ibid., 1910-1914, II-5-35.

73. Si può leggere in un promemoria dell’Ufficio tecnico comunale della fine degli anni Venti: «Marghera è e sempre più diverrà la sede delle grandi industrie e le abitazioni che vi verranno costruite dovranno riservarsi agli operai che in esse lavorano, ma per ovvie ragioni non potrà considerarsi mai come una parte di Venezia; essa ne sarà una appendice utilissima come Monza e Sesto sono per Milano e Pozzuoli per Napoli». Ibid., 1926-1930, IX-1-10.

74. «È da osservare che in altri porti cospicui non si è punto sentito il bisogno di costruire quartieri operai, perché i lavoratori cercano la loro dimora dove ne abbiano la maggior convenienza». Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Mestre, 1917, I-21.

75. V. Francesco Piva, Contadini in fabbrica. Il caso Marghera: 1920-1945, Roma 1991.

76. L’ingegner Luigi Rebonato, imprenditore padovano molto attivo a Marghera come a Mestre, intuisce, nel 1927, il cambiamento di filosofia nei riguardi di una «città giardino» che cresceva troppo lentamente. Aveva, in un primo tempo, deciso di costruire sette villini secondo le indicazioni di Emmer, poi, per mettere sul mercato un maggior numero di abitazioni, opta per la «costruzione di tre soli fabbricati — due su via Castelli di 12 appartamenti ciascuno e uno in via Seimit Doda di 4 appartamenti, per un totale di 28 appartamenti in luogo di 13, 108 locali abitabili in luogo di 60». Il perché è presto detto: «Il sottoscritto ha potuto convincersi che oggidì non sono più i tempi dei villini eleganti o dei vasti appartamenti con vasto scoperto: i fitti salgono naturalmente oltre il limite concesso dalle attuali condizioni economiche generali della classe media degli impiegati e degli operai, e gli appartamenti rimangono vuoti mentre tante famiglie attendono l’abitazione. Per cui sarebbe venuto nella determinazione di costruire appartamenti economici popolari composti al più di tre camere, cucina e accessori, raggruppati però in edifici di maggior mole». Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1926-1930, IX-2-8, prot. 43669/1930.

77. Dirà il podestà Mario Alverà: «Permettetemi di ricordarvi che per mia iniziativa personale invece di costruire nuovi alveari, centri incontrollati di vizi e di tristi promiscuità, ho voluto dare ai nuovi abitatori di questa zona la gioia di vivere in libero orizzonte con un quadrato di terra che ciascuno potesse lavorare con la sua buona volontà e col suo amore». Ibid., seduta consulta 18-5-1938.

78. Casette e baracche finirono sott’acqua all’inizio di marzo del 1974. La prefettura requisì una delle «torri» (poi conosciuta come torre 27) del quartiere Cita, la cui costruzione era appena terminata e gli appartamenti erano ancora sfitti. Vi trasferì gli abitanti, sollevando qualche problema di coabitazione con i piccoli proprietari che avevano acquistato l’appartamento nello stesso quartiere. L’occupazione si trascinò a lungo finché l’amministrazione comunale non decise di acquistare l’intera «torre».

79. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, seduta consulta 27-10-1938.

80. I 22.120 abitanti del 1921 erano così suddivisi: 13.126 a Mestre, 4.929 a Carpenedo, 915 a Bissuola, 2.001 a Brendole, 1.149 a Marocco: Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Mestre, 1921, VIII-1. Per gli altri anni v. Comune di Venezia, Informazioni statistiche. Annuario 1998, Venezia 1999, p. IX.

81. L’evoluzione delle case d’abitazione si può rilevare scorrendo le licenze edilizie rilasciate in questo periodo: Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Mestre, Edilizia 1926 e 1927; Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1926-1930, IX-2-20 e IX-2-21; 1931-1935 e 1936-1940, X-8-11.

82. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1931-1935, X-1-4.

83. Ibid., 1921-1925, IX-2-8, prot. 64143/1925.

84. Ibid., 1931-1935, X-1-4.

85. Il 7 febbraio 1934 rifiutò con queste parole la nomina a membro della commissione per il piano regolatore di Mestre: «Non mi sembra opportuno costringermi a diventare complice nella uccisione del mio proprio figlio, altrettanto dicasi per Rosso. Lo uccidano gli altri, se lo crederanno». Ibid.

86. Ibid., 1936-1940, V-2-1, e 1941-1947, IX-3-7. L’istituzione prima di un corso ginnasiale, come sede staccata del liceo veneziano «Marco Foscarini», in una villa privata accanto al Municipio, dall’anno scolastico 1931-1932 e la successiva costruzione della nuova sede, intitolata a Raimondo Franchetti, con l’avvio di corsi regolari a cominciare dal 17 ottobre 1940, sono un po’ il segno della crescita di Mestre in quegli anni. L’iniziativa era infatti stata promossa da un gruppo di esponenti della ‘nuova’ borghesia (tecnici e dirigenti di Porto Marghera, medici, avvocati, commercianti…) che avevano fatto con forza notare come la qualità della popolazione stesse cambiando e nuove figure si affiancassero ormai alla tradizionale connotazione «rurale ed operaia» degli abitanti di Mestre che, nel 1938, erano già più di 65.000.

87. Ibid., 1936-1940, X-7-10, prot. 68131/1938.

88. Per le vicende della ricostruzione v. Sergio Barizza, Mestre, in Venezia nel secondo dopoguerra, a cura di Maurizio Reberschak, Padova 1993, pp. 183-207.

89. I tecnici comunali che dovevano seguire l’iter delle pratiche erano decisamente pochi. Osserverà con sdegno il professor Serafino Riva, consigliere comunale indipendente eletto nelle liste del partito comunista: «Con un ingegnere avventizio e due impiegati non si ricostruisce una città come Mestre». Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, verbali consiglio 26-11-1946.

90. Si tratta del quartiere di viale S. Marco. Per la sua realizzazione ma soprattutto per i primi critici anni di quanti vi vennero ad abitare da Venezia v. Paola Sartori, I primi anni del villaggio San Marco, in La città invisibile. Storie di Mestre. Atti del convegno, a cura di Domenico Canciani, Venezia 1990, pp. 107-117, e Maria Teresa Sega, ‘No ghe gera gnente…’ Tempo, cambiamento, identità, ibid., pp. 118-126.

91. Si tratta dell’intervento conclusivo in Per il retroterra veneziano. Atti del convegno, a cura dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 1956, p. 189.

92. Da una statistica dello I.A.C.P. (Istituto Autonomo Case Popolari) del 1955 si ricava che a Venezia centro storico era ancora necessario provvedere a un alloggio decente per 2.353 nuclei familiari (che vivevano ancora in piani terra inabitabili o alloggi di fortuna) per un totale di 10.022 abitanti su 174.905, mentre a Mestre si calcolava di dover soccorrere 779 nuclei familiari, dei quali 246 risiedevano in baracche, per complessivi 3.642 abitanti su 96.774. Iacp, legge 9/8/1954 n. 640 per la eliminazione delle abitazioni malsane. Dati statistici relativi agli alloggi di fortuna (baracche, scantinati, fortini ed edifici pubblici) esistenti nei comuni della provincia di Venezia, Venezia 1955. Per gli interventi di edilizia residenziale pubblica v. Venezia, edilizia residenziale pubblica. Storia, problemi, progetti, estr. da Edilizia Popolare nr. 175, Roma 1983 e nr. 176, Roma 1984 e Costruire a Venezia. Trent’anni di edilizia residenziale pubblica, a cura di Tullio Campostrini, Venezia 1993.

93. L’esempio più rilevante è costituito dalla chiesa del Sacro Cuore in via Aleardi, una traversa tra corso del Popolo e la Cappuccina. L’imponente fabbricato, con un’alta vela degna di elevarsi su ben altri scenari, ideato dall’architetto Adriano Galderisi, fu consacrato il giorno di ferragosto del 1971 dal patriarca Albino Luciani, per sfuggire, grazie alle ferie, alle previste contestazioni dei gruppi cattolici di base che criticavano da tempo la scelta e il costo di realizzazione del progetto.

94. I 96.966 abitanti del 1951 sarebbero saliti a 115.777 nel 1955, 152.575 nel 1960, 188.907 nel 1965, 205.249 nel 1970, 210.674 nel 1975. È questo il livello più alto raggiunto: da allora la statistica comunale avrebbe dovuto rilevare un costante calo fino a raggiungere i 178.630 abitanti del 1998. Comune di Venezia, Informazioni statistiche. Annuario 1998, p. 3.

95. Il quartiere di poco meno di 1.000 appartamenti veniva reclamizzato, con tanto di plastico, come quartiere modello con campi da tennis, piscina, centro civico. Furono costruite solo le case, per lo più palazzoni di più di dieci piani del tutto desueti nel panorama urbano della zona, dei quali quasi i due terzi furono poi venduti al Ministero del Tesoro, Cassa per le pensioni ai dipendenti degli enti locali. Fra i vari servizi promessi fu eretta la sola chiesa.

96. Paolo Cacciari, Zehn Jahre linker Stadtregierung (1975-1985), in Venedig, ein politisches Reisebuch, a cura di Rolf Petri, Hamburg 1986, pp. 155-163. Il testo, in lingua italiana, è conservato e consultabile presso l’Archivio Storico Comunale di Venezia.

97. Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Mestre, 1907, III-13.

98. S. Barizza, Mestre, pp. 191-194.

99. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Gabinetto del Sindaco, 1947.

100. Ibid., verbali consiglio comunale 7 e 9 giugno 1949.

101. Ibid., 1948-1955, V-2-2. La notizia veniva data con ampio risalto dal «Gazzettino Sera» del 12-13 luglio 1954. Accanto a una foto della villa si titolava: «Mestre avrà a villa Querini il suo palazzo della cultura. Stanziati oltre 12 milioni per i restauri e la costruzione di una nuova ala dell’edificio. Sale per mostre e convegni».

102. Stefano Sorteni, L’architetto Giuseppe Urbani de Gheltof e il museo di Mestre, un sogno lungo una vita, in Un museo a Mestre? Per un museo del novecento. Proposte di storiAmestre e dibattito, a cura di Chiara Puppini-Fabio Brusò, Mestre 1997, pp. 108-113.

103. Progetti di studenti e docenti dell’I.T.S.G. ‘G. Massari’ per un Museo a Mestre, ibid., pp. 98-107. Gli elaborati relativi possono essere consultati presso le sedi degli Archivi dei Comuni di Venezia e Mestre.

104. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1941-1947, XI-8-1.

105. Ibid., Ufficio Tecnico, Piano di Ricostruzione di Mestre.

106. Cf. S. Barizza, Storia di Mestre, pp. 65-73.

107. Il contratto di acquisto venne stipulato il 18 settembre 1972. Il Comune pagò ai proprietari dell’area Camillo Matter e Aristide Berton (quale rappresentante della Società dei Trecento Campi di Carpenedo) la somma di L. 152.460.500. «Notiziario del Comune», 1, 1973, nr. 8, p. 23.

108. Carlo Aymonino-Luigi Calcagni-Gianpaolo Mar-Gigetta Tamaro, Nuovo ospedale di Mestre, località Terraglio, progetto di massima, Venezia 1980.

109. Mestre, Archivio del Comune di Mestre, Archivio Municipale di Mestre, 1923, XI-17.

110. Il desiderio, condiviso dalle due tifoserie, prese ancora più corpo dopo la fusione delle due squadre di calcio (Venezia e Mestrina) in una sola, nel 1987, inizialmente denominata Veneziamestre. Ancora oggi le tifoserie della stessa squadra (tornata quasi subito a denominarsi solo Venezia, inserendo un po’ di arancione, colore della Mestrina, nella storica maglia neroverde dei lagunari), composte da residenti in centro storico e in terraferma, pur avendo un obiettivo comune risultano spesso rissosamente divise; v. Claudio De Min, Cinquantanove anni di storia del Calcio Mestre, Venezia 1990, e Roberto Ferrucci, Giocando a pallone sull’acqua, Venezia 1999.

111. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Ufficio Tecnico, b. 45.

112. Ibid., 1948-1955, V-1-2.

113. Paolo Pennisi, Lo dica il prosindaco Zorzetto. ‘Mestre Sette Bellezze’, «Nexus», 2, 1994, nr. 11, pp. 1-2.

114. Ibid. Il progetto del bosco di Mestre, in corso di progressiva realizzazione per conto del Dipartimento Agricoltura e foreste della Regione Veneto, è stato presentato a Ca’ Farsetti, sede del Municipio di Venezia, il 27 marzo 1990 alla presenza del ministro dell’Ambiente Giorgio Ruffolo.

115. Comune di Venezia, Il parco di San Giuliano, Venezia 1995.

116. Ibid., p. 5.

117. Per i Bianchini, la loro villa con l’esteso parco che giungeva fin oltre la ferrovia e l’orto che sarebbe poi divenuto piazzale Donatori di Sangue (meglio noto come piazzale Sicilia) v. S. Barizza, Storia di Mestre, pp. 268-272.

118. Per i Ponci e soprattutto per le vicende che portarono alla distruzione del parco il cui laghetto era l’ultima porzione del canale che correva lungo le mura del Castello di Mestre v. ibid., pp. 272-276.

119. La realizzazione di un parco in una zona ancora libera dalla speculazione edilizia tra via Ca’ Rossa, via Bissuola, via Casona e via Rielta viene approvata nel 1974. Il progetto redatto dagli studi Laris spa di Milano e Gualdi-Costa di Roma, per un costo preventivato di L. 2.700.000, viene approvato nel 1979. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, verbali consiglio nr. 520 del 6-5-1974 e nr. 114 del 5-2-1979.

120. Ibid., verbali consiglio nr. 152 del 16-2-1973.

121. Comune di Venezia, Piano programma 1977/1980, Venezia 1979, pp. 136-137.

122. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, verbali consiglio nr. 113 del 5-2-1979.

123. Comune di Venezia, Proposte di piano programma 1982-85, Venezia 1982, p. 357.

124. Anche il progetto del centro civico, redatto da Carlo Salomoni, spesa prevista 925 milioni, viene approvato all’inizio del 1979. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, verbali consiglio nr. 115 del 5-2-1979.

125. Piazza Ferretto. Progetto esecutivo di riqualificazione e arredo urbano di Guido Zordan, a cura di Paolo Ceccon-Pisana Posocco, Venezia 1995.

126. La collocazione di piazza Maggiore al di fuori del recinto del Castello era ancor meglio evidenziata, nel progetto originario, dalla valorizzazione dello storico ponte delle Erbe, tra la stessa piazza e piazzetta Matter, con la demolizione degli allargamenti che vi si erano aggiunti nel tempo.

127. S. Barizza, Storia di Mestre, pp. 25-39.

128. Città murate del Veneto, a cura di Pier Luigi Fantelli-Massimo Pasqualin-Lorenzo Ranzato, Mestre 1994.

129. Per il coraggio e l’originalità merita una segnalazione Samuele Galeotti, Mestre, realtà e promesse di una città incompiuta, Venezia 1991. La pubblicazione, corredata da alcuni brevi saggi di Antonio Di Mambro, Bernhard Winkler, Guido Zordan e Giancarlo De Carlo, contiene un consistente apparato di foto della Mestre d’oggi.

130. Questo aspetto è stato volutamente sottolineato in una delle ultime esposizioni di immagini storiche provenienti dall’Archivio Storico di Mestre e da parecchi fondi privati, allestita presso il Centro Commerciale Le Barche (ex Coin), in occasione della sua apertura al pubblico nel maggio del 1996; v. Mestre oltre le cartoline, a cura di Sergio Barizza-Daniele Resini, Venezia 1996.

131. Oggi la vita è a Mestre, a cura di Ivo Prandin, Mestre 1997, e Mestre, un bacio e addio, a cura di Id., Mestre 1998.

132. Comune di Venezia, Hemingway e Mestre, Venezia 1999.

133. Ibid., p. 1.

Indice
  • 1 Flashback: l’immagine
  • 2 Preambolo: Mestre nei «discorsi della corona»
  • 3 La storia
    • 3.1 L’antefatto: la «grande Venezia»
    • 3.2 Ponti e teste di ponte, strade e metropolitane
    • 3.3 Una città di case
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  • PRESA DEL FORTE DI MARGHERA
  • REGNO LOMBARDO VENETO
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Vocabolario
novecènto
novecento novecènto agg. num. card. [comp. di nove e cento], invar. – 1. Numero che contiene nove centinaia, e il segno che lo rappresenta (in cifre arabe 900, in numeri romani CM): una scuola con n. (o 900) alunni. 2. Come s. m. (per lo...
città-regione
citta-regione città-regione (città regione), loc. s.le f. Area metropolitana di considerevole estensione e con elevata densità abitativa alla quale viene riconosciuto lo statuto di regione a sé stante per il rilievo sociale e politico che...
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