La cibernetica
Il termine cibernetica fu coniato dal matematico Norbert Wiener (1894-1964), che nel 1948 pubblicò negli Stati Uniti un libro destinato ad avere un successo planetario: Cybernetics, or control and communication in the animal and the machine. Come suggeriva il titolo stesso del libro, l’obiettivo della cibernetica wieneriana era lo studio unificato degli organismi e delle macchine, anzi delle nuove macchine o «nuovi automi», come li chiamava Wiener: quelli dotati di dispositivi di retroazione negativa, paragonabili ai meccanismi di riequilibrazione omeostatica presenti negli organismi (cfr. Omodeo 1979). In questo senso, l’origine della cibernetica risale alla collaborazione di Wiener con il fisiologo Arturo Rosenblueth (1900-1970), allievo di Walter B. Cannon, nei primi anni Quaranta del Novecento. Il programma della cibernetica prese forma molto presto nel corso di una serie di convegni svoltisi tra il 1946 e il 1953 a New York, le Macy conferences, che videro la partecipazione dei più noti fondatori della disciplina e di neurologi come Rafael Lorente de Nó, di psicologi come Kurt Lewin, di sociologi come Paul Lazarsfeld, di antropologi come Gregory Bateson e Margaret Mead, per non parlare di matematici e pionieri della scienza dei calcolatori come John von Neumann e Claude Shannon (cfr. a tale proposito Cordeschi 2002).
La cibernetica si presentava dunque come un’area di ricerca fortemente interdisciplinare, che affrontava argomenti sviluppati da discipline fino a quel momento rimaste separate. In Italia, la cibernetica fa ufficialmente il suo ingresso nella prima metà degli anni Cinquanta del Novecento, in particolare quando, tra il 1952 e il 1954, per iniziativa di Enzo Cambi e Anna Cuzzer, si costituì, presso l’Istituto superiore delle poste e telecomunicazioni, il Centro italiano di cibernetica. A esso avevano aderito il pioniere dei linguaggi di programmazione Corrado Böhm, il matematico Bruno De Finetti, l’ingegnere Giorgio Sacerdoti, il fisico e poi filosofo della scienza Vittorio Somenzi. Era un gruppo di studiosi che si incontravano in seminari informali, e che nel 1954 presero l’iniziativa di organizzare la sezione Elettronica e cibernetica nell’ambito del convegno del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) a Milano dedicato a Elettronica e televisione (A. Cuzzer, La diffusione dell’informatica in Italia, in La cultura informatica in Italia, 1993, p. 11). L’iniziativa, sostenuta dall’allora presidente del CNR Gustavo Colonnetti, vide la partecipazione di pionieri della cibernetica e della teoria dell’informazione come Nicolas Brillouin, Louis Couffignal, Dennis Gabor.
Come si vede, non meno che altrove, anche in Italia la cibernetica è stata fin dalle origini oggetto dell’interesse di un gruppo eterogeneo di studiosi. Diversi sono stati i centri di cibernetica attivi in Italia nel periodo del suo maggiore sviluppo, all’incirca tra i primi anni Cinquanta e i primi anni Settanta del Novecento, e diversi gli interessi di ricerca prevalenti dei loro promotori. Come ha ricordato Somenzi,
i centri di cibernetica sorti a Napoli con Caianiello e Braitenberg, a Genova con Borsellino e Gamba, a Milano con Ceccato e Maretti, si differenziavano tra loro nettamente, con prevalenza nel primo della neurofisiologia, nel secondo della biofisica e nel terzo della linguistica. Ancora più specializzati erano i centri dedicati al calcolo automatico, ai servomeccanismi e all’automazione industriale (V. Somenzi, Cibernetica, informatica e filosofia della scienza, in La cultura informatica in Italia, 1993, p. 166).
In questo capitolo accenneremo solo di passaggio a questi ultimi, soffermandoci piuttosto sui primi. Nel complesso, le ricerche cibernetiche in Italia del periodo ricordato, rispetto al progetto interdisciplinare originario, hanno progressivamente finito per frammentarsi, quando non arenarsi, per ragioni comunque comuni a quelle di altri Paesi. Ciononostante, queste ricerche hanno contribuito a formare generazioni di ricercatori che nei decenni successivi si sono confrontati con la non facile eredità della cibernetica.
Una figura tra le più importanti nella cibernetica italiana è Eduardo Renato Caianiello (1921-1993), sia per la sua attività di promozione di un ampio spettro di ricerche interdisciplinari, sia per i risultati ottenuti non solo nel settore delle reti neurali ma anche, come fisico, in quello della teoria quantistica dei campi. Dopo gli studi di fisica in Italia e negli Stati Uniti, nel 1956 Caianiello ottenne la cattedra di fisica teorica presso l’Università di Napoli, dove l’anno seguente, anche con finanziamenti del CNR, diede vita all’Istituto di fisica teorica, con una sua sede distaccata, e al suo interno fondò il Gruppo di cibernetica. In realtà l’interesse di Caianiello per la cibernetica era stato suscitato da un seminario di Wiener promosso nel 1954 a Roma da Enrico Fermi. In quell’occasione Caianiello entrò in contatto con il neurofisiologo e psichiatra Valentino Braitenberg (1926-2011), che chiamò a Napoli, dove avrebbe dato un contributo decisivo all’attività del Gruppo (Marinaro, Ricciardi, Scarpetta 1995, p. 3).
Caianiello si dedicò all’organizzazione di numerosi incontri e convegni sui temi della cibernetica, finanziati sia dal CNR, sia da enti industriali e istituzioni internazionali anche militari come la NATO (è noto l’interesse per le applicazioni belliche della cibernetica a partire dal secondo conflitto mondiale). Uno dei più importanti fu la Summer school di Varenna, svoltasi nel 1958, alla quale parteciparono, oltre a Wiener e Rosenblueth, Robert M. Fano, Yehoshua Bar-Hillel, Y.W. Lee, Dennis Gabor. Un’altra iniziativa di Caianiello fu il corso Cybernetics of neural processes, organizzato a Napoli nel 1962 presso l’Istituto di fisica teorica, con la lezione inaugurale di Wiener e la partecipazione, tra gli altri, di Donald M. MacKay e Gordon Pask, oltre a Braitenberg e Silvio Ceccato (cfr. Cybernetics of neural processes, a cura di E.R. Caianiello, 1965). Va infine menzionata la Summer school di Ravello del 1964. L’attività congressuale ebbe senza dubbio il merito di portare Napoli in primo piano nelle ricerche internazionali di cibernetica. Come ricorda Aldo de Luca, uno dei primi allievi e collaboratori di Caianiello, in quegli anni si svolgevano regolarmente anche incontri informali del Gruppo, con ospiti come Wiener e Warren S. McCulloch. Lo stesso de Luca, con il collega e amico Luigi Maria Ricciardi (con il quale pubblicò nel 1971 una Introduzione alla cibernetica), fu coinvolto nel 1967 in un progetto americano chiamato Marte, che riguardava un robot che sarebbe dovuto essere in grado di riconoscere eventuali forme di vita su Marte (de Luca 2011, pp. 2-3).
Caianiello pubblicò un primo lavoro sulle reti neurali nel 1959 con Braitenberg e Francesco Lauria, suo allievo e poi collaboratore (V. Braitenberg, E.R. Caianiello, F. Lauria, N. Onesto, A system of coupled oscillators as a functional model of neuronal assemblies, «Nuovo cimento», 1959, 11, pp. 278-82). Ma è al 1961 che risale quello che è forse il suo principale contributo all’argomento, che lo rese internazionalmente noto, l’articolo Outline of a theory of thought-processes and thinking machines (pubblicato in «Journal of theoretical biology», 1, pp. 204-35). La tesi di Caianiello era che i processi cerebrali, per quanto complessi, rispondessero a leggi dinamiche relativamente semplici. Per dimostrarlo, si doveva ricorrere a un modello idealizzato dei processi neurali reali sotto forma di reti neurali artificiali. Come egli premetteva, «sebbene questo necessariamente implichi delle drastiche schematizzazioni e semplificazioni, si spera che le caratteristiche essenziali alla produzione del pensiero siano conservate dal modello» (Outline of a theory of thought-processes, cit., rist. 1965, p. 334). Il modello a rete neurale doveva dunque esibire alcune caratteristiche proprie del cervello, come la capacità di ricordare e quella di dimenticare, quella di apprendere e quella di autorganizzarsi. In particolare, Caianiello introduceva due sistemi di equazioni. Nel primo erano descritti i neuroni della rete a coefficienti di accoppiamento costanti. Queste «costanti» erano poi le soluzioni di un secondo insieme di equazioni, soluzioni che dipendevano dall’attività dei neuroni. In questo modo si realizzavano l’apprendimento e l’autorganizzazione della rete, e l’elemento essenziale di tutto il sistema era l’«ipotesi adiabatica dell’apprendimento», e cioè che le variazioni dei coefficienti di accoppiamento fossero molto lente rispetto ai potenziali d’azione dei neuroni.
Caianiello (Premessa, «La ricerca scientifica», Quaderni, 1964, 11, pp. 9-12) presentava il Gruppo di cibernetica dei primi anni Sessanta come articolato in tre sezioni – il Gruppo teorico, il Laboratorio di neuroanatomia e neurofisiologia e il Laboratorio di elettronica –, che nella sua visione non erano che strade diverse per arrivare al comune obiettivo della cibernetica. Questa consisteva in un programma interdisciplinare, quello di
studiare la “produzione del pensiero” in organismi viventi, o in macchine, o in società – questo essendo un modo, forse espressivo, per accennare allo studio del comportamento dei sistemi dinamici complessi, funzionanti mediante scambio di informazioni tra le parti componenti, a prescindere dalla loro natura specifica (cervelli, organismi sociali, reti logiche,...) (Premessa, «La ricerca scientifica», cit., p. 9).
Riecheggiava in queste parole il messaggio originario della cibernetica wieneriana, ma, diversamente da Wiener, il quale aveva sottolineato soprattutto gli aspetti matematici del problema dell’elaborazione e della trasmissione dell’informazione, per Caianiello la cibernetica era in primo luogo la scienza dei sistemi complessi (organici, come il cervello, e artificiali, come quelli costruiti dall’uomo), dunque, come conclude Settimo Termini, era un «capitolo della fisica. […] In questo senso, [egli] si differenziò nettamente dall’impostazione che si può trovare, nell’affrontare i temi della cibernetica, in molte riviste americane o russe degli anni Sessanta» (Presente e futuro dell’Istituto: Stefano Pisani intervista Settimo Termini, in Memoria e progetto, 2010, p. 180).
In questo quadro, diverse furono le linee di ricerca promosse da Caianiello. Una prima linea di ricerca riguardava i problemi legati alla fisica: in particolare, la superconduttività e la fisica dello stato solido, alla quale contribuì un allievo del biofisico Alwyn C. Scott, Antonio Barone, che fu il primo a introdurre questi temi di ricerca in Italia, collegandoli a quelli sulle reti neurali (cfr. A. Barone, Close encounters with far ideas, in Imagination and rigor. Essays on Eduardo R. Caianiello’s scientific heritage, ed. S. Termini, 2005, pp. 13-30). Una seconda linea di ricerca era quella promossa da Braitenberg sul funzionamento del cervelletto, con l’obiettivo di trovare le equazioni matematiche che ne regolano i meccanismi. Tali ricerche andavano dalla modellizzazione allo studio anatomico-fisiologico del sistema nervoso centrale di vertebrati inferiori, in collaborazione con Milena Kemali e Uja Vota, allo studio di comportamenti della mosca, con Cloe Taddei Ferretti (L’incubazione dell’incubatore: dal Centro di cibernetica all’Istituto di cibernetica, in Memoria e progetto, 2010, p. 118). Braitenberg rimase a Napoli fino al 1968, quando fu chiamato a codirigere il Max Planck Institut für Biologische Kybernetik di Tübingen, proprio mentre il Laboratorio di cibernetica del CNR, che Caianiello aveva fondato in quello stesso anno, si stava costituendo ad Arco Felice, presso Napoli, per diventare l’Istituto di cibernetica del CNR. Braitenberg avrebbe poi fondato nel 1998 il Laboratorio di scienze cognitive dell’Università di Trento.
Collegata a questa linea di ricerca era quella che riguardava lo studio delle equazioni matematiche per la spiegazione di meccanismi neurofisiologici e la loro modellizzazione attraverso reti neurali artificiali. Educanda era una rete neurale del genere, dunque un esempio di modello semplificato del funzionamento del sistema nervoso nel senso che abbiamo ricordato (E.R. Caianiello, G. Gambardella, G. Trautteur, Progetto ‘Educanda’, «Quaderni della ricerca scientifica», 1964, 11, pp. 59-61). Si trattava di un dispositivo simile al Perceptron, la rete neurale artificiale costruita da Frank Rosenblatt nella metà degli anni Cinquanta, ma era una rete hardware, consistente in 80 neuroni artificiali realizzati con valvole e relè elettromeccanici interconnessi attraverso resistenze, che potevano essere variate tramite potenziometri. Ogni neurone poteva avere solo due stati, acceso o spento, ed era connesso agli altri tramite le resistenze. Si studiarono i «riverberi», ossia i comportamenti circolari e persistenti della rete in risposta a stimolazioni iniziali e a configurazioni diverse delle resistenze.
Educanda non fu l’unico progetto hardware dell’Istituto di cibernetica. Qualche anno più tardi, tra il 1969 e il 1970, Ernesto Burattini e altri ricercatori si dedicarono alla realizzazione di una seconda rete neurale hardware chiamata DIANA (DIgital Analogic NeurAL net). La rete era costituita da 80 schede a transistor corrispondenti ad altrettanti neuroni, e si richiamava al modello che Caianiello aveva formulato nel suo articolo del 1961. I neuroni potevano essere collegati via hardware attraverso una matrice delle connessioni, le soglie dei neuroni erano regolate attraverso dei potenziometri, e l’ingresso era costituito da 80 interruttori, che alla partenza inviavano o meno un impulso ai neuroni della rete, mentre 80 led, accendendosi e spegnendosi, mostravano lo stato della rete istante per istante (cfr. E. Burattini, Memoria e progetto, in Memoria e progetto, 2010, p. 70).
Diversa dalle precedenti era una terza macchina, Procuste, un programma per calcolatore alla cui realizzazione partecipò il fisico Renato Capocelli (1940-1992). Procuste avrebbe dovuto essere in grado di analizzare in modo formale ‘parole’ di un linguaggio nel senso più lato (quelle di una lingua, o anche grafici, disegni e così via). Il programma era nato come un progetto di lungo termine che si prefiggeva di determinare «quali siano i caratteri essenziali che dovranno essere maggiormente utilizzati da una macchina che riconosca forme» (E.R. Caianiello, Premessa, cit., p. 11). Il progetto si era poi avviato in collaborazione con il Centro studi calcolatrici elettroniche (CSCE) dell’Università di Pisa, con l’obiettivo di costruire, una volta effettuate le simulazioni su un calcolatore IBM 1620, una macchina analogica specializzata, che però non fu mai realizzata. Caianiello la definiva «una macchina che impara a compiere l’analisi grammaticale di un linguaggio qualsiasi ignorandone il contenuto semantico» (p. 11). Dopo un periodo di addestramento e autorganizzazione la macchina avrebbe dovuto essere capace di determinare le proprietà di appartenenza di una «parola», intesa in senso generale come una forma, a un linguaggio dato. La macchina fu utilizzata per un esperimento, che però non andò oltre la fase iniziale, sulla frequenza delle sillabe nella lingua italiana, usando come corpus il primo capitolo dei Promessi sposi. Pur non avendo avuto il successo sperato, Procuste è stata, come conclude Antonio Restivo, «la palestra in cui si è formata una generazione di ricercatori informatici, che avrebbero, successivamente, dato i loro migliori contributi […] nelle aree dei linguaggi formali e della combinatoria (e algoritmica) delle parole» (A. Restivo, Dal progetto Procuste alle ricerche sui linguaggi formali, in Memoria e progetto, 2010, p. 38).
La vitalità dell’Istituto di Arco Felice fu messa a dura prova tra gli anni Sessanta e i Settanta, e la sorte della cibernetica italiana seguì le alterne vicende della ricerca che si verificarono in altri Paesi, in particolare negli Stati Uniti, anche perché in Italia buona parte dei finanziamenti proveniva da fondi internazionali. Caianiello, inoltre, si trovò ad affrontare diversi conflitti e difficoltà all’interno dell’Istituto. Da un lato c’erano le vertenze sindacali di quegli anni, con rivendicazioni salariali e di organizzazione del lavoro che vedevano in lui la controparte; dall’altro c’erano le difficoltà insite nello stesso progetto interdisciplinare della cibernetica, che inducevano molti membri a sviluppare la ricerca nei rispettivi settori di specializzazione. Quanto alle reti neurali, il libro Perceptrons. An introduction to computational geometry (1969) di Marvin L. Minsky e Seymour Papert ne denunciava i limiti intrinseci, che la tecnologia hardware e software dell’epoca non era in grado di superare.
Infine, Caianiello lasciò Napoli per andare a Salerno, dove nel 1972 fondò prima la facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali della locale Università e poi, nel 1981, l’Istituto internazionale per gli alti studi scientifici (IIAS) a Vietri sul Mare. Lo IIAS divenne la sede della SIREN (Società Italiana REti Neuroniche), da lui fondata nel 1989 e presieduta sino al 1993, anno della sua scomparsa.
Il CNR svolse un ruolo importante nel finanziare le ricerche di cibernetica in Italia. Anche se tanto il convegno di Milano promosso dal Centro italiano di cibernetica nel 1954 quanto le prime ricerche del Gruppo napoletano furono sostenuti dal CNR, la cibernetica entrò ufficialmente a far parte degli interessi del CNR durante la presidenza, dal 1960 al 1965, del fisico Giovanni Polvani (1892-1970). Questi promosse nell’ambito delle attività della fisica un’area di coordinamento chiamata Impresa cibernetica, che nel 1968 diventò un organo ufficiale del CNR con il nome di Gruppo nazionale di cibernetica. Il Gruppo aveva tra i suoi fondatori, oltre a Polvani, Caianiello e Braitenberg, Adriano Gozzini, Emilio Gatti, Guido Palmieri, Ivo De Lotto e Antonio Borsellino, uno dei protagonisti della cibernetica italiana. Impresa cibernetica fu inclusa all’inizio nell’area dei fisici teorici, quali erano Borsellino e Caianiello, e successivamente nell’area dei matematici. È mancato, all’interno del CNR, un settore specificamente dedicato all’informatica, come fu in Francia, ricorda Stefano Levialdi, il Plan calcul (Ricordi del Laboratorio di cibernetica di Napoli, in Memoria e progetto, 2010, p. 42). Il Gruppo nazionale di cibernetica del CNR esercitò un ruolo di promotore scientifico e culturale fin da quando, nel 1967, riunì per la prima volta a Pisa i ricercatori attivi in Italia in questo settore. Da allora, quasi annualmente e per un lungo periodo, il CNR organizzò congressi di cibernetica, nei quali si incontravano le diverse voci che animavano, in Italia e all’estero, il variegato panorama della ricerca in questa area.
Fu Antonio Borsellino (1915-1992), fisico teorico all’Università di Genova, poi docente di Biofisica a Trieste presso la SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati), a promuovere il finanziamento e l’ampliamento dei centri di ricerca di cibernetica in Italia, quando, tra il 1968 e il 1972, fu presente nel Comitato delle scienze fisiche del CNR. Nel 1968, subito dopo il suo insediamento, Borsellino riuscì a ottenere ingenti finanziamenti che consentirono l’apertura di due laboratori, i quali andarono ad aggiungersi a quello già attivo a Napoli sotto la direzione di Caianiello. Si trattava del Laboratorio di cibernetica e biofisica di Genova, con sede a Camogli, diretto prima da Palmieri e successivamente, tra il 1973 e il 1981, dallo stesso Borsellino, e del Laboratorio per lo studio di biomolecole e cellule di Pisa, diretto da Alessandro Checcucci. A questi laboratori si aggiunse un centro cofinanziato dal CNR presso il Politecnico di Milano sotto la guida di Gatti.
Nel 1968 la cibernetica figurava all’ottavo posto nella lista dei nove settori che costituivano il piano quinquennale dei fisici. All’epoca, il CNR svolgeva anche il ruolo di finanziatore della ricerca presso le Università, e poteva così promuovere la crescita della cibernetica al loro interno. Nel laboratorio di Camogli e in quello di Pisa furono investite risorse ingenti, più di ottanta milioni di lire dell’epoca (cfr. Antonio Borsellino: dalla fisica alle nuove scienze, 2009, pp. 70-71).
A partire dalla fine degli anni Cinquanta le ricerche del Laboratorio di Camogli si concentrarono in particolare sul riconoscimento di forme con la macchina PAPA (Programmatore e Analizzatore Probabilistico Automatico). Si trattava di uno dei primi sistemi di riconoscimento di forme di carattere ottico adattivo mai costruito, sviluppato dal gruppo che comprendeva, oltre a Borsellino e Palmieri, Augusto Gamba (1923-1996) e Rinaldo Sanna. Il sistema prevedeva che un insieme di fotocellule (A-unit) ricevessero l’immagine da classificare filtrata da una maschera random installata su ciascuna fotocellula. A seconda se la luce riflessa su una fotocellula di riferimento con un attenuatore fosse più alta o più bassa di una soglia stabilita, la fotocellula «sparava» un sì o un no nel «cervello» della macchina PAPA. Tale cervello era costituito da una memoria che immagazzinava le serie di sì e no di ogni A-unit per ogni classe di modelli mostrati, oltre a includere una parte che valutava la probabilità che un modello sconosciuto appartenesse a una classe data (A. Borsellino, A. Gamba, An outline of a mathematical theory of PAPA, «Il Nuovo Cimento», s. X, 1961, 20, supplemento, p. 221). In un primo momento sia la parte delle istruzioni sia la parte di riconoscimento erano basate su circuiti elettronici che analizzavano le schede perforate che venivano prodotte dalla macchina PAPA come uscita. Questo sistema fu presto considerato troppo farraginoso e si cercò di accelerare i processi introducendo un sistema elettronico in grado di dare indicazioni precise sull’orientamento delle forme da riconoscere. Tuttavia, nei primi prototipi della macchina PAPA il processo di apprendimento era sempre separato dall’attività di riconoscimento delle forme, e durante l’apprendimento l’informazione in ingresso veniva prima trasformata e poi inclusa nella memoria.
Sempre in quegli anni Palmieri propose di progettare una macchina nella quale gli esempi stessi, prima di essere elaborati, fossero inclusi nella memoria e il processo di addestramento fosse solo un altro tipo di programma (G. Palmieri, R. Sanna, A new PAPA machine, «Il Nuovo Cimento», s. X, 1962, 23, supplemento, pp. 266-75). Da parte sua Gamba suggerì la possibilità di una rete PAPA «multilivello», che avrebbe permesso di generalizzare il tipo di stimolo preso in esame dalla macchina stessa, che era non più solo ottico, ma anche acustico o elettronico, e si spinse a ipotizzare che l’ingresso della macchina fosse un’altra versione della macchina PAPA (A. Gamba, A multilevel PAPA, «Il Nuovo Cimento», s. X, 1962, 26, supplemento, pp. 176-77). Queste versioni più innovative di PAPA non furono mai implementate, ma costituirono un primo esempio di dispositivo che utilizzava la valutazione casuale per riconoscere le forme attraverso algoritmi statistici basati su programmi di addestramento. In Perceptrons, Minsky e Papert descrissero con particolare risalto queste «Gamba machines».
A Genova, come a Napoli, si mantenne inizialmente la tradizione di ricerche che andavano dagli studi biologici e neurofisiologici sul comportamento degli organismi alla costruzione di artefatti che ne simulavano le prestazioni intelligenti, nello spirito del progetto cibernetico originario. Quest’ultimo, tuttavia, si è affievolito con il tempo. Negli anni Settanta, nel Laboratorio di Genova l’indirizzo cibernetico tendeva a specializzarsi in ricerche di Intelligenza Artificiale, in particolare nel settore della visione (basti ricordare il nome di allievi di Borsellino come Tomaso Poggio e Vincent Torre). L’attuale Istituto di biofisica del CNR, nato dall’aggregazione del Laboratorio di Genova con quelli di Milano, Pisa, Palermo e Trento, si è dedicato prevalentemente alla biofisica, intesa come applicazione dei metodi delle scienze fisiche allo studio della struttura e dei meccanismi di funzionamento dei sistemi biologici. Dal canto suo, l’attuale Istituto di cibernetica napoletano, trasferitosi alla fine degli anni Novanta da Arco Felice a Pozzuoli, accanto a progetti di bioinformatica e di Intelligenza Artificiale, in particolare nel settore delle reti neurali e delle loro applicazioni, ha sviluppato prevalentemente ricerche in fisica della superconduttività. Infine, sia nell’Università di Genova sia in quella di Napoli Federico II sono stati inaugurati importanti laboratori di robotica.
Le vicende della diffusione della cibernetica in Italia presso il più vasto pubblico dei filosofi e degli studiosi di scienze umane si sono intrecciate in modo decisivo con quelle della Scuola operativa italiana (SOI), attiva fin dalla seconda metà degli anni Quaranta a opera dei già menzionati Silvio Ceccato (1914-1997) e Vittorio Somenzi (1918-2003) insieme a Giuseppe Vaccarino (n. 1919). Qui ci limitiamo a considerare alcuni originali sviluppi della cibernetica a opera di Ceccato e di Somenzi.
Ceccato, figura di ricercatore eclettico e antiaccademico, diresse fin dalla fondazione (1957) il Centro di cibernetica e attività linguistiche presso l’Università di Milano (cfr. Studi in memoria di Silvio Ceccato, 1999). Da sempre critico verso la cibernetica di Wiener, Ceccato parlò della sua come di una «terza cibernetica», per distinguerla sia da quella wieneriana, o dell’automazione, interessata alla costruzione di macchine che simulano una prestazione umana ma non le catene di operazioni o i processi umani che la producono, sia dalla bionica, interessata sì ai processi, ma esclusivamente a quelli neurali e biologici (a quest’ultima rivolse invece la sua attenzione Somenzi, interpretandola come diremo). Questa «cibernetica della mente» o «logonica», come Ceccato pure la definì, proponeva quell’analisi delle operazioni mentali trascurata dalla cibernetica wieneriana (definita «comportamentistica») e al momento irraggiungibile per la bionica (La mente vista da un cibernetico, 1972). Nel quadro di questa visione della cibernetica, come egli diceva, «modellistica», l’attività di Ceccato come linguista, con alcuni collaboratori tra i quali Bruna Zonta, è quella che è apparsa con il tempo la più innovatrice.
Nel 1951 egli pubblicava Il linguaggio con la tabella di Ceccatieff. Il libro, un’analisi delle operazioni mentali nello stile della SOI, venne tradotto in inglese da Ernst von Glasersfeld, filosofo ed epistemologo costruttivista che partecipò attivamente alla SOI, e anche alle successive iniziative, dovute soprattutto a un allievo di Ceccato, Felice Accame, nell’ambito sia della rivista «Methodologia», sia dei Working papers della Società di cultura metodologico-operativa, la cui attività si è sempre idealmente ricollegata alla SOI.
Nel 1955 troviamo Ceccato insieme a Somenzi al Symposium on information theory di Londra. Mentre Somenzi interveniva con una relazione sulla possibilità di realizzare i processi dell’induzione nelle macchine, Ceccato presentava un progetto di traduzione automatica, ideato con l’ingegnere Enrico Maretti, sempre basato sull’analisi dell’attività mentale in termini di operazioni caratteristica della SOI – un progetto da lui riproposto come Adamo II al Congrès international de cybernétique di Namur del 1956. Una prima realizzazione di Adamo II, dovuta in primo luogo a Maretti, era stata già esibita con il nome di «frammento del cervello di Adamo II» alla Mostra internazionale dell’automatismo di Milano, svoltasi sempre nel 1956 nell’ambito del Convegno internazionale sull’automatismo organizzato dal CNR. Il convegno vide la partecipazione di un gran numero di ricercatori attivi nel campo dell’automazione nelle sue diverse applicazioni, dall’industria all’organizzazione pubblica, e nei suoi diversi aspetti economici, sociali, formativi, oltre che nel campo delle telecomunicazioni, e in quello dei grandi calcolatori che all’epoca si costruivano in Italia e all’estero. Accanto a Ceccato e Maretti, erano presenti, tra i molti italiani, i già ricordati Corrado Böhm e Anna Cuzzer, e poi Antonio Lepsky, Antonio Ruberti e Roberto Busa (cfr. CNR, Atti del Convegno internazionale sui problemi dell’automatismo, 1958). Con quest’ultimo, un pioniere nell’automazione dei lessici (il suo Index Thomisticus resta un lavoro esemplare in questo campo), collaborò inizialmente Antonio Zampolli, poi fondatore dell’Istituto di linguistica computazionale del CNR di Pisa.
Alla Mostra dell’automatismo di Milano, Adamo II, nonostante le prestazioni rudimentali, suscitò notevole scalpore. Ceccato, tuttavia, interrotta l’intrapresa del progetto di un «cronista meccanico», evoluzione di Adamo II, negli anni che seguirono si dedicò allo studio delle difficoltà insite nell’approccio tradizionale alla traduzione automatica. Soprattutto queste ricerche lo hanno reso un riconosciuto pioniere di successivi approcci all’analisi del linguaggio naturale e alla traduzione automatica (cfr. Hutchins 1986, pp. 122-27), anche nell’ambito di un programma di ricerca al quale Ceccato restò comunque estraneo, quello dell’Intelligenza Artificiale. Quando egli pubblicava Linguistic analysis and programming for mechanical translation (1961), nelle ricerche sull’elaborazione del linguaggio naturale si era ormai abbandonato l’obiettivo della cosiddetta «fully automatic high quality machine translation», e si cercavano nuove strade per affrontare la gestione del linguaggio naturale con i calcolatori. Ceccato affrontava i problemi del ragionamento di senso comune e del ruolo del contesto nell’interpretazione delle frasi e della loro disambiguazione, nonché del carattere implicito dell’informazione usata dai parlanti. Le sue «sfere nozionali» erano un tentativo di affrontare l’insieme di queste difficoltà, spesso insormontabili per le macchine, ma relativamente facili da superare per gli esseri umani. Le sfere nozionali erano reti di concetti collegati da nessi relazionali a vario livello di generalità o specificità, come tutto-parte, genere-specie, classe-istanza, o da nessi relazionali come quelli temporali o spaziali e così via. Esse anticipavano di fatto i successivi sistemi di rappresentazione della conoscenza sviluppati in Intelligenza Artificiale a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta con le reti semantiche di Ross Quillan, e successivamente con i frames di Minsky e gli scripts di Roger Schank (cfr. Cordeschi 2002).
I progetti di automazione del linguaggio naturale di Ceccato si interruppero presto, al pari di altri progetti in altri Paesi, a cominciare dagli Stati Uniti, dai quali egli aveva inizialmente ricevuto finanziamenti. Come nel caso delle reti neurali, anche per la traduzione automatica i limiti di questi programmi di ricerca, dovuti anche alla tecnologia hardware e software dell’epoca, portarono a un ridimensionamento, se non a una cessazione, dei finanziamenti in diversi Paesi.
A Somenzi, che ricoprì la prima cattedra di filosofia della scienza presso l’Università di Roma, si deve quello che è il primo volume di argomento cibernetico pubblicato in Italia: la raccolta di scritti I principi della cibernetica e dei servomeccanismi (1953). Nel volume si documentavano diverse realizzazioni dei servomeccanismi dell’epoca, ma l’Appendice che lo concludeva, intitolata La cibernetica confronta uomini e automi, testimoniava l’iniziale interesse di Somenzi per questi argomenti. Il «confronto» in questione era quello riconducibile all’idea originaria di Wiener e degli altri pionieri della cibernetica, vista come studio unificato dei meccanismi di comunicazione e autoregolazione negli organismi viventi e nei «nuovi automi», studio che era stato poi esteso alla psichiatria, alla sociologia e ad altre scienze umane: un tema, questo, toccato anche in alcuni contributi inseriti da Somenzi nella raccolta.
È negli anni successivi che l’interesse di Somenzi per la cibernetica assunse una propria connotazione. Forse l’antologia La filosofia degli automi (1965) documenta questo snodo meglio di altri suoi contributi. Wiener, insieme ad altri pionieri della cibernetica e della scienza dei calcolatori, come Claude Shannon, John von Neumann, Alan Turing, figura tra i protagonisti di questo volume, che in Italia doveva influenzare generazioni di studenti e futuri ricercatori. Ma nella prefazione al volume Somenzi chiariva come l’indirizzo della cibernetica che maggiormente lo interessava era quello, tutto sommato all’origine secondario per Wiener, della bionica, che egli concepiva come l’impresa in cui neurologi e biochimici, unitamente a informatici e ingegneri elettronici, cominciavano a sperimentare la riproduzione materiale «artificiale» delle strutture organiche e dei processi, individuali ed evolutivi, che hanno permesso alla natura di raggiungere risultati impensabili per la tecnica umana. Si trattava di un obiettivo ambizioso, che andava ben al di là dell’approccio basato sui modelli artificiali sperimentato dalla cibernetica delle origini e soprattutto dall’Intelligenza Artificiale di quegli anni, che avevano privilegiato, e continueranno a privilegiare, la riproduzione funzionale delle capacità degli organismi viventi, ovvero la riproduzione di tali capacità su strutture che, rispetto a quelle reali o «naturali», erano radicalmente diverse o comunque molto semplificate (programmi per calcolatore, reti neurali artificiali, sistemi robotici).
Era su questa base, o in questa sua variante, che la cibernetica suggeriva a Somenzi le premesse per una visione integralmente materialista della vita organica e mentale. Egli entrava così nel merito di problemi sui quali i filosofi avevano indagato da sempre. Il fatto di essere invitato come relatore al convegno pisano della Società filosofica italiana del 1967 testimonia l’interesse che le sue tesi suscitarono in quel momento presso i filosofi italiani. Basta soltanto dare uno sguardo alle numerose comunicazioni sui temi già sollevati da Somenzi (a opera di Evandro Agazzi, Enrico Berti, Valerio Tonini, Roberto Vacca e altri scienziati e filosofi) per rendersene conto.
Somenzi sviluppò successivamente diversi argomenti a sostegno delle sue tesi in vari contributi (ora raccolti in Vittorio Somenzi: antologia e testimonianze, 2011). In questi è possibile vedere come egli mantenesse una certa distanza nei confronti dell’Intelligenza Artificiale dell’epoca. In essa egli vedeva il proseguimento di almeno una parte del programma cibernetico originario, e di essa apprezzava l’assunzione fisicalista (la mente come dispositivo fisico di elaborazione dell’informazione). Tuttavia, egli ne giudicava la simulazione di funzioni umane su calcolatore non coerente con l’approccio bionico che gli stava più a cuore. Seguì comunque con interesse alcuni sviluppi dell’Intelligenza Artificiale: dai primi esperimenti di simulazione cognitiva su calcolatore alle ricerche di Herbert A. Simon (1916-2001) sulla scoperta scientifica, fino alla teoria delle euristiche di Douglas Lenat (n. 1950), che a lui sembrava riproporre nelle macchine il tema dell’evoluzione darwiniana – quest’ultima ormai (siamo alla fine degli anni Ottanta) oggetto prevalente dei suoi studi, poi sviluppati da diversi allievi.
Ma una certa distanza Somenzi mantenne anche nei confronti del connessionismo degli anni Ottanta e Novanta, che promuoveva una critica dell’Intelligenza Artificiale talvolta all’insegna di una «nuova cibernetica», sulla base delle reti neurali di quegli anni, le quali superavano alcuni limiti di quelle dei decenni precedenti, denunciati, come abbiamo ricordato, nel libro del 1969 di Minsky e Papert.
Fu agli inizi degli anni Novanta che egli intervenne con precisi rilievi critici verso il connessionismo, in occasione della traduzione italiana di una selezione di scritti dei suoi più popolari promotori del momento, David E. Rumelhart e gli altri ricercatori del gruppo PDP (Parallel Information Processing). In quell’occasione egli sostenne che, se invece di intraprendere la strada da loro imboccata, si fosse mantenuto quello che definiva «l’atteggiamento evoluzionistico di Wiener e von Neumann», si sarebbe dovuto partire dallo studio di sistemi nervosi relativamente semplici, con l’obiettivo di riprodurli in modelli neurali artificiali nel modo più realistico possibile, per capire le strutture e i processi fondamentali del vivente (un approccio prossimo a una delle linee di ricerca che, con Braitenberg, abbiamo visto promosse da Caianiello). Viceversa, il connessionismo sembrava proseguire per Somenzi l’intrapresa non bionica che lo lasciava da sempre insoddisfatto. A non convincere Somenzi della «rivoluzione» connessionista di quegli anni erano i modelli simulati su calcolatore troppo semplificati rispetto al fenomeno reale (e, si può aggiungere, basati su algoritmi non plausibili dal punto di vista biologico). Egli condivideva perciò l’auspicio di una «sostituzione dell’attuale paradigma connessionista con altri, più aderenti alla realtà dei cervelli biologici e più adeguati alle sempre più numerose esigenze applicative di quelli elettronici» (Cibernetica e reti neurali: dall’Intelligenza Artificiale alla vita artificiale, «Rivista dei libri», 1991, 1, p. 35).
Probabilmente Somenzi sarebbe rimasto più soddisfatto dagli attuali sviluppi della biologia sintetica. Egli aveva già chiarito come, per es., fosse da un pezzo tramontata l’immagine ipersemplificata, prevalente ai tempi della cibernetica, della trasmissione dell’impulso nervoso attraverso neuroni visti come relè (e alla luce di quanto sopra ricordato, anche l’immagine del neurone fatta propria dai connessionisti doveva risultare per lui ugualmente insoddisfacente): «La cellula – così si esprimeva – è essa stessa un piccolo calcolatore elettrochimico». Finalmente l’impresa auspicata ai tempi della Filosofia degli automi, ovvero la convergenza di biochimica, informatica ed elettronica in una comune prospettiva bionica, gli sembrava cominciasse a realizzarsi. E concludeva: «La cibernetica morì per la povertà degli schemi che stava utilizzando. Rinasce ora nei tentativi di avvicinare i sistemi naturali a quelli artificiali» (Il cervello prossimo venturo, «La Repubblica», 27 maggio 1989, p. 13).
Questa conclusione di Somenzi riassume in modo sintetico quanto efficace quale è stato il lascito principale della cibernetica. «Avvicinare i sistemi naturali a quelli artificiali» è la formula programmatica che – interpretata, in particolare, come l’approccio che incrocia le neuroscienze alle scienze computazionali – sopravvive oggi al ridimensionamento degli ambiziosi obiettivi interdisciplinari della cibernetica delle origini e alla conseguente frammentazione della ricerca. Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo già ricordato l’affievolirsi del progetto cibernetico originario negli Istituti del CNR di Napoli e di Genova, nonché l’arenarsi degli studi sull’elaborazione automatica del linguaggio naturale nell’ambito della versione «logonica» della cibernetica a Milano. L’insieme di queste ricerche, e altre ancora, è stato poi affrontato dalle diverse tendenze dell’Intelligenza Artificiale e delle Scienze cognitive. La fondazione di specifiche società scientifiche è andata in questa direzione: oltre alla già ricordata SIREN, vanno menzionate l’Associazione italiana per l’Intelligenza Artificiale (AI*IA, fondata nel 1988) e l’Associazione italiana di scienze cognitive (AISC, fondata nel 2001). Sul versante che interessa i filosofi, da un lato Somenzi aveva introdotto in Italia le nuove visioni dei tradizionali problemi mente-corpo e mente-macchina proposte dalla cibernetica, ormai da tempo oggetto di studi specialistici nell’ambito della filosofia della mente (cfr. Di Francesco 2002). Dall’altro lato, continuano a restare in primo piano i difficili problemi epistemologici sulla spiegazione computazionale e sulla natura e i limiti delle simulazioni e dei modelli, tanto neurali che comportamentali, sollevati dai tempi della cibernetica delle origini (cfr. Cordeschi 2002; Tamburrini 2002).
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Un ringraziamento a Ernesto Burattini, Anna Cuzzer, Ivo De Lotto e Giuseppe Trautteur per le loro testimonianze sugli anni della ricerca cibernetica in Italia.