Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La confessione cristiana delle Chiese ortodosse (di tradizione bizantina) costituisce, insieme a cattolicesimo e protestantesimo, una delle tre più radicate articolazioni della religione cristiana.È presente anche in Paesi extraeuropei, in virtù di un’intensa attività missionaria, ma anche della diaspora dei fedeli, conseguente alle crisi economiche e politiche che hanno caratterizzato le vicende novecentesche dell’Europa orientale.
Una storia di difficili relazioni
A partire dal IX secolo Costantinopoli diviene il centro di una religiosità fortemente legata alle origini, lontana dalla contaminazione con il mondo barbaro nord-europeo. Nel 1054 si consuma il distacco (o scisma) ufficiale della Chiesa d’Oriente da quella romana. La prima, di tradizione bizantina, rivendica l’ortodossia dottrinale, accogliendo come degni di fede soltanto i primi quattro concili ecumenici e le dottrine escatologiche stabilite nei tre concili successivi.
Nel corso dei secoli sono dunque maturate differenze dottrinali tra le due confessioni, in riferimento alla concezione della teologia trinitaria, dell’infallibilità papale, del celibato dei preti, dell’Immacolata concezione di Maria (dogma negato dalla Chiesa ortodossa), di alcune pratiche dei sacramenti e di altre non secondarie questioni. Sul piano organizzativo la Chiesa ortodossa, coerentemente con la tradizione cristiana precedente lo scisma, privilegia la comunione di Chiese autonome, dette “autocefalie”. Il concilio ecumenico (mai più convocato dopo l’VIII secolo) è l’unica autorità che può parlare a nome di tutte le Chiese (al patriarca di Costantinopoli si riconosce solo un primato di tipo onorifico, non giurisdizionale), ne deriva il rifiuto dell’autorità del papa di Roma come capo supremo della Chiesa. Grande rilievo è assegnato inoltre alla componente monastica.
Durante il Medioevo e l’età moderna si sviluppa l’intensa attività missionaria dell’ortodossia, particolarmente efficace in Europa orientale. Nel corso dell’Ottocento la crisi dell’Impero ottomano favorisce il sorgere di numerose Chiese nazionali europee, soprattutto nei Balcani, contribuendo in parte a frammentare l’unità e l’universalità della Chiesa. Primo effetto ne è lo “scisma bulgaro”, seguito alla fondazione dell’esarcato bulgaro del 1870, accusato dai patriarchi di Costantinopoli, Antiochia e Alessandria di filetismo (sottomissione della Chiesa a divisioni di razza e nazione). Nel corso del XIX secolo viene concessa invece l’autocefalia alle Chiese di Grecia (1850), Serbia (1878) e Bosnia-Erzegovina (1880). Anche in Romania, Montenegro e Ungheria l’ortodossia si giova della crisi dell’impero ottomano; unica eccezione l’Albania, dove la Chiesa nazionale ortodossa sorge soltanto nel 1922. La commistione tra ortodossia e nazionalismo raggiunge una delle sue massime espressioni in Russia, per opera dello zar Alessandro III – salito al potere nel 1881 – impegnato in un processo di russificazione degli Stati baltici, accompagnato dallo sforzo di convertire i luterani all’ortodossia. Nei primi decenni del nuovo secolo una concatenazione di eventi mette tuttavia in crisi la vitalità delle Chiese ortodosse. Costantinopoli e Mosca perdono entrambe i propri tutori: il sultano e lo zar. La rivoluzione dei Giovani Turchi (1908) e le guerre balcaniche del 1912-1913 mettono in crisi l’esistenza stessa del patriarcato di Costantinopoli, dal quale si allontanano molti fedeli greci. La rivoluzione bolscevica del 1917 priva invece la Chiesa moscovita della tutela zarista, e avvia un intenso processo di laicizzazione della società e dello Stato. Vengono tollerati i santuari, ma non le accademie ecclesiastiche e i seminari; i tesori della Chiesa vengono confiscati. Nel corso della guerra civile la Chiesa ortodossa viene indicata come sostenitrice della controrivoluzione; seguono arresti – come quello del patriarca Tikhon nel 1922 – e dilagano campagne denigratorie delle credenze religiose accompagnate da una intensa propaganda ateistica. Nel 1923 Tikhon viene liberato, in virtù delle sue pubbliche dichiarazioni di pentimento per l’ostilità precedentemente manifestata nei confronti del sistema sovietico. Successivamente il metropolita Sergius, succeduto a Tikhon, in una storica dichiarazione del 29 luglio del 1927, manifesta un atteggiamento collaborativo nei confronti del governo sovietico. Nell’epoca staliniana tuttavia la Chiesa ortodossa attraversa una nuova fase critica, legata alla chiusura di molti luoghi di culto, e l’adozione della settimana lavorativa continuata (decreto del 1929) riduce notevolmente la pratica religiosa. È invece la seconda guerra mondiale, soprattutto a seguito della vittoria sovietica, a segnare un momento di nuova vitalità della Chiesa moscovita. Il governo staliniano sollecita e successivamente premia il patriottismo mostrato dalle popolazioni ortodosse contro i Tedeschi. Le difficoltà della Chiesa russa negli anni Venti favoriscono di riflesso l’autorevolezza di Costantinopoli, che in qualche misura riesce a controllare la frammentarietà delle autocefalie europee e asiatiche. Tuttavia in Medio Oriente l’ortodossia rimane una formula religiosa minoritaria, che costringe a una battaglia di retroguardia tradizionalista, che la rende debole rispetto alla dinamicità dimostrata dall’islam. Al contrario nell’Est europeo le Chiese acquisiscono autorità e peso politico senza precedenti. Eccettuate le regioni albanesi, croate e slovene, le Chiese balcaniche portano a compimento tra le due guerre quel processo di rafforzamento e di indipendenza avviato nel secolo precedente.
Verso un dialogo fra le Chiese cristiane
Nella seconda metà del secolo sono numerose, in particolare per iniziativa dei patriarchi di Costantinopoli, le iniziative volte a riunire il mondo ortodosso. Atenagora, patriarca di Costantinopoli dal 1949 al 1972, riesce a valorizzare enormemente le debolezze strutturali di un patriarcato senza Stato e senza etnia di riferimento. Proprio questi elementi rendono a suo avviso Costantinopoli un “luogo” di conciliazione e arbitraggio di tutte le Chiese ortodosse, un’entità spirituale pura, lontana dalla tentazione di commistione col potere politico. Ma la Chiesa ortodossa non è monolitica. In piena guerra fredda Atenagora, legato al governo degli Stati Uniti, suscita diffidenza nelle Chiese ortodosse del blocco sovietico, e viene accusato di papismo. I monaci del Monte Athos lo considerano un eretico in quanto filocattolico – Atenagora incontra il papa Paolo VI nel 1964, e nel 1965 viene realizzata una reciproca remissione delle scomuniche del 1054. Ciononostante persiste nelle Chiese ortodosse una tensione verso un rinnovato universalismo. Di grande rilievo è la celebrazione avvenuta nel giugno del 1963 dei 1000 anni dalla fondazione della repubblica monastica del Monte Athos, alla quale hanno preso parte tutti i patriarchi. Nel corso degli anni Sessanta, si riuniscono ben cinque conferenze panortodosse (a Rodi nel 1961, 1963 e 1964; a Belgrado nel 1966; a Chambéry nel 1968), alle quali prende parte l’intero episcopato.
Se dopo la morte di Stalin la Chiesa di Mosca attraversa nuovi momenti critici, sul finire degli anni Ottanta la perestrojka segna l’inizio di una fase di distensione, simbolicamente evidenziata dalla visita di Michail Gorbacev al patriarca di Mosca (1988). Nel novembre del 1990 viene eletto patriarca Aleksej II, il quale deve fronteggiare i fantasmi di quasi un secolo di storia, difendendo la Chiesa russa dalle accuse di connivenza, a partire dalla dichiarazione di Sergio del 1927, con il sistema sovietico dell’ateismo di Stato.
A partire dalla fine del XIX secolo, l’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti dell’ortodossia è improntato alla logica dell’unionismo, finalizzato ad avvicinare al cattolicesimo i fedeli orientali. Gli sconvolgimenti del primo dopoguerra inducono papa Benedetto XV a tentare una penetrazione tra le popolazioni disorientate dalla crisi dell’Impero ottomano prima e dell’Impero austro-ungarico poi. Con Pio XII i rapporti tra Vaticano e ortodossia, in particolare con la Chiesa moscovita, si complicano anche dal punto di vista politico. Al di là delle storiche controversie teologiche, in una conferenza tenutasi nel 1948 in occasione dei 500 anni dell’autocefalia russa, le dichiarazioni concordemente emesse dalle Chiese dei Paesi sotto l’influenza comunista unitamente a quella di Antiochia, accusano il Vaticano di passata connivenza con il fascismo. La chiesa moscovita respinge inoltre nel 1951 l’invito del Consiglio Ecumenico delle Chiese ad Amsterdam, adducendo come motivazioni l’inconciliabilità non solo con il cattolicesimo, ma anche con il protestantesimo, accusato di scarso impegno nel contrastare il nazismo. Con il pontificato di Giovanni Paolo II, pontefice di origini slave, la riconciliazione con la Chiesa ortodossa diventa una priorità per il Vaticano. Dal 29 maggio al 4 giugno 1980 si riunisce per la prima volta la Commissione mista internazionale per il dialogo tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, ma le tensioni per l’egemonia in Europa dell’Est, in particolare in Ucraina, rimangono vive. La Chiesa ortodossa stigmatizza tutt’oggi il proselitismo cattolico nei confronti della popolazione russa di fede ortodossa. Contemporaneamente, nel 2000, il cardinale Joseph Ratzinger, con l’approvazione di Giovanni Paolo II, in una Nota sulle Chiese sorelle, ribadisce il ruolo di “Chiesa madre” della Chiesa cattolica e apostolica.