La Chiesa di Roma prima e dopo Costantino
Da Vittore (189-199) a Liberio (352-366)
«Io sono in grado di mostrare i trofei degli apostoli: se vai infatti sul colle Vaticano o sulla via Ostiense, troverai i trofei [τϱόπαια] di coloro che fondarono questa Chiesa». Così Gaio, agli inizi del III secolo, informa dell’esistenza dei più importanti ‘luoghi della memoria’ della Chiesa di Roma, dedicati rispettivamente agli apostoli Pietro e Paolo1. Le indagini archeologiche compiute a partire dagli anni Quaranta del secolo scorso hanno portato alla luce il τϱόπαιον di Pietro sul Vaticano: si tratta di una piccola edicola funeraria, realizzata in suo onore poco dopo la metà del II secolo. Proprio su questa memoria funeraria l’imperatore Costantino avrebbe promosso l’erezione del più imponente e spettacolare edificio del tempo per la comunità cristiana di Roma: la basilica vaticana. Una più piccola basilica fu da lui fatta erigere in onore di Paolo sulla via Ostiense.
Le donazioni e in generale le concessioni di Costantino alla Chiesa di Roma hanno ricevuto in passato giudizi contrastanti e, com’è noto, si è ripetutamente affermato che con quei doni l’imperatore intendesse asservire al suo volere il vescovo romano. In realtà, la politica inaugurata da Costantino e proseguita dai suoi successori non si tradusse in semplici vantaggi per la sedes apostolica. Dal pontificato di Milziade (311-314) a quello di Liberio (352-366) le relazioni fra il trono imperiale e la cattedra romana furono complesse e perfino conflittuali. I vescovi di Roma non vollero presentarsi ai concili convocati dagli imperatori e si limitarono piuttosto a farsi rappresentare; d’altra parte, il rapporto con l’autorità imperiale degenerò quando uno dei figli di Costantino, Costanzo II, ordinò di deportare papa Liberio in Tracia, perché quest’ultimo resisteva al suo volere. Per comprendere la storia della Chiesa di Roma di questo periodo così denso di eventi e di problematiche, è tuttavia indispensabile iniziare il discorso da circa centovent’anni prima della svolta costantiniana, quando la comunità romana sperimentò radicali trasformazioni, i cui esiti l’avrebbero caratterizzata per lungo tempo a venire2.
Intorno alla metà del II secolo la Chiesa di Roma era governata da un collegio di presbiteri3 e si presentava nel suo insieme come una comunità poco coesa, poiché convivevano al suo interno gruppi diversi e in parte divisi da usi liturgici e posizioni dottrinali4. Tale scarso grado di coesione fu superato solo a partire dagli ultimi decenni del II secolo con il definitivo passaggio a una nuova forma di governo: l’episcopato monarchico5. Come già da tempo in altre Chiese orientali, ora anche a Roma la direzione della comunità si accentrava nelle mani di una sola figura, il vescovo, al quale erano sottoposti il collegio dei presbiteri, l’ordine dei diaconi e tutti i restanti fedeli. Il passaggio a questa nuova organizzazione gerarchica costituì il presupposto fondamentale per poter superare vari motivi di divisione e costituire una comunità realmente solida e compatta. Era l’inizio di una serie di trasformazioni epocali6.
Vittore, secondo l’interpretazione oggi prevalente tra gli studiosi, fu il primo vescovo effettivamente monarchico della Chiesa di Roma7. Era questi uomo ecclesiastico di origine africana e di lingua latina8, il che corrispondeva bene a un altro cambiamento in atto in quel momento: sino ad allora infatti la comunità romana era stata dominata dalla presenza di orientali parlanti greco9; a partire dalla fine del II secolo la componente latina crebbe invece rapidamente fino a imporsi in pochi decenni come maggioritaria10.
Alcune questioni liturgiche e dottrinali offrirono a Vittore l’occasione di affermare per la prima volta con decisione e fermezza le sue prerogative di vescovo della comunità e far valere allo stesso tempo il prestigio della Chiesa di Roma come mai fino ad allora era avvenuto. Da tempo infatti si discuteva tra i cristiani sulla data di celebrazione della Pasqua. Alcuni, soprattutto in Asia Minore, seguivano l’uso giudaico celebrando la festa – indipendentemente dal giorno della settimana in cui questa cadeva – in coincidenza con il quattordicesimo giorno del mese ebraico di Nisan e venivano perciò chiamati quartodecimani. Tuttavia la maggioranza dei cristiani preferiva celebrare la Pasqua nel giorno in cui Cristo era risorto e posticipava la festa alla domenica successiva al 14 di Nisan11. Il contrasto tra le due tradizioni si manifestò proprio a Roma intorno alla metà del II secolo. Qui si celebrava la Pasqua di domenica, ma i credenti venuti dall’Asia Minore erano di osservanza quartodecimana e non intendevano abbandonare il loro uso. Invano si cercò una soluzione, qualche tempo dopo, tra il vescovo di Smirne Policarpo, giunto nella capitale come rappresentante degli asiatici quartodecimani, e Aniceto, che era allora a capo della comunità romana12. I due non trovarono un accordo, ma si lasciarono comunque in pace13. Il conflitto si acuì verso la fine del II secolo. Per risolvere la questione si tennero questa volta alcuni sinodi – per quanto si conosce tra i primi della storia del cristianesimo14 – in Oriente e in Occidente, nella Palestina, Ponto, Osroene, a Roma, a Corinto, in Gallia15. Tutti concordarono con la celebrazione domenicale a eccezione di molte comunità dell’Asia Minore. Policrate di Efeso, a nome dell’episcopato asiatico quartodecimano, scrisse quindi a Vittore rivendicando l’antichità e la legittimità della propria tradizione anche con un esplicito richiamo alla memoria degli apostoli Filippo e Giovanni. Vittore fu tuttavia irremovibile. Di fronte alla determinazione dei quartodecimani, comunicò per iscritto alle altre Chiese la sua decisione di scomunicarli16. Intanto, a Roma, coloro che celebravano il 14 di Nisan sembra che avessero già costituito un gruppo scismatico capeggiato da un certo Blasto17.
La condanna pronunciata da Vittore suscitò d’altra parte forti critiche. Ireneo di Lione e altri episcopi, sebbene concordi con la celebrazione domenicale, espressero apertamente la loro disapprovazione inviando Vittore a preservare la pace18. Non è dato sapere se tali tentativi ebbero allora successo19. La decisione di Vittore di scomunicare i quartodecimani segnò comunque un punto di svolta per la storia della Chiesa di Roma, in quanto tale presa di posizione era innovativa sotto due aspetti: da un lato si rompeva nettamente con una lunga prassi di tolleranza praticata a Roma verso i cristiani di altra tradizione liturgica; dall’altro, per la prima volta il vescovo di Roma si riconosceva la forza e l’autorità di condannare altre Chiese che non si adeguavano alla sua richiesta20.
L’energico Vittore si era dunque mostrato determinato, come mai sino a quel momento, a superare le divisioni della comunità romana dovute alle diverse prassi liturgiche e a imporre, laddove possibile, una linea comune. Ma egli si mostrò non meno deciso ad affrontare questioni teologiche di fronte alla pluralità di dottrine a quel tempo liberamente professate a Roma. I cristiani avevano ereditato dal giudaismo la fede nell’unicità di Dio. Tuttavia essi riconoscevano anche la divinità di Cristo, il Figlio di Dio. Si poneva perciò l’esigenza di spiegare in che modo Padre e Figlio costituissero allo stesso tempo il solo e unico Dio. Furono avanzate nel corso del II secolo varie soluzioni. Alcuni dottori cristiani (in particolare gli apologeti Giustino, Taziano, Teofilo, Atenagora; più tardi Ippolito, Tertulliano e altri pensatori ancora)21 affermarono sulla base di alcuni passi delle Scritture che il Cristo Figlio di Dio fosse il Logos divino (cioè l’eterna sapienza e parola divina) emanato e generato dal Padre come Figlio (cioè come entità divina personalmente sussistente), per provvedere alla creazione, al governo e alla redenzione del mondo. Tale dottrina, chiamata dagli studiosi moderni ‘teologia del Logos’ e professata da Giustino a Roma intorno alla metà del II secolo22, riconosceva dunque la divinità del Figlio considerandolo come l’intermediario tra il Padre e il mondo, ma lo poneva, di conseguenza, in posizione subordinata rispetto al Padre. Il pericolo insito in tale elaborazione dottrinale era evidente: si rischiava di mettere in discussione il dato di fede dell’unicità di Dio, cioè della ‘monarchia’ divina, come allora si diceva23. Due altre dottrine furono perciò proposte per risolvere il problema. La prima (chiamata dagli studiosi oggi anche con il termine ‘adozionismo’) fu diffusa a Roma al tempo di Vittore da Teodoto di Bisanzio. Questi riteneva che Gesù fosse stato un semplice uomo, nato dalla vergine Maria per volere del Padre e vissuto in particolare santità: al battesimo nel fiume Giordano era disceso su di lui lo Spirito Santo e a partire da quel momento aveva iniziato a operare miracoli24. La seconda dottrina – il ‘modalismo’ – fu elaborata invece nella seconda metà del II secolo a opera di Noeto di Smirne. Per salvaguardare il dogma dell’unicità di Dio, ma allo stesso tempo anche la piena divinità di Cristo, Noeto riteneva che Padre e Figlio fossero solo modi di apparire e di manifestarsi del solo e unico Dio. Di conseguenza, si poteva dire che era stato proprio il Padre in figura di Figlio a patire sulla croce (da ciò la dottrina prese in Occidente il nome di ‘patripassianismo’)25. Noeto fu più volte condannato in Asia Minore26, ma un suo discepolo di nome Epigono venne a Roma a propagandarne le idee al tempo di Vittore o al più tardi durante i primi anni di episcopato del successore Zefirino (199-217)27.
Tra la fine del II e gli inizi del III secolo erano dunque in concorrenza a Roma almeno tre diverse dottrine per spiegare il rapporto tra il Padre e il Figlio: la teologia del Logos, l’adozionismo, il modalismo. Stando alla documentazione disponibile (I Clem. e il Pastore di Erma), la Chiesa romana era stata nel suo insieme piuttosto reticente su tale problema e non aveva espresso, almeno sino alla metà del II secolo, una posizione chiaramente definita. Evidentemente per timore di mettere in discussione l’unità divina, non aveva voluto definire Cristo tout court come Dio, ma nemmeno l’aveva ridotto a semplice uomo28. Perciò, quando alla fine del II secolo Teodoto di Bisanzio osò affermare la pura e semplice umanità di Cristo, Vittore non esitò a scomunicare lui e i suoi seguaci. Questi ultimi costituirono così un gruppo a sé stante, di cui è possibile seguire le tracce per qualche decennio. Al tempo del vescovo Zefirino, due discepoli di Teodoto di Bisanzio, Asclepiade e Teodoto detto il banchiere, persuasero un confessore di nome Natalio a divenire vescovo della loro comunità. Natalio sulle prime accettò; ma poi, pentitosi, chiese perdono a Zefirino e fu da quest’ultimo riammesso nella Chiesa romana. Invece altri teodoziani, come Artemone, Ermofilo, Apolloniade, rimasero delle loro idee e furono ancora attivi a Roma fino circa alla metà del III secolo29.
Vittore aveva così affrontato alcuni gravi motivi di divisione e di dissenso all’interno della comunità e in particolare, sul fronte teologico, la dottrina adozionista. Durante il suo episcopato fu probabilmente pronunciata anche la condanna dei montanisti, contro i quali da tempo si erano levate voci di dissenso nella comunità romana30. Compito dei successori di Vittore fu invece una presa di posizione rispetto alla teologia del Logos e al modalismo.
Con l’episcopato di Zefirino (199-217) fu proprio il modalismo a diffondersi con un certo successo a Roma. La dottrina era allora propagandata da Cleomene, discepolo del già menzionato Epigono, e da altri esponenti, come Sabellio. Invece il maggiore rappresentante della teologia del Logos era in quel momento il cosiddetto Autore della Refutatio. Questo scrittore, del quale non si conosce con sicurezza il nome, è stato negli studi passati identificato a torto con Ippolito, un esegeta di origine orientale vissuto più o meno nello stesso periodo. L’Autore della Refutatio fu in realtà attivo nei primi decenni del III secolo a Roma, fece parte probabilmente del clero romano prima di esserne espulso e compose vari scritti, tra i quali una confutazione delle eresie, oggi usualmente indicata con il titolo di Refutatio31. Quest’ultima opera rappresenta la fondamentale fonte d’informazione per la storia della Chiesa di Roma durante l’episcopato di Zefirino e del suo successore Callisto. Dai suoi contenuti si apprende quanto segue. Zefirino, forse per reazione ai teodoziani o forse perché non era così determinato come Vittore, non volle prendere posizione nei riguardi dei modalisti e lasciò che la loro dottrina si diffondesse tra i credenti di Roma. Egli tuttavia non la condivideva in toto, come è possibile ricavare da alcune sue pubbliche affermazioni: «Io conosco un solo Dio Cristo Gesù ed eccetto lui nessun altro che sia nato e abbia patito»32, egli diceva; ma in altra occasione rilevava: «non è morto il Padre ma il Figlio»33. Così Zefirino durante il suo episcopato cercava di salvaguardare allo stesso tempo l’unità di Dio e la distinzione tra Padre e Figlio, senza procedere a nuove condanne e quindi senza prendere decisa posizione sulle dottrine allora in concorrenza nella capitale.
Alla sua morte fu scelto Callisto a succedergli sulla cattedra romana34. Callisto ricoprì la carica di vescovo solo cinque anni (217-222), fino a quando fu assassinato durante i disordini scoppiati nell’Urbe a seguito dell’uccisione dell’imperatore Eliogabalo (222). Il suo breve episcopato fu però di rilevanza eccezionale, perché egli contribuì non meno di Vittore a organizzare la Chiesa di Roma e ad affrontare vari problemi della comunità. Quando era ancora al fianco di Zefirino come collaboratore e responsabile del cimitero sulla via Appia – la cosiddetta Area I di Callisto, il primo possedimento della comunità cristiana di Roma a noi noto –, il giovane Callisto aveva evitato di prendere aperta posizione sui dibattiti dottrinali allora in corso. Eletto vescovo, ritenne invece giunto il momento di intervenire decisamente nella controversia. Scomunicò il monarchiano Sabellio perché «pensatore non ortodosso» e lo stesso fece con l’Autore della Refutatio accusandolo di «diteismo»35. Contestualmente Callisto espresse la posizione ufficiale della Chiesa romana, una posizione sostanzialmente monarchiana moderata: egli da un lato sottolineava l’unità e l’unicità di Dio valorizzando il concetto di un solo Spirito divino, in cui si identificano Padre e Figlio; dall’altro riconosceva una distinzione tra lo stesso Padre e il Figlio al momento dell’incarnazione, e occupava così una posizione quasi di compromesso tra le varie correnti teologiche36.
Come visto sopra, al tempo di Vittore i quartodecimani e i discepoli di Teodoto di Bisanzio in rottura con il vescovo di Roma avevano costituito comunità autonome. Fecero ora lo stesso i modalisti e l’Autore della Refutatio con i suoi seguaci. Quasi nulla è noto delle sorti del primo gruppo. Sappiamo invece che l’Autore della Refutatio si pose a capo di una comunità scismatica e la organizzò secondo austeri e ambiziosi principi. Egli concepiva la Chiesa come una comunità di puri e di conseguenza non esitava ad allontanare dalla sua comunità coloro che fossero caduti in peccato grave. Inoltre si considerava pleno iure successore degli apostoli e maestro della dottrina cristiana. Perciò compose alcuni scritti in greco, al fine di ammaestrare i popoli – come egli enfaticamente afferma – nella conoscenza della verità37. Con una tale azione di governo l’Autore si proponeva due obiettivi: dare prova delle sue qualità di vescovo e mostrare a tutti quale comunità fosse veramente degna di chiamarsi a Roma «Chiesa cattolica»38. Tale ambiziosa e rigorosa politica ecclesiastica lo condusse però in breve tempo al fallimento. Egli lo ammette obtorto collo in vari passi della Refutatio: molti dei suoi iniziali seguaci tornavano nella comunità del legittimo successore di Zefirino, Callisto; quest’ultimo concedeva il perdono anche a chi cadeva in peccato grave39. In effetti il dissidio tra i due personaggi non era solo teologico.
A differenza dell’Autore della Refutatio, Callisto era convinto che nessuno avesse il diritto di giudicare il proprio fratello e allontanarlo dalla comunità. La Chiesa doveva accogliere e assistere chiunque, specialmente i più deboli e bisognosi nel corpo e nello spirito. Il vescovo giustificava la sua visione citando puntualmente le Scritture: a Dio solo spetta il giudizio sulla coscienza dei fedeli, quando egli verrà a separare il grano dalla zizzania (Mt 13,29-30). Alla Chiesa è riservato invece il compito di accogliere tutti gli uomini, anche se cadono in peccato grave, e salvarli dalla tempesta del mondo senza fare discriminazioni. In questo senso per Callisto la comunità ecclesiale era prefigurata nelle Scritture dall’arca di Noè (Gen 6,19-20 e 7,2-3): come all’interno dell’arca erano entrati animali puri e impuri per salvarsi, così doveva avvenire nella Chiesa40. Tali affermazioni apparivano a un rigorista come l’Autore della Refutatio, che per tale ragione le riferisce nel libro IX della sua opera, come il fondamento di una politica ecclesiastica priva di scrupoli. In realtà Callisto se ne servì per affrontare vari problemi sociali e organizzativi della sua comunità. Alle donne romane di alto rango sociale, che certamente lo appoggiavano e contribuivano con i loro beni al sostegno economico di tanti fratelli, egli permise di convivere con i loro servi – narra sconcertato l’Autore della Refutatio41 – e di considerarli come loro mariti senza dichiarare l’unione di fronte alla legge romana, il che avrebbe evidentemente comportato la perdita del loro status sociale e degli annessi benefici. Callisto accolse inoltre, come detto, tutti i fratelli, perdonando loro anche i peccati gravi.
Era questa una visione ‘universalistica’ della Chiesa42, condivisa e tradotta in pratica in molti modi da lui stesso e più in generale dal clero romano dei primi decenni del III secolo. Ne è prova la grande innovazione comunitaria di questo periodo, i primi cimiteri della Chiesa di Roma. Infatti, su una linea di uguaglianza e di fraternità tutti i membri della comunità romana – in quanto appartenenti a un unico e per quanto possibile coeso gruppo – trovano ora la stessa comune sepoltura nelle catacombe, a prescindere dal loro status sociale, dalla loro ricchezza o dai loro meriti in vita: il povero e il ricco, lo schiavo, il liberto, l’uomo libero43. Uniformità e uguaglianza si registrano inoltre nelle caratteristiche strutturali di questi cimiteri, costituiti da gallerie con tombe (a loculi) tutte uguali tra loro, e nella prassi epigrafica utilizzata per le sepolture. Nella maggioranza delle iscrizioni è infatti menzionato solo il nome personale del defunto (talora accompagnato da brevi formule di augurio, come in pace), affinché egli possa essere riconosciuto nella sua pura e semplice individualità. Si rinuncia invece a indicare, com’era prassi nell’epigrafia romana del tempo, la sua posizione sociale e i suoi meriti in vita44: tutti sono uguali in quanto membri di una stessa famiglia in Cristo45.
La politica ecclesiastica a carattere comunitario, avviata già sotto i vescovi Vittore e Zefirino ma ora portata avanti con massimo vigore dal loro successore Callisto, trasformava in quegli anni così la Chiesa di Roma per farne una comunità coesa, ben organizzata e capace di un’efficace e sistematica attività di assistenza verso tutti i fratelli.
A Callisto successero Urbano (222-230), poi Ponziano (230-235). Del primo nulla di davvero significativo si conosce, mentre dovrebbe collocarsi al tempo del secondo l’assenso della Chiesa romana alla condanna di Origene già pronunciata dal vescovo di Alessandria, Demetrio. D’altra parte, proprio in questi anni fu portata a compimento, all’interno dell’Area I di Callisto, la realizzazione di una piccola regione cimiteriale, questa volta specificamente riservata alla sepoltura dei vescovi della comunità romana (la cosiddetta cripta dei papi). Si esprimeva e si rappresentava così anche nella sfera funeraria l’importanza dell’episcopato monarchico impostosi a Roma nel precedente periodo.
Nella frammentarietà delle notizie disponibili si può peraltro affermare che sotto i pontificati di Urbano e Ponziano la Chiesa romana conobbe una tranquilla fase di sviluppo, anche grazie alle positive relazioni con il potere imperiale. Severo Alessandro (222-235) e altri membri della sua famiglia ebbero, com’è noto, un atteggiamento più che tollerante verso i cristiani. Significativo è tra l’altro il fatto che uno dei più stretti collaboratori dell’imperatore fosse il cristiano Giulio Africano: questi dedicò a Severo Alessandro la sua opera enciclopedica in ventiquattro libri, i Κεστοί, e allestì per lui una biblioteca al Pantheon46. I cristiani godevano dunque, almeno a Roma, di condizioni favorevoli in questo periodo47. Questa fase di relativa tranquillità si concluse bruscamente con l’ascesa al trono imperiale di Massimino il Trace, il quale scatenò a Roma una reazione contro gli orientali e colpì, secondo quanto riportano le fonti48, anche i cristiani. Così nel 235 il vescovo di Roma Ponziano e il presbitero Ippolito furono deportati ad metalla in Sardegna, dove Ponziano discinctus est, cioè si dimise dalla carica di vescovo, evidentemente perché non sperava di tornare vivo dall’isola. Era questa la prima volta che un vescovo di Roma si dimetteva dal suo ufficio49.
Non il suo successore Antero (fine 235-inizio 236), ma Fabiano (236-250) poté traslare le spoglie di Ponziano dalla Sardegna a Roma quando la situazione tornò alla calma, anche grazie alla morte di Massimino, nel 238. Neppure del suo episcopato si conosce in verità molto, ma è significativa una notizia del Catalogus Liberianus, secondo la quale Fabiano «regiones divisit diaconibus et multas fabricas per cimiteria fieri iussit», cioè assegnò ai diaconi una determinata area di azione per l’opera di assistenza e carità nella Chiesa di Roma e proseguì nella fondazione di nuove aree cimiteriali. Continuava, dunque, anche allora quel processo di organizzazione e di unitario sviluppo della comunità romana iniziato alla fine del II secolo con Vittore. Ciò era certamente reso possibile anche dalla nuova e, tutto sommato, favorevole contingenza politica. In effetti, dopo la breve ma brusca rottura con i cristiani voluta a Roma da Massimino, si ristabilì, almeno nella capitale, una situazione di relativa tranquillità sotto i nuovi imperatori, in particolare sotto Filippo (244-249). Eusebio riferisce che, secondo una certa tradizione, Filippo sarebbe stato cristiano e in una occasione, volendo partecipare alla preghiera, gli sarebbe stato perfino ordinato di mettersi tra i penitenti50. Naturalmente tale notizia è stata accolta dai primi lettori di Eusebio con speciale compiacimento, come mostra il fatto che essa è stata poi ripetuta molte volte. Ma Filippo, per quanto tollerante nei confronti dei cristiani, fu – nelle espressioni di culto oggi note – semplicemente pagano: da pagano celebrò il millenario di Roma e fu pontefice massimo; inoltre adottò pienamente simboli pagani per l’emissione delle monete. A ogni modo, la Chiesa di Roma beneficiava certo della disposizione tollerante dell’imperatore. Tutto ciò fino a quando lo scoppio di una persecuzione sconvolse la comunità e fece, tra le sue prime vittime, proprio Fabiano.
I risultati di questi straordinari sessant’anni sono riassunti in una notizia del successore di Fabiano, Cornelio, il quale afferma, in una lettera del 251 a Fabio di Antiochia, che la Chiesa di Roma aveva a quel tempo, a fianco del vescovo, quarantasei presbiteri, quarantadue accoliti, sette diaconi, sette suddiaconi e cinquantadue tra esorcisti, lettori e ostiari51. Tali informazioni meritano di essere attentamente considerate52. Per quanto concerne la composizione del clero romano a questa data, è evidente il rapporto numerico tra i sette diaconi e i sette suddiaconi. Questi ultimi svolgono la loro funzione certamente a fianco e in supporto dei primi. Lo stesso può dirsi dei quarantadue accoliti in relazione ai quarantasei presbiteri: anche se non si tratta di un numerus clausus, come già osservava Harnack in riferimento sia al primo sia al secondo gruppo53, è chiaro che gli accoliti svolgono nei riguardi dei presbiteri un’attività di assistenza e di accompagnamento, come suggerisce del resto il loro nome. Rimane da considerare ora il più ampio gruppo ricordato da Cornelio: ostiari, esorcisti, lettori. Il loro numero (cinquantadue) è poco più della somma di quello dei suddiaconi e degli accoliti. Se ne desume quindi che anche questa più ampia base di ordini minori fosse a sua volta in rapporto con quelli superiori, esattamente come per gli altri casi sopra esaminati. Ciò significa che in questo periodo il clero romano aveva una struttura ben collaudata, una vera e propria ‘organizzazione piramidale’. Al vertice c’è infatti il vescovo; a un livello inferiore il collegio dei presbiteri e l’ordine dei diaconi. A un livello ancora inferiore il gruppo degli accoliti e dei suddiaconi, i quali assistono e supportano i loro superiori. Quindi alla base il consistente numero (quasi un bacino di rifornimento per gli ordini superiori) di ostiari, lettori, esorcisti, i quali non a caso vengono tutti considerati da Cornelio come afferenti a un unico insieme di cinquantadue membri.
La notizia di Cornelio ricorda poi il numero delle vedove e degli indigenti assistiti dalla comunità romana a quel tempo: 1.500 persone. Tale ingente numero mostra le notevoli capacità organizzative ed economiche della Chiesa di Roma, che in questo momento è in grado di sostenere quotidianamente – naturalmente insieme ai membri del clero – così tante persone. Sulla base di tali dati, gli studiosi hanno avanzato alcune ipotesi sul numero dei membri della Chiesa di Roma di allora. Le stime oscillano da un minimo di 10.000 a 30.000 o anche 50.000 fedeli54. Nessuna di tali proposte può però essere considerata valida sic et simpliciter. Cornelio, infatti, non dichiara in quale rapporto il numero dei poveri fosse con quello della restante comunità. Non si possono perciò ottenere risultati scientificamente validi sulla base di questa sola notizia.
È possibile però stimare in altro modo il numero dei cristiani di Roma in questo periodo o, quantomeno, conoscere il ritmo di crescita della popolazione cristiana durante il III secolo nella capitale dell’Impero: a partire dalle sepolture dei loro cimiteri. Come sopra detto, l’altra grande innovazione istituzionale di questo straordinario sessantennio consiste proprio nella nascita e nello sviluppo delle prime aree di sepoltura a carattere comunitario, organizzate e gestite direttamente dal clero romano a beneficio di tutti i membri della comunità. In effetti, fino quasi alla fine del II secolo le tombe dei cristiani si confondevano con quelle dei non cristiani nelle comuni necropoli del suburbio della città di Roma, «in den üblichen nichtchristlichen Begräbnisstätten»55. Ma con gli episcopati di Zefirino e Callisto si svilupparono nel suburbio le prime aree cimiteriali di proprietà e di uso esclusivo della comunità romana. Anzitutto a nord, sulla via Salaria, la catacomba di Priscilla e, non lontano, quella di Bassilla; a sud il cimitero di Callisto; inoltre il cimitero di Pretestato e, nelle vicinanze, quello di Domitilla; a ovest, sulla via Aurelia, la catacomba di Calepodio. Verso la metà del III secolo sorsero poi, sulla via Tiburtina a est di Roma, i cimiteri di Ippolito e Novaziano e ancora altre aree funerarie, per esempio il cimitero di S. Agnese, il Coemeterium Maius56.
Le recenti indagini di Vincenzo Fiocchi Nicolai stanno mettendo in luce la straordinaria rilevanza di uno studio sistematico del numero di sepolture dei più antichi cimiteri cristiani di Roma. I risultati, sebbene ancora provvisori e calcolati per difetto, sono estremamente interessanti57: l’Area I di Callisto, ossia il cimitero fondato al tempo di Zefirino e gestito dall’allora suo collaboratore Callisto, contava intorno agli anni 230-240 almeno 1.500 sepolture disposte nei circa 280 metri di gallerie sotterranee; alla metà del III secolo la sola regione dell’Arenario della catacomba di Priscilla e le aree attigue di Eliodoro e Tyche ospitavano 1.200 sepolture; nelle cosiddette regioni del Buon Pastore e dei Flavi Aureli «A» della catacomba di Domitilla v’erano poi almeno 250 sepolture, in quelle della Scala Maggiore e Scala Minore del cimitero di Pretestato circa 600. Il cimitero sull’Aurelia di Calepodio, dove proprio Callisto fu deposto nel 222, contava, alla metà del III secolo, circa 350 sepolture. In pochi decenni erano state dunque già ospitate in queste sole aree cimiteriali molte migliaia di credenti.
Quando nel 251 Cornelio scriveva a Fabio di Antiochia, senza volerlo offriva un bilancio dello straordinario sviluppo della Chiesa romana dalla fine del II alla metà del III secolo. Infatti la persecuzione scoppiata nel 250 con l’editto di Decio costituì un’improvvisa battuta d’arresto di quello sviluppo, almeno per ciò che riguarda la coesione interna della comunità sino ad allora tenacemente perseguita dai vescovi di Roma. Come sopra visto, Vittore e Callisto avevano condannato i rappresentanti di varie posizioni liturgiche e teologiche (quartodecimani, teodoziani, modalisti e seguaci della dottrina del Logos)58, ma questi, senza darsi per vinti, avevano formato comunità autonome. Assai poco si conosce della sorte di tali gruppi. Tuttavia, intorno alla metà del III secolo il più importante rappresentante della teologia del Logos a Roma, il presbitero Novaziano, faceva parte – apparentemente senza difficoltà – della Chiesa cattolica, cioè della comunità romana ‘ufficiale’. Se ne deduce che i rappresentati della teologia del Logos e i loro seguaci fossero ben presto ritornati in comunione con i successori di Callisto. Nulla è noto dei fatti che condussero al loro reintegro, ma sembrano eloquenti le parole dell’Autore della Refutatio, il quale dichiara che molti dei suoi iniziali seguaci erano rientrati nella comunità dell’indulgente Callisto: tale affermazione suona come il riconoscimento di un rapido fallimento della sua audace iniziativa.
La pacificazione si era dunque in poco tempo compiuta, ma il fuoco covava sotto la cenere. I sostenitori della teologia del Logos avevano sì accettato la riunificazione, ma non si erano mai bene integrati con il resto della comunità romana. Molte diversità continuavano a sussistere tra i successori di Callisto e gli eredi dell’Autore della Refutatio sul piano teologico e ancor più in relazione alla prassi disciplinare e penitenziale. Le conseguenze di tale mancata integrazione non tardarono in effetti a manifestarsi e furono questa volta molto gravi.
Il 1° gennaio 250 l’imperatore Decio emanò un editto in base al quale ogni cittadino romano doveva presentarsi a una commissione e sacrificare agli dei e al genio dell’imperatore. La commissione avrebbe poi provveduto a rilasciare un certificato – un libellus – attestante l’avvenuto sacrificio. Nell’editto non si faceva menzione dei cristiani59. Era chiaro però che essi non potevano rispettarlo, altrimenti avrebbero compiuto un atto di abiura della propria fede. I cristiani si trovarono perciò improvvisamente di fronte a una gravissima scelta: rifiutarsi di osservare l’ordine e venire puniti con il carcere, i tormenti e perfino la morte; oppure compiere l’atto e quindi l’abiura. Così ebbe inizio la loro persecuzione o, almeno, in questo modo essi intesero le finalità dell’editto di Decio. Fabiano fu una delle prime vittime: morì in carcere il 20 gennaio del 250. Altri cristiani, che non vollero sottoporsi all’ordine dell’imperatore, andarono ugualmente incontro a varie pene. Ma molti altri non si sentirono all’altezza della prova né erano disposti a rischiare la vita, e perciò si piegarono in gran numero alla richiesta imperiale. Alcuni cedettero subito per paura, altri solo dopo avere subito pene e tormenti; vi fu chi eseguì in modo completo il sacrificio prescritto (sacrificati), oppure si limitò a bruciare solo qualche granellino d’incenso (thurificati). Non mancò poi chi si sottopose all’atto di culto a nome di un gruppo di credenti, familiari o amici, i quali in questo modo venivano esentati dal sacrificio. Altri cristiani riuscirono invece a ottenere il libellus senza presentarsi alla commissione, per mezzo del denaro o comunque per corruzione (i libellatici). In un modo o nell’altro tutti costoro, i lapsi, erano però incorsi in un grave peccato, che comportava l’esclusione dalla comunità. Ma essi, mentre ancora era in atto la persecuzione, chiesero di essere riammessi.
Si pose a questo punto il problema di concedere loro il perdono. Ne derivarono subito forti contrasti60. A Roma, dopo la morte di Fabiano, si decise di attendere la fine della persecuzione per eleggere un successore e affrontare la questione. Durante il periodo di sede vacante furono quindi il collegio dei presbiteri e l’ordine dei diaconi ad assumere il governo della comunità61. Una decisione era dunque rimandata, ma varie posizioni si confrontavano sul problema. Alcuni erano disposti a concedere il perdono ai lapsi, ora attraverso la dovuta penitenza ora anche grazie all’intercessione dei confessores, cioè di coloro che avevano confessato la fede e avevano così guadagnato meriti in favore dei fratelli più deboli e peccatori. Altri invece sostenevano una più severa posizione: difficilmente si poteva concedere il perdono a chi era caduto in una colpa così grave. In una prima lettera del clero romano alla Chiesa di Cartagine, si stabiliva tuttavia che nessuno dei lapsi doveva comunque essere abbandonato. Essi dovevano invece essere esortati al pentimento per ricevere da Dio il perdono; e se qualcuno cadeva in malattia e già faceva penitenza, lo si doveva immediatamente riammettere alla comunione62.
A Roma tale posizione mutò, almeno in parte, nel corso dell’anno 250 con la leadership, all’interno del collegio dei presbiteri, di Novaziano63. Come già detto, era questi in quel momento il più importante rappresentante della teologia del Logos a Roma e si poneva in stretta continuità, anche per la severa concezione della prassi penitenziale, con l’Autore della Refutatio (non è da escludere che i due abbiano avuto rapporti diretti). Novaziano era inoltre scrittore raffinato64. Nessuna meraviglia quindi che una tale brillante personalità venisse incaricata, durante il periodo di sede vacante, di scrivere alle altre comunità a nome del collegio dei presbiteri e in generale di tenere le relazioni di corrispondenza per conto della Chiesa di Roma. Le lettere da lui composte, tramandateci nell’epistolario di Cipriano65, mostrano chiaramente quali idee egli avesse sulla questione penitenziale. Egli riconosceva – ma sembrava quasi costretto a farlo – la possibilità di ammettere i lapsi alla penitenza e quindi di concedere loro la comunione; d’altra parte egli esigeva che i delitti (funera) da loro compiuti fossero espiati con severi rimedi66. Se poi qualcuno dei lapsi cadeva in malattia, gli si poteva concedere il perdono solo e soltanto se si trovava in punto di morte67. Lo richiedeva – come egli più volte ripete nell’epist. 30 – la disciplina evangelica. Novaziano giustificava la sua severa posizione anche con un richiamo alla tradizione. «Antiqua haec apud nos severitas»: così egli dichiarava nella prima delle sue lettere a Cipriano68. Ma questa affermazione non corrispondeva a quanto avvenuto nei precedenti decenni a Roma. Come visto, Callisto aveva sostenuto ben altra posizione nei riguardi di coloro che cadevano in peccato grave.
La leadership di Novaziano verso la metà del 25069 fu probabilmente dovuta alla crisi provocata dalla persecuzione nei primi mesi di quello stesso anno a Roma: la sede episcopale era vacante, il numero dei lapsi era alto e i problemi da risolvere complessi. In tale difficile situazione si era probabilmente deciso di fare riferimento a una personalità forte e di spessore culturale. Ma è chiaro che la posizione rigorista e severa di Novaziano non era l’unica all’interno della Chiesa romana né era quella tradizionale, anche se egli affermava il contrario, né poteva essere alla fine vincente, come già aveva mostrato il precedente tentativo dell’Autore della Refutatio, il quale a forza di severa disciplina e rigore penitenziale si era ritrovato, alla fine, da solo. La posizione di preminenza acquisita allora da Novaziano mise comunque in evidenza agli occhi della comunità i rischi della sua politica ecclesiastica. Sicché, quando nella primavera del 251 si poté finalmente procedere all’elezione del nuovo vescovo, la maggioranza della comunità romana si schierò a favore di un altro presbitero, Cornelio, che fu consacrato nell’episcopato (251-253). Novaziano veniva così sconfitto, ma non era intenzionato ad arrendersi.
Si aprì allora una grave crisi all’interno della Chiesa di Roma. Novaziano si fece consacrare anch’egli vescovo e avviò un’intensa attività di propaganda, al fine di guadagnare dalla sua parte vescovi di altre sedi. Inviò peraltro suoi seguaci in varie regioni del Mediterraneo per fondare nuove comunità in opposizione alle chiese rimaste fedeli a Cornelio. La reazione di quest’ultimo non si fece attendere. Nello stesso 251 riunì un sinodo a Roma con la partecipazione di sessanta vescovi e di molti presbiteri e diaconi: Novaziano e i suoi seguaci furono scomunicati e si riaffermò il principio che i lapsi dovevano essere curati «con i rimedi della penitenza»70. Novaziano perse ben presto a Roma importanti sostenitori, i quali, chiedendo perdono a Cornelio, rientrarono in comunione con la Chiesa cattolica. A Cartagine Cipriano, dopo un’iniziale incertezza, si schierò anch’egli a favore di Cornelio. In Oriente invece le cose andarono diversamente, per le ragioni che ora si vedranno.
L’ambizione di Novaziano, che mirava all’episcopato, sarebbe stata la causa della frattura all’interno della comunità romana: questa motivazione si legge spesso nelle fonti favorevoli a Cornelio e, anzi, quest’ultimo la afferma espressamente nella già menzionata lettera a Fabio di Antiochia71. Una più attenta considerazione di alcune notizie mostra però che, al di là di ambizioni personali, il dissidio tra Novaziano e Cornelio, e quindi tra i rispettivi sostenitori, era ideologico. Ciò spiega meglio il rapido successo che incontrò la propaganda di Novaziano in Oriente. Cornelio rappresentava una Chiesa che ammetteva la possibilità del perdono dei lapsi, con la dovuta penitenza; Novaziano era invece reticente circa tale possibilità, perché concepiva la comunità ecclesiale come un coetus sanctorum e non ammetteva che i suoi membri potessero incorrere in gravi cadute, come quelle avvenute durante la persecuzione72. Il dissidio tra le due visioni era dunque netto e aveva, nella Chiesa di Roma, radici antiche. Si consideri a tal proposito una critica mossa da Cipriano a Novaziano e ai suoi seguaci: questi osavano fare quello che neppure Cristo aveva fatto, cioè «separare il grano dalla zizzania»73. Tale affermazione si fonda su uno dei loci scritturistici di cui già Callisto si era servito contro l’Autore della Refutatio per giustificare il perdono dei peccati gravi.
I tanti orientali – e tra questi proprio il vescovo di Antiochia, Fabio – che si schierarono dalla parte di Novaziano, dovevano dunque condividerne le idee74. Dionigi di Alessandria afferma in una lettera a Stefano (vescovo di Roma dal 254 al 257) che la pace tra la Chiesa romana e le tante comunità dell’Oriente era stata però raggiunta in brevissimo tempo e «contro ogni speranza»75. Dionigi non manca a questo punto di fare i nomi di importanti vescovi orientali contrari a Novaziano o riconciliati con Cornelio (o con i suoi primi successori, Lucio e Stefano). Si trattava di Demetriano di Antiochia, Mazabane di Elia, Teoctisto di Cesarea e altri ancora. Tale elenco, per quanto significativo, potrebbe dare tuttavia un’impressione fuorviante. Lo scisma di Novaziano non fu superato così velocemente. Ancora nel pieno IV secolo non erano pochi né ininfluenti i suoi seguaci in Oriente76. Quanto grave fosse la spaccatura dei novazianisti lo mostra, tra l’altro, la decisione presa al concilio di Nicea su di loro: nel canone 8, da un lato, si pronunciava la condanna per quanti si ritenevano puri e non volevano concedere la comunione a chi era caduto in tempo di persecuzione; dall’altro, si cercava comunque di favorire la riconciliazione e si facevano particolari concessioni a quei membri del clero novazianeo che fossero rientrati nelle file della Chiesa cattolica77. Novaziano era morto forse intorno al 25778, ma le conseguenze dello scisma da lui provocato si sarebbero dunque fatte sentire per lungo tempo.
Triboniano Gallo (251-253), successore di Decio, fu inizialmente ben disposto verso i cristiani, ma poco dopo la sua elezione cambiò linea di governo. A Roma Cornelio fu arrestato e allontanato a Civitavecchia, dove morì nel 253. Gli successe Lucio, il cui brevissimo pontificato (253-254) si concluse ugualmente con l’esilio. Anche l’episcopato di Stefano fu breve (254-257), ma denso di importanti avvenimenti relativi, questa volta, alla storia e alla questione del primato del vescovo di Roma.
Alla Chiesa romana era riconosciuta già nel II secolo una posizione di speciale prestigio e di primaria importanza in dignità e onore tra tutte le comunità cristiane79. Adolf von Harnack ne ha efficacemente rilevato le principali motivazioni80: era infatti la Chiesa degli apostoli Pietro e Paolo, definiti da Ireneo di Lione come «i gloriosissimi fondatori della comunità romana»81; ed era la Chiesa della capitale dell’Impero. Si trattava inoltre di una comunità particolarmente attiva e benemerita nell’assistere altre Chiese in difficoltà82. Tale condizione di prestigio e di preminenza non ebbe però conseguenze concrete sul piano giurisdizionale se non a partire dalla fine del II secolo, quando Vittore scomunicò i quartodecimani. Come sopra visto, alcuni vescovi reagirono a quella decisa presa di posizione, e non si sa con precisione quale effetto avesse il loro intervento. Un dato è tuttavia certo: mai prima di allora la Chiesa romana aveva avuto una presa di posizione così decisa e ferma nei riguardi di comunità dissidenti.
Questo incerto stato di cose, cioè una riconosciuta preminenza della comunità romana nel mondo cristiano del II-III secolo, ma non un’altrettanto chiara e definita traduzione di tale preminenza sul piano giurisdizionale, si manifestò in vario modo in una serie di controversie nella seconda metà del III secolo, a cominciare da una contrapposizione tra Stefano e Cipriano. Durante la persecuzione di Decio, due vescovi spagnoli di nome Basilide e Marziale si erano procurati i libelli al fine di sfuggire all’ordine dell’editto, ma per questa ragione essi erano stati deposti poco dopo dalla loro carica e quindi sostituiti. I due non avevano accettato la condanna e avevano fatto appello a Roma per la loro riabilitazione. Stefano accettò il loro ricorso alla sede romana e li reintegrò nei rispettivi uffici. La sua decisione suscitò tuttavia una forte reazione da parte delle comunità di Basilide e di Marziale e dei due vescovi che li avevano sostituiti, Sabino e Felice, i quali si rivolsero a loro volta alla ‘capitale cristiana’ dell’Africa romana, cioè alla comunità di Cartagine e al suo vescovo Cipriano, per opporre resistenza. Cipriano riunì nel 254 un sinodo di vescovi africani che confermò la condanna di Basilide e Marziale e sconfessò ipso facto le decisioni di Stefano. Questi aveva agito – così si affermò83 – senza essere perfettamente informato della questione ed era stato inoltre ingannato da Basilide. Stefano non sembra aver replicato, sicché il ricorso dei due spagnoli a Roma risultò alla fine inutile. Ma la loro iniziativa rimane degna di nota: era infatti la prima volta, a quanto si sa, che si avanzava una richiesta di giudizio d’appello alla Chiesa romana da parte di rappresentanti di altre comunità.
Ben altro peso ebbe la successiva controversia relativa alla validità del battesimo amministrato dagli eretici. Questa volta la Chiesa romana si trovò ad affrontare un problema che coinvolgeva numerose comunità occidentali e orientali. A Roma i cristiani battezzati dagli eretici, se chiedevano poi di essere ammessi nella Chiesa cattolica, venivano accolti solo attraverso la preghiera e l’imposizione delle mani, senza amministrare una seconda volta il battesimo84. In Africa e in molte Chiese orientali non si considerava invece valido il battesimo degli eretici e si procedeva perciò in tali casi ad amministrarlo nuovamente85. Non è noto che cosa abbia provocato il contrasto tra i rappresentanti delle due tradizioni; certo è che al tempo di Stefano il disaccordo sulla questione tra Roma da un lato e Cartagine, l’Africa e molte sedi orientali dall’altro era grave. Stefano esigeva che si seguisse l’uso romano. Cipriano e l’episcopato africano si rifiutarono e anche le comunità orientali, come al tempo di Vittore avevano fatto i quartodecimani, si opposero rivendicando la legittimità della loro tradizione, sancita in questo caso anche da decisioni precedentemente prese in ambito sinodale. Per l’Oriente fu il vescovo di Alessandria, Dionigi, a fare da rappresentante di Roma e in un certo senso da paciere tra le parti in lotta. Ma Stefano fu irremovibile e ingiunse di accettare l’uso romano con la minaccia di interrompere la comunione con i dissidenti86. Il vescovo di Roma fondava la legittimità della sua richiesta richiamandosi espressamente alla tradizione apostolica. Inoltre egli – secondo le parole di Firmiliano di Cesarea in una lettera a Cipriano – si vantava della sede del suo episcopato («gloriatur de episcopatus sui loco») e rivendicava la «successionem Petri, super quem fundamenta ecclesiae collocata sunt»87. È, quest’ultima, una notizia molto importante: sembra infatti che Stefano facesse riferimento a Mt 16,18 («Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa») per supportare la legittimità della sua richiesta e il suo ‘primato’. Se tale interpretazione è nel giusto, sarebbe questa la prima volta, a nostra conoscenza, che un vescovo di Roma si serve di questo passo delle Scritture per sostenere la propria speciale autorità in quanto successore dell’apostolo Pietro.
Firmiliano e gli altri orientali, come detto, non erano disposti a rinunciare alle loro tradizioni. Si giunse così sul punto di una grave rottura. Tuttavia nel 257 la morte di Stefano e la nuova persecuzione ordinata da Valeriano88, durante la quale perì anche Cipriano, impedirono che la questione precipitasse. La soluzione del problema era rimandata89. Peraltro il nuovo vescovo di Roma, Sisto II (257-258), ebbe un fitto scambio epistolare, in particolare con Dionigi di Alessandria90, al fine di ricomporre la frattura. Quest’ultimo aveva adottato una via di mezzo: da un lato si limitava a imporre le mani senza ribattezzare una seconda volta, dall’altro rispettava le tradizioni delle altre sedi, senza esigere che queste cambiassero il loro uso. In tale modo di procedere egli si rifaceva a un principio affermato anche da Cipriano, il quale sottolineava che ciascun vescovo aveva piena libertà di decisione nell’amministrazione della propria Chiesa91.
Come si diceva, con la morte di Stefano e di Cipriano fu la persecuzione di Valeriano a porre nuovi problemi. Forse anche per risanare le dissanguate casse dell’Impero, Valeriano, che già aveva preso parte alla persecuzione di Decio92, emanò nel 257 un primo editto in cui si vietavano le riunioni dei cristiani e l’ingresso ai loro cimiteri, e si disponeva la confisca dei terreni cimiteriali e la condanna all’esilio per il clero. In questo modo si mirava a colpire, più che la coscienza e la fede dei singoli credenti, la Chiesa istituzionale al fine di smantellarne l’assetto organizzativo. È da supporre che questo primo editto non sortisse gli effetti sperati, e perciò nel 258 ne fu bandito un secondo che comminava pene ancora più gravi: condanna a morte per il clero e confisca dei beni dei cristiani più abbienti e delle più alte classi sociali. Se poi questi ultimi non recedevano dalla loro fede, avrebbero potuto fare anche la fine dei membri del clero93. A Roma sembra che l’attuazione degli editti, forse anche per l’assenza degli imperatori, non fosse eccessivamente severa e non provocasse molte vittime. Ad ogni modo, nel 258 il vescovo Sisto, sorpreso a celebrare messa nel cimitero di Callisto, fu condannato a morte insieme ai diaconi che lo accompagnavano. Morì il 6 agosto 258; quattro giorni dopo fu ucciso anche il diacono Lorenzo. La persecuzione si concluse comunque nello stesso 258 con la cattura di Valeriano da parte dei persiani. Il suo successore e figlio Gallieno, già associato precedentemente come augusto, si affrettò infatti ad annullare le misure persecutorie ordinando la restituzione alla Chiesa dei luoghi di riunione, dei cimiteri e dei beni sottratti.
Con la fine della persecuzione la questione dell’autorità del vescovo di Roma si ripresentò in una controversia con lo stesso vescovo di Alessandria, Dionigi. Per reagire alla diffusione del modalismo (sabellianismo) nella Pentapoli libica, Dionigi aveva scritto, intorno al 257/258, a due vescovi di nome Ammonio ed Eufranore. In questa lettera egli affermava i concetti fondamentali della teologia del Logos secondo l’impostazione data a tale dottrina ad Alessandria, in particolare da Origene, il quale, al fine di distinguere Padre, Figlio e Spirito Santo come entità divine individualmente sussistenti e subordinate nell’ordine l’una all’altra, aveva parlato di tre ipostasi divine. Ma Dionigi si era spinto poi oltre definendo Cristo, tra l’altro, come creatura (ποίημα) del Padre: tale affermazione annullava di fatto la piena divinità del Figlio. Come ricorda Atanasio di Alessandria, fonte primaria per la conoscenza di questi eventi94, altri fedeli egiziani che erano sì di retta fede, ma erano rimasti scandalizzati dalle affermazioni di Dionigi, reagirono e, senza rivolgersi allo stesso Dionigi, come invece avrebbero dovuto fare secondo Atanasio, chiesero direttamente a Roma di intervenire95.
Dopo la morte di Sisto II, il nuovo pontefice romano, anch’egli di nome Dionigi, si occupò della richiesta venuta dall’Egitto. A quanto risulta, scrisse due lettere, l’una indirizzata personalmente al vescovo alessandrino, l’altra – come sembra – a coloro che si erano rivolti a Roma, di questa Atanasio ci ha conservato una parte preziosa96. È notevole come la posizione dottrinale di Dionigi si collochi in piena continuità con la precedente teologia romana nell’affermare un monarchianismo moderato. In polemica con il suo omonimo alessandrino, che non viene tuttavia espressamente nominato, Dionigi rifiuta anzitutto il concetto di tre divise ipostasi divine, perché ciò avrebbe significherebbe affermare tre divinità distinte e separate, e in questo modo sarebbe annullato «il santissimo kerygma della Chiesa di Dio, la monarchia»97; inoltre egli respinge la definizione di Cristo come creatura (ποίημα), considerandola un’affermazione blasfema; sottolinea peraltro in vario modo la necessità di salvaguardare, nella riflessione teologica, «la divina trinità e il santo kerygma della monarchia»98.
Dionigi di Alessandria rispose al suo omonimo romano (e ai suoi accusatori) ritrattando alcune affermazioni (soprattutto la definizione di Cristo come creatura), ma difendendone altre (in particolare la dottrina delle ipostasi)99. Non consta poi che il confronto tra i due Dionigi sia andato oltre. Di questa vicenda meritano comunque di essere qui rilevati almeno due aspetti. Il primo riguarda la questione del primato: era infatti la prima volta che un vescovo di Roma, dietro richiesta di alcuni orientali, interveniva in una controversia dove a essere messo sotto accusa era addirittura il vescovo di Alessandria, cioè la figura ecclesiastica più importante di tutto l’Egitto. Per ciò che concerne invece il problema teologico, si deve osservare che la posizione dottrinale del romano Dionigi continuava nella linea dei suoi predecessori (in particolare di Callisto, anche se le rispettive formulazioni sono assai diverse) nel sostenere un monarchianismo moderato. Le affermazioni dottrinali da lui espresse erano, peraltro, destinate a grande fortuna nei decenni successivi, non solo a Roma ma in generale in Occidente: al concilio di Serdica del 343, gli occidentali guidati dai rappresentanti del vescovo di Roma riaffermeranno in effetti, sia pur con piccole variazioni, la posizione dottrinale formulata circa ottant’anni prima da Dionigi. La linea monarchiana moderata fu dunque l’impostazione teologica tradizionale della gerarchia romana fino all’avanzato IV secolo. La teologia del Logos fu invece espressione solo di alcune figure (come l’Autore della Refutatio e Novaziano) e non costituì la dottrina professata ufficialmente dai vescovi romani dell’epoca100.
Prima di concludere questa parte del discorso, è bene considerare ancora un’altra vicenda avvenuta in quegli stessi anni ad Antiochia, che coinvolse in qualche modo anche la figura del vescovo di Roma. Intorno al 260 era vescovo di Antiochia Paolo di Samosata101, un personaggio contro cui si erano sollevate presto varie critiche, sia per la sua posizione teologica sia per la sua spregiudicata – almeno a detta dei suoi accusatori – condotta mondana e per il rapporto con il potere politico102. Contro di lui si era tenuto nel 264 un primo sinodo e nel 268 un secondo, che l’aveva condannato e deposto. Al suo posto era stato consacrato Domno, figlio del precedente e defunto vescovo della città Demetriano. Di tutto ciò i partecipanti al sinodo avevano informato sia il vescovo di Roma, Dionigi – che di lì a poco sarebbe morto –, sia Massimo, il nuovo vescovo di Alessandria103. Ma Paolo godeva di un certo sostegno ad Antiochia, anche grazie all’appoggio di Zenobia – quest’ultima era a capo del vicino regno di Palmira ed esercitava la sua influenza in città –, e non era intenzionato ad abbandonare l’edificio di proprietà del vescovo. I vescovi contrari a Paolo richiesero allora l’intervento dell’imperatore Aureliano, il cui arrivo in Siria nel 272 segnò anche il ritorno dell’area sotto il pieno controllo dell’autorità romana. Così l’imperatore ordinò di consegnare la casa del vescovo a coloro che erano in corrispondenza con i vescovi dell’Italia e di Roma (a quel tempo la cattedra romana era occupata dal successore di Dionigi, Felice)104. Tra le molte osservazioni che si potrebbero fare sulla vicenda, si deve almeno rilevare, da un lato, come alcuni vescovi in tutta naturalezza circa quarant’anni prima di Costantino si fossero rivolti ad Aureliano per una controversia ecclesiastica di cui essi non riuscivano a venire definitivamente a capo; dall’altro come l’imperatore riconoscesse nei vescovi italiani, e in particolare in quello di Roma, il fondamentale punto di riferimento per la soluzione della questione. Quell’evento contribuiva certo ad accrescere il prestigio e l’importanza della sede romana in Oriente anche in quanto Chiesa della città imperiale.
Dalla morte di Felice allo scoppio della persecuzione di Diocleziano si succedettero tre vescovi: Eutichiano (273-283), Gaio (283-296) e Marcellino (296-304; quest’ultimo in un’iscrizione del cimitero di Callisto è chiamato papa105: si tratta della prima attestazione epigrafica di questo termine in riferimento al vescovo di Roma). Sebbene assai poche siano le notizie su questi tre pontificati, è certo che la comunità romana continuò a crescere di numero in questi anni di pace e parallelamente seguitarono ad aumentare i beni e le aree cimiteriali cristiane nel suburbio della città. A tal riguardo è notevole come, dalla metà del III secolo ai primi anni del IV, proseguissero ininterrottamente le fondazioni di nuovi cimiteri, alcuni dei quali ebbero da subito grandi proporzioni, mentre quelli già esistenti vennero ampliati106. Furono, infatti, realizzati in questo periodo 29 nuovi complessi funerari, dislocati praticamente in ogni via del suburbio o anche su strade secondarie, evidentemente in considerazione dell’area della città a cui essi dovevano concretamente servire. Notevole è il caso del cimitero Ad duas Lauros. Si tratta di un’area funeraria di proporzioni particolarmente ampie, situata nella parte orientale del suburbio, sulla via Labicana. Secondo i calcoli di Jean Guyon, tale cimitero poteva accogliere circa 11.000 tombe e doveva assolvere ai bisogni di un gruppo di almeno 9.000 persone107. Altri complessi funerari precedentemente fondati vennero invece ora, come si diceva, ampliati. Il cimitero di Callisto, ad esempio, fu ingrandito con la creazione di una nuova regione funeraria accanto all’originaria ‘Area I’. Con i nuovi ampliamenti tale complesso funerario continuò fino agli inizi del IV secolo a essere il luogo di sepoltura prescelto per i vescovi di Roma: nella ‘cripta dei papi’ erano stati, infatti, sepolti nel III secolo Antero, Ponziano, Fabiano, Lucio, Stefano, Sisto II, Dionigi, Felice, Eutichiano; in un ambiente non lontano furono poi sepolti Gaio e, agli inizi del IV secolo, Eusebio (309) e forse Milziade (311-314)108.
Con l’inizio della persecuzione di Diocleziano nel 303 – della quale non è qui possibile indagare le cause e seguire le fasi – si aprì un periodo di forti agitazioni all’interno della Chiesa romana, conclusosi solo nel 311 con l’elezione di Milziade. Nel 304 Marcellino scompare di scena. L’ambigua e generica notizia di Eusebio, secondo cui la persecuzione «prese» o «colpì» anche Marcellino109, riassume efficacemente le discordanti tradizioni che si svilupparono su questo vescovo di Roma nei decenni successivi (anche a causa del tentativo dei donatisti di gettare discredito sulla sede romana per le ragioni che si vedranno): le fonti lo ricordano, in effetti, sia come apostata sia come martire.
Dopo la sua morte, le difficili condizioni politiche suggerirono di attendere la fine della persecuzione per eleggere un successore. Si aprì così un nuovo periodo di sede vacante. La comunità fu guidata per qualche tempo da Marcello. Gli studiosi dissentono sul ruolo effettivamente ricoperto da questo personaggio: secondo Mommsen si trattava di un semplice presbitero a cui era stata affidata la direzione della comunità in tempo di crisi; altri storici ritengono invece che Marcello venisse effettivamente consacrato vescovo di Roma110. La sua elezione si collocherebbe, in tal caso, dopo l’ottobre del 306, quando Massenzio fu acclamato imperatore e prese il potere a Roma. Massenzio si mostrò in effetti subito favorevole nei riguardi dei cristiani della capitale facendo cessare la persecuzione111. Neanche così, tuttavia, terminarono le agitazioni per la comunità romana. Come al tempo di Decio, gli editti emanati contro i cristiani avevano nuovamente posto la questione dei lapsi, cioè il problema della riammissione di coloro che avevano sacrificato o avevano consegnato alle autorità romane i libri e gli arredi sacri perché fossero bruciati (i cosiddetti traditores). La posizione di Marcello era, mutatis mutandis, quella che era stata di Cornelio: si poteva concedere il perdono dopo un cammino di dovuta penitenza112. Ma stavolta l’opposizione alle sue decisioni fu violentissima: a Roma scoppiarono disordini e si arrivò perfino allo spargimento di sangue. Di fronte a tali eventi Massenzio decise di mandare in esilio Marcello, che morì nel 308 o l’anno successivo. Poco dopo fu eletto vescovo Eusebio, ma gli scontri tra le due parti ripresero, le divisioni si acuirono e un personaggio di nome Eraclio si pose a capo dei dissidenti, come testimonia l’inizio di una iscrizione di papa Damaso dedicata alla memoria di Eusebio: Heraclius vetuit lapsos peccata dolere, | Eusebius miseros docuit sua crimina flere. | Scinditur in partes populus gliscente furore, | Seditio, caedes, bellum, discordia, lites113. |Heraclius vetuit lapsos peccata dolere, | Eusebius miseros docuit sua crimina flere. | Scinditur in partes populus gliscente furore, | Seditio, caedes, bellum, discordia, lites113. |Heraclius vetuit lapsos peccata dolere, | Eusebius miseros docuit sua crimina flere. | Scinditur in partes populus gliscente furore, | Seditio, caedes, bellum, discordia, lites113. |Heraclius vetuit lapsos peccata dolere, | Eusebius miseros docuit sua crimina flere. | Scinditur in partes populus gliscente furore, | Seditio, caedes, bellum, discordia, lites113. Massenzio mandò ora in esilio sia Eusebio, che morì in Sicilia verso la fine del 310 o agli inizi del 311, sia Eraclio.
Si aprì così un altro, sia pur breve, periodo di sede vacante, non dovuto a cause politiche ma a dissidi interni alla comunità. Infatti, solo fonti tarde presentano Massenzio come nemico dei cristiani, evidentemente perché intendono, a suo discapito, esaltare la figura di Costantino. Ciò non corrisponde tuttavia al vero. Eusebio di Cesarea riferisce che Massenzio sospese ogni persecuzione a Roma e si dimostrò mite verso i cristiani, a differenza dei suoi predecessori114. D’altra parte è pur vero che Massenzio mandò in esilio Marcello, Eusebio e anche Eraclio: questi provvedimenti erano però dovuti a ragioni di ordine pubblico, non di politica religiosa115. Solo, dunque, nell’inoltrato 311, probabilmente quando le agitazioni si erano almeno in parte sedate, si poté procedere all’elezione episcopale e si scelse Milziade (311-314). Era questi vescovo di Roma quando Costantino vinceva, nel 312, lo scontro, tra i Saxa Rubra e ponte Milvio, con il rivale Massenzio e diventava signore unico della parte occidentale dell’Impero. Iniziava a questo punto una nuova fase nei rapporti tra Stato e Chiesa. La politica ecclesiastica di Costantino e dei suoi primi successori non si sarebbe tradotta però semplicemente in vantaggi per la Chiesa di Roma. I rapporti tra la figura dell’imperatore e quella del vescovo romano si sarebbero mossi in realtà nei decenni successivi in varie direzioni: cooperazione, prese di distanza e conflitti.
Sin dall’ingresso nell’Urbe nel 312, le concessioni e le donazioni di Costantino, e poi anche dei suoi familiari e successori, a beneficio della comunità e del clero romano furono eccezionali116. Saranno qui considerati soltanto i grandi edifici di culto cristiani realizzati per loro iniziativa nei primi decenni della ‘svolta’117. Si iniziò subito, alla periferia della città, con l’erezione della basilica lateranense, la cui costruzione, avviata forse già alla fine del 312, fu completata prima del 324. Era un edificio di grandi proporzioni (m 100×56), diviso in cinque navate, nelle cui immediate vicinanze fu costruito anche un grande battistero ottogonale. Fu questa la chiesa cattedrale della sede romana, destinata alle riunioni plenarie dei fedeli e alla liturgia del vescovo (al quale fu pure donato l’adiacente palazzo lateranense). Nel suburbio sorsero inoltre, negli anni a venire, alcune grandi basiliche funerarie: Pietro e Marcellino sulla via Labicana, S. Lorenzo sulla Tiburtina, S. Agnese sulla Nomentana, S. Marco sulla via Ardeatina, la Basilica apostolorum sulla via Appia per il culto congiunto dei due apostoli Pietro e Paolo; e poi, oltre a un edificio di culto per l’apostolo Paolo sulla via Ostiense, ancora una grande basilica sul colle Vaticano.
Fu questa la più imponente delle costruzioni volute da Costantino per la Chiesa di Roma, la più grande basilica costruita nel suburbio (m 119×64×38), eretta sull’antica edicola funeraria (seconda metà del II secolo) che celebrava la memoria dell’apostolo Pietro118. La realizzazione dell’edificio, iniziata intorno al 320, richiese molti anni di intenso lavoro e si concluse solo sotto il regno del figlio di Costantino, Costanzo II. La grande basilica non esaltava però solo la memoria di Pietro, ma celebrava anche l’imperatore Costantino che l’aveva fermamente voluta. Forse nulla in tal senso è più significativo dell’iscrizione posta con buona probabilità alcuni anni dopo il 324 sull’arco trionfale della basilica: Quod duce te mundus surrexit in astra triumphans ǀ hanc Constantinus victor tibi condidit aulam119. Il primo verso di questa iscrizione è un capolavoro di ambiguità: sia duce te sia mundus possono essere intesi (o almeno sono stati interpretati dagli studiosi) in modi diversi. Il secondo verso è invece chiarissimo e mette in forte rilievo la potente personalità dell’imperatore che ha voluto la grandiosa opera: Constantinus victor «ha fondato per te questa dimora»120.
Le grandi basiliche funerarie occuparono tutte il suburbio della città. Solo la basilica lateranense fu eretta all’interno delle mura, sebbene in posizione di estrema periferia. Si trattava di una scelta voluta dall’imperatore, che, peraltro, non intendeva toccare la città con la costruzione di edifici cristiani121. In effetti la ‘conquista’ cristiana dello spazio urbano sarebbe stata opera non tanto degli imperatori quanto dei vescovi di Roma. Si trattò di un processo lento e graduale, iniziato con Silvestro e proseguito con i suoi successori Marco, Giulio, Liberio, Damaso e gli altri papi di fine IV e del V secolo122.
Con la realizzazione dei primi grandi edifici di culto nel suburbio romano, Costantino aveva dunque fatto per la comunità cristiana della capitale quello che, sino ad allora, nessuno aveva potuto realizzare. Ma l’imperatore coinvolse subito la Chiesa e il vescovo di Roma anche in questioni dottrinali e di ‘politica ecclesiastica’ di ampio respiro. Costantino, infatti, desiderava non solo una Chiesa libera di professare il proprio culto, ma soprattutto una Chiesa amica e alleata dello Stato che contribuisse, con la sua unità, alla stessa unità dell’Impero. Sicché uno dei problemi che si dovettero subito affrontare nell’interesse e per il bene sia della Chiesa sia dell’Impero fu quello donatista.
Si trattava di una profonda divisione tra le comunità dell’Africa proconsolare, della Numidia e della Mauretania. La crisi era scoppiata nel 312: un sinodo africano aveva invalidato la nomina di Ceciliano a vescovo di Cartagine perché consacrato da Felice di Aptungi, che molti consideravano uno dei traditores, cioè uno di coloro che per viltà avevano consegnato i libri sacri all’autorità romana durante la persecuzione dioclezianea. Tali nemici di Ceciliano, capeggiati da Donato e per questo poi denominati donatisti, avevano quindi eletto un nuovo vescovo, Maiorino. Le restanti Chiese africane si erano divise, parteggiando o per Ceciliano o per il suo antagonista. Nel 313 furono gli stessi donatisti a ricorrere a Costantino e a chiedere che il caso fosse sottoposto ai vescovi della Gallia, una regione non ancora coinvolta dalla controversia123. Costantino tentò invece la via dell’arbitrato, convocando a Roma le parti contrapposte (Ceciliano e i suoi sostenitori da un lato, i suoi avversari dall’altro), e chiamò tre vescovi della Gallia a giudicare il caso, sotto la presidenza di Milziade. Il processo si tenne nell’ottobre di quell’anno nel palazzo del Laterano, che già allora era stato in parte ceduto al vescovo di Roma, mentre un’altra ala del palazzo era occupata da Fausta, moglie di Costantino. Il verdetto fu sfavorevole ai donatisti, ma questi si opposero alla validità del processo romano perché troppo pochi erano stati i partecipanti e inoltre la decisione era stata presa troppo in fretta124.
Il disappunto di Costantino fu forte, ma egli, dinanzi alla gravità della crisi in Africa, preferì tenere conto della nuova protesta, nella speranza di trovare presto una soluzione il più possibile condivisa. Ordinò dunque, per l’anno successivo, la convocazione di un grande sinodo ad Arles, in cui doveva convenire il maggior numero di vescovi della parte occidentale. La decisione dell’imperatore invalidava così, di fatto, il verdetto pronunciato a Roma da Milziade e dai vescovi della Gallia e certamente dovette essere accolta con un certo disappunto da parte della sede romana. Dopo la morte di Milziade, il nuovo vescovo Silvestro, benché invitato ad Arles125, non si presentò e si fece piuttosto rappresentare: sarà questa una scelta adottata anche in successive occasioni dai vescovi di Roma, i quali non parteciperanno direttamente alle grandi assise convocate dagli imperatori126. Al suo posto giunsero due presbiteri e due diaconi romani127, i quali non tennero tuttavia la presidenza del sinodo. Fu invece Marino, il vescovo locale, a presiedere ai lavori. Il giudizio di appello fu nuovamente sfavorevole ai donatisti. I vescovi convenuti ad Arles approfittarono poi di questa circostanza per sentenziare su altre questioni ancora aperte, per esempio la celebrazione della Pasqua e il battesimo degli eretici, optando in questo caso per una via di mezzo: se il battesimo era avvenuto nel nome del «Padre e del Figlio e dello Spirito Santo», era sufficiente imporre solo le mani: altrimenti si doveva procedere a un nuovo battesimo128. Il vescovo di Arles, Marino, e gli altri partecipanti ritennero quindi loro dovere informare di tali decisioni papa Silvestro, succeduto a Milziade. A lui – come sembra ricavarsi dal testo, assai corrotto, della lettera sinodale – essi lasciavano il compito di comunicare i deliberata alle altre sedi129.
I donatisti non riconobbero la sconfitta neppure questa volta e tornarono ad appellarsi. La controversia africana si sarebbe così trascinata molto a lungo. Già questi primi avvenimenti appaiono tuttavia significativi per fare alcune considerazioni sulla storia del primato romano e le dispute dottrinali nel IV secolo. Come sopra visto, le precedenti controversie si erano svolte senza il coinvolgimento dell’autorità politica e il vescovo di Roma, quando era stato chiamato in causa, aveva preso liberamente posizione su varie questioni. In un solo caso era intervenuta l’autorità imperiale con Aureliano, il quale aveva rimesso la decisione sul caso di Paolo di Samosata ai vescovi dell’Italia e di Roma, e così non aveva fatto altro che conferire maggiore prestigio alla sede romana. Con Costantino le cose cambiano. D’ora in poi l’imperatore si considererà coinvolto in prima persona nei problemi della Chiesa, al punto da convocare lui stesso i concili per la soluzione delle varie controversie, e in più di un’occasione sarà proprio il prestigio della sede romana a fare le spese della forza e dell’autorità imperiale. Nella soluzione delle questioni ecclesiastiche ci sarà da questo momento «un giocatore in più»130.
«Tempi oscuri»: così lo storico francese Charles Pietri definisce gli anni del pontificato di Silvestro (314-335) e di Marco (335), sui quali siamo assai poco informati131. Non sembra, in effetti, che Silvestro abbia giocato un ruolo di qualche significato nelle pur molto importanti vicende del periodo. La dottrina del presbitero di Alessandria Ario, secondo il quale il Figlio di Dio non era coeterno con il Padre ma era stato creato dal nulla, aveva portato sin dal 318 a gravi divisioni tra i membri dell’episcopato orientale132. Costantino, sconfitto Licinio nel 324 e divenuto unico signore dell’Impero, aveva deciso di porvi rimedio: convocò perciò per il 325 tutti i vescovi della cristianità in una grande assemblea a Nicea, un concilio ecumenico, per superare i contrasti e ristabilire l’unità. In questa convocazione Silvestro non giocò alcun ruolo e al concilio si fece semplicemente rappresentare dai presbiteri romani Vito e Vincenzo. L’assemblea fu invece dominata dalla presenza degli orientali.
A Nicea Ario e i suoi più convinti sostenitori furono condannati. Il simbolo di fede approvato proclamava invece Cristo il Figlio di Dio come «Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero» e lo dichiarava ὁμοούσιος («consustanziale») con il Padre. Questa e altre affermazioni del simbolo non erano però pienamente accette a parecchi partecipanti al concilio, in particolare a coloro che, pur senza essere dalla parte di Ario, sostenevano però la teologia del Logos e quindi rilevavano più nettamente anche una certa distinzione tra Padre e Figlio. Per non opporsi alla volontà dell’imperatore, che voleva la pace e la riunificazione, essi diedero tuttavia il proprio assenso alla formula di fede. È evidente però quanto l’accordo raggiunto in questo modo a Nicea risultasse precario. Lo scontento di molti esponenti dell’episcopato si manifestò in effetti già poco dopo la conclusione del concilio e si affiancò a quello dei sostenitori veri e propri di Ario. L’imperatore Costantino ritenne alla fine opportuno tenerne conto. Senza entrare nuovamente in questioni dottrinali, lasciò negli anni successivi che la reazione antinicena (solo in parte di tendenza ariana) riguadagnasse almeno in parte il terreno perduto e consentì un riequilibrio delle forze in lotta. Tutto ciò ebbe il suo culmine circa dieci anni più tardi addirittura con la riabilitazione di Ario e la deposizione, nel sinodo di Tiro del 335, di Atanasio, cioè del successore del vescovo di Alessandria, Alessandro, che era uscito vincitore dal concilio. La condanna di Atanasio, dovuta a ragioni disciplinari, costituì un duro colpo anche per la Chiesa di Roma. La sede episcopale alessandrina era da tempo in stretti rapporti con quella romana, ma in questa vicenda Silvestro non era stato coinvolto. A quanto si sa, egli non reagì neppure dopo che Costantino ebbe mandato Atanasio in esilio a Treviri.
Solo dopo la morte di Silvestro e di Marco (336) la sede romana prese parte attiva nella controversia ariana con il nuovo vescovo Giulio (337-352). L’occasione si presentò alla morte dell’imperatore Costantino, mentre i suoi tre figli, Costantino II, Costante e Costanzo II, si spartivano il controllo dell’Impero. Alcuni vescovi, deposti e allontananti dalle proprie sedi a opera del partito antiniceno, avevano potuto rientrare nelle proprie comunità. Anche Atanasio, con l’appoggio di Costantino II (morto nel 340), poté tornare ad Alessandria, dove fu accolto trionfalmente. La sua fu però una vittoria di poco momento. Gli era infatti ostile l’imperatore della parte orientale, Costanzo II, che appoggiava gli ariani. Atanasio cercò sulle prime di difendersi anche con la convocazione nel 338 di un concilio di vescovi egiziani, che lo sostennero compatti, ma l’anno successivo fu comunque costretto a lasciare Alessandria una seconda volta a causa dell’opposizione del partito antiniceno. Stessa sorte era peraltro già toccata anche ad altri vescovi, rientrati nelle proprie sedi e in breve tempo nuovamente allontanati. D’altra parte, Eusebio di Nicomedia, il capo del partito antiniceno in Oriente, prevedendo che i vescovi espulsi – e tra questi Atanasio – avrebbero fatto questa volta appello al vescovo di Roma, cercò di anticiparne le mosse. Scrisse dunque a Giulio anche a nome di altri esponenti orientali. La richiesta era chiara: Giulio doveva rifiutare la comunione con Atanasio e con gli altri vescovi deposti – peraltro per diverse ragioni –, come Marcello d’Ancira.
Una piccola delegazione di orientali fu incaricata di portare la lettera a Roma, dove s’imbatté nei messi di Atanasio, il quale prima di lasciare Alessandria aveva provveduto anch’egli a inviare alla sede romana gli atti del sinodo del 338, dove aveva ricevuto il sostegno dell’episcopato egiziano. Gli appelli delle due delegazioni fecero maturare a Roma l’idea di discutere la questione in un concilio. Con il successivo arrivo a Roma di Atanasio (e di altri vescovi deposti), Giulio ritenne quindi giunto il momento propizio per convocare le parti in lotta e invitò una rappresentanza di orientali a venire nell’Urbe per far valere le proprie ragioni. Questi non avevano in realtà interesse a partecipare, giacché la loro sola presenza avrebbe di fatto sospeso la validità delle sanzioni contro Atanasio e gli altri condannati. Si rifiutarono perciò di presentarsi, opponendo alla richiesta romana la validità delle decisioni prese in particolare nel sinodo di Tiro contro lo stesso Atanasio. Peraltro, nella lettera di risposta al vescovo romano, Eusebio minacciò la divisione se si fosse accordata la comunione ai condannati. Giulio non si fece intimidire: nel 341 fu celebrato il concilio romano con la partecipazione di circa cinquanta membri dell’episcopato italiano. Atanasio, Marcello e altri esuli furono così riabilitati. Di ciò diede notizia lo stesso Giulio in una lettera a Eusebio e ad altri orientali133, dichiarando in particolare l’irregolarità procedurale e di conseguenza l’invalidità della condanna di Atanasio, e rivendicando la competenza della sede romana sulle questioni concernenti la chiesa di Alessandria134. Nella stessa lettera, d’altra parte, Giulio criticava il comportamento tenuto dagli orientali nella vicenda, considerandolo contrario non solo alla tradizione dei padri ma anche alle «disposizioni» dell’apostolo Paolo, e sottolineava che le sue affermazioni si basavano sulla tradizione di Pietro135.
Gli orientali non accettarono naturalmente le decisioni del sinodo romano. Si giunse così alla rottura tra l’episcopato d’Occidente e quello d’Oriente. Il concilio organizzato a Serdica nel 343, con l’appoggio degli imperatori Costante, per la parte occidentale, e Costanzo, per quella orientale, al fine di risolvere il dissidio rappresentò un inutile tentativo di trovare un accordo. La situazione in effetti si aggravò. Già prima di cominciare, le parti si contrapposero sulla possibilità che Atanasio e altri condannati partecipassero ai lavori, e si scomunicarono a vicenda. Gli orientali abbandonarono così il concilio. Invece l’episcopato occidentale, allineato sulla posizione del vescovo di Roma, che si era fatto rappresentare anche in questa occasione, proseguì ugualmente con i lavori e, tra le decisioni prese, riconobbe nei canoni 3a, 3b, 4a, 4b la possibilità per un vescovo condannato da un sinodo di fare appello, in base a determinate condizioni, alla sede romana136. Gli occidentali sottoscrissero inoltre a Serdica una formula di fede: come rilevato da Manlio Simonetti, il simbolo allora approvato mostra come la posizione teologica romana espressa ottant’anni prima da Dionigi nella lettera agli egiziani si fosse ampiamente diffusa e imposta in Occidente137.
Un tentativo di ricomporre la frattura tra occidentali e orientali poté essere compiuto solo alcuni anni più tardi a opera di Costanzo II, quando questi, dopo la morte di Costante e la sconfitta dell’usurpatore Magnenzio, riunì nelle sue mani il governo dell’Impero. Fu allora che i rapporti fra il trono imperiale e la cattedra romana degenerarono sino ad arrivare alla completa rottura. L’autoritario Costanzo, determinato a ricostituire la perduta unità e concordia dell’episcopato, voleva a ogni costo fare approvare anche in Occidente la condanna di Atanasio. Con la forza riuscì nel suo intento in due concili, avvenuti rispettivamente nel 353 ad Arles e nel 355 a Milano. Il nuovo papa Liberio (352-366), che si era fatto anche allora rappresentare, si rifiutava però di dare il suo assenso alla condanna. Di fronte a tale opposizione Costanzo diede ordine di procedere all’arresto e alla deportazione del vescovo di Roma in Tracia, a Beroea, presso il vescovo Demofilo, rappresentante del partito antiniceno; e al posto di Liberio fu insediato a Roma Felice, con l’appoggio di un gruppo filoimperiale. Larga parte della comunità romana, sconvolta per quanto accaduto, cercò comunque di rimanere fedele al vescovo esiliato.
Iniziarono a questo punto anni convulsi per la Chiesa di Roma. Liberio, fiaccato dal duro esilio, firmò circa due anni dopo, nel 357, la condanna di Atanasio138, ma solo nel 358 poté tornare nell’Urbe, quando Costanzo si sentì sicuro di averlo piegato al proprio volere. Felice fu allora allontanato. Al rientro, Liberio cercò comunque di ristabilire la pace nella comunità e per il resto rimase estraneo al grande concilio ecumenico voluto da Costanzo II nel 359, tenuto a Rimini per gli occidentali e a Seleucia per gli orientali, e a quello successivo di Costantinopoli (360), dove si imponeva a tutto l’Impero la generica professione di fede secondo cui il Figlio era simile al Padre secondo le Scritture. Solo con la morte di Costanzo II (362) il vescovo di Roma tornò a far sentire la sua voce. In una lettera ai vescovi italiani difese la riammissione e il perdono dei tanti vescovi che, a causa della pressione dell’imperatore, avevano firmato la generica formula di fede di Rimini; intorno al 366 accordò il suo sostegno ad alcuni vescovi orientali, inviati a Roma in rappresentanza dell’episcopato asiatico antiariano che cercava appoggio contro il nuovo imperatore Valente, a patto però che essi sottoscrivessero il simbolo niceno. La sua morte avvenne nello stesso 366. Erano allora passati più di quarant’anni da quando Costantino era entrato vittorioso a Roma e mai come durante il regno di suo figlio Costanzo i rapporti tra Chiesa di Roma e Impero erano stati così conflittuali. La cattedra di Pietro era stata terribilmente offesa. Si concludeva così un primo fondamentale periodo della storia della Chiesa di Roma dopo la ‘svolta’ del 312, quasi cinquant’anni efficacemente definiti da Charles Pietri come l’epoca dell’«empire constantinien»139. Con il successore di Liberio, Damaso (366-384), uomo di «forte e spregiudicata personalità»140, straordinario protagonista delle vicende – non prive di gravi contraddizioni – del tempo141, iniziava infatti un’epoca nuova142. L’episcopato damasiano, il più lungo del IV secolo, avrebbe infatti avuto conseguenze profonde e durature per la storia della Chiesa di Roma (e non solo), al punto da dover essere considerato un ventennio epocale, così come epocale era stato in particolar modo il trentennio da Vittore a Callisto.
1 La notizia di Gaio è riferita, insieme ad altre informazioni sulla presenza di Pietro e Paolo a Roma, da Eus., h.e. II 25,5-7.
2 La bibliografia sulla storia della Chiesa di Roma di questo periodo è sconfinata. Nel presente saggio si farà perciò riferimento solo ad alcuni tra gli studi più significativi o più rappresentativi di determinati indirizzi di ricerca. Per ampi riferimenti bibliografici sul tema cfr. Enciclopedia dei Papi, I, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2000. A tale volume si è fatto riferimento nella maggior parte dei casi per la cronologia dei vescovi di Roma. Per altri riferimenti bibliografici su specifici aspetti cfr. Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità cristiane, a cura di A. Di Berardino, 3 voll., Genova-Milano 2006-2008.
3 Herm., vis. II 4,3.
4 La pluralità di posizioni teologiche e liturgiche all’interno della comunità romana in questo periodo era in larga parte conseguenza delle modalità con cui il Vangelo si era diffuso sino ad allora nella capitale dell’Impero. La fede in Gesù quale Messia promesso a Israele era stata annunziata a Roma non molto tempo dopo la morte del Nazareno, forse già agli inizi degli anni Quaranta del I secolo. Ignoti sono i nomi dei primi missionari (l’apostolo Paolo giunse nella capitale solo dopo il 56/57, mentre non è possibile stabilire con precisione la data dell’arrivo di Pietro). Secondo quanto si può ricavare dalle poche notizie a disposizione, l’evangelizzazione si era inizialmente svolta soprattutto negli ambienti giudaici della capitale (sulla presenza giudaica a Roma nel I secolo cfr. H. Solin, Juden und Syrer im westlichen Teil der römischen Welt. Eine ethnisch-demographische Studie mit besonderer Berücksichtigung der sprachlichen Zustände, in ANRW II 29,2, pp. 587-789; sulla diffusione del messaggio evangelico a Roma cfr. R. Penna, Le prime comunità cristiane. Persone, tempi, luoghi, forme, credenze, Roma 2011, pp. 82-104; R. Brändle, E.W. Stegemann, The Formation of the First ‘Christian Congregations’ in Rome in the Context of the Jewish Congregations, in Judaism and Christianity in First-Century Rome, ed. by K.P. Donfried, P. Richardson, Grand Rapidis (MI) 1998, pp. 117-127; M. Simon, Remarques sur les origines de la Chrétienté romaine, in Religion et culture dans la cité italienne de l’Antiquité à nos jours, Actes du Colloque du Centre interdisciplinaire de recherches sur l’Italie [Strasbourg 8-10 novembre 1979], Strasbourg 1981, pp. 40-50). Non meraviglia pertanto che a Roma verso la fine del I e agli inizi del II secolo la comunità cristiana si caratterizzasse in senso giudaizzante per vari aspetti. D’altra parte la città di Roma, in quanto capitale dell’Impero, era soggetta all’epoca a immigrazione da tutte le regioni del Mediterraneo, in particolare dall’Oriente e dall’Africa. Tra gli immigrati vi erano naturalmente anche i cristiani, i quali introducevano ipso facto nella capitale i propri usi liturgici e vi diffondevano le proprie posizioni teologiche. Così nel corso del II secolo erano venute a contatto e convivevano all’interno della Chiesa romana differenti tradizioni dottrinali e liturgiche. Sull’argomento cfr. P. Lampe, From Paul to Valentinus. Christians at Rome in the First Two Centuries, Minneapolis 2003 (traduzione aggiornata dell’originale tedesco del 1987).
5 Su tale terminologia cfr. G. Schöllgen, Monepiskopat und monarchischer Episkopat. Eine Bemerkung zur Terminologie, in Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft und die Kunde der älteren Kirche, 77 (1986), pp. 146-151.
6 Per la storia della comunità romana tra II e III secolo cfr. M. Simonetti, Roma cristiana tra II e III secolo, in Ortodossia ed eresia tra I e II secolo, Soveria Mannelli 1994, pp. 291-314; A. Brent, Hippolytus and the Roman Church in the Third Century. Communities in Tension Before the Emergence of a Monarch-Bishop, Leiden 1995.
7 Di questa posizione sono in particolare Peter Lampe e Manlio Simonetti (cfr. gli studi citati nelle precedenti note). Le fonti letterarie oggi pervenute mostrano d’altra parte che già Aniceto (circa 155-166), Sotero (ca. 166-175) ed Eleutero (ca. 175-189) avevano ricoperto una certa responsabilità di governo ed esercitato una leadership nella Chiesa di Roma. Si dispone tuttavia di troppo poche informazioni per poter definire meglio il grado di autorità e di responsabilità da loro avuti nei riguardi della comunità romana. La leadership di questi tre personaggi può comunque essere plausibilmente interpretata come una fase di graduale emergenza a Roma dell’episcopato monarchico che si impose poi definitivamente solo con Vittore. Si deve inoltre rilevare che altri storici, in particolare A. Brent, Hippolytus and the Roman Church, cit., posticipano di alcuni decenni l’emergenza dell’episcopato monarchico a Roma e la collocano quasi alla metà del III secolo.
8 Cfr Hier., vir. ill. 34; 53.
9 Cfr. C. Mohrmann, Les origines de la latinité Chrétienne à Rome, in Vigiliae Christianae, 3,2 (1949), pp. 67-106; Suite 3,3 (1949) pp. 163-183; E. Prinzivalli, Traiettorie del plurilinguismo fra i cristiani di Roma dei primi secoli, in Vie quotidienne et pluralité des langues. Plurilinguisme dans les chrétientés du Bas Empire, Actes du Colloque du groupe Suisse d’études patristiques (Fribourg 23 février 2008), éd. par G. Aragione, E. Norelli, F. Nuvolone, pp. 1-32, in corso di stampa.
10 Il processo che condusse alla piena latinizzazione della comunità romana si svolse su vari livelli e fu nel suo complesso assai lungo. Per la prassi liturgica il passaggio si concluse solo nella seconda metà del IV secolo con papa Damaso: cfr. T. Klauser, Der Übergang der römischen Kirche von der griechischen zur lateinischen Liturgiesprache, in Miscellanea Giovanni Mercati, I, Bibbia. Letteratura cristiana antica, Città del Vaticano 1946, pp. 467-482. Per ciò che concerne la produzione letteraria, l’uso del latino tra i cristiani di Roma affiancò quello del greco già tra fine II e prima metà del III secolo. Nell’ambito delle iscrizioni funerarie, invece, la lingua adottata nei nuclei cimiteriali più antichi (inizi III secolo) è nella maggioranza dei casi già quella latina, con un rapporto del 70% circa rispetto al restante 30% in greco; l’uso del latino cresce poi ancora significativamente per tutto il secolo nella documentazione epigrafica a svantaggio del greco. Cfr. C. Carletti, “Epigrafia cristiana”, “epigrafia dei cristani”: alle origini della terza età dell’epigrafia, in La terza età dell’epigrafia, a cura di A. Donati, Faenza 1988, pp. 115-135; A.E. Felle, Manifestazioni di bilinguismo nelle iscrizioni cristiane di Roma, in Atti dell’XI Congresso internazionale di epigrafia greca e latina (Roma 18-24 settembre 1997), Roma 1999, pp. 669-676.
11 Sull’argomento cfr. R. Cantalamessa, La Pasqua nella Chiesa antica, Torino 1878.
12 Sulla leadership di Aniceto sulla Chiesa romana in quel periodo cfr. supra nota 7.
13 Di ciò informa Ireneo in una lettera a Vittore: cfr. Eus., h.e. V 24,16.
14 Sul tema dei primi sinodi nelle fonti antiche cfr. D. Dainese, Συνέϱχομαι - συγϰρότησις - σύνοδος. Tre diversi usi della denominazione, in Cristianesimo nella storia, 32 (2011), pp. 873-943.
15 Cfr. Eus., h.e. V 23,1-4.
16 Cfr. Eus., h.e. V 24,9.
17 Così sembra potersi ricavare mettendo insieme le notizie di Eus., h.e. V 15 e V 20,1 con Ps.Tert., haer. 8,1.
18 La documentazione fondamentale a riguardo si trova in Eus., h.e. V 23-25.
19 Nella Refutatio omnium haeresium, uno scritto antieretico di cui si dirà più avanti, i quartodecimani vengono comunque annoverati tra gli eretici: cfr. Ref. VIII 18.
20 La condanna pronunciata da Vittore non pose naturalmente fine alla controversia sulla data di celebrazione della Pasqua. La questione fu discussa mutatis mutandis ancora altre volte, in particolare nel 325 a Nicea, dove si riaffermò la celebrazione domenicale in accordo con Roma.
21 Sull’argomento cfr. M. Simonetti, Studi sulla cristologia del II e III secolo, Roma 1993 (in particolare lo studio Il problema dell’unità di Dio a Roma da Clemente a Dionigi, ivi, pp. 183-215). Sulla presenza e l’insegnamento di Marcione e di vari dottori gnostici a Roma cfr. gli studi sopra citati di Lampe e Simonetti.
22 Cfr. a riguardo il recente contributo di A. D’Anna, Giustino, philosophus et martyr, in L’ellenizzazione del cristianesimo dal I al II secolo, Atti del XIII Convegno di studi neotestamentari (Ariccia 10-12 settembre 2009), a cura di G. Bellia, D. Garribba, Bologna 2011, pp. 145-159.
23 Sull’argomento trattato in queste pagine cfr. M. Simonetti, Il problema dell’unità di Dio, cit.
24 Sulle fonti relative alla dottrina di Teodoto cfr. W.A. Löhr, Theodotus der Lederarbeiter und Theodotus der Bankier – ein Beitrag zur römischen Theologie des zweiten und dritten Jahrhunderts, in Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft und die Kunde der älteren Kirche, 87 (1996), pp. 101-125.
25 Cypr., epist. 73,4.
26 Hipp., Nöet. 1-3.
27 Secondo una notizia di Tertulliano, adv. Prax. 1,3-5, sarebbe invece stato Prassea, sulla cui identità peraltro si discute, a introdurre per primo tale dottrina a Roma.
28 Nella I Clem. (fine I secolo) viene rilevata solo l’azione soteriologica del Cristo incarnato; nel Pastore di Erma (metà II secolo) si parla del Figlio di Dio anche in riferimento alla sua preesistenza alla creazione del mondo e alla sua funzione cosmologica; d’altra parte la cristologia di quest’opera è aperta a vari influssi. Per un’analisi approfondita di questi testi cfr. M. Simonetti, Studi sulla cristologia, cit., pp. 184-189.
29 Fonte primaria di questi fatti è il frammento del cosiddetto Anonimo antiartemonita citato da Eus., h.e. V 28,1-19.
30 Cfr. Eus., h.e. V 3,4. Sulla condanna dei montanisti da parte di un vescovo romano probabilmente verso la fine del II secolo cfr. Tert., adv. Prax. 1,5.
31 Sulla trasmissione dell’opera e la questione dell’identità del suo autore cfr. E. Castelli, L’Elenchos ovvero una ‘biblioteca’ contro le eresie, in ‘Ippolito’, Confutazione di tutte le eresie, a cura di A. Magris, Brescia 2012, pp. 21-56.
32 In Ref. IX 11,3 (ed. P. Wendland, GCS 26) si legge γενητὸν καὶ παθητόν, da correggere in γεννητὸν καὶ παθητόν. Per l’interpretazione di questa prima affermazione di Zefirino cfr. F. Loofs, Theophilus von Antiochien Adversus Marcionem und die anderen theologischen Quellen bei Irenaeus, Leipzig 1930, pp. 169-172.
33 Questa seconda dichiarazione dottrinale contenuta in Ref. IX 11,3 è stata variamente interpretata. A partire da J. Döllinger, Hippolytus und Kallistus: oder die Römische Kirche in der ersten Hälfte des dritten Jahrhunderts, Regensburg 1853, pp. 222-223, molti studiosi l’hanno in realtà attribuita a Callisto, del quale si parla subito dopo nel testo di Ref. IX 11. Altri studiosi invece, tra cui A. von Harnack (Dogmengeschichte, I, Tubingen 19094, p. 744; Harnack concorda invece con la posizione di Döllinger in Die älteste uns im Wortlaut bekannte dogmatische Erklärung eines römischen Bischofs, Berlin 1923, pp. 51-52) e M. Simonetti (Studi sulla cristologia, cit., p. 197), attribuiscono tale dichiarazione a Zefirino. In effetti la sintassi del brano pone problemi circa l’attribuzione di questa seconda dichiarazione dottrinale, perché l’autore, dopo aver ricordato il comportamento di Zefirino, torna quasi ex abrupto in Ref. IX 11,3, l. 4, a parlare di Callisto. Ma sembra – anche alla luce di quello che si legge prima in Ref. IX 11,1, ll. 17-18 – che anche la seconda dichiarazione dottrinale contenuta in Ref. IX 11,3 sia da attribuire a Zefirino: altrimenti la notizia fornita nel capitolo 11 del IX libro su questo personaggio, considerato come responsabile di στάσεις tra i fedeli della Chiesa di Roma evidentemente a causa delle sue contraddittorie dichiarazioni, perde completamente di senso.
34 Sull’episcopato di Callisto e le controversie dottrinali del suo tempo cfr. Ref. IX 11-12.
35 Ref. IX 12,15-16.
36 Cfr. M. Simonetti, Studi sulla cristologia, cit., pp. 183-215; E. Prinzivalli, Callisto, in Enciclopedia dei Papi, cit., pp. 237-246, in partic. 241.
37 Cfr. Ref. X 32-33.
38 Ref. IX 12,25.
39 Dettagliato racconto in Ref. IX 12.
40 Cfr. Ref. IX 12-13.
41 Cfr. Ref. IX 13.
42 M. Simonetti, L’età antica (I-IV secolo), in Enciclopedia dei Papi, cit., pp. 5-46, in partic. 15.
43 Sulle più antiche aree cimiteriali cristiane di Roma cfr. V. Fiocchi Nicolai, F. Bisconti, D. Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma. Origini, sviluppo, apparati decorativi, documentazione epigrafica, Regensburg 1998 (di quest’opera sono apparse nel 1999 anche le traduzioni inglese e tedesca); H. Brandenburg, Überlegungen zu Ursprung und Entstehung der Katakomben Roms, in Vivarium. Festschrift Theodor Klauser zum 90. Geburtstag, Münster-Westfalen 1984, pp. 11-49. Alla luce della documentazione archeologica, epigrafica e letteraria non risultano convincenti i dubbi sollevati da É. Rebillard, L’Église de Rome et le développement des catacombes. À propos de l’origine des cimetières chrétiens, in Mélanges de l’École Française de Rome. Antiquité tardive, 109 (1997), pp. 741-763, a proposito del carattere collettivo delle prime aree cimiteriali di Roma, che costituisce invece un fatto innegabile.
44 C. Carletti, “Epigrafia cristiana”, cit., pp. 115-135.
45 C. Carletti, L’arca di Noè: ovvero la chiesa di Callisto e l’uniformità della “morte scritta”, in Antiquité tardive, 9 (2001), pp. 97-102.
46 Cfr. A. von Harnack, Julius Africanus, der Bibliothekar der kaiserlichen Bibliothek im Pantheon, in Aufsätze Fritz Milkau gewidmet, hrsg. von G. Leyh, Leipzig 1921, pp. 142-146. Sulla figura di Giulio Africano si veda ora U. Roberto, Le Chronographiae di Sesto Giulio Africano. Storiografia, politica e cristianesimo nell’età dei Severi, Soveria Mannelli 2011.
47 Sull’età dei Severi cfr. E. dal Covolo, I Severi e il cristianesimo: ricerche sull’ambiente storico-istituzionale, Roma 1989.
48 Eus., h.e. VI 28.
49 Cfr. E. Prinzivalli, Ponziano, in Enciclopedia dei Papi, cit., pp. 261-263.
50 Eus., h.e. VI 34.
51 Per questo passo della lettera, cfr. Eus., h.e. VI 43,11.
52 Un’importante analisi di questa fonte offre A. von Harnack, Die Mission und Ausbreitung des Christentums in den ersten drei Jahrhunderten, Leipzig 19244, pp. 860-866.
53 Cfr. ivi, p. 862.
54 Per alcuni riferimenti bibliografici cfr. G. Lüdemann, Zur Geschichte des ältesten Christentums in Rom. I. Valentin und Marcion. II. Ptolemäus und Justin, in Zeitschrift für Neutestamentliche Wissenschaft und die Kunde der älteren Kirche, 70 (1979), p. 102 nota 44.
55 V. Fiocchi Nicolai, Katakombe (Hypogeum), in RAC, XX, c. 380.
56 Per la creazione e lo sviluppo delle aree cimiteriali di questo periodo e del IV-V secolo cfr. V. Fiocchi Nicolai, Gli spazi delle sepolture cristiane tra il III e il V secolo: genesi e dinamica di una scelta insediativa, in La comunità cristiana di Roma. La sua vita e la sua cultura dalle origini all’Alto Medioevo, a cura di L. Pani Ermini, P. Siniscalco, Città del Vaticano 2006, pp. 341-369.
57 Ibidem.
58 Come sopra detto, erano stati condannati a Roma verso la fine del II secolo anche i montanisti.
59 Il testo dell’editto non ci è giunto, ma se ne ricava il contenuto da una quarantina di libelli pervenuti oltre che da una serie di fonti.
60 Su tali eventi informa in particolar modo l’epistolario del vescovo di Cartagine Cipriano, il quale si ritirò in un luogo segreto durante la persecuzione, ma scrisse più volte ai suoi fedeli per incoraggiarli e inoltre ricevette o scrisse a sua volta varie lettere al clero di Roma.
61 Cfr. la lettera scritta da Novaziano a nome dei presbiteri e dei diaconi di Roma a Cipriano: epist. 30,3,2.
62 Si veda nell’epistolario di Cipriano l’epist. 8,3,1.
63 Sullo scisma provocato da Novaziano cfr. H.J. Vogt, Coetus sanctorum. Der Kirchenbegriff des Novatian und die Geschichte seiner Sonderkirche, Bonn 1968 (si tratta di uno studio particolarmente importante, anche se l’interpretazione delle fonti – specialmente per quel che riguarda Eus., h.e. VI 43,16 – non appare sempre convincente).
64 Sulla produzione letteraria di Novaziano e in generale sulla sua attività intellettuale cfr. M. Simonetti, Novaziano, in Enciclopedia dei Papi, cit., pp. 273-278.
65 Si tratta delle lettere 30, 31 e 36 dell’epistolario.
66 Cypr., epist. 30,5,4.
67 Cypr., epist. 30,8.
68 Cypr., epist. 30,2,2.
69 Cfr. H.J. Vogt, Coetus sanctorum, cit., p. 23.
70 Questa notizia è riferita da Eus., h.e. VI 43,2.
71 Cfr. Eus., h.e. VI 43,7-15.
72 Cypr., epist. 30,7,2.
73 Cypr., epist. 55,25.
74 Cfr. Eus., h.e. VI 46,3.
75 Il passo della lettera è riportato da Eus., h.e. VII 5,1-2.
76 Cfr. H.J. Vogt, Coetus sanctorum, cit., pp. 183-266; M. Wallraff, Geschichte des Novatianismus seit dem vierten Jahrhundert im Osten, in Zeitschrift für antikes Christentum, 1 (1997), pp. 251-279. Wallraff (p. 257) evidenzia come i novazianei riuscissero nel IV secolo a far sentire il loro influsso alla corte imperiale, al punto da sfuggire ai provvedimenti contro gli eretici e a mantenere a lungo una posizione privilegiata.
77 Cfr. M. Wallraff, Geschichte, cit., pp. 257-258; I canoni dei concili della Chiesa antica, a cura di A. Di Berardino, I, I concili greci, a cura di C. Noce, C. Dell’Osso, D. Ceccarelli Morolli, Roma 2006, p. 34.
78 Sull’identificazione di Novaziano con il martire dello stesso nome menzionato in ICUR VII 20334 cfr. A. Rocco, La tomba del martire Novaziano, in Vetera Christianorum, 45 (2008), pp. 161-163.
79 Si osservi che già agli inizi del II secolo Ignazio si rivolge alla Chiesa di Roma elogiandola nel praescriptum come mai è dato di constatare nelle altre sue lettere. Per una dettagliata analisi della lettera ignaziana cfr. A. Brent, Ignatius of Antioch and the Second Sophistic. A Study of an Early Christian Transformation of Pagan Culture, Tübingen 2006, pp. 43-47.
80 Cfr. A. von Harnack, Die Mission und Ausbreitung, cit., p. 202. Si noti tuttavia che Harnack valorizza tali motivazioni in un ordine diverso rispetto a quanto qui si propone.
81 Iren., haer. III 3,2: in questo passo peraltro si definisce la Chiesa di Roma come «maxima, antiquissima et omnibus cognita».
82 Cfr. a tal riguardo quanto osserva A. von Harnack, Die Mission und Ausbreitung, cit., p. 202.
83 Cfr. Cypr., epist. 67.
84 Cfr. Eus., h.e. VII 2.
85 Cfr. Eus., h.e. VII 3; 5,4. Di altre notizie ricavabili dall’epistolario di Cipriano si dirà a breve.
86 Cfr. Eus., h.e. VII 5,4-5.
87 Cfr. Cypr., epist. 75,17.
88 Valeriano era allora Augusto insieme a suo figlio Gallieno.
89 Per le decisioni prese al concilio di Arles del 313 sul problema cfr. infra.
90 Le lettere sono citate ad hoc da Eus., h.e. VII 4 segg.
91 Cfr. Cypr, epist. 72,3,1.
92 Phot., cod. 182.
93 Cfr. Eus., h.e. VII 11,4,10; Cypr., epist. 80.
94 Cfr. Ath., Dion.; Ath., decr. 26.
95 Cfr. Ath., Dion. 13,1.
96 Ath., decr. 26.
97 Ath., decr. 26,2.
98 Ath., decr. 26,7.
99 Questa notizia è riferita da Bas., Spir. 29.
100 Su ciò cfr. M. Simonetti, Il problema dell’unità di Dio, cit., pp. 212-215.
101 Su questo personaggio cfr. P. de Navascués, Pablo de Samosata y sus adversarios. Estudio histórico-teológico del cristianismo antioqueno en el siglo III, Roma 2004.
102 Cfr. Eus., h.e. VII 29-30.
103 Cfr. Eus., h.e. VII 30,1-18.
104 Cfr. Eus., h.e. VII 30,19.
105 ICUR VII 19183.
106 Sulla fondazione di nuove aree cimiteriali cristiane in questo periodo cfr. V. Fiocchi Nicolai, Gli spazi delle sepolture cristiane tra il III e il V secolo, cit., pp. 349-354.
107 J. Guyon, Le cimetière aux deux lauriers. Recherches sur les catacombes romaines, Città del Vaticano 1987, p. 101.
108 V. Fiocchi Nicolai, Origine e sviluppo delle catacombe romane, in V. Fiocchi Nicolai, F. Bisconti, D. Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma, cit., pp. 25-27 e 30-31.
109 Eus., h.e. VII 32,1.
110 Per una dettagliata analisi del problema cfr. A. Di Berardino, Marcello, in Enciclopedia dei Papi, cit., pp. 307-312.
111 Cfr. infra, nel testo.
112 Cfr. Epigrammata Damasiana, rec. A. Ferrua, Città del Vaticano 1942, p. 181, n. 40.
113 Ivi, p. 131, n. 18. L’interpretazione dell’iscrizione è problematica: per alcuni studiosi Eraclio sarebbe stato un rigorista che negava la possibilità del perdono dei lapsi; a questa conclusione inclina K. Baus in Handbuch der Kirchengeschichte, hrsg. von H. Jedin, I, Von der Urgemeinde zur frühchristlichen Großkirche, Freiburg-Basel-Wien 19652, p. 387. Altri studiosi, tra cui A. Ferrua (Epigrammata Damasiana, cit., p. 132) e A. Di Berardino (in Enciclopedia dei Papi, cit., pp. 314-315), ritengono piuttosto che Eraclio fosse lassista e richiedesse l’ammisione sine paenitentia dei caduti. È quest’ultima a mio avviso l’interpretazione esatta dell’iscrizione.
114 Eus., h.e. VIII 14,1.
115 Sull’allontanamento di Marcello da parte di Massenzio cfr. E. Schwartz, Der Aufstieg Konstantins zur Alleinherrschaft, in Konstantin der Grosse, hrsg. von H. Kraft, Darmstadt 1974, pp. 124-125 (lo studio di Schwartz era apparso in Nachrichten von der königl. Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen. Philologisch-historische Klasse aus dem Jahre 1904, Heft 5, pp. 518-547).
116 Per la storia della Chiesa romana da questo periodo fino alla metà del V secolo è fondamentale Ch. Pietri, Roma Christiana. Recherches sur l’Église de Rome, son organisation, sa politique, son idéologie de Miltiade à Sixte III (311-447), I, Roma 1976; Id., Appendice prosopographique à la Roma Christiana (311-440), in Mélanges de l’École Française de Rome. Antiquité, 89 (1977), pp. 372-415.
117 Per le informazioni sugli edifici di culto di età costantiniana si segue qui V. Fiocchi Nicolai, Strutture funerarie ed edifici di culto paleocristiani di Roma dal IV al VI secolo, Città del Vaticano 2001, pp. 49-92. Per le notizie del Liber Pontificalis relative agli edifici ecclesiastici, cfr. H. Geertmann, Hic fecit basilicam. Studi sul Liber Pontificalis e gli edifici ecclesiastici di Roma da Silvestro a Silverio, a cura di S. de Blaauw, Leuven 2004; per il testo del Liber Pontificalis cfr. Le Liber Pontificalis, I-II, éd. par L. Duchesne, Paris 1886-1892; III, éd. par C. Vogel, Paris 1957.
118 Cfr. P. Liverani, G. Spinola, Le necropoli vaticane: la città dei morti di Roma, Milano-Città del Vaticano 2010, pp. 41-139; T.D. Barnes, Early Christian Hagiography and Roman History, Tübingen 2010, pp. 1-41; 397-413; P. De Santis, Sanctorum Monumenta. ‘Aree sacre’ del suburbio di Roma nella documentazione epigrafica (IV-VII secolo), Bari 2010, pp. 9-17.
119 ICUR II 4092. Sui contenuti dell’iscrizione cfr. la bibliografia citata nella nota seguente.
120 Cfr. Ch. Pietri, Roma Christiana, cit., I, pp. 51-52; C. Carletti, L’epigrafia di apparato negli edifici di culto da Costantino a Gregorio Magno, in La comunità cristiana di Roma: la sua vita e la sua cultura dalle origini al Medio Evo, a cura di L. Pani Ermini, P. Siniscalco, Città del Vaticano 2000, pp. 440-441; Id., Epigrafia dei cristiani in Occidente dal III al VII secolo. Ideologia e prassi, Bari 2008, pp. 247-248. J.M. Lassère, Manuel d’épigraphie romain, I, Paris 2005, pp. 532-533.
121 Cfr. R. Krautheimer, Roma. Profilo di una città, Roma 1981.
122 Cfr. V. Fiocchi Nicolai, Strutture funerarie, cit., pp. 59-118.
123 Le fonti principali per la fase iniziale della controversia donatista sono raccolte in Urkunden zur Entstehungsgeschichte des Donatismus, hrsg. von H. von Soden, Bonn 1913.
124 Eus., h.e. X 5,22. Cfr. D. Dainese, Concili e sinodi, in questa stessa opera.
125 Ciò si ricava dalla lettera di Marino di Arles a Silvestro, con la quale questi veniva informato sulle decisioni prese dal sinodo: cfr. Urkunden zur Entstehungsgeschichte, cit., p. 20 nota 16; C. Munier, Concilia Galliae (Corpus Christianorum 148), Turnhout 1963, pp. 4-5.
126 La scelta di non presentarsi a questo e ad altri concili imperiali può essere spiegata alla luce di varie considerazioni. È certo comunque che in questo modo il vescovo di Roma si riservava la possibilità di prendere posizione più liberamente sui deliberata del concilio.
127 Come si ricava dalle sottoscrizioni dei partecipanti al sinodo, si tratta dei presbiteri Claudio (o Claudiano) e Vito e dei diaconi Eugenio e Ciriaco: cfr. C. Munier, Concilia Galliae, cit., pp. 14-22.
128 Per le decisioni prese al concilio cfr. C. Munier, Concilia Galliae, cit., pp. 4-13.
129 Il testo della lettera è offerto da Urkunden zur Entstehungsgeschichte, cit., pp. 20-22.
130 Cfr. A. Marcone, Pagano e cristiano. Vita e mito di Costantino, Roma-Bari 2002, p. 100.
131 Ch. Pietri, Roma Christiana, cit., p. 168.
132 Lo studio fondamentale sulla controversia ariana nel IV secolo è di M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975.
133 Questa lettera, tramandata da Ath., apol. sec. 21-35, e le notizie di Soz., h.e. III 8 costituiscono le fonti principali per tutta questa vicenda. Cfr. M. Simonetti, La crisi ariana, cit., pp. 146-153.
134 Ath., apol. sec. 35,4.
135 Ath., apol. sec. 35,4-5. Giulio dunque supportava i diritti della Chiesa di Roma e l’autorità della propria posizione con un richiamo, sia pur assai generico, all’autorità degli apostoli Pietro e Paolo.
136 Per l’analisi delle decisioni allora prese cfr. Ch. Pietri, Roma Christiana, cit., pp. 220-231.
137 Cfr. M. Simonetti, Il problema dell’unità di Dio, cit., p. 213.
138 Per ulteriori informazioni circa l’episcopato di Liberio cfr. M. Simonetti, Liberio, in Enciclopedia dei Papi, cit., pp. 340-347.
139 Cfr. Ch. Pietri, Roma Christiana, cit., p. XII.
140 E. Di Santo, L’Apologetica dell’Ambrosiaster. Cristiani, pagani e giudei nella Roma tardoantica (Studia Ephemeridis Augustinianum 112), Roma 2008, p. 50.
141 Su Damaso cfr. C. Carletti, Damaso, in Enciclopedia dei Papi, cit., pp. 349-372; E. Di Santo, L’Apologetica dell’Ambrosiaster, cit., pp. 21-107.
142 Ch. Pietri, Roma Christiana, cit., p. XII.