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La chiamata de relato quale riscontro probatorio
Le Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi su di una questione delicatissima collocata sull’ambiguo confine che separa limiti probatori e regole di valutazione. Ci si interroga sulla possibilità che più chiamate in reità o in correità de relato si riscontrino reciprocamente in applicazione dell’art. 192, co. 3, c.p.p. L’orientamento, volto ad escludere tale possibilità, sottolinea che si tratta di dichiarazioni caratterizzate da congenita inattendibilità. Pertanto, onde evitare decisioni basate su materiale probatorio debole, le chiamate de relato debbono trovare riscontro in elementi di differente natura.
1. La ricognizione. La questione delle “chiamate de relato”
Le Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla possibilità che più chiamate in reità o correità de relato possano riscontrarsi a vicenda, ai sensi dell’art. 192, co. 3 c.p.p.1.
Si tratta di una questione estremamente delicata per la peculiarità della materia che ne costituisce lo sfondo. Sotto il profilo della teoria generale, non sfugge come risultino coinvolte complesse opzioni sistematiche oggetto di sottili discettazioni dottrinali; dal punto di vista dei risvolti applicativi, occorre tener conto del fatto che la problematica sorge spesso nell’ambito di processi di criminalità organizzata di stampo mafioso e, dunque, si colloca nel punto di frizione tra esigenze repressive – che comportano talora l’applicazione di pene di notevole severità – ed esigenze di garanzia che spingono ad innalzare la soglia probatoria necessaria per limitare la libertà personale. In proposito, è appena il caso di rilevare come, nella vicenda che ha dato origine all’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite, nei confronti degli imputati fosse stata emessa condanna all’ergastolo con isolamento diurno sulla base delle dichiarazioni accusatorie de relato.
Merita considerare che la materia non è oggetto di specifica regolamentazione nel codice. Infatti, per un verso, la disciplina sulla testimonianza indiretta – salvo il riferimento al segreto professionale e d’ufficio (art. 195, co. 6, c.p.p.) – non reca norme specifiche in relazione alla natura ed all’oggetto delle informazioni apprese dal testimone de auditu2.
Per un altro verso, la norma in esame non dedica una peculiare attenzione all’ipotesi in cui la fonte diretta sia persona incompatibile con la qualifica di testimone, con ciò lasciando incerta l’operatività delle regole ordinarie qualora l’escussione della fonte diretta risulti impossibile perché essa ha rifiutato di deporre avvalendosi della possibilità di non consentire all’esame. Per la giurisprudenza prevalente, siffatta eventualità risulta equiparabile ai casi di impossibilità ex art. 195, co. 3, c.p.p. Per contro, la dottrina, da un lato, richiama l’insegnamento della Consulta (sentenza 25.10.2000, n. 440) in ordine alla netta divaricazione tra il concetto di impossibilità oggettiva e la mancata deposizione dovuta a scelte soggettive; da un altro lato, prospetta l’applicabilità, anche alle ipotesi in oggetto, dello sbarramento ricavabile dall’art. 526, co. 1-bis, c.p.p. a tutela del diritto a confrontarsi con l’accusatore. Anche se, su quest’ultimo fronte, è appena il caso di sottolineare come, in base all’interpretazione sistematica, la norma appena ricordata si riferisca alle dichiarazioni rese nel corso del procedimento e non a quelle “extraprocessuali”3.
Al tempo stesso, l’art. 192, co. 3 e 4, c.p.p. disciplina le dichiarazioni rese da persone che rivestano la qualifica di imputati connessi o collegati, senza chiarire se le specifiche cautele ivi indicate operino anche qualora siffatte notizie entrino nel processo attraverso la testimonianza de auditu.
Malgrado l’incerto quadro normativo, la giurisprudenza ha collocato la questione nell’alveo della norma appena ricordata interrogandosi, in particolare, sulla natura dei riscontri necessari a corroborare dichiarazioni accusatorie rese da persone imputate e riversate nel processo mediante la deposizione de relato di altro dichiarante.
Ed è proprio in relazione a siffatto quesito che il diritto vivente si è spaccato in un orientamento, che potremmo definire “tradizionale” e un indirizzo qualificabile come “garantista”. Fermo restando, in generale, l’onere del giudice di motivare adeguatamente in ordine alle ragioni sottese al vaglio positivo di rilevanza ed attendibilità delle affermazioni del testimone. Si tratta, infatti, di informazioni provenienti da una persona per la quale non vi era obbligo di testimoniare, in relazione alle quali debbono operare, quanto meno, i princìpi relativi all’ipotesi nella quale l’esame della fonte sia impossibile4.
2.1 L’orientamento “tradizionale”
L’indirizzo tradizionale tende a non effettuare distinzioni particolari ed a considerare utilizzabili le dichiarazioni de quibus anche qualora esse trovino riscontro l’una nell’altra. Naturalmente, la Suprema Corte ha richiesto ulteriori requisiti, talora andando oltre lo standard probatorio solitamente necessario in relazione a quanto affermato direttamente dagli imputati connessi o collegati5. Oltre alla convergenza e specificità delle dichiarazioni è stata ritenuta necessaria la reciproca indipendenza6.
In proposito, gli Ermellini hanno affermato che un collaboratore, anche non coimputato o non indagato nello stesso procedimento, può essere credibile quando ha acquisito le notizie propalate nell’ambito della sfera di criminalità organizzata in cui sia inserito, purché venga accertata l’intrinseca attendibilità delle sue dichiarazioni, nonché la sussistenza di riscontri esterni. Essi, in caso di più chiamate convergenti, come nel caso in esame, possono anche consistere nella circostanza che le dichiarazioni riconducano il fatto all’imputato, sia pure in modo non sovrapponibile, essendo sufficiente la confluenza su comportamenti riferiti a tale soggetto ed alle imputazioni a lui attribuite. In base all’indirizzo in parola, occorre dunque che le dichiarazioni siano «idonee a riscontrarsi reciprocamente nell’ambito della c.d. “convergenza del molteplice”» 7.
Il criterio della reciproca indipendenza, in particolare, indica la necessità che i testimoni indiretti abbiano appreso le circostanze ciascuno da una persona diversa. In caso di identità della fonte, infatti, si verificherebbe il fenomeno della cd. circolarità e verrebbe a mancare in radice la “pluralità” degli elementi di prova che fanno riferimento alla stessa sorgente.
Prima di concludere sul punto, merita ricordare il filone giurisprudenziale secondo il quale non debbono essere considerate chiamate de relato le dichiarazioni con le quali l’intraneus alla cosca mafiosa riporti notizie assunte presso altri intranei, giacché si tratterebbe di informazioni che costituiscono un patrimonio comune in ordine ad associati ed attività propri della cosca8. Come correttamente rilevato dall’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite, peraltro, si tratta di una distinzione che non convince, giacché il contesto nel quale determinati fatti sono stati appresi non esclude la natura indiretta di siffatte conoscenze.
L’indirizzo volto a considerare utilizzabili le chiamate de relato, purché munite di caratteristiche idonee, in concreto, a dimostrarne l’attendibilità, fa leva sul fatto che l’art. 192, co. 3, c.p.p. non richiede particolari requisiti in relazione ai riscontri salva l’idoneità degli stessi a confermare l’attendibilità dell’elemento principale. Pertanto, ulteriori limiti praeter legem finirebbero per comprimere il principio del libero convincimento.
2.2 L’indirizzo “garantista”
Come si è accennato, specialmente in tempi recenti, si è formato un contrapposto orientamento volto a ridurre il valore probatorio delle dichiarazioni in oggetto. Si afferma, in particolare, che l’art 192 c.p.p. imporrebbe, senza altre condizioni, di escludere valenza probatoria alla chiamata de relato nel particolare caso in cui essa non sia frutto di percezione diretta del dichiarante, sia sottoposta al giudice nell’impossibilità di escutere la fonte e, in più, trovi riscontro esclusivamente in un’altra chiamata della stessa natura.
La più recente pronuncia sul tema, per un verso, ha richiamato in generale i tre classici passaggi che governano la valutazione della chiamata di correo9. Ad avviso del Supremo Collegio, il giudice è tenuto a seguire un preciso ordine logico: in primo luogo, deve affrontare e risolvere il problema della credibilità del dichiarante in relazione, tra l’altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche, al suo passato, ai suoi rapporti con il chiamato in correità, nonché alla genesi, prossima e remota, delle ragioni che lo hanno indotto alla confessione e all’accusa dei coautori e dei complici; in secondo luogo, deve verificare l’intrinseca consistenza e le caratteristiche delle sue dichiarazioni, alla luce dei criteri della precisione, della coerenza, della costanza e della spontaneità; infine, egli deve procedere all’esame dei riscontri esterni.
Per altro, verso, con specifico riguardo alle chiamate de relato la medesima sentenza ha affermato che le dichiarazioni de quibus, non confermate dal soggetto indicato come fonte dell’informazione, possono costituire elemento indiziario idoneo a fondare la dichiarazione di colpevolezza soltanto se confortate, ai sensi dell’art 192, co. 3, c.p.p., da riscontri estrinseci certi, univoci, specifici, individualizzanti, e tali da consentire un collegamento diretto ed obiettivo con i fatti contestati e con la persona imputata.
Ne consegue, sempre secondo la pronuncia in esame, che il riscontro ad una chiamata in reità o correità de relato non può essere integrato da un’altra chiamata dello stesso tipo priva dei suddetti riscontri, mentre plurime chiamate de relato ben possono ritenersi reciprocamente corroborate e idonee a fondare il giudizio di colpevolezza, purché sottoposte alla verifica di attendibilità, intrinseca ed estrinseca, e supportate da riscontri esterni muniti delle predette caratteristiche.
In buona sostanza, l’orientamento garantista muove da un ragionamento a fortiori. Se l’ordinamento processuale ha imposto particolari e rigorose regole di giudizio per la chiamata in reità o correità diretta – in relazione alla quale l’imputato ha effettuato una assunzione di responsabilità – deve escludersi che, in mancanza di altri elementi, due o più chiamate de relato possano reciprocamente ritenersi riscontrate, così da essere poste a base del giudizio di responsabilità penale quando non si può escutere la fonte originaria della dichiarazione per essere questa imputata a sua volta e perciò interessata a smentirla.
Pertanto, dinanzi ad una chiamata de relato la ricerca dei riscontri deve essere particolarmente rigorosa e non può esaurirsi nell’individuazione di altra dichiarazione indiretta, dotata cioè della stessa connotazione. Infatti, l’affermazione accusatoria di partenza è caratterizzata da credibilità congenitamente carente, dovuta alla scarsa attendibilità della fonte diretta, portatrice di un forte interesse a mentire, unita al fatto che il contenuto informativo è riversato nel processo «per bocca altrui»10. In definitiva, l’ontologica debolezza dimostrativa di tale tipologia di dichiarazioni le rende inidonee «a far superare il congenito deficit probatorio della prima dichiarazione dello stesso tipo». Di conseguenza, la chiamata in reità de relato – affine nella struttura alla testimonianza indiretta – può costituire prova della responsabilità penale solo se sorretta da adeguati riscontri estrinseci obiettivi ed individualizzanti, in relazione alla persona incolpata e al fatto che forma oggetto dell’accusa, non essendo sufficiente il controllo sulla mera attendibilità intrinseca del collaborante11.
Come ogni fiore colto in quello che icasticamente è stato definito «giardino proibito», la questione ha in sé il fascino ambiguo e pericoloso che da sempre connota il tema della valutazione delle prove e del libero convincimento12.
3.1 Il concetto di chiamata de relato
Anzitutto, emerge ictu oculi come il riferimento alla chiamata in reità o in correità lasci aperto qualche problema di individuazione esatta dei contorni giacché la nozione – per quanto antica e diffusa – non ha un fondamento di diritto positivo che ne delinei nitidamente i confini.
In secondo luogo, quand’anche si riuscisse ad individuare con chiarezza il predetto concetto occorre interrogarsi sulla possibilità di limitare ad esso le pretese stigmate di ontologica inattendibilità. Ci si domanda cioè, a contrario, se più dichiarazioni liberatorie de relato possano riscontrarsi tra di loro al fine di far sorgere un dubbio ragionevole, se del caso in presenza di un panorama probatorio univoco nel senso dell’attribuzione della responsabilità. Anche in tale ipotesi risultano necessarie idonee cautele giacché il – pur controverso – attributo della “ragionevolezza” esclude che il dubbio possa essere ricavato da qualsivoglia elemento probatorio ancorché per sua natura inattendibile e, come tale, a ben vedere solo in apparenza annoverabile tra le “prove”.
Al tempo stesso, e corrispondentemente, ci si domanda se una dichiarazione de relato, che non sia inquadrabile nel concetto di chiamata in reità o in correità, ma abbia ad oggetto un profilo determinante nella ricostruzione del fatto di cui all’imputazione esuli dai vincoli prospettati dall’orientamento garantista e, dunque, possa valere a far ritenere provata quella circostanza a prescindere dalla tipologia degli elementi di riscontro esistenti. Onde evitare pericolosi ritorni al criterio della convergenza del molteplice, infatti, è necessario che ogni tassello dell’impianto accusatorio risulti provato in sé e sottoposto ad attenta verifica. Occorre, dunque, prestare attenzione a non confondere la natura di elemento probatorio “debole” da riconoscersi alle dichiarazioni de relato con il modo in cui esse debbono essere valutate. Non si tratta di ragionare sulla base della cd. convergenza del molteplice. Viceversa, il criterio del ragionevole dubbio, impone di verificare e falsificare ogni elemento alla luce di un approccio “scientifico”13. Pertanto, a rigore, la riconosciuta ontologica debolezza della dichiarazione de relato, appresa dai soggetti menzionati dall’art. 192, co. 3 e 4, c.p.p., dovrebbe restare ferma a prescindere dal contenuto apparentemente accusatorio, liberatorio o neutro della stessa.
3.2 Regole di esclusione e criteri di valutazione: un antico dilemma
La questione, come si è accennato, si colloca su di un crinale scivoloso e pieno di insidie. L’affermazione che un elemento per la sua inattendibilità non può accedere alla sfera di valutazione del giudice, ovvero deve essere assistito da peculiari cautele in tale sede, si presta ad essere letta – a seconda della prospettiva – come un criterio di valutazione, ma anche come una regola di esclusione probatoria14.
Di consueto, l’inutilizzabilità assume tratti assai simili ad una “prova legale in negativo” in base alla quale il giudice non può basarsi su determinati elementi per emettere la decisione. Tuttavia, vi sono ipotesi nelle quali la norma, anziché sottrarre un elemento alla cognizione, sembra “imbrigliare” il giudice nel momento in cui valuta la prova. Su tale base, vi è chi distingue tra le vere e proprie ipotesi di inutilizzabilità, che costituiscono «regole di esclusione probatoria», e i casi nei quali il legislatore si limita a porre un «criterio di valutazione legale» dell’elemento di prova15. Le regole di esclusione operano sempre in un momento antecedente rispetto a quello in cui interviene la valutazione e negano in radice l’idoneità di un determinato elemento a costituire la base per la decisione del giudice. Viceversa, i criteri legali di valutazione implicano prove validamente costituite e riguardano il convincimento giudiziale, che viene in vario modo guidato dalla legge16.
La differenza è di non poco momento, giacché, secondo la tesi in parola, la violazione di una regola di esclusione è sanzionata dalla inutilizzabilità (art. 191) e comporta la possibilità di ricorrere per cassazione ai sensi dell’art. 606, lett. c) eventualmente anche per saltum. Viceversa, la violazione di un criterio di valutazione non determina inutilizzabilità e si può far valere, se del caso, con il ricorso per vizio della motivazione ex art. 606, lett. e).
Il terreno elettivo di scontro è costituito proprio dall’art. 192, co. 3 e 4, c.p.p., in base al quale le dichiarazioni degli imputati connessi «sono valutate unitamente» agli elementi che ne confermano l’attendibilità. Secondo una parte della dottrina, dalla disposizione si ricava che, in assenza di riscontri, le predette dichiarazioni sono inutilizzabili17. Secondo altri, si tratta di un equivoco giacché tale norma si limita a dettare ex post un criterio di valutazione e non impedisce ex ante che il dato acceda alla conoscenza del giudice. Il criterio – si afferma – influisce sul valore della prova fino ad annullarlo in assenza di determinati requisiti, ma non si tratta di una inutilizzabilità vera e propria18.
Sulla base di tale distinzione, tutte quelle norme, in virtù delle quali una prova può essere utilizzata a determinati fini e non ad altri, esulano dai casi di inutilizzabilità relativa perché non impediscono al giudice la valutazione dell’elemento, bensì gli precludono un determinato esito della valutazione (es. art. 63, co. 1). Pertanto non incidono sull’an, bensì sul quomodo del convincimento del giudice.
Sul fronte contrapposto, si replica che le norme in discorso non impongono al giudice di ritenere attendibile o meno un dato (vera e propria prova legale) bensì gli impediscono di basare su di esso la propria decisione, qualora manchi un riscontro (art. 192) ovvero si tratti di una decisione contra reum (art. 63). Pertanto, saremmo sempre nell’area della prova legale in negativo (e cioè della inutilizzabilità) la cui peculiarità sarebbe in siffatta ipotesi quella di operare non nell’area dell’ammissione della prova, ma in quella della valutazione19.
Senza pretesa di risolvere l’annoso dilemma, è senz’altro possibile affermare che – dinanzi ad una disciplina codicistica (art. 192, co. 3, c.p.p.) indubbiamente atipica in relazione alla natura ed alla tipologia dei riscontri20 – la giurisprudenza si è da tempo assestata sulla necessità di un’attenta ponderazione, sviscerando requisiti da considerarsi impliciti. In presenza di chiamata in correità de relato, che costituisca il fondamento della decisione di condanna, ad esempio, si è ritenuto necessario, anzitutto, valutare l’attendibilità intrinseca sia della fonte diretta, sia di quella indiretta. In secondo luogo, la Cassazione ha richiesto l’esistenza di riscontri individualizzanti giacché – per la natura indiretta dell’accusa – risulta indispensabile un più rigoroso e approfondito controllo del contenuto narrativo della stessa e della sua efficacia dimostrativa21.
È appena il caso di precisare che le acquisizioni delle Sezioni unite “Spennato” – scoglio che spicca tra le onde alterne della controversa materia cautelare – debbono ritenersi valide a fortiori in relazione alla utilizzazione delle dichiarazioni degli imputati connessi o collegati come prova della reità22. Come è noto, nella storica pronuncia, risolvendo accesi contrasti ermeneutici si era affermato che le predette dichirazioni «integrano i gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273, comma primo, … soltanto se esse, oltre ad essere intrinsecamente attendibili, risultino corroborate da riscontri estrinseci individualizzanti, tali cioè da assumere idoneità dimostrativa in ordine all’attribuzione del fatto-reato al soggetto destinatario di esse, ferma restando la diversità dell’oggetto della delibazione cautelare, preordinata a un giudizio prognostico in termini di ragionevole e alta probabilità di colpevolezza del chiamato, rispetto a quella di merito, orientata invece all’acquisizione della certezza processuale in ordine alla colpevolezza dell’imputato».
Ebbene, a meno che non si voglia ammettere – in controtendenza rispetto ai princìpi che governano l’incidentalità – l’esistenza, nel procedimento principale, di regole probatorie attenuate rispetto all’incidente cautelare, siffatte statuizioni non possono essere pretermesse nel giudizio sulla reità volto alla decisione finale. Al tempo stesso, merita sottolineare come già la giurisprudenza richieda comunque – sia pure in assenza di espresse indicazioni ricavabili dall’art. 195 c.p.p. – un più attento vaglio delle dichiarazioni de relato. Tanto che la Cassazione è giunta a rilevare l’obbligo del giudice di adottare una «speciale cautela, atteso il carattere “mediato” che ha la rappresentazione del fatto da provare, pur dovendosi escludere che la stessa necessiti di elementi di riscontro a fini probatori»23. Fermo restando che «in caso di contrasto tra le dichiarazioni rese dal teste de relato e quelle rese dal teste di riferimento, il giudice ben può ritenere attendibili le prime anziché le seconde, in quanto, da un lato, l’art. 195 c.p.p. non prevede alcuna gerarchia tra le dichiarazioni e, dall’altro, una diversa soluzione contrasterebbe con il principio del libero convincimento del giudice, cui compete in via esclusiva la scelta critica e motivata della versione dei fatti da privilegiare»24.
Del resto, è possibile affermare che, già in astratto, difficilmente due chiamate in reità de relato appaiono da sole idonee a fondare una sentenza di condanna che risulti rispettosa delle complesse implicazioni oggi ricavabili dal criterio del ragionevole dubbio. Un siffatto canone – regola probatoria e di giudizio ma anche requisito modale nel corretto percorso verso la ricostruzione del fatto – impone un attento vaglio di ogni elemento considerato in se stesso, mediante il criterio della verifica e della falsificazione, oltre alla complessiva valutazione delle risultanze nel loro insieme. In un momento in cui la stessa prova scientifica sta passando al setaccio del dubbio e si assiste ad una progressiva erosione del valore della prova dichiarativa, appare difficile affermare che lo standard probatorio in esame possa essere superato attraverso mere chiamate de relato.
In proposito, merita ricordare come le Sezioni unite “De Francesco” del 2011 abbiano ricavato dal sistema probatorio un canone di “prudente valutazione”, generalizzabile lungo le direttrici della Convenzione europea e sull’onda del criterio del ragionevole dubbio25. Ad avviso del Supremo collegio – chiamato, come si ricorderà, a pronunciarsi in relazione all’utilizzabilità ex art. 512 c.p.p. delle precedenti dichiarazioni di persone successivamente divenute irreperibili – proprio quest’ultima regola impedisce che affermazioni rese senza contraddittorio possano costituire prova unica o determinante ai fini di una sentenza di condanna, giacché l’assenza di controesame abbassa fortemente il grado di attendibilità della prova. In questo quadro – per il Collegio esteso – diventa pienamente condivisibile quell’indirizzo giurisprudenziale che richiede i riscontri al fine di valutare le dichiarazioni rese dalla persona offesa o danneggiata dal reato ed appare senz’altro configurabile un’applicazione analogica dell’art. 192, co. 3, c.p.p. alle dichiarazioni rese da persone irreperibili per motivi oggettivi, giustificata non sulla qualifica del dichiarante, bensì sulla modalità unilaterale di assunzione della prova.
Ferme siffatte considerazioni è appena il caso di sottolineare – peraltro – come appaia assai difficile disconoscere, a priori ed in astratto, idoneità probatoria ad un elemento, anche se ciò avviene con lo scopo di arginare degenerazioni della prassi, talora spinta da – pur condivisibili – esigenze repressive. Altro è affermare che difficilmente si condannerà sulla base di due dichiarazioni de relato, altro è sostenere che un esito del genere sia inibito dalla disciplina vigente, ancorché in presenza di dichiarazioni credibili e attendibili sia con riferimento alla fonte diretta, sia con riferimento a quella indiretta.
Del resto, affermare che una chiamata in reità de relato può valere come prova in presenza di riscontri di differente natura, ma non può fungere da riscontro ad altra omologa dichiarazione appare – già dal punto di vista della logica analitica – piuttosto difficile da sostenere. Parafrasando il brocardo, quae singula probant – sia pure in presenza di riscontri – simul unita non probant. Ne dovrebbe scaturire – a rigore – che in presenza di una dichiarazione de relato munita di riscontri per così dire “eterogenei” sono questi ultimi a risultare determinanti nell’attribuzione della responsabilità. E allora, in base ad un principio di non contraddizione, si dovrebbe semmai affermare che le chiamate di correo de relato per la loro ontologica inattendibilità non dovrebbero essere considerate prova principale ma, al più, riscontro.
Infine, occorre tenere presente, in generale, che le dichiarazioni del teste indiretto possono costituire fondamento della sentenza anche qualora siano discordanti rispetto a quelle del teste diretto sottoposto ad escussione, purché il giudice sia in grado di motivare in modo ineccepibile le ragioni del suo convincimento26. Pertanto, sempre su un piano squisitamente logico, una volta valutata la piena credibilità del teste indiretto e l’attendibilità delle sue dichiarazioni, dovrebbe concludersi che la chiamata de relato acquista la stessa attitudine probatoria – sia pure attenuata ex art. 192, co. 3 e 4, c.p.p. – di una chiamata effettuata direttamente dall’imputato.
3.3 La decisione delle Sezioni unite
All’udienza del 29 novembre 2012 le Sezioni unite “Di Gati” hanno risolto la questione affermando che la chiamata in reità o in correità de relato può essere riscontrata da altra dichiarazione di analoga natura, sempre che le due chiamate abbiano autonomia genetica e siano positivamente valutate per attendibilità, specificità e convergenza. I passaggi argomentativi che hanno spinto il Supremo collegio a siffatta affermazione saranno resi noti al momento del deposito della motivazione.
1 Cass. pen., 23.5.2012, n. 21264. In dottrina, Gaito, A. , Chiamata di correo de relato e controlli in sede di riesame, in Giur. it., 1991, II, 317.
2 Tonini, P., Manuale di procedura penale, XIII ed., Milano, 2012, 272.
3 In giurisprudenza ex multis Cass. pen., 15.10.2008, n. 1085; Cass. pen., 22.03.2011, n. 17107. In dottrina, Casiraghi, R., La chiamata di correo: riflessioni in merito alla mutual corroboration, in www.penalecontemporaneo.it, 7 e ivi ulteriori indicazioni bibliografiche e giurisprudenziali.
4 Così, Cass. pen., 22.03.2011, n. 10107.
5 Si veda, in proposito, Cass. pen., 9.05.2002, n. 43464. Sul punto, in dottrina, Iacoviello, F.M., Il diritto imprevedibile: le contraddittorie pronunce della Suprema Corte sulla motivazione delle ordinanze cautelari fondate su chiamate in reità de relato, in Cass. pen.,1993, 3240; Nigro, M., sub art. 192 c.p.p., in Giarda, A.-Spangher, G., a cura di, Codice di procedura penale commentato, IV ed., Milano, 2010, 1899.
6 Ex multis, Cass. pen., 18.01.2007, n. 1263; Cass. pen., 31.03.2008, n. 13473.
7 Così Cass. pen., 11.08.2010, n. 31695.
8 Per tutte, Cass. pen., 16.06.2010, n. 23242.
9 Si allude a Cass. pen., 7.5.2012, n. 16939.
10 Così Cass. pen., 7.5.2012, 16939.
11 Cass. pen., 20.12.2002, n. 43464. In termini, Cass. pen., 19.10.2010, n. 37239. Sulle difficoltà connesse alla valutazione delle chiamate di correo in generale, si veda Bevere, A., La chiamata di correo: itinerario del sapere dell’imputato nel processo penale, II ed., Milano, 2001; Deganello, M., I criteri di valutazione della prova penale. Scenari di diritto giurisprudenziale, Torino, 2005; Iacoviello, F.M., La tela del ragno: ovvero la chiamata di correo nel giudizio di cassazione, in Cass. pen., 2004, 3452 ss.; Puleio, F., Associazione mafiosa, chiamata di correo e processo: un vademecum per l’operatore, Milano, 2008; Sammarco, A.A., La chiamata di correo: profili storici e spunti interpretativi, Padova, 1990; Tonini, P.-Conti, C., Il diritto delle prove penali, Milano, 2012, 253; Verrina, G.L., Valutazione probatoria e chiamata di correo, Torino, 2000. V. anche Gabrielli, C., In tema di iter valutativo della chiamata in correità, in Giur. it., 2007, 2825 ss.
12 Il riferimento è al noto saggio di Ferrua, P., Un giardino proibito per il legislatore: la valutazione delle prove, in Questione giust., 1998, 587.
13 Sul punto, volendo, Tonini, P.-Conti C., Il diritto delle prove penali, cit., 79 ss. Il riferimento alla convergenza del molteplice, con riguardo alle chiamate de relato si legge in Cass. pen., 11.08.2010, n. 31695. Sulla necessità di rifuggire un simile approccio, in dottrina, Tonini, P.-Conti, C., Il diritto delle prove penali, cit., 91.
14 Sulla distinzione tra regole di esclusione e criteri di valutazione, in generale e con specifico riferimento alla disciplina tracciata dall’art. 192 c.p.p., si veda Daniele, M., Regole di esclusione e criteri di valutazione della prova, Torino, 2009, spec. 48 ss.; Ferrua, P., Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in AA.VV., La prova nel dibattimento penale, IV ed., Torino, 2010, 300, nonché, volendo, Tonini, P.-Conti, C., Il diritto delle prove penali, cit., 115 e ivi ulteriori indicazioni bibliografiche.
15 Ferrua, P., Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, cit., 300.
16 Ferrua, P., Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, cit., 300.
17 Conso, G.-Bargis, M., Glossario della nuova procedura penale, Milano, 1992, 346; Nobili, M., sub art. 192, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. II, Torino, 1990, 415.
18 Così Ferrua, P., Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, cit., 300.
19 Tonini, P., Manuale, cit., 303.
20 Si veda, ex multis, Cass. pen., 18.01.2007, n. 1263, secondo cui per riscontro si deve intendere qualsiasi elemento o dato probatorio, non predeterminato nella specie e qualità, e quindi avente qualsiasi natura.
21 Cass. pen., S. U., 30.10.2003, n. 45276,
22 Cass. pen., S. U., 31.10.2006, n. 36267.
23 Così Cass. pen., 13.11.2007, n. 2001. In dottrina, Giuliani, L., Utilizzabilità e valutazione delle dichiarazioni de relato tra principio di oralità e libero convincimento del giudice, in Riv. it. dir. proc. pen, 1995, 289.
24 Cass. pen., 30.11.2007, n. 2010.
25 Cass. pen., S.U., 14.06.2011, n. 27918. Sulla sentenza sia consentito rinviare a Conti, C., Le dichiarazioni rese da persone irreperibili, in Libro dell’anno del diritto 2012, Roma, 2012, 754 ss.
26 Tonini, P., Manuale, cit., 274.