La Cei e la svolta postconcordataria
In questo saggio mi occuperò della storia della Conferenza episcopale italiana nel primo periodo postconcordatario. Si tratta di un passaggio molto ‘stretto’ dal punto di vista cronologico (da febbraio 1984, firma del ‘nuovo’ Concordato a dicembre 1985, conclusione della seconda assemblea straordinaria del sinodo dei vescovi) che cercherò di approfondire alla ricerca delle fratture, delle svolte e degli inizi.
L’elezione, il 16 ottobre 1978, di un papa non italiano suscitò forti interrogativi su quali sarebbero stati i suoi rapporti con la Chiesa della penisola. Da parte sua, Giovanni Paolo II cercò da subito di sintonizzarsi con le tradizioni spirituali del paese (e soprattutto con le sue diocesi promuovendo frequenti visite ad limina condotte dai vescovi e visite pastorali), conquistando così rapidamente una fiducia, dentro e fuori la Chiesa, che sarebbe cresciuta con il passare degli anni1. Decisamente più cauto fu, invece, l’approccio all’episcopato: lo dimostra il fatto che non ci furono modificazioni alle tendenze strutturali precedentemente impostate (la diminuzione del numero delle diocesi per esempio) e che non fu promossa una figura di vescovo diversa da quella alla quale Paolo VI aveva abituato gli italiani nei decenni precedenti. Inoltre, la nomina nel 1979 del cardinaleBallestrero alla presidenza della Conferenza episcopale italiana, indicato dalla maggioranza dei vescovi, confermò che l’autonomia dell’organizzazione episcopale sarebbe stata rispettata2.
A rendere instabile questo equilibrio furono, invece, i primi interventi del papa sul contesto italiano. Esposta per la prima volta organicamente ai vescovi nel marzo del 1982 durante la visita ad Assisi, la linea pastorale di Wojtyla per l’Italia si fondava sulla convinzione che nel «contesto sociale della nazione» si fossero poste in evidenza «alcune tensioni e contrapposizioni», che sembravano «ostacolare la costruzione di un insieme armonico». Per questi motivi, la Chiesa, «costituendo per sua natura un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza», avrebbe dovuto sentirsi «chiamata ad operare incessantemente per il superamento di ogni divisione, favorendo con mezzi perspicaci l’integrazione e l’unione, ai diversi livelli della Città umana». Un impegno di presenza diretta e non ‘mediata’, la cui mancanza Giovanni Paolo II sembrava imputare alla Conferenza episcopale:
«La Conferenza Episcopale Italiana svolge certamente un’opera di integrazione, ma i mezzi adoperati fino ad ora possono dirsi realmente adeguati e sufficienti? È necessario studiare ogni opportuna iniziativa di carattere nazionale che possa condurre al desiderato traguardo di un’unità di spiriti, sempre più profonda ed operante, anche nel campo della convivenza civile, sull’esempio del Poverello di Assisi, al cui riguardo così si esprimeva il contemporaneo, Tommaso da Spalato: “In realtà, tutta la sostanza delle sue parole mirava a spegnere le inimicizie ed a gettare le fondamenta di nuovi patti di pace”»3.
Se al discorso di Assisi si affiancano altri interventi dello stesso periodo, i contenuti del nuovo progetto pastorale appaiono chiari: insistenza sull’unità del popolo cristiano, valorizzazione dell’ethos popolare, centralità dell’azione dei movimenti, riscoperta delle radici storiche della fede e presenza sociale della Chiesa. Quest’ultima opzione, in particolar modo, suscitò un certo disagio tra i vescovi dopo il riconoscimento (da anni osteggiato dalla Cei) da parte del Consilium pro laicis della fraternità di Comunione e liberazione: una scelta che confermava quella particolare simpatia del pontefice nei confronti del movimento di don Giussani che si era già manifestata in occasione della sua partecipazione al meeting di Rimini nell’agosto 19824. Altre incomprensioni fra il papa e i vescovi italiani si verificarono in seguito sull’aggiornamento dei catechismi5, sul progetto di nuovo messale e sul tema dello ‘statuto teologico’ delle conferenze episcopali.
Già nel suo discorso ai membri delle conferenze episcopali d’Europa nel dicembre 1978, Giovanni Paolo II aveva ricordato che gli organismi espressione della cooperazione ecclesiale situavano la loro ricerca «nella cornice degli orientamenti più generali della Santa Sede in virtù del legame con il successore di Pietro»6, precisando così i limiti entro i quali le conferenze si dovevano muovere, ma sarà soltanto con la promulgazione del nuovo codice di diritto canonico (25 gennaio 1983) e con i lavori dell’assemblea straordinaria del sinodo dei vescovi (dicembre 1985) che le convinzioni del pontefice sulla collegialità troveranno una sistematizzazione7. Con questi interventi Wojtyla non intendeva certamente sconfessare l’autonomia della Cei, da lui confermata nella già evocata allocuzione ai vescovi del 1980, ma piuttosto «operare un rafforzamento della caratteristica non giuridica della collegialità»8, il che rispondeva a un’interpretazione della costituzione Lumen Gentium «in un rapporto di integrazione» con le disposizioni del Vaticano I9. Ai vescovi in generale, e a quelli italiani in particolare, il papa chiedeva dunque una maggiore presenza nella società, anche attraverso il potenziamento delle funzioni delle conferenze10, mantenendo tuttavia fermo il principio che la loro collegialità era da intendersi come parziale e comunque non ‘giuridica’.
La Conferenza ereditata da Anastasio Ballestrero era un’organizzazione relativamente giovane ma con ormai una storia alle spalle11. Negli anni Settanta, quelli della presidenza del cardinal Poma e della segreteria di Enrico Bartoletti, il vero interlocutore italiano di Paolo VI nella stagione della contestazione, la Conferenza si era dotata di una nuova linea pastorale esposta dapprima nel programma Evangelizzazione e sacramenti del 1973 e poi, più organicamente, nel 1976 con la celebrazione del primo convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana12. In quella sede la maggioranza episcopale, ormai prevalentemente di nomina ‘montiniana’, aveva espresso la sua adesione ad una ‘scelta religiosa’ – molto affine nei contenuti a quella operata circa un decennio prima dall’Ac di Vittorio Bachelet13 – che avrebbe dovuto mettere in soffitta le ‘tentazioni neo-costantiniane’, condannate esplicitamente dalla dottrina del Vaticano II, e riaprire il dialogo con la galassia della contestazione e il fronte dei ‘cattolici del no’14. Si trattava di applicare alla società un nuovo metodo di evangelizzazione, induttivo, dialogante e di derivazione conciliare, mentre nei rapporti con la politica la ‘scelta pastorale’ si sarebbe tradotta in un’affermazione più netta, seppur sempre con una serie di limitazioni, del pluralismo: una decisione considerata ancor più necessaria dopo che la sconfitta del referendum sul divorzio, promosso daAmintore Fanfani contro il parere diBartoletti, aveva mostrato la lontananza del paese dai precetti cattolici e acuito le contrapposizioni interne alla stessa Chiesa15.
Maturata in questo scenario di crisi, che avrebbe assunto contorni ben più drammatici con l’assassinio del presidente della Dc Aldo Moro, la scelta di Evangelizzazione e promozione umana fu sostanzialmente confermata nei primi anni Ottanta dal piano pastorale Comunione e comunità (ottobre 1981), il primo a firma del presidente Ballestrero, e dal successivo documento di approfondimento e di applicazione, Eucarestia, comunione e comunità del 1983. In questi documenti i vescovi si mostravano consapevoli del fatto che l’esplosione di nuovi fenomeni religiosi (le strutture caritative, il volontariato, la variopinta galassia dei movimenti ecclesiali)16 in contesti sociali mutati aveva reso necessarie alcune riformulazioni lessicali che avrebbero permesso di adattare le ‘formule bartolettiane’ alle nuove esigenze: «scelta etica e promozione socio-educativa» al posto di «promozione umana», «comunione» al posto di «riaggregazione», ecc. Anche nei rapporti con la società, infine, gli anni della presidenza Ballestrero videro la Conferenza episcopale proseguire abbastanza coerentemente lungo il cammino del pluralismo politico e del primato dell’evangelizzazione come fattore di riaggregazione (La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 1981).
La gestione Ballestrero non era condivisa da tutti nella Cei. Non mancavano infatti, vescovi, come Giacomo Biffi, che non avevano mai accettato sostanzialmente la formula della ‘mediazione’ e che chiedevano alla Conferenza una linea più aggressiva nelle grandi questioni che agitavano la Chiesa e il paese17. A ciò si aggiunga che tale orientamento, anche se nella Conferenza era minoritario, poteva contare sul sostegno del movimento di Comunione e liberazione, da anni in prima linea nelle campagne referendarie e impegnato, in modo antagonistico rispetto alle linee espresse dall’Ac, nella promozione di una maggiore presenza del cattolicesimo nella società18.
Il dibattito tra ‘cultura della mediazione’ e ‘cultura della presenza’, come verranno indicate dalla pubblicistica le due correnti, incarnate rispettivamente dalla maggioranza della Cei e dall’Ac, da un lato, e da Cl e dai suoi vescovi dall’altro, si farà veramente acceso dopo il discorso papale di Assisi interpretato da più parti, a torto o a ragione, come il riconoscimento della validità delle tesi degli ‘egemonisti’. In questo clima di crescente tensione, il Convegno di Loreto, in preparazione dal mese di aprile 1983, apparirà a molti il terreno adatto per una resa dei conti.
Durante la lunga fase preparatoria del nuovo Concordato la Cei aveva agito come laboratorio riservato di consultazione per l’azione dei responsabili vaticani19. All’inizio, infatti, nulla era ancora definito e ciò permetteva una considerevole apertura delimitata da un lato dalla discussione sulla permanenza dell’istituto pattizio, dall’altro dal desiderio di uniformarsi alle novità dottrinali introdotte dal Concilio e di sintonizzarsi con l’evolversi della vita democratica. Il Concilio, per quanto riguardava la Chiesa, e la Costituzione, per quanto atteneva allo Stato, sarebbero dovute essere per la Cei le due piattaforme da cui partire per riformare un sistema di rapporti che non si voleva più impositivo o strumento di privilegi, ma che, invece, avrebbe dovuto contenere indicazioni per una nuova collaborazione. Nel già citato documento La Chiesa italiana e le prospettive del Paese del 1981, per esempio, si ricordava come sia lo Stato sia la Chiesa fossero chiamati a servire, secondo modalità diverse, uno stesso popolo e come pertanto da parte ecclesiastica fosse necessario abbandonare ogni velleità autarchica in qualche modo contrapposta alla società civile. L’identità della Chiesa italiana, al contrario, si sarebbe dovuta esplicare nel servizio ai più umili e nel riconquistare «per la gente» valori essenziali dell’esistenza umana come «il diritto a nascere e a vivere, la libertà, l’amore, la famiglia, il lavoro, il senso del dovere e del sacrificio, e la tensione morale e religiosa»20.
In un lungo articolo apparso su «Il Regno» del 15 marzo 1984, Lorenzo Prezzi commentava così la linea dei vescovi:
«Al di sotto delle linee di ricerca promosse dalla conferenza episcopale è riconoscibile la modalità conciliare di intendere la chiesa e la chiesa locale in particolare. Ma è anche riconoscibile un particolare modo di intendere lo stato. Un modo non comune. Lo stato termina di essere una sorta di concentrato di tutti i valori, la loro fonte originaria. Cessa di incarnare un principio alternativo alle religioni, ma è piuttosto la messa in opera del dettato costituzionale che favorisce quanto dalle religioni viene al servizio del tessuto civile. La sua autorità, convenzionale, ma non per questo meno reale, non è giocata contro altri tipi di appartenenze, ma nella complessa gestione della vita civile».
Tuttavia, proseguiva Prezzi, «su questo versante» il colloquio con le forze politiche si era arenato praticamente da subito, essendo quest’ultime – «fatte le debite differenze» – ancora «legate a un’ideologia statalista non avvertita dei mutamenti culturali profondi della popolazione». Ne conseguiva, a suo giudizio, che l’attività della Cei per la revisione del Concordato non era mai uscita «da una condizione marginale e secondaria rispetto alle istanze vaticane e italiane»21.
Le conclusioni del giornalista coglievano nel segno? Probabilmente solo in parte. È sicuramente vero, per esempio, che il coinvolgimento effettivo della Cei nelle ultime e rapidissime fasi che portarono alla firma del nuovo testo concordatario fu tardivo e marginale22. Dopo il via libera delle camere, a seguito di ben sei bozze di revisione, tre dibattiti parlamentari e una serie innumerevole di convegni e prese di posizione, il testo fu sottoscritto dalle due controparti a Villa Madama il 18 febbraio 198423, mentre la soluzione dei nodi più spinosi (in particolare quello del regime giuridico degli enti ecclesiastici e della sistemazione del loro patrimonio) fu delegata a una commissione paritetica con sei mesi di tempo a disposizione24. È altrettanto vero però che, almeno a grandi linee, l’accordo si muoveva su una linea gradita ai vescovi. Innanzitutto, veniva sposata la formula del «Concordato-cornice» da intendersi come un accordo flessibile su alcuni punti fondamentali e soggetto a future integrazioni, un progetto questo elaborato già alla fine degli anni Settanta dal gruppo che gravitava attorno a Francesco Margiotta Broglio25. Il primo articolo, infatti, dopo aver riaffermato, riprendendo alla lettera l’articolo 7 della Costitizione, «che lo Stato e la chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani», impegnava al pieno rispetto di tale principio e alla «reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e del bene del paese»: che fosse una scelta gradita ai vescovi lo confermava anche una dichiarazione della presidenza del 18 febbraio, nella quale si esprimeva soddisfazione per la scelta di abrogare il principio della religione cattolica come religione di Stato26 e per le modifiche della disciplina matrimoniale contenute nell’articolo 8, mentre qualche perplessità affiorava relativamente alla soluzione adottata per l’insegnamento religioso27. Sugli enti ecclesiastici ci si augurava che la nuova disciplina avrebbe permesso di «mettere efficacemente e correttamente a servizio del paese, particolarmente dei poveri e degli emarginati, la collaudata esperienza e competenza dei cristiani e delle loro istituzioni». Infine, i vescovi auspicavano che sui problemi rimasti fuori dall’accordo, dei quali fornivano un dettagliato elenco, ci sarebbero stati «coerenti sviluppi dell’impegno di collaborazione per il bene del Paese, come significativamente espresso nell’art. 1 e 13»28.
La firma degli accordi di Villa Madama e le successive fasi di integrazione e di ratifica del nuovo Concordato – che si sarebbero concluse solo il 3 giugno 198529 – suscitarono un vivace dibattito nel mondo cattolico e sollevarono, soprattutto nei settori più ‘progressisti’, molte polemiche. Le critiche si concentrarono sulle ‘controindicazioni’ introdotte dall’art.1 al principio di laicità dello Stato; sugli effetti dell’abolizione della congrua e sui pericoli insiti nella sua sostituzione con il sistema dell’otto per mille30; sulle disposizioni relative agli enti ecclesiastici, da più parti giudicate troppo sbilanciate a favore della Chiesa; sulle nuove nome in materia matrimoniale e sull’insegnamento della religione nelle scuole. Rispetto a queste ultime l’introduzione del diritto «a non avvalersene» in sostituzione del diritto «all’esonero» appariva a molti un non-cambiamento31.
Dal punto di vista della Conferenza episcopale i mesi che seguirono la firma dell’accordo furono molto impegnativi. La ricezione del nuovo Concordato si articolò su più livelli: nella commissione paritetica per l’elaborazione delle nuove norme sugli enti ecclesiastici; nell’elaborazione dell’accordo sull’ora di religione, che si sarebbe conclusa il 16 dicembre 1985 con la firma di un intesa fra il ministro della Pubblica istruzione, Franca Falcucci, e il presidente della Cei32; nella preparazione delle nuove disposizioni circa la comunicazione delle nomine a uffici ecclesiastici rilevanti per l’ordinamento giuridico italiano e la determinazione delle festività religiose riconosciute dallo Stato italiano33. Di queste e di altre questioni si era occupata la XXIII assemblea generale della Cei svoltasi a Roma dal 7 all’11 maggio del 198434.
Uno dei risultati probabilmente più significativi dell’assise di maggio fu l’avvio del procedimento di revisione dello statuto della Conferenza. Il dibattito su questo punto risentiva della concorrenza venutasi a creare tra il nuovo codice di diritto canonico, che aveva ufficializzato lo statuto teologico delle conferenze episcopali, declinandolo però in senso restrittivo rispetto alla prassi postconciliare, e il nuovo Concordato, che aveva invece attribuito alla Conferenza italiana nuove e importanti competenze. A fare chiarezza su questa dicotomia fu il cardinale Ballestrero. Nella sua relazione introduttiva il cardinale presidente affermò che dopo la ratifica del nuovo accordo concordatario la Cei non poteva più essere considerata «come una realtà interna alla chiesa soltanto, ma come realtà significativa, in senso strettamente canonico, anche verso l’esterno e come soggetto giuridico, secondo la normativa del nuovo codice»35. Per Ballestrero, insomma, le responsabilità che gli accordi di Villa Madama avevano attribuito alla Conferenza ne avevano sostanzialmente riqualificato, quantomeno da un punto di vista effettivo, lo statuto intra ed extra ecclesiale. L’approvazione del nuovo testo statutario avvenne nell’ottobre 1985 alla XXIV assemblea straordinaria. In conformità con l’appello del cardinale presidente, nell’articolo 5 si precisava: «la Conferenza episcopale italiana sviluppa gli opportuni rapporti con le realtà culturali, sociali, e politiche presenti in Italia, ricercando una costruttiva collaborazione con esse per la promozione del bene comune». Il nuovo statuto confermava dunque le aspirazioni di una Conferenza che, in maniera piuttosto contraddittoria con quella scelta pastorale ribadita a più riprese, aveva trovato nel nuovo Concordato le ragioni di una presenza più organica nella Chiesa e gli strumenti per un rilancio della sua azione nella società italiana; tuttavia, gli effetti più incisivi e duraturi del nuovo accordo, in primis quelli dell’otto per mille, si riveleranno solo gradualmente nel corso degli anni Novanta quando
«l’entrata in vigore di tale sistema di finanziamento, che aveva come scopo primario un rinnovamento del sistema di sostentamento del clero, farà diventare la chiesa cattolica una delle principali ‘aziende’ per utile a valle e al netto dell’indebitamento e conferirà al nuovo assetto della Cei una capacità di azione prima impensabile»36.
La preparazione del convegno Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini fu lunga e articolata. Il primo annuncio ufficiale era stato dato nell’aprile 1983 dal cardinale Cé il quale, presentando la proposta all’assemblea dei vescovi, aveva inquadrato l’iniziativa all’interno del progetto pastorale degli anni Ottanta, mentre il cardinale presidente era tornato a illustrare l’iniziativa nel consiglio permanente del febbraio 1984 e all’assemblea generale di maggio37. In quella sede, Ballestrero aveva spiegato ai vescovi che la celebrazione del convegno si sarebbe inserita nel solco del cammino missionario intrapreso dalla Conferenza con il progetto Comunione e comunità, del quale occorreva verificare l’efficacia in rapporto alle condizioni della società e alle sollecitazioni espresse dal pontefice ad Assisi. Il focus del convegno – proseguivaBallestrero – sarebbe stato dunque quello della «comunità non riconciliata, divisa, lontana, assente e disorientata»; l’obiettivo, quello di «immaginare una nuova presenza della Chiesa, un’aggiornata efficacia missionaria e una rinnovata metodologia pastorale»38.
Dopo la conclusione dei lavori assembleari fu inviato a tutti i vescovi un Sussidio della Segreteria generale in cui venivano analizzate le ragioni del convegno e gli scopi che si intendevano raggiungere39. Nelle prime pagine venivano illustrati il tema dell’assise e il significato del titolo. Seguiva poi un’elencazione dei «soggetti del convegno» (del quale si ricordava la natura prettamente ecclesiale), degli «ambiti della riconciliazione» e, infine, dei suoi contenuti. In quest’ultimo paragrafo il sussidio forniva un ritratto a chiaroscuro della società italiana: «vittima della parabola consumistica e della crisi della ragione», «insidiata dalla crisi economica dalla violenza del terrorismo, e dalla precarietà delle strutture pubbliche», ma anche «segnata dall’emergere di un nuovo desiderio di giustizia e di comunione». In questo contesto, la Chiesa era chiamata a riscoprire «la sua natura di fermento, di seme, di popolo. Attenta alla voce dello Spirito che parla alle Chiese, ma anche alla storia dell’uomo».
In luglio si riunì per la prima volta il comitato preparatorio (presieduto dal cardinaleCarlo Maria Martini e con segretario monsignorCamillo Ruini) cui va attribuita la responsabilità della redazione dei due successivi testi di preparazione: La forza della riconciliazione e Insieme per un cammino di riconciliazione, rispettivamente del 4 ottobre 1984 e del 22 febbraio 198540. I documenti elencavano nel dettaglio i problemi (ecclesiali e civili) da affrontare: sul versante ecclesiale, «la tendenza alla soggettivizzazione della fede»; «le difficoltà della catechesi»; «la scomparsa delle evidenze morali»; «il decadimento dei riti»; su quello del confronto con la società, «il rapporto tra Chiesa e politica e il ruolo della comunicazione pubblica». Molta attenzione poi era dedicata alla «riconciliazione nella Chiesa», segnata al suo interno da incomprensioni e ostilità. Infine, venivano avanzate alcune prime proposte di soluzione. La riconciliazione tra i cristiani e il ristabilimento di una più armoniosa comunione ecclesiale con i «movimenti» e con i «gruppi del dissenso» erano indicate come «condizioni preliminari» per ottenere «una riconciliazione tra tutti gli uomini», mentre quella con la società, e nella società, sarebbe dovuta passare attraverso «una proposta culturalmente fondata ed esistenzialmente persuasiva».
La lunga e meticolosa preparazione dell’evento ebbe tra i suoi ‘effetti collaterali’ quello di alimentare le attese in un mondo cattolico fortemente diviso sulle linee di fondo adottate dal comitato preparatorio. Le posizioni divergevano radicalmente soprattutto sul giudizio nei confronti della pastorale, come emerse con chiarezza nella penultima riunione del comitato dal confronto tra Alberto Monticone, presidente dell’Ac, e don Massimo Camisasca, diComunione e liberazione. Se per il primo, infatti, era necessario proseguire lungo il cammino tracciato dal Concilio con una pastorale «esplicita e ferma, ma insieme discreta e attenta agli elementi positivi» che emergevano nella società, per Camisasca, invece, tale posizione correva il rischio di essere subalterna «alle mire del laicismo nostrano, e parte dell’implosione nichilista in corso nel Paese»41. Polemiche si svilupparono anche sulla stampa dopo la pubblicazione del volume da parte di Cl, curato tra agli altri da Rocco Buttiglione e don Angelo Scola, Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini. Contributi per un dibattito, nel quale erano rivolte accuse di ‘neoprotestantesimo’ all’Ac della scelta religiosa42, dopo le critiche rivolte alla politica della Dc siciliana dal cardinale Salvatore Pappalardo al convegno regionale delle chiese di Sicilia (25 febbraio-1° marzo 1985)43. Suscitò, infine, molto scalpore, soprattutto a sinistra, la decisione di non convocare a Loreto i rappresentati delle comunità di base44.
A rendere più acceso il dibattito contribuirono anche alcuni interventi papali in vista del convegno. In una lettera inviata alla XXIII assemblea generale, Giovanni Paolo II invitò i vescovi a gestire con cura la fase preparatoria garantendo uno spazio adeguato «a ogni espressione delle molteplici realtà ecclesiali» che fosse «in sintonia con le legittime autorità» e a riservare all’episcopato «il suo posto di competenza per istituzione divina»45. Il pontefice tornò nuovamente sull’argomento il 25 ottobre in occasione della XXIV assemblea straordinaria con una proposta d’organizzazione degli ambiti di discussione articolata in quattro parti: la riconciliazione nella vita personale; quella nell’ambito della famiglia; quella nella comunità ecclesiale; quella della Chiesa nei confronti del paese. Relativamente a quest’ultimo punto, Giovanni Paolo II, in continuità con il discorso di Assisi, invitava con queste parole i vescovi a una maggiore presenza nella società:
«Possano i vostri fedeli trovare in voi le guide sicure di una rinnovata dedizione alla causa del bene comune della società, dando vigore alle radici morali e religiose dei grandi valori della dignità e dei diritti dell’uomo, della giustizia, della solidarietà, della pace. La Chiesa ha recato, nel corso dei secoli, un contributo importante in tali campi, meritando il riconoscimento e la gratitudine degli spiriti illuminati ed onesti. Anche nella presente situazione essa è in grado di offrire un proprio apporto specifico per la ricomposizione della vita della società italiana, sulla base di quei valori morali di cui il cristianesimo è portatore e deve continuare ad essere tenace assertore. Vi sono numerosi segnali di un crescente riconoscimento del ruolo pacificatore che la Chiesa può svolgere a beneficio della nazione. Sono attese che è nostra grave responsabilità non lasciare andare deluse»46.
Il comunicato finale dell’assemblea, pur recependo esplicitamente l’allocuzione del papa «nel determinante significato magisteriale» che essa aveva «per la vita della comunità ecclesiale in Italia», ne fornì una lettura filtrata: da un lato, era riconosciuta l’esigenza di recuperare per il paese «quei valori cristiani, etici e morali, alla radice della sua vita», dall’altro, però, si invitavano i vescovi a procedere in questa direzione «con paziente e determinato esercizio di discernimento»47.
Le ultime battute del processo di preparazione furono caratterizzate, dunque, dal tentativo del comitato di conciliare l’inconciliabile: mediazione e presenza; riconquista e discernimento. Come emerge da alcune pagine dell’autobiografia del cardinale Ballestrero, lo stesso svolgimento del convegno fu fino all’ultimo a rischio, e soltanto la tenacia dello stesso cardinale presidente riuscì a garantire la presenza del pontefice a Loreto48. Tuttavia, se era diffusa la convinzione che la resa dei conti fosse imminente, sul suo esito finale regnava la totale incertezza.
Il convegno di Loreto si svolse dal 9 al 13 aprile 198549. Ad eccezione dei vescovi e degli invitati, i 1700 partecipanti furono designati a livello diocesano in rappresentanza delle singole chiese locali e in proporzione alla popolazione al novembre 1983. Ogni delegazione era composta per il 30% da sacerdoti, diaconi e religiosi, e per il 70% da laici50.
I lavori furono aperti da una celebrazione eucaristica presieduta dal cardinaleBallestrero. Concluso il momento liturgico, fu la volta delle tre relazioni introduttive tenute rispettivamente da Bruno Forte, ordinario di Teologia dogmatica, da Armando Rigobello, ordinario di Filosofia morale, e dal cardinale Pappalardo51.
L’intervento di Forte fornì la cifra storica e teologica. Al centro della sua relazione era la riflessione sul rapporto tra ‘Parola e storia’. Sulla base del principio che tra fede e cultura non c’è né identificazione né separazione, «ma identità nell’alterità e continuità nel superamento», Forte invitava ad evitare atteggiamenti neointransigentisti o laicisti per ritrovare nella storia il luogo del Vangelo, senza identificare la fede con la cultura mondana né, tantomeno, con la politica. Solo in un rapporto dialettico di reciproco stimolo, infatti, sarebbe stato possibile portare la testimonianza nella politica evitando di fare una ‘politica della testimonianza’52.
Il giorno seguente (10 aprile), dopo le altre due relazioni introduttive53, furono presentati i cinque ambiti in cui era strutturato il convegno, a loro volta divisi in una serie di sottogruppi, nei quali avrebbero operato ben 26 commissioni di studio. La mattina della terza giornata dei lavori fu dedicata all’intervento del papa54.
Durato poco più di un’ora, composto da circa 18 cartelle e ascoltato dall’assemblea con uno stato d’animo di progressivo disagio, testimoniato dai non frequenti e poco calorosi applausi, il discorso del papa fu il momento più significativo delle cinque giornate di Loreto: sicuramente quello più discusso55. L’analisi del testo rende chiara la giustapposizione di due parti: una di conferma di quanto la Chiesa italiana aveva fatto in passato, l’altra rivolta al futuro. In quest’ultima, sullo sfondo di un processo di secolarizzazione – «spesso espresso in una vera e propria scristianizzazione della mentalità e del costume per il diffondersi del materialismo pratico», cui si aggiungeva «il peso culturale e politico delle ideologie atee» – Giovanni Paolo II fissava le linee di azione della Chiesa italiana in tre diversi ambiti. Il primo era quello intra-ecclesiale. Venivano elencati alcuni obiettivi a breve termine: l’elaborazione di un servizio teologico in «stretta fedele e rispettosa collaborazione con i pastori»; la risoluzione dei casi difficili (divorziati, risposati, preti irregolari) senza però «accettare di chiamare bene il male e male il bene»; la definizione di una concezione della laicità cristiana «in alcun modo alternativa all’ecclesialità». Il secondo, invece, era quello dei rapporti tra la Chiesa e il paese. «Anche in una società pluralista e parzialmente scristianizzata [affermava il pontefice] la Chiesa è chiamata ad operare con umile coraggio e piena fiducia nel Signore affinché la fede cristiana abbia o recuperi un ruolo-guida e una efficacia trainante nel cammino verso il futuro». Ne derivava la triplice necessità di superare la frattura tra fede e cultura, di non accettare compromessi volti a nascondere le differenze e di evitare il rischio di un’assimilazione della Chiesa al mondo. Il terzo ambito, infine, era quello dell’unità politica. A questo proposito, il papa ricordava come, pur mantenendo distinto l’impegno di apostolato da quello politico e pur accettando cordialmente la struttura democratica dello Stato, il cristiano fosse vincolato a un impegno unitario «soprattutto nei momenti in cui lo richiedeva il bene supremo della nazione». «Questo insegnamento della storia», concludeva il pontefice, non andava dimenticato: al contrario, esso doveva essere tenuto ancora ben presente «nei momenti delle responsabili e coerenti scelte» che il cristiano era chiamato a compiere.
Come si evince dallo spoglio dei giornali56, e come rilevato dagli osservatori più attenti57, l’attenzione dell’opinione pubblica, soprattutto di quella laica, si concentrò quasi esclusivamente su quest’ultimo punto della lunga e articolata riflessione di Giovanni Paolo II. «Un problema sostanzialmente marginale [sottolineava lucidamente Lorenzo Prezzi] nel discorso papale e, per quanto riguardava l’indicazione di voto, frainteso (anche a giudizio del cardinale Ballestrero)»58. In realtà, il discorso di Loreto aveva un impianto culturale omogeneo ad altri interventi del pontefice (si pensi a quello di Assisi) e, nello stesso tempo, notevolmente diverso da quello dei documenti preparatori e delle stesse relazioni introduttive. La dissonanza era rintracciabile in una certa sensibilità ecclesiale e, soprattutto, nel modo in cui risolvere il rapporto della Chiesa con il mondo italiano. Sul piano della riconciliazione con la comunità degli uomini, alla linea del discernimento e alla strategia della mediazione, Wojtyla dichiarava di preferire quella di una maggiore ‘presenza’, anche politica quando necessario, perché le strutture sociali fossero o tornassero ad essere «sempre più rispettose di quei valori etici in cui si rispecchia la piena verità sull’uomo». Su quello della riconciliazione nella Chiesa, invece, il mettere sullo stesso piano Rivelazione e documenti del magistero, l’esigenza di un’interpretazione univoca del concilio Vaticano II, l’insistenza sulla Catholica prima e più che sulle chiese particolari e il richiamo al «ritorno» rivolto ai cattolici ‘del dissenso’, ma nell’accoglienza delle «esigenze della comunione ecclesiale, sul terreno della fede e della disciplina», erano spie di una concezione ecclesiologica decisamente distante da quella elaborata dalla Conferenza del postconcilio montiniano.
La prima risposta della maggioranza episcopale al discorso di Giovanni Paolo II venne dal convegno stesso. Dopo il discorso del papa iniziarono i lavori delle commissioni nelle quali si verificò un ulteriore confronto tra le due anime assembleari: quella maggioritaria, autrice dei documenti preparatori e vicina alle istanze espresse nelle relazioni introduttive, e quella minoritaria, pienamente a suo agio nel discorso del pontefice. Infine, a seguito della riunione plenaria e delle relazioni dei coordinatori dei cinque ambiti59, i lavori si conclusero con la relazione del cardinale Ballestrero. Ai vescovi riuniti in convegno il cardinale presidente sintetizzava così il risultato di quello straordinario sforzo collettivo:
«Direi che la presenza della fede ha collocato nella giusta dimensione e nella giusta interpretazione le molte differenze che noi uomini abbiamo portato con noi. Ce le porteremo ancora dietro queste differenze, però saranno un po’ più esorcizzate laddove hanno più bisogno di essere esorcizzate e un po’ più valorizzate laddove devono essere valorizzate e serviremo il Signore con una serenità e una letizia che forse è un’esperienza nuova della vita, come Chiesa, come comunità cristiana (…) si è messo in moto qualcosa di profondo».
A proposito, invece, dell’intervento del papa, Ballestrero, dopo aver ringraziato il pontefice per il suo contributo, che, a suo giudizio, il convegno aveva dato prova di aver recepito in modo chiaro e fecondo, così concludeva:
«Questo sentirci interpellati dalla società, dalla città degli uomini, dalla cultura e dalla civiltà, è proprio cosa che ci deve fare del bene, in quanto ci impedisce di diventare acque stagnanti e ci obbliga, volenti o nolenti, ad essere presenze che questo mondo non lo contemplano come giudici, ma lo amano e lo fanno nuovo con la potenza, con la grazia e con l’amore di Gesù Cristo»60.
Che si sia trattato di un atto di «dissonanza creativa» – come si sosteneva su «Il Regno»61, di un «gesto di maturità», come riteneva il cronista di «Testimonianze»62, o di un estremo tentativo di sintesi nell’obbedienza – resta il fatto che l’appello alla pax ecclesiale lanciato da Ballestrero era destinato a cadere nel vuoto.
Ancora prima che fossero rese note le tesi conclusive del convegno, sulla stampa cattolica Loreto venne descritto come un momento di rottura. Se dalle colonne de «Il Sabato» Augusto del Noce leggeva l’evento come una «restaurazione cattolica» e un’affermazione delle ragioni di Cl su quelle del «modernismo di ritorno»63, molto più sbrigativamente Cesare Cavalleri su «Studi cattolici» scriveva: «tutto ciò che, dei lavori del convegno, è in sintonia col discorso del Papa è valido e utile per la Chiesa italiana; ciò che eventualmente se ne discostasse, si ridimensiona da sé»64. Sul versante più ‘progressista’, al contrario, l’attenzione si concentrò sull’intervento ‘normalizzatore’ di Giovanni Paolo II. Per «Adista», il tentativo della Chiesa italiana di mettersi in discussione era stato brutalmente interrotto dalle parole del papa, in palese contraddizione con le relazioni di Forte e del cardinale Pappalardo65, mentre «Testimonianze» e «Il tetto» criticavano l’assenza di un richiamo al tema della pace e l’appello di Giovanni Paolo II all’unità politica dei cattolici66. Rilievi critici sulla questione politica furono espressi anche dal documento finale dalle comunità di base riunite in convegno a Torino67, da Enzo Franchini su «Il Regno», da Stefano Ceccanti sulla rivista palermitana «Segno»68. «Rocca» metteva in evidenza come alla fine avesse prevalso nell’assemblea l’orientamento politico di Monticone e dell’Ac69, mentre per Bartolomeo Sorge l’intervento del papa aveva dato una maggiore ‘ufficialità’ all’evento di Loreto legittimando l’azione dei vescovi senza forzarne le conclusioni70.
Il primo atto collegiale di sintesi del convegno si verificò in occasione della XXV assemblea generale (27-31 maggio) con la discussione e la pubblicazione della Nota pastorale La Chiesa italiana dopo Loreto71. Il testo, approvato a larga maggioranza, recepiva le istanze «presenzialiste» del pontefice e di Cl mantenendo ferma, però, la linea del dialogo, della «mediazione», dell’«inculturazione». In sintonia con le richieste della minoranza si collocavano anche il tentativo di tradurre il piano pastorale in dieci punti di azione nella società e le considerevoli aperture alla galassia dei movimenti72. La riconferma del cardinale Cé alla vicepresidenza segnalò, inoltre, la tenuta della maggioranza di Ballestrero, alla sua ultima assemblea nel ruolo di presidente.
A mandare in frantumi l’opera di pacificazione e quest’ultimo tentativo di sintesi furono le nuove nomine papali ai vertici della Cei. Un po’ a sorpresa rispetto alle aspettative, – era quello del cardinale Biffi il nome più quotato, anche se non il più votato dai vescovi – il 3 luglio 1985 il cardinale Ugo Poletti fu nominato presidente della Cei. La sua ascesa al vertice della Conferenza, a cui sarebbe seguita un anno dopo quella di monsignor Camillo Ruini alla segreteria, metteva la parola fine alla stagione Ballestrero. Intervistato da «Il Regno», a pochi mesi dall’elezione, il nuovo presidente rispondeva così a una domanda su quali sarebbero state le modifiche alla linea pastorale della Chiesa italiana: «Non c’è nulla da modificare nell’impostazione e nel programma della Cei, semmai bisognerà arricchire l’impostazione dell’evangelizzazione-liturgia-carità con un’altra dimensione. Quella cioè della testimonianza, quindi di una presenza e di una partecipazione più marcata della vita della chiesa all’interno del Paese»73. Circa la sua prassi di governo rilevava: «Io mi sento totalmente libero. Solo che il Papa desidera, quando ha qualche dubbio, avere la possibilità di essere personalmente informato»74.
Di fatto, il quinquennio della presidenza del cardinale Poletti si caratterizzerà come un momento di transizione. Se da un lato, quello pastorale, con la pubblicazione nel 1990 del documento Evangelizzazione e testimonianza della carità, la Cei proseguirà lungo il percorso della ‘missionarietà’ intrapreso negli anni Settanta e confermato a Loreto, dall’altro sul piano dei rapporti con le istituzioni l’azione del SegretarioRuini – autore di un vero e proprio aggiornamento del ‘modello Bartoletti’ – inaugurerà una nuova stagione di presenza e di ingerenza nella vita politica75. Si concretizzerà allora – seppur con qualche anno di ritardo e a discapito dell’opinione della maggioranza episcopale – quell’inversione di tendenza richiesta dal papa a Loreto. Quest’ultima diventerà poi una svolta definitiva dopo il 1991 con la nomina di monsignor Ruini alla presidenza e con le nuove designazioni episcopali di Wojtyla, che ridefiniranno radicalmente il tessuto ecclesiale italiano.
Il 1985 si chiuse con la celebrazione della II assemblea straordinaria del sinodo dei vescovi, tenutasi a Roma dal 24 novembre al 8 dicembre76. Indetto da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1985, nella ricorrenza del primo annuncio del concilio, il sinodo avrebbe dovuto rivivere la straordinaria esperienza di comunione sperimentata vent’anni prima, permettere ai vescovi di confrontare le diverse esperienze nell’applicazione del Vaticano II e favorire un suo ulteriore approfondimento e inserimento nella vita della Chiesa, tenendo anche conto delle mutate condizioni storiche e delle nuove esigenze. La fase preparatoria dell’assemblea risultò fortemente influenzata dagli interventi del prefetto per la Congregazione della fede sulla ricezione del concilio in generale e sulla questione della collegialità in particolare, contenute in un famoso libro-intervista uscito pochi mesi prima dell’apertura dei lavori77. Come è emerso dallo studio dei questionari preparatori inviati ai vescovi dalla Segreteria generale, l’invito alla riscoperta del «Vaticano II vero» del cardinale Ratzinger non fu sostanzialmente accolto dalle conferenze episcopali mondiali e dai vescovi riuniti per l’assemblea sinodale78; si può dire piuttosto che esso ebbe l’effetto d’animare un dibattito che in seguito lo stesso prefetto non sarebbe stato più in grado di controllare e che si sarebbe sviluppato lungo linee guida dell’ecclesiologia conciliare. Se poi nelle conclusioni ufficiali del sinodo è difficile riscontrare tale atteggiamento, ciò fu dovuto all’opera di normalizzazione compiuta per mano del cardinale Godfried Danneels, autore di una relazione di sintesi poco fedele all’andamento del dibattito sulla base della quale fu redatta la relazione finale79. In questo testo, infatti, se da un lato veniva confermata la validità del Vaticano II, dall’altro, il concilio veniva riletto in un’ottica meno ottimista e decisamente più intra-ecclesiale80. Molto importanti, infine, furono la proposta di elaborare un catechismo per la Chiesa universale e quella di approfondire lo studio dello statuto teologico e giuridico delle conferenze episcopali. A questo proposito, nel suo discorso all’assemblea il papa ribadì non solo l’utilità pastorale, ma anche la necessità dell’azione delle conferenze episcopali nella società, ammonendo però ancora una volta a distinguere tra la collegialità in senso stretto e le sue ‘realizzazioni parziali’: le conferenze episcopali, il sinodo dei vescovi, la Curia romana e le visite ad limina. Con questo sostanziale declassamento dello statuto delle conferenze al rango di «servizio di grande importanza per tutto il collegio dei vescovi e per il Papa», accolto anche nella relazione finale dell’assemblea, si chiudeva ufficialmente un’epoca nella storia del postconcilio e se ne apriva una nuova che possiamo dire ancora in corso81.
Risulterà chiaro a questo punto come sia stata la sovrapposizione di una serie di avvenimenti, che potremmo definire di cesura, a fare del biennio 1984-1985 un momento di svolta nella storia della Chiesa italiana, svolta dalla quale la Cei uscirà radicalmente e contraddittoriamente trasformata.
Per certi aspetti non è sbagliato sostenere che essa sia stata ridimensionata. Su sollecitazione del pontefice, e in evidente contrapposizione con una certa ecclesiologia postconciliare, il nuovo codice di diritto canonico, prima, e i risultati del sinodo dei vescovi, in un secondo momento, ne hanno ridefinito lo statuto teologico declassandola al livello di ‘manifestazione parziale’ della collegialità assieme alle strutture romane soggette al controllo papale. Questa svalutazione si spiega con la ‘lettura normalizzante’ del Vaticano II che viene data da Giovanni Paolo II, propenso a evidenziare più i ‘pericoli’ che le potenzialità della struttura collegiale dei vescovi82. Respinta in un primo tempo dalla presidenza di Ballestrero e dal suo statuto, la ‘retrocessione teologica’ è stata poi accettata (in silenzio) dalla nuova presidenza Poletti, dopo che i lavori sinodali ne avevano sancito l’ufficialità.
Da un altro punto di vista, invece, si può dire la Conferenza postconcordataria sia una struttura più forte. Il nuovo Concordato, di cui la Cei è forse la prima beneficiaria, ha garantito la permanenza di alcuni antichi istituti (l’insegnamento della religione nelle scuole, per esempio) e ne ha prodotti di nuovi, primo tra tutti il meccanismo dell’otto per mille, la cui entrata in vigore all’inizio degli anni Novanta darà alla Cei un potere economico probabilmente inimmaginabile negli anni della revisione concordataria. Il nuovo accordo, inoltre, ha attribuito nuove e importanti competenze alla Conferenza facendone il referente ufficiale dello Stato italiano per la regolazione di ulteriori intese, chiamando così la Cei a produrre diritto particolare in diverse materie (educative, culturali e via dicendo) che esulano da quelle attribuite dal codice alla sua competenza legislativa83. In un primo momento dichiaratamente ostile alla riproposizione di un assetto privilegiato come quello stabilito nel 1929, la Conferenza, ancora sotto la gestione del cardinale Ballestrero, ha sposato le linee guida del nuovo testo concordatario accettando di buon grado i vantaggi che ne derivavano e ricalibrando la propria agenda sulla base delle nuove esigenze poste dal trattato.
Infine, si può dire che la Cei sia uscita dal biennio 1984-1985 modificando la sua linea pastorale e politica. L’appello del Papa a Loreto, in continuità con quello di Assisi nel 1982, ha sancito la fine della ‘scelta pastorale’ di ‘bartolettiana origine’ riproposta negli anni della presidenza Ballestrero e confermata dalla maggioranza del convegno del 1985; l’immediato commissariamento della Cei dopo la conclusione dei lavori di Loreto, che ha reso inutile l’estremo tentativo di mediazione del cardinale presidente con l’elaborazione della nota La Chiesa italiana dopo Loreto ne è stato la conferma più evidente. Non solo, il disciplinamento operato dal cardinale Poletti e da monsignor Ruini, oltre a decretare la frattura tra il progetto per l’Italia di Giovanni Paolo II e quello dei suoi vescovi, ha ribaltato i rapporti di forza tra il gruppo dei ‘mediatori’ e quello dei ‘presenzialisti’ con effetti di breve e di lungo corso anche sul piano dei rapporti con la politica. Se, infatti, il quinquennio della presidenza del cardinale Poletti si caratterizzerà come un momento di transizione, segnato dal riavvicinamento tra la Conferenza e il partito democristiano proprio nel momento della sua massima crisi, sarà soltanto dopo la nomina alla presidenza di monsignor Ruini nel marzo 1991 che, per mezzo del Progetto culturale, battezzato ufficialmente nel 199484, la Cei reinventerà la sua presenza sullo scenario della seconda Repubblica in una maniera assolutamente originale, più rispondente alle istanze presenzialiste del pontefice e sicuramente più incisiva sugli equilibri politici italiani85.
1 Per un profilo storico sul pontificato di Giovanni Paolo II, cfr. G. Weigel, Witness to hope: the biography of Pope Johan Paoul II, New York 1999; A. Riccardi, Giovanni Paolo II. Governo carismatico, Milano 2006; D. Menozzi, Giovanni Paolo II. Una transizione incompiuta? Per una storicizzazione del pontificato, Brescia 2006; G. Miccoli, In difesa della fede. La chiesa di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Milano 2007. Sulla Chiesa cattolica italiana nel passaggio da Paolo VI a Giovanni Paolo II cfr. A. Riccardi, La chiesa in Italia da Paolo VI a Giovanni Paolo II, «La Rivista del clero italiano», 86, 2005, 7-8, pp. 514-530; A. Melloni, L’occasione perduta. Appunti sulla chiesa italiana, 1979-2009, in Il Vangelo basta. Sul disagio e sulla fede nella chiesa italiana, a cura di A. Melloni, G. Ruggieri, Roma 2010, pp. 69-121.
2 Nell’allocuzione del 29 maggio 1980 alla XVII assemblea generale della Cei, Giovanni Paolo II conferma con queste parole il suo sostegno all’azione autonoma della Conferenza: «L’autonomia della conferenza è un problema caratteristico dell’Italia poiché può sembrare che i particolari legami, mediante i quali essa è stata ed è in relazione col pontificato e con la sede apostolica, abbiano messo e mettano talora in ombra la conferenza episcopale stessa. Per dissipare dunque l’equivoco occorre che essa, consapevole della propria attività e autonomia, sappia far pienamente rivivere la tradizione collegiale, vigente nella chiesa fin dalla più remota antichità», Alla XVII Assemblea Generale dei vescovi italiani, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III, 1, (1980), Roma 1980, pp. 1504-1505.
3 Giovanni Paolo II ad Assisi. Atto di pellegrinaggio e di comunione, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V, 1, (1982), Roma 1982, pp. 824-825.
4 Cfr. M. Camisasca, Comunione e liberazione. Il riconoscimento (1976-1984), Cinisello Balsamo 2006, pp. 51-53, 175-186.
5 Una buona ricostruzione della vicenda in L. Prezzi, L’armonia non prestabilita. Giovanni Paolo II e la Conferenza episcopale italiana, «Il Regno», 29, 15 ottobre 1984, 515, pp. 469-471.
6 Discorso ai partecipanti alla riunione plenaria del Sacro Collegio dei cardinali del 6 dicembre 1979, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, 2 (1979), Roma 1980, pp. 1060-1061. Per una ricostruzione dettagliata della vicenda cfr. A. Marani, Le Conferenze episcopali nel post-concilio (1965-2005), «Rivista di storia del cristianesimo», 6, 2009, 1, pp. 185-214.
7 Il can. 447 precisa come le conferenze si avvalgano dell’esercizio congiunto solamente di alcune funzioni pastorali e non del ministero pastorale in quanto tale. I cann. 457 e 458 specificano il diritto del papa di «erigere, sopprimere, o modificare le conferenze», altre limitazioni sono contenute poi nel can. 455. Cfr. G. Feliciani, Le conferenze episcopali nel Codice di diritto canonico del 1983, in Le nouveau code de droit canonique, éd. par M. Thériault, J. Thorn, Ottawa 1986, pp. 407-504.
8 A. Marani, Le Conferenze episcopali, cit., p. 196.
9 Messaggio di Giovanni Paolo II urbi et orbi del 18 ottobre 1978, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, I (1978), Roma 1980, p. 15.
10 Cfr. G. Feliciani, Gli episcopati nuovi protagonisti delle relazioni tra la chiesa e gli stati, «Periodica de re canonica», 89, 2000, pp. 661-680.
11 Su vescovi italiani prima e dopo il concilio cfr. G. Alberigo, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario. Verso un episcopato italiano (1958-1985), in St.It.Annali, 9, pp. 857-876.
12 Sulla storia della Cei dalle origini agli anni Settanta cfr. F. Sportelli, La Conferenza Episcopale Italiana (1952-1972), Potenza 1994; A. Riccardi, La Conferenza episcopale italiana negli anni Cinquanta e Sessanta, in G. Alberigo, E. Battelli, E. Bianchi et al., Chiese italiane e concilio, esperienze pastorali nella chiesa italiana da Pio XII a Paolo VI, a cura di G. Alberigo, Genova 1988, pp. 35-61. Sul convegno del 1976 cfr., B. Sorge, Bartoletti e il convegno Evangelizzazione e promozione umana, in Un vescovo italiano del Concilio. Enrico Bartoletti 1916-1976, Genova 1988, pp. 214-221. Per un quadro generale sulla figura di Bartoletti, cfr. V. Lessi, Enrico Bartoletti. Vescovo del Concilio - Testimone di speranza, Roma 2009; M. Faggioli, Tra referendum sul divorzio e revisione del Concordato. Enrico Bartoletti segretario della CEI (1972-1976), «Contemporanea», 4, 2001, 2, pp. 255-280.
13 Sulla storia dell’Ac postconciliare cfr. G. Formigoni, L’Azione cattolica italiana, Milano 1988, pp. 145-206. Su Bachelet, cfr. Vittorio Bachelet uomo della riconciliazione, a cura di M. Casella, Roma 1976.
14 Sulla Chiesa italiana negli anni Settanta cfr. A. Melloni, Gli anni Settanta della chiesa cattolica. La complessità nella ricezione del Concilio, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta - Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di F. Lussana, G. Marramao, Roma 2003, pp. 201-229; G. Verucci, La Chiesa postconciliare, in Storia dell’Italia repubblicana, II, Torino 1995, pp. 299-382.
15 Su questa vicenda cfr. M. Faggioli, Il referendum sul divorzio del 1974. Fanfani e Bartoletti, gli artefici e le vittime, «Religioni e Società», 38, 2000, pp. 82-92.
16 Per un quadro generale sui movimenti postconciliari cfr. M. Faggioli, Breve storia dei movimenti cattolici, Roma 2008, pp. 45-76.
17 Per un profilo del cardinale arcivescovo di Bologna cfr. G. Biffi, Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Bologna 2009. Si vedano in particolare le riflessioni sugli anni del primo postconcilio (pp. 191-213).
18 Sono vescovi legati a Cl: monsignor Alessandro Maggiolini, vescovo di Carpi dal 1983 al 1989 (cfr. P. Trionfini, Una chiesa locale nel postconcilio. La diocesi di Carpi 1962-1998, Carpi 1998), Enrico Manfredini, arcivescovo di Bologna dal 1982 al 1983 e Giacomo Biffi, vescovo titolare di Fidente e ausiliare del cardinale arcivescovo di Milano e successivamente arcivescovo di Bologna dal 1984 al 2002.
19 Sulle tappe del processo di revisione concordataria cfr. F. Margiotta Broglio, Dalla Questione romana al superamento dei patti lateranensi. Profili dei rapporti tra Stato e chiesa in Italia, in Un accordo di libertà. La revisione del concordato, Roma 1986, pp. 19-64; R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato, Bologna 2009, pp. 560-595.
20 La chiesa italiana e le prospettive del Paese, in Enchiridion della conferenza episcopale italiana, 7 voll., Bologna 1985-2006: III, a cura di A. Arrighini, B. testacci, G. Mocellin, pp. 427-446.
21 L. Prezzi, La Cei e revisione concordataria. La dissonanza creativa, «Il Regno», 29, 503, 15 marzo 1984, pp. 109-112.
22 Cfr. R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia, cit., p. 583.
23 Benché approvato a larga maggioranza, le modalità con le quali il testo del Trattato viene sottoposto all’approvazione delle camere suscitarono, soprattutto ‘a sinistra’, forti polemiche motivate dal precedente coinvolgimento del Parlamento nella discussione sulle bozze di modifica. Si vedano a questo proposito i riferimenti all’intervento di Luciano Guerzoni, deputato della sinistra indipendente, durante il dibattito alla camera del 28 gennaio 1984, «Adista», 18, 2855, pp. 3-4. Il testo è riportato integralmente con il titolo Nuovo Concordato e Costituzione, «Il tetto», 21, 122, marzo-aprile 1984, pp. 168-180.
24 Anche questa scelta provoca critiche e opposizioni diffuse. Cfr. A.L. Ravà, Quel pasticciaccio brutto di Villa Madama, «Il tetto», 21, 123, maggio-giugno 1984, pp. 289-318.
25 Cfr. R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia, cit., p. 526-554.
26 «Si possono comprendere le ragioni di un simile cambiamento che, anche alla luce della dichiarazione del concilio sulla libertà religiosa, si ispira al rispetto dovuto a chiunque abbia altra fede o diversa convinzione di coscienza. Questo cambiamento nulla toglie ai valori della religione cattolica. Essa appartiene da sempre al popolo italiano nel quale si è largamente radicata per la forza del Vangelo, fino a essere fermento della sua storia, della sua civiltà, della sua cultura, dei suoi impegni per un’ordinata convivenza civile», Dichiarazione della presidenza sull’Accordo di revisione del Concordato lateranense, in Enchiridion della conferenza episcopale italiana, III, cit., pp. 929-932.
27 «Se con il nuovo accordo la disciplina dell’insegnamento della religione è stata aggiornata, è perché si possano favorire le scelte consapevoli e responsabili degli alunni e dei loro genitori […] In tal senso la chiesa italiana continuerà a ispirare la sua fondamentale preoccupazione educativa sia nelle scuole cattoliche, sia con l’insegnamento della religione, da assicurare a tutti nelle scuole dello Stato, come doveroso servizio che rientra nel quadro delle finalità della scuola», Ibidem, p. 931.
28 Ibidem, p. 931. Nell’articolo 13, secondo comma, si precisa che «Ulteriori materie per le quali si manifesti l’esigenza di collaborazione tra la chiesa cattolica e lo Stato potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due parti sia con intese tra le competenti autorità dello Stato e la Conferenza episcopale italiana».
29 Scambio degli strumenti di ratifica, in Enchiridion della conferenza episcopale italiana, III, cit., pp. 1713-1714.
30 La materia viene regolamentata dalla legge n. 222 del 20 maggio 1985 e da alcuni decreti successivi. Il nuovo sistema entra in vigore nel 1990.
31 Fornisce una prima fotografia delle reazioni al Concordato e dei dibattiti che ne seguono «Adista», 18, 1984, 2955, pp. 7-8.
32 L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche. Intesa fra il ministro della pubblica istruzione e il Presidente della Cei. Dichiarazione e decreto del Presidente della Cei, in Enchiridion della conferenza episcopale italiana, III, cit., pp. 1610-1621.
33 Disposizioni attuative dell’Accordo di revisione del Concordato. Nota informativa della Segreteria generale, in Enchiridion della conferenza episcopale italiana, III, cit., pp. 1621-1625.
34 Sullo svolgimento dei lavori si veda il Comunicato della XIII Assemblea generale della Cei, in Enchiridion della conferenza episcopale italiana, III, cit., pp. 945-949.
35 E. Franchini, Cei: i lavori assembleari, «Il Regno», 29, 15 giugno 1984, pp. 263-264.
36 A. Melloni, L’occasione perduta, cit., pp. 80-81.
37 Per una ricostruzione della stagione preparatoria del convegno cfr. La Chiesa italiana verso il II convegno pastorale nazionale, «La Civiltà cattolica», 135, 1984, 3, pp. 345-349; L. Prezzi, Le note di Loreto: maturità e «paressia», «Il Regno», 30, 1985, 529, pp. 279-289; A. Livi, Verso il convegno ecclesiale, «Studi cattolici», 29, 1985, 289, pp. 173-175.
38 Ampi stralci della relazione di Ballestrero in I nodi della pastorale in Italia, «Il Regno», 29, 1984, 508, pp. 337-341.
39 Indicazioni per un cammino di Chiesa, in Enchiridion della conferenza episcopale italiana, III, cit., pp. 951-973.
40 La forza della riconciliazione, in Enchiridion della conferenza episcopale italiana, III, cit., pp. 1141-1201; Insieme per un cammino di riconciliazione, ibidem, pp. 1241-1305. Il comitato è composto da 109 persone con una folta rappresentanza di sacerdoti e di laici. Tra l’inizio di luglio e il dicembre 1984 il comitato si riunisce sei volte, mentre ciascuna delle quattro aree in cui è suddiviso organizza un seminario aperto.
41 Su questa vicenda, cfr. L. Prezzi, Le note di Loreto, cit.; Scelta religiosa e crociata ciellina, «Adista», 19, 1985, 3146-3148, pp. 5-6.
42 B. Ognibeni, B. Testa, F. Botturi et al., Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini. Contributi per un dibattito, Milano 1984. Critiche al volume in E. Franchini, Rapporto col mondo: come divergono le anime della Chiesa italiana, «Il Regno», 30, 1985, 525, pp. 117-119. Sempre di «neoprotestantesimo» sarà accusato (post-mortem) Giuseppe Lazzati dalle colonne de «Il Sabato», nel 1987. Su questa vicenda cfr. D. Menozzi, Il sinodo sui laici e i «nuovi movimenti»: «il caso Lazzati», «Cristianesimo nella storia», 10, 1989, 1, pp. 107-129.
43 E. Franchini, La chiesa di Sicilia. Una presenza per servire, «Il Regno», 30, 1985, 525, pp. 125-135; Il segretario DC al convegno ecclesiale: grazie eminenza, faremo i bravi, «Adista», 29, 1985, 3176-3177, pp. 4-5; R. Minghetti, Pappalardo e la Dc, «Rocca», 44, 1985, 6, p. 17.
44 Messaggio delle comunità di base al convegno di Loreto: se la Chiesa non si converte al Vangelo non può esserci riconciliazione, «Adista», 19, 1985, 3196-3197, pp. 8-9.
45 Il contenuto della lettera è riportato integralmente in «Il Regno-documenti», 29, 1984, 508, pp. 337-338.
46 All’assemblea straordinaria della Conferenza episcopale italiana, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VII, 2 (1984), Roma 1984, pp. 1025-1034.
47 Comunicato finale, in Enchiridion della Conferenza episcopale italiana, III, cit., pp. 1219-1223.
48 Scrive Ballestrero: «Loreto rimane nella storia della Chiesa italiana un momento felice. La preparazione fu difficile, fu difficile per l’opposizione dei movimenti: soprattutto CL non voleva il convegno per nessun Santo. Quando io dissi e feci nominare il card. Martini presidente della Commissione preparatoria, CL si incappellò, come si dice, perché non lo voleva a nessun costo. E cominciò a lavorare in tutti i modi suoi, che allora erano molto più potenti di ora, per impedirlo […] Io avevo già la promessa del Papa che sarebbe venuto, ed ero tranquillo. Ma un giorno mi arriva una voce e mi dicono: “Guardi che il Papa all’ultimo momento le dice di no”. Vado in udienza e dico “Santità, una voce, sottovoce, mi arriva nelle orecchie e mi dice che Vostra Santità non ha più intenzione di venire a Loreto”. “Ma chi glielo ha detto?”. “L’aria che circola”. “Ma vedremo”. “No Santità, sono venuto a prendere il Suo sì di Papa, di Papa che viene a Loreto. Sono pronto ad obbedire ma sappia che se il Papa non viene a Loreto il convegno non si fa”. “Ma cosa dice?”. “Glielo ripeto: o esco di qui con il sì solenne della Sua venuta. O esco di qui e disdico il convegno […] Il significato di una Sua assenza sarebbe quello di una condanna […] Me lo dica subito, non perdiamo tempo: sì o no ?”. […] “E va bene, vengo a Loreto”». A. Ballestrero, Autoritratto di una vita, Roma 2002.
49 Cronache dettagliate del convegno in G. Zizola, Loreto, la scoperta di una Chiesa, «Rocca», 44, 1985, 9, pp. 27-39; R. Bonaiuti, Loreto 1985: comunicazione, partecipazione, crescita, «Testimonianze», 28, 1985, 6-7, pp. 59-71.
50 Altre informazioni sui numeri dei partecipanti in Chi, come e quanti al convegno della Chiesa italiana, «Adista», 19, 1985, 3154-3156, p. 2.
51 Le tre relazioni sono contenute in Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini, Atti del Convegno ecclesiale (Loreto 1985), Roma 1985, pp. 91-173.
52 B. Forte, Il cammino della Chiesa dopo il Concilio, in Riconciliazione cristiana e comunità, cit., pp. 93-127. Altri punti importanti della riflessione di Forte sono la valorizzazione della Chiesa locale e del ministero ecclesiastico visto come ‘ministero della sintesi’ e non come ‘sintesi dei ministeri’ e l’apertura al fronte del ‘dissenso’.
53 Nella relazione di Rigobello viene rimarcata l’esigenza di confronto con le altre esperienze morali per la ricerca di un comune patrimonio morale «prericonciliativo», quello del cardinale Pappalardo, invece, si configura principalmente come un elenco-proposta di iniziative pastorali e di impegno sociale con una forte sottolineatura del ruolo delle chiese locali.
54 La coscienza personale: luogo primario della riconciliazione, (resp. E. Berti, assistente monsignor L. Chiarinelli), suddiviso in 6 sottogruppi; Mediazioni educative e riconciliazione, (resp. M.R. Lucarelli assistente monsignor C. Ruini), suddiviso in 4 sottogruppi; La riconciliazione nella Chiesa (resp. A. Bausola, assistente monsignor F. Tagliaferri) suddiviso in 7 sottogruppi; Il ministero della riconciliazione, (resp. C. Bissoli, assistente monsignor B.L. Papa), suddiviso in 4 sottogruppi; Le Chiese e il Paese in un cammino di riconciliazione, (resp. A. Monticone, assistente monsignor P. Rossano), suddiviso in 6 sottogruppi.
55 Allocuzione del Santo Padre, in Riconciliazione cristiana e comunità, cit., pp. 45-63.
56 I commenti dei quotidiani: nell’editoriale, Acta diurna de «L’Osservatore romano» del 14 aprile il discorso del papa è considerato il momento fondamentale del convegno. Per E. Tonini (È la Verità che ci riconcilia, «Avvenire», del 13 aprile), il papa ha ripreso il discorso iniziato coi vescovi nel 1981. Secondo L. Accattoli (Più serrato dopo Loreto il dialogo vescovi-Papa, «Corriere della sera» del 16 aprile), invece, è palese la distanza tra l’impostazione del papa e quella dei vescovi, così come lo è l’invito (non l’obbligo) all’unità dei cattolici nella DC. Molto più critica è la visione di F. Gentiloni (Mai più con Wojtyla, «Manifesto» del 16 aprile) e quella di E. Forcella (E l’armata cattolica non va alla crociata, «La Repubblica» del 14-15 aprile) per i quali il discorso del pontefice ha sancito una frattura politica con i vescovi italiani. Per maggiori dettagli si veda la rassegna stampa in «Adista», 29, 1985, 3209-3211, p. 2-15.
57 Scrive R. Bonaiuti: «La grande stampa ha appiattito tale intervento sul solo motivo dell’unità politica dei cattolici in verità richiamato dal Papa solo in chiave storica», R. Bonaiuti, Loreto 1985, cit., p. 64.
58 L. Prezzi, Le note di Loreto, cit., p. 283.
59 Particolarmente significativa è la relazione di A. Monticone, responsabile del quinto ambito «La Chiesa e il Paese in un cammino di riconciliazione», che segna l’affermazione della linea della ‘scelta religiosa’ proposta dall’Ac nei documenti preparatori al convegno. Particolarmente rilevante è il passaggio in cui Monticone dichiara: «I laici devono essere consci della loro vocazione al servizio della società civile e politica nell’insegna del dialogo e della solidarietà senza contropartita, se non l’amore per la propria patria e la propria terra, luoghi opportuni di missione cristiana per sé e gli altri. Solo così sarà possibile sviluppare una matura ecclesialità che è premessa sicura per un contributo nuovo alla costruzione della comunità con uno spirito di ripresa dei grandi valori della Costituzione», A. Monticone, La Chiesa e il Paese in un cammino di riconciliazione, in Riconciliazione cristiana e comunità, cit., pp. 205-209.
60 Dalla riconciliazione per un futuro di speranza. Commiato del cardinale presidente, in Riconciliazione cristiana e comunità, cit., pp. 464-465.
61 L. Prezzi, Le note di Loreto, cit., p. 283.
62 R. Bonaiuti, Loreto 1985, cit., p. 70.
63 «Certo i cattolici hanno un vizio maledetto: pensare alla forza della modernità e ignorare come questa modernità, nei limiti in cui pensa di voler negare la trascendenza religiosa attraversa oggi la sua massima crisi, riconosciuta anche da certi scrittori laici. In questo contesto si può capire il senso di un movimento come Comunione e liberazione: esso parte dal riconoscimento pieno della crisi a cui la modernità è soggetta e dunque riconosce l’attualità alla “restaurazione” (nel senso usato da Ratzinger) del cattolicesimo. Al contrario una parte notevole del mondo cattolico è nella posizione di volersi combinare in qualche modo con la “modernità”. Ma la combinazione diviene subordinazione». A. Del Noce, Risposte alla scristianità. Il S. Padre a Loreto, «Il Sabato», 1° giugno 1985.
64 C. Cavalleri, La Chiesa italiana con il Papa a Loreto, «Studi cattolici», 29, 1985, 290-291, pp. 263-271.
65 La Chiesa italiana si mette in discussione. Ma poi arriva il Papa, «Adista», 19, 1985, 3206-3207, p. 2; Evidenti contraddizioni tra le parole di Bruno Forte e del card. Pappalardo e quelle di Giovanni Paolo II, ibidem, p. 4.
66 La Chiesa italiana in movimento, «Testimonianze», 28, 1985, 6-7, pp. 2-5; P.G. Camaiani, Fuori c’è la primavera (intervista a cura di L. Grassi), ibidem, pp. 72-79; A. Valerio, Loreto: una riconciliazione tutta interna, «Il tetto», 22, 1985, 129, pp. 264-267.
67 Nel documento finale del VII Convegno nazionale delle Comunità di base di Torino (26-28 aprile), a proposito di Loreto e del nodo politico, si afferma: «Il “cattolicesimo” italiano sembra voler imporre una sua cultura alternativa e antagonista, considerata la sola capace di una salvezza totale, e riproporsi, restaurato e restauratore, come ‘anima’ di una società in crisi. Per garantirsi la presenza di quest’‘anima’ lo Stato accorda privilegi e finanziamenti cospicui, come recitano gli articoli del nuovo concordato con le relative leggi applicative. L’assenza di un confronto su di esso al convegno ecclesiale sulla Riconciliazione sembra confermare simile tendenza», Documento finale delle Cdb: dopo Loreto l’appuntamento della chiesa è con il popoli e lì ci ritroveremo, «Adista», 19, 1985, 3229-3231, pp. 9-10.
68 S. Ceccanti, Quasi un sinodo, all’inizio della primavera, «Segno», 11, 1985, 61, pp. 49-56.
69 E. Franchini, Politica e pastorale: unità si, ma quale?, «Il Regno», 30, 1985, 529, pp. 10-85; G. Zizola, Loreto, la scoperta di una Chiesa, cit., p. 38. La prima presa di posizione ufficiale dell’Ac dopo il convegno di Loreto viene resa nota dopo il convegno delle presidenze diocesane (3-5 maggio 1985). La risposta dei dirigenti nazionali è sostanzialmente positiva, come emerge dalla relazione introduttiva di monsignor Lorenzo Chiarinelli, qualche critica emerge invece dal dibattito soprattutto relativamente alla mancata apertura ai cattolici ‘del dissenso’. Fornisce una cronaca dettagliata dell’evento «Adista», 19, 1985, 3226-3228, pp. 2-3.
70 B. Sorge, La Chiesa italiana a Loreto, «La Civiltà cattolica», 136, 1985, 2, pp. 324-341.
71 Una cronaca dettagliata in E. Franchini, I vescovi e l’effetto Loreto, «Il Regno», 30, 1985, 531, pp. 293-295. Cfr. anche il Comunicato della XXV assemblea generale, in Enchiridion della conferenza episcopale italiana, III, cit., pp. 1481-1485.
72 La Chiesa italiana dopo Loreto, in Enchiridion della conferenza episcopale italiana, III, cit., pp. 1486-1518. Un’analisi del testo in La Chiesa italiana dopo Loreto, «La Civiltà cattolica», 136, 1985, 3, pp. 3-15.
73 Intervista al presidente Cei, card. U. Poletti. Quattro indicazioni programmatiche per la Chiesa italiana, «Il Regno», 30, 1985, 541, pp. 573-575.
74 Ibidem, p. 573. In una precedente intervista a «Il Sabato» del 13 luglio, Poletti aveva dichiarato la sua intenzione di relazionare direttamente al Papa sul lavoro della Conferenza più volte al mese.
75 Si pensi al quasi sostanziale silenzio imposto al Consiglio permanente dal cardidal Ruini sulla crisi della Dc e ai costanti richiami all’unità politica dei cattolici anche nelle fasi più acute dello scandalo di tangentopoli. Cfr. A. Melloni, L’occasione perduta, cit., pp. 86-91.
76 Per una ricostruzione storica e analitica dell’evento cfr. A. Indelicato, Il Sinodo dei vescovi. La collegialità sospesa (1965-1985), Bologna 2008, pp. 297-344.
77 J. Ratzinger, V. Messori, Rapporto sulla fede, Roma 1985, in particolare le pagine sulla questione del concilio e della riscoperta del «Vaticano II vero», (pp. 27-43) e quelle sul «problema delle conferenze episcopali», (pp. 59-61). Sulla questione della lettura normalizzante del concilio tra Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, cfr. G. Miccoli, In difesa della fede, cit., pp. 18-30.
78 Cfr. A. Melloni, Il post-concilio e le Conferenze episcopali: le risposte, «Concilium», 22, 1986, 6, pp. 30-45.
79 Cfr. A. Indelicato, Il Sinodo dei vescovi, cit., pp. 323-334.
80 Cfr. J.M. Tillard, La Relazione finale dell’ultimo Sinodo, «Concilium», 22, 1986, 6, pp. 91-108.
81 L’Assemblea generale straordinaria, in Enchiridion del sinodo dei vescovi, Bologna 2005, pp. 2684-2767. Una prima significativa interpretazione dell’evento in Il Sinodo dei vescovi rilancia il Concilio, «La Civiltà cattolica», 136, 1985, 4, pp. 522-532.
82 Sulla questione della lettura del Concilio negli ultimi due pontificati si veda anche Chi ha paura del Vaticano II ?, a cura di A. Melloni, G. Ruggieri, Roma 2009.
83 Per uno sguardo d’insieme su tali competenze cfr. G. Feliciani, Gli episcopati nuovi protagonisti delle relazioni tra la chiesa e gli stati, cit., pp. 668-673.
84 Nella prolusione al consiglio permanente del 14 marzo 1994, Ruini indica i ‘punti imprescindibili’ per l’azione dei vescovi «in una democrazia ricondotta a relativismo etico» inaugurando così il suo «progetto culturale orientato in senso cristiano», Comunicato dei lavori del consiglio permanente, in Enchirdion della Conferenza episcopale italiana, V, Bologna 1996, pp. 1064-1073.
85 Un’analisi convincente della strategia ruiniana è stata recentemente proposta da Alberto Melloni: «(con Ruini) la difesa d’una presenza cattolica non “frammentata” non avviene più in nome soltanto di una tradizione e d’una teoria sulla loro unità politica, ma in nome di categorie dapprima faticosamente improvvisate come la “tensione unitiva”, poi meglio affinate in quella “attenzione privilegiata” che dovrebbe aggregare i politici cattolici non in ordine alla forma dello Stato, all’etica pubblica, alla funzione democratica della mediazione o alla costruzione di una società, ma su una griglia di issues vibratili di cui l’episcopato regola l’urgenza o la drammaticità», A. Melloni, L’occasione perduta, cit., p. 86.