La Cassazione e il processo telematico
La Cassazione inizia il cammino nomofilattico in tema di PCT. In un anno di relativa pausa normativa, che ha registrato pressoché soltanto la approvazione di un disegno di legge delega con molti punti sul processo telematico, ma di non prossima realizzazione, la Cassazione ha affrontato il problema degli atti telematici viziati adottando un indirizzo non formalistico che considera il raggiungimento dello scopo. Al contempo altre decisioni della Cassazione sottolineano l’importanza delle comunicazioni telematiche, sciogliendo dubbi che la pratica ha posto sulla loro validità in casi particolari. Il processo telematico approda in Cassazione con l’inizio delle comunicazioni degli avvisi di cancelleria a mezzo PEC e la consultabilità dei registri di cancelleria sul portale dei servizi telematici del Ministero della giustizia, tuttavia la non disponibilità del fascicolo informatico da parte della Corte rende difficili le decisioni che necessitano della consultazione di atti presenti solo quali documenti informatici nei gradi di merito.
Il 2016 ha segnato per il processo civile telematico (PCT), rispetto agli anni precedenti, una pausa nella legiferazione ordinaria e regolamentare: le novità realmente importanti sono state le decisioni della Cassazione intervenute opportunamente a smorzare la tendenza ad un certo neoformalismo informatico che si andava diffondendo nei gradi di merito.
Una normazione sul PCT di grande, forse eccessivo, dettaglio aveva generato interpretazioni di merito per cui laddove si movessero passi anche di poco fuori dal rigido sentiero dell’ortodossia informatica descritta da regolamenti e norme, la parte avrebbe dovuto sopportarne conseguenze tali da compromettere i diritti fatti valere nel processo. Simili interpretazioni per altro non erano adottate uniformemente dai giudici, essendovi anche forte una reazione a norme e provvedimenti in tema di processo telematico che spesso diventava difficile applicare e persino, a volte, conoscere.
Le decisioni della Cassazione sulla firma digitale dei provvedimenti, sui formati per la notifica e sulla validità in carenza di autorizzazione al deposito di atti nel PCT1, responsabilizzano gli interpreti e ricercare i motivi delle decisioni tecnologiche andando, al di là delle forme regolamentari, a stabilire quando realmente vi siano le condizioni di un giusto processo.
Si indeboliscono così le tendenze neoformalistiche, tanto legislative che interpretative, che fanno coincidere i diritti processuali con percorsi informatici più o meno tortuosi e del pari viene legittimata dal massimo interprete delle leggi l’utilizzo dell’informatica nel processo, che ancora qualche resistenza incontra2.
La guida nomofilattica della Cassazione interviene così sul processo telematico, a qualche anno dalla sua introduzione, e questo può diminuire quel fenomeno di funzionamento variabile del PCT sul territorio nazionale, già etichettato in anni passati come una “pelle di leopardo”.
Da notare che nel tentativo di ridurre questo fenomeno nel processo amministrativo il legislatore ha di recente introdotto3 la possibilità per il giudice di primo grado che rilevi indirizzi interpretativi contrastanti in tema di processo telematico «tali da incidere in modo rilevante sul diritto di difesa», di chiedere un pronunciamento del Consiglio di Stato in adunanza plenaria.
Ciò conferma che in tema di innovazione tecnologica sulle prassi legali, l’intervento nomofilattico è di assoluta importanza anche se le attuali normative non rendono facile nel processo ordinario la tempestività dell’intervento della Cassazione; nell’inserire il PAT, processo amministrativo telematico, che dovrebbe prendere le mosse il 1° gennaio 2017, si inaugura invece questo particolare istituto, valido per tre anni soltanto, nell’intento di risolvere tempestivamente le questioni che inizialmente si porranno in questa innovazione normativa e tecnologica.
L’art. 16 d.l. 18.10.2012, n. 179 (convertito con modificazioni dalla l. 17.12.2012, n. 221) prevedeva l’entrata in vigore progressiva in tribunali e corti d’appello dell’obbligo di effettuare solo telematicamente avvisi e notificazioni nei processi civili; prevedeva poi la possibilità di estensione ad altri uffici: «con uno o più decreti aventi natura non regolamentare, sentiti … il Ministro della giustizia, previa verifica, accerta la funzionalità dei servizi di comunicazione, individuando: a) gli uffici giudiziari diversi dai tribunali e dalle corti di appello nei quali trovano applicazione le disposizioni del presente articolo».
Il d.m. 19.1.2016, in esecuzione di questa normativa, ha previsto l’estensione dell’utilizzo della PEC, nei modi previsti dal PCT, «limitatamente alle comunicazione e notificazioni delle Cancellerie delle sezioni civili della Corte suprema di cassazione», a decorrere dal 15 febbraio 2016.
La specificazione del decreto rende possibile solo le comunicazioni via PEC nel processo civile e solo per le comunicazioni provenienti delle cancellerie della Corte, non essendo ancora attivo in Cassazione il deposito dei fascicoli informatici di merito e degli atti di parte telematici. In altre parole informatica in uscita, ma non in entrata.
Una sentenza delle Sezioni Unite – Cass., S.U., 31.5.2016, n. 11383 – ha sottolineato la importanza dell’entrata in vigore della disciplina del d.l. n. 179/2012, quanto alle comunicazioni, anche per la Corte.
La sentenza risolve questioni su cui si era registrato contrasto di decisioni, per il caso di comunicazione da effettuarsi dall’ufficio giudiziario, e sottolinea l’univocità della disciplina delle comunicazioni dopo il provvedimento di febbraio di cui s’è detto.
Il caso all’esame della Cassazione ricadeva invece nella precedente disciplina e comportava la decisione circa la validità del deposito in cancelleria senza la preventiva comunicazione via fax o posta al numero o indirizzo indicato dal difensore. La Corte, quasi rallegrandosi che siffatti problemi non sorgeranno più con la nuova disciplina, ha optato per la irritualità del deposito senza previa comunicazione via fax o PEC.
Ai fini che qui interessano sono da notare soprattutto le considerazioni utilizzate dalla Corte per concludere che, in un’ottica – anche costituzionalmente orientata – di maggiore trasparenza ed effettività per la difesa, nonché economicità e rapidità per gli uffici, il sistema della PEC – o del fax poiché nel caso di specie era stato indicato il numero di fax – è da privilegiarsi e lo era anche prima del d.m. del febbraio 2016, relegando il deposito in cancelleria, sicuramente meno rispettoso dei diritti della difesa, a ipotesi del tutto residuale.
Va notato che assieme alle notifiche è stata attivata la consultazione dei registri di cancelleria della Corte di cassazione tramite il portale dei servizi telematici e i punti di accesso, il che garantisce maggiori informazioni processuali disponibili telematicamente ‘‘a domicilio’’.
Si tratta dell’inizio del processo telematico in Cassazione, che coincide con importanti decisioni nomofilattiche relative alla procedura telematica.
Due pronunce hanno affrontato il tema del reale significato del rispetto della regolamentazione del processo telematico, ove molte disposizioni, anche di natura tecnica, pretendono di dirigere nel dettaglio, a volte nell’esagerato dettaglio, le parti nella redazione e nel deposito degli atti4.
Ma il dettaglio normativo eccessivo è controproducente, nei casi limite, ed è complicato dal quadro tecnologico che muta spesso e dalla necessaria conoscenza di questioni informatiche, a volte difficili da comprendere per chi abbia esclusivamente una formazione giuridica.
La parte che preferisca difendersi dal processo piuttosto che nel processo trova, così, spesso, appigli formali per eccezioni che contestino non tanto il merito della pretesa avversaria, quanto il modo in cui questa è formulata e trasmessa per via informatica.
Se poi si considera che i giudici sono a volte pressati da logiche produttivistiche e dai tempi di definizione, anche in relazione alle valutazioni di professionalità, la eccezione formale può trovare accoglimento nell’ottica di “smaltire”, più che trattare, i processi.
A questa pericolosa deriva, alle tendenze neoformalistiche, si contrappongono due sentenze della Cassazione, che richiamano alla responsabilità del giudicare, tenendo presente più lo scopo della norma ed il suo raggiungimento, che la prescrizione formale.
Il tribunale di merito, riportandosi a sua prassi consolidata, con provvedimento emesso prima dell’instaurazione del contraddittorio, aveva dichiarato inammissibile una opposizione a decreto ingiuntivo, depositata per via telematica: l’inammissibilità era motivata dal fatto che il tribunale in quel periodo era autorizzato sì a ricevere ricorsi monitori, con specifico provvedimento del direttore generale dei servizi automatizzati del ministero della giustizia, ex art. 35 delle regole tecniche del processo civile telematico, di cui al d.m. 21.2.2011, n. 44, ma questa autorizzazione non si estendeva agli atti introduttivi dei processi di merito.
Contro questo provvedimento ricorreva in Cassazione ex art. 111 Cost. il difensore che aveva depositato l’opposizione a decreto ingiuntivo, ma la Corte rilevava che sua specifica giurisprudenza riteneva appellabile e non direttamente ricorribile in Cassazione il provvedimento di inammissibilità dell’opposizione, in quanto questo assume valore sostanziale di sentenza, suscettibile come tale di appello (Cass., 12.5.2016, n. 9772).
La Corte al contempo tuttavia avvertiva l’esigenza nomofilattica ed interveniva sul punto di diritto che le era stato sottoposto, con una pronuncia d’ufficio ai sensi dell’art. 363, co. 3, c.p.c. con l’enunciazione del principio di diritto «nell’interesse della legge» sulla questione.
Pur se la normativa poi intervenuta5 ammette il deposito facoltativo di qualsiasi atto del processo civile e toglie perciò attualità alla questione, occorre riconoscere che sono probabilmente migliaia i casi di processi iniziati per via telematica in carenza dell’autorizzazione di cui all’articolo 35 del d.m. n. 44/2011 e giustamente la Corte avverte la necessità di intervenire comunque «trattandosi di questione nuova nella giurisprudenza di questa Corte ed in ordine alla quale si sono registrate, tra i giudici di merito, diversità nell’interpretazione e nelle soluzioni offerte».
Si è così anticipata la norma del d.l. 31.8.2016, n. 168, sopra richiamata, circa la possibile remissione al Consiglio di Stato delle questioni procedurali che possono sorgere in materia di procedura telematica, posto che la Corte ha deciso la sola questione processuale sulle nuove prassi telematiche e per il tempo a venire.
Assai interessante è il modo in cui la Corte arriva ad ammettere anche in carenza di autorizzazione il deposito di atti introduttivi, passando attraverso l’affermazione del principio finalistico, di strumentalità delle forme, desumibile dagli artt. 121 e 156 c.p.c., per cui deve restare irrilevante l’inosservanza di prescrizioni formali se l’atto viziato ha raggiunto lo scopo cui è destinato.
La Corte, con riferimento al caso concreto, afferma che il deposito per via telematica piuttosto che cartacea raggiunge comunque lo scopo della presa di contatto fra la parte e l’ufficio giudiziario, per cui la violazione della normativa sul mezzo di trasmissione resta una mera irregolarità «tutte le volte che l’atto sia stato inserito nei registri informatizzati dell’ufficio giudiziario».
Il principio di diritto enunciato è quindi per l’irrilevanza dell’autorizzazione quando comunque l’atto sia pervenuto e sia stato messo a disposizione delle parti.
In effetti l’autorizzazione dell’art. 35 d.m. n. 44/2011 aveva senso quando si era nella fase sperimentale del PCT ed occorreva tenere sotto controllo il flusso delle comunicazioni, ma è divenuto uno strumento di eccessiva complicazione ed effettivamente irrilevante quando i sistemi sono stati provati – ed anche stressati – da un traffico di dati rilevante.
In queste condizioni l’autorizzazione detta offriva soltanto appiglio ad eccezioni formalistiche sull’utilizzo dell’informatica, che deve invece avere per fine quello di semplificare, quindi rendere il più possibile omologhe e conoscibili le procedure, senza dover controllare ufficio per ufficio, prima del deposito di un atto telematico, uno o più decreti per sapere se l’atto che si va a depositare sia ammissibile.
L’autorizzazione era divenuta dunque uno di quegli strumenti di neoformalismo informatico che allontana il giudizio dalla sostanza della controversia per instradarlo verso discussioni sulla forma degli atti6.
Nel codice dell’amministrazione digitale (d.lgs. 7.3.2005, n. 82)7 e anche prima nella legislazione italiana8 è da tempo presente il principio di equivalenza, per cui il documento informatico è valido agli effetti di legge, alla stregua del documento di diversa natura.
Anche a livello sovranazionale sin dalla direttiva CEE 93/1999 il riconoscimento del valore della firma elettronica comporta l’equivalenza del documento informatico che reca questa firma al documento cartaceo.
Il legislatore, con il d.l. n. 83/2015 a far tempo dal 27 giugno 2015, e la Cassazione con questa decisione per il tempo intermedio, si sono mossi nell’ambito di questa equivalenza, riconoscendo come superflua l’autorizzazione ex art. 35 d.m. n. 44/2011, che poneva limiti per l’utilizzo del documento informatico nel processo civile.
La decisione della Corte riguarda argomenti di diritto diversi dal PCT, sui quali si era ritenuto necessario l’intervento delle Sezioni Unite: la questione sui formati è solo incidentale e riguarda la validità della notifica del controricorso, effettuata ex lege n. 53/1994 via PEC, ma affronta un tema delicato, anche in questo caso risolto in termini di ampia permissività, che meritano qualche riflessione.
Si trattava nel caso di una notifica irregolare perché l’atto era stato notificato in formato Word 2003 – con estensione .doc – invece che nel prescritto formato PDF9.
La Cassazione, in omaggio al medesimo principio del raggiungimento dello scopo affermato nel caso precedentemente esaminato, rilevava che la controparte non lamentava alcun pregiudizio derivante da questa irregolarità, né difformità fra il file notificato e quanto depositato in cancelleria e quindi dichiarava infondata l’eccezione.
Il passaggio della motivazione per cui «la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme di rito non tutela l’interesse alla astratta regolarità del processo, ma garantisce solo la eliminazione della denunciata violazione (Cass. Sez. trib. 26831 del 2014). Ne consegue che è inammissibile l’eccezione con la quale si lamenti un mero vizio procedimentale senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o possa comportare altro pregiudizio per la decisione finale della Corte» costituisce chiara indicazione contraria al neoformalismo informatico.
In realtà il campo in cui si muove questa volta la Cassazione, quello dei formati, può essere talvolta insidioso, per la possibilità maggiore o minore che questi hanno di contenere e rendere conoscibili i cd. elementi attivi.
Tutti i file, o quasi10, possono contenere quegli “elementi attivi” che le regole tecniche sul PCT11 proibiscono, ma in particolare è assai facile che questi elementi siano contenuti in file di formato Word.
Le regole tecniche sulla firma digitale12 stabiliscono che questi “elementi attivi” impediscono una delle qualità della firma e cioè la immodificabilità e proprio per questo le regole sul processo telematico li vietano.
La ratio è semplice: è firmato quel che non si modifica e se c’è una istruzione che può essere modificata o modificare essa stessa il file, una macrofunzione, allora la firma non garantisce la immodificabilità.
In altre parole la firma digitale assicura la paternità di una sequenza di bit, ma in quella stessa sequenza possono essere scritte istruzioni che modificano il contenuto del file: anche la semplice funzione di riportare la data di sistema, per automatizzare l’inserimento del giorno in cui il file è stato creato, è un’istruzione idonea a modificare il file, poiché è possibile che aprendo lo stesso file in data successiva questo scriva, invece della data originaria, quella del giorno di apertura e ciò anche se vi è la firma digitale.
Bisogna ben comprendere che anche se si chiama firma, quella digitale è diversa dalla sottoscrizione di un foglio di carta, perché il file, a differenza del documento cartaceo, può contenere delle istruzioni di automodifica. È ad esempio abbastanza semplice creare un testo di cui ad una certa data una parte compaia o scompaia a piacimento e ciò soprattutto nei documenti creati con Word processor e non salvati in formato differente, come era quello notificato.
Altra tipologia di elemento attivo potrebbe essere il link a siti esterni: poiché il testo informatico tende e tenderà sempre più a diventare un ipertesto, cioè a fare collegamenti a scritti, immagini o concetti espressi in altri siti – per contenuti tecnici, giurisprudenziali, normativi o dottrinali – occorre fare attenzione al fatto che il sito collegato non muti di contenuto. Se cioè il collegamento contenuto nel testo punta ad un certo sito o anche ad un certo file, la immodificabilità si ha soltanto se quel file o quel sito collegati sono anch’essi immodificabili o non sono stati mutati.
Si tratta di questioni di fatto, sia quella della presenza di collegamenti esterni o funzioni macro o quant’altro può costituire la nozione di elemento attivo secondo le regole tecniche sulla firma digitale, sia quella che queste funzioni o collegamenti siano idonei a modificare il testo o comunque il contenuto del documento.
Se cioè il testo contiene un collegamento – per esempio al sito dello studio dell’avvocato mittente, contenuto nell’indicazione dell’indirizzo mail – allora un elemento teoricamente qualificabile come attivo c’è, ma ovviamente non c’è alcun pregiudizio perché investe una parte assolutamente irrilevante a fini difensivi e probabilmente il sito dell’avvocato, di riferimento, non è assolutamente cambiato.
È proprio a tutela della immodificabilità che la l. n. 53/1994 – art. 3 bis – sulla notifica in proprio degli avvocati prevede, con il rinvio alle norme generali in tema di processo telematico, l’adozione dei formati contemplati dalle specifiche tecniche di cui al provvedimento dirigenziale 16.4.2014 e fra questi la assenza di elementi attivi. È chiaro infatti che se venisse notificato un file contenente – ad esempio – istruzioni di modifica ad una certa data, il testo notificato sarebbe del tutto incerto e potrebbe, in ipotesi essere progettato per cambiare testo ad ogni nuova apertura e ciò anche se contenesse la firma digitale.
La decisione della Cassazione non affronta questo tema: è tuttavia necessario tener presente la funzione di tutela da file modificabili della persona cui è destinata la notificazione.
Il giudizio sulla modificazione portata dagli elementi attivi deve qualificarsi questione di fatto, come tale lasciata prima all’eccezione di parte e poi eventualmente all’accertamento del giudice, proprio perché parte dall’analisi del testo trasmesso e dal giudizio sulla modifica che l’elemento eventualmente attivo può portare e sull’eventuale pregiudizio subito dalla parte. Corollario di ciò è che si tratta di questione non sollevabile d’ufficio.
Nel caso di specie nessuno ha sollevato il dubbio che vi fossero elementi attivi ed effettivamente in tal caso la notifica di un testo in formato Word piuttosto che in formato PDF non ha alcuna conseguenza, resta mera forma, poiché quel che conta è la comunicazione di un contenuto certo, sul quale nel caso di specie non vi era dubbio.
Si tratta di questioni che normalmente sfuggono alla formazione del giurista, che probabilmente neanche si accorge della presenza o meno di questi elementi attivi, ma si tratta di questioni con le quali, negli anni a venire, i giuristi dovranno confrontarsi, poiché sempre di più l’informatica diventerà il tramite delle comunicazioni processuali.
La linea tracciata dalla Cassazione anche in questo caso è deformalizzante e sostanzialista, il che costituisce indirizzo coerente con la decisione precedentemente esaminata: l’interprete tenga presente qual è la funzione della norma ed intervenga sul processo non in vista di un astratto rispetto della normativa, ma solo laddove la violazione pregiudichi i diritti della parte e questa se ne lamenti. Ovvio dunque che la semplice lamentela circa il fatto che il documento notificato sia in formato Word e non il PDF prescritto dalle specifiche tecniche non cagiona la nullità dell’atto.
Vi sono poi tre decisioni in tema di notificazioni e comunicazioni abbastanza scontate, ma che rendono evidente come il tema sia importante e ricorrente, soprattutto in questi tempi di prima applicazione della disciplina.
Cass., 4.5.2016, n. 8886 ha deciso il caso di due notifiche di ricorso per cassazione effettuate l’ultimo giorno utile, alle ore 23.31 e 23.35, quando l’art. 16 septies d.l. n. 179/2012, introdotto dall’art. 45 bis, co. 2, lett. b), d.l. 24.6.2014, n. 90, stabilisce che «La disposizione dell’articolo 147 del codice di procedura civile si applica anche alle notificazioni eseguite con modalità telematiche. Quando è eseguita dopo le ore 21, la notificazione si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo». Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché doveva considerarsi presentato alle ore 7 del giorno successivo, a termine ormai scaduto.
La decisione appare ineccepibile a rigor di legge, ma certo sfugge la ratio del divieto di notifica in ora notturna previsto dalla novella del 2014, poiché la regola dell’art. 147 c.p.c. è stata prevista quando la notificazione era solo cartacea ed era tesa ad evitare che il destinatario potesse essere svegliato di notte dall’ufficiale giudiziario, cosa che è esclusa di per sé dal differente tramite della posta elettronica. Si tratta di un formalismo normativo probabilmente eccessivo nell’intento di parificare quel che uguale non è, cioè la notifica elettronica e quella cartacea.
Altre due sentenze riguardano la notificazione al debitore dell’avviso di udienza per la dichiarazione del suo fallimento.
Cass., 7.7.2016, n. 13917 ha affrontato il tema della possibile incostituzionalità della norma dell’art. 15 l. fall., che prescrive la notificazione via PEC dell’udienza per la dichiarazione di fallimento, in relazione a fattori che possono impedire la ricezione della PEC: nel caso di specie era dedotta la azione di un virus che avrebbe impedito l’accesso al computer. La Corte ha rilevato che fa parte dei doveri dell’imprenditore verso i terzi ed anche verso gli organi pubblici, quello della corretta domiciliazione informatica, che comprende non solo l’obbligo di aprire una casella PEC, ma anche quello di mantenerla, per cui la norma della legge fallimentare che prevede l’avviso dell’udienza mediante PEC trova la sua giustificazione, anche a differenza degli altri soggetti, proprio nella particolare figura e quindi responsabilità sociale dell’imprenditore.
Anche in questo caso la Corte ha escluso che si dovesse ricorrere alla notifica cartacea, dando così mostra di un indirizzo generale verso l’utilizzo della posta elettronica.
Cass., 2.11.2015, n. 22352 ha affrontato invece il curioso caso del cancelliere che, pur avendo effettuato regolarmente l’avviso dell’udienza a mezzo PEC, aveva dato atto di non aver controllato l’esito ed invitava quindi la parte, cui l’art. 15 l. fall. fa oggi onere della notifica cartacea in caso non vada a buon fine quella a mezzo PEC, di voler provvedere comunque anche lei alla notifica. L’invito del cancelliere, nota la Cassazione, era stato inserito subito dopo l’invio della PEC, ma prima che pervenisse dal sistema la cosiddetta R.A.C., cioè la ricevuta di avvenuta consegna dalla quale si può desumere il buon fine o meno della PEC.
Che l’avviso del cancelliere fosse frutto di mancata formazione sulla PEC e sul suo controllo oppure di malfunzionamenti ovvero ancora di un tentativo di eludere le responsabilità del funzionario, la Corte ha dato giustamente rilievo alla sola ricevuta telematica, cassando la pronuncia d’appello e rilevando come l’eccessiva prudenza del cancelliere e il suo avviso di incompletezza non potesse prevalere sulla lettera della legge, in presenza della ricevuta di avvenuta consegna.
Anche qui la Cassazione, rispetto alle incertezze della prassi sull’utilizzo della notifica a mezzo PEC, dà prevalenza alla maggiore speditezza, economicità ed efficacia delle comunicazioni telematiche.
Vi è infine una decisione in tema di copia autentica, Cass., 11.2.2016, n. 2791, che ha dichiarato inammissibile un regolamento di competenza per mancata produzione della copia autentica in allegato al ricorso.
Era stata allegata una stampa del provvedimento tratto dal fascicolo informatico, ove era presente per scansione dell’originale cartaceo, utilizzata per il biglietto di Cancelleria di avviso del deposito; il difensore aveva quindi apposto alla copia analogica la autentica di rito, consentitagli dall’art. 16 bis, co. 9-bis, d.l. n. 179/2012.
La Corte ha ritenuto che mancasse questo potere di autentica, poiché le era stato trasmesso il solo fascicolo cartaceo ove era presente il documento cartaceo e non vi era traccia di provvedimento telematico, mentre osservava che il procedimento telematico è divenuto generalmente ammissibile, in forza del d.l. n. 90/2014, solo dal 31 dicembre 2014 in via generale e dal 30 giugno 2014 per i soli procedimenti iniziati dopo questa data.
La decisione non considera che il tribunale da cui proveniva l’ordinanza impugnata – Milano – era anche precedentemente al d.l. n. 90/2014 autorizzato ex art. 35 delle regole tecniche sul PCT – d.m. n. 44/2011 –all’utilizzo del PCT per tutti gli atti, ivi compresi i depositi degli atti di parte.
La decisione inoltre evidenzia la difficoltà del cd. doppio fascicolo, cartaceo e telematico, dei quali il secondo può essere consultato con difficoltà nel grado di appello, mentre alla Cassazione nemmeno può pervenire. Nel fascicolo telematico si sarebbe trovato il biglietto di cancelleria con la comunicazione di copia del provvedimento, che è la chiave del potere di autentica del difensore.
L’art. 16 bis, co. 9-bis, d.l. n. 179/2012 difatti equipara le copie informatiche dei provvedimenti tratte dalla cancelleria per la comunicazione o comunque presenti nel fascicolo informatico agli originali cartacei, nel momento in cui recita: «Le copie informatiche, anche per immagine, di atti processuali di parte e degli ausiliari del giudice nonché dei provvedimenti di quest’ultimo, presenti nei fascicoli informatici o trasmessi in allegato alle comunicazioni telematiche dei procedimenti indicati nel presente articolo, equivalgono all’originale».
Da queste copie, che equivalgono all’originale, il difensore è poi autorizzato ad estrarre copia autentica dalla successiva prescrizione del medesimo art. 16 bis, co. 9-bis, d.l. n. 179/2012: «Il difensore … [può] estrarre con modalità telematiche duplicati, copie analogiche o informatiche degli atti e dei provvedimenti di cui al periodo precedente ed attestare la conformità delle copie estratte ai corrispondenti atti contenuti nel fascicolo informatico».
In ogni caso, con doppia motivazione, la Corte ha cura di precisare che il ricorso sarebbe stato inammissibile anche nel merito.
Comunque sia la decisione evidenzia le debolezze del sistema telematico, con la impossibilità di conoscere in Cassazione quanto sia contenuto nel fascicolo informatico di merito13, e di una farraginosa normativa che ostacola una ricostruzione organica complessiva della disciplina vigente, tanto con riferimento al tempo in cui l’atto è stato compiuto, quanto con riferimento al singolo tribunale. Questo non può non disorientare gli interpreti.
Anche dal breve resoconto delle decisioni assunte dalla Cassazione ci si rende conto delle difficoltà poste dal passaggio al tramite informatico: impossibile utilizzare i precedenti strumenti, soprattutto giuridici, nel nuovo modo di scrivere, documentare, comunicare imposto dal PCT.
La tendenza a rifugiarsi nel formalismo sia a livello normativo che interpretativo è un falso rimedio: da un lato le regole anche nuove si rivelano insufficienti perché non temprate, ancora, dall’esperienza, dall’altro la loro lettura e comprensione comporta l’acquisizione di nozioni di fatto estranee per tradizione al patrimonio dei giuristi.
In ciò la funzione nomofilattica delle decisioni di Cassazione arriva spesso in ritardo rispetto all’emergere dei problemi e nel frattempo quasi inevitabilmente si generano ventagli di decisioni di merito e prassi locali, a volte contrastanti, che accrescono la sfiducia dei meno inclini all’innovazione.
Uno dei punti più delicati in questa situazione è individuare la sanzione per le violazioni formali ed individuare quando queste si traducano in pregiudizi sostanziali della parte o del processo.
Il disegno di legge delega per la riforma del processo civile, n. 2953-2921 presentato nel marzo 2015 ed approvato alla Camera nel marzo 2016, con molte modifiche rispetto al testo originario, prevede all’art. 2 bis, lett. h), n. 6, «il divieto di sanzioni processuali sulla validità degli atti per il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico dell’atto, quando questo abbia comunque raggiunto lo scopo; l’irrogazione di sanzioni pecuniarie a carico della parte, quando gli atti difensivi, anche se sottoscritti da un difensore, redatti in difformità dalle specifiche tecniche, ledono l’integrità del contraddittorio o rendono inattendibili le rilevazioni statistiche». Principio, il primo, analogo a quelli affermati dalla Cassazione nelle decisioni n. 9772/2016 e n. 7665/2016, contrarie ad eccessivo formalismo. Lascia invece perplessi la sanzione pecuniaria a carico della parte per errori commessi dal difensore, tra l’altro spesso di scarsa o nulla rilevanza: introdurre un autonomo sistema sanzionatorio, con inevitabile possibilità di impugnazione, rischia anche di appesantire il lavoro giudiziario, magari su questioni bagatellari. Ciò specie se la sanzione fosse obbligatoria, mentre se non lo fosse si rischierebbe una grande disparità a seconda del giudice e dell’ufficio, nonché delle prassi locali.
Lo stesso disegno di legge delega, poi, all’art. 2 bis, lett. h), n. 10, prevede «l’introduzione, in via generale, del principio di sinteticità degli atti di parte e del giudice, e la strutturazione di campi necessari all’implementazione delle informazioni dei registri del processo, per assicurare un’agevole consultabilità degli atti e dei provvedimenti informatici, prevedendo le conseguenze, anche processuali, dell’eventuale inosservanza».
Appare contraddittorio da un lato, al n. 6, salvaguardare esplicitamente gli atti che non rispettino le specifiche tecniche in vista del raggiungimento dello scopo e dall’altro, al n. 10, prevedere conseguenze invece per il mancato rispetto di una suddivisione in campi ancora ben lontana dall’essere realizzata e sperimentata, o di una sinteticità assai difficile da dimensionare.
De iure condendo la soluzione del regime delle irregolarità degli atti informatici appare dunque ancora lontana, anche se il legislatore inizia a porsi il problema.
Sovviene la giurisprudenza di Cassazione con decisioni che da un lato tutelano l’efficienza nelle comunicazioni e l’utilizzo dell’informatica, dall’altro contrastano la tendenza all’eccessivo formalismo, tutelando la funzione processuale ed il raggiungimento dello scopo.
Occorre tenere presente che le norme sul PCT hanno in gran parte lo scopo di fissare standard comunicativi per la migliore efficienza dell’informatica, ma che non tutti i casi di violazione di questi standard si ripercuotono nel mancato raggiungimento dello scopo dell’atto. La difficoltà normativa, ma anche dell’interprete, sta proprio in questo: tutelare questi standard comunicativi necessari al trattamento dei dati processuali, nel momento in cui gli atti processuali divengono essi stessi dati o fonti di dati, senza perdere di vista i principi fondamentali del giusto processo e del diritto difesa e quindi evitando sanzioni processuali inutili, quando sia raggiunto lo scopo dell’atto.
Note
1 Ci si riferisce a Cass., 10.11.2015, n. 22871 che ha risolto le possibili contestazioni sulla validità delle sentenze sottoscritte solo digitalmente dal giudice e a quelle che verranno esaminate infra, nel testo.
2 Si veda la decisione con la quale un giudice onorario di Lecce ha ritenuto da ripetersi per via cartacea la notifica via PEC, perché nessuna norma obbliga a munirsi di programmi di lettura della PEC: una decisione sostanzialmente abrogatoria dell’art. 1 l. 21.1.1994, n. 93 come modificato dalla l. 12.11.2011, n. 183, che ammette la notifica via PEC da parte degli avvocati.
3 Art. 7, co. 2, lett. e), d.l. 31.8.2016, n. 168 che aggiunge un art. 13 bis alle norme di attuazione, di cui all’allegato 2 al d.lgs. 2.7.2010, n. 104.
4 Si veda ad esempio il decreto dirigenziale 28.12.2015 che in esecuzione del d.l. 27.6.2015, n. 83 e della legge di conversione del 6.8.2015, n. 132, la quale aveva introdotto l’art. 16 undecies al d.l. n. 179/2012, doveva stabilire i modi in cui «esclusivamente» poteva farsi la attestazione di conformità per le notifiche via PEC su documento separato.
5 D.l. n. 83/2015, che ha modificato l’art. 16 bis d.l. n. 179/2012 inserendo un co. 1-bis che recita: «è sempre ammesso il deposito telematico di ogni atto diverso da quelli previsti dal comma 1», laddove il co. 1 prevedeva i soli atti endoprocessuali quale era ritenuto l’atto introduttivo dell’opposizione a decreto ingiuntivo.
6 Peraltro già Cass., S.U., 4.3.2009, n. 5160 aveva mostrato di reagire a interpretazioni eccessivamente formalistiche, ammettendo il deposito a mezzo posta anche laddove non previsto, purché fosse raggiunto lo scopo dell’atto.
7 Art. 20 d.lgs. n. 82/2005, secondo il quale «il documento informatico da chiunque formato ... sono validi e rilevanti agli effetti di legge».
8 L’art. 15, co. 2, l. 15.3.1997, n. 59 (cd. legge Bassanini) aveva introdotto il fondamentale principio per cui: «gli atti, dati e documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai privati con strumenti informatici e telematici, i contratti stipulati nelle medesime forme, nonché la loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici, sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge». Si tratta della prima norma che, nel nostro ordinamento, afferma in termini ampi e generali il principio della piena validità del documento informatico, parificandone il valore a quella cartacea; successivamente è stato emanato il d.P.R. 10.11.1997, n. 513 contenente il Regolamento recante criteri e modalità per la formazione, l’archiviazione e la trasmissione di documenti con strumenti informatici e telematici, a norma dell’art. 15 comma 2, della legge 15 marzo 1997 n. 59, che ha rinviato ad un successivo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, che fissasse le regole tecniche per «la formazione, la trasmissione, la conservazione, la duplicazione, la riproduzione e la validazione anche temporale, dei documenti informatici» (art. 3, co. 1, d.P.R. n. 513/1997); oggi questa normativa è abrogata, sostituita dal principio di non discriminazione di cui al reg. 2014/910, art. 46: «a un documento elettronico non sono negati gli effetti giuridici e l’ammissibilità come prova in procedimenti giudiziali per il solo motivo della sua forma elettronica».
9 La prescrizione è contenuta nell’art. 19 bis del provvedimento dirigenziale 16.4.2014, che stabilisce le specifiche tecniche ex art. 34 delle regole tecniche sul PCT di cui al d.m. n. 44/2011.
10 Il formato PDF/A impedisce l’utilizzo di macrofunzioni o codici eseguibili, ma non risponde appieno all’esigenza di eliminare gli elementi attivi, in quanto i riferimenti esterni, o link, potranno sempre essere inseriti; si tratta di un formato non nato per evitare gli elementi attivi, essendo i link svincolati dal formato, ma concepito per la conservazione, per cui contiene in allegato i font che utilizza, che così verranno con esso conservati, ed impedisce l’utilizzo di eseguibili e macrofunzioni, che potrebbero non esser più, nel tempo, utilizzabili, a seconda dei linguaggi informatici utilizzati.
11 Art. 11 d.m. n. 44/2011: «L’atto del processo in forma di documento informatico è privo di elementi attivi ed …». Da notare che la presenza di elementi attivi prescinde dal fatto che si tratti o meno di un PDF, potendo tanto le macrofunzioni che i link esterni essere contenuti anche in documenti PDF: anche l’inclusione nel documento informatico di immagini o file audio o audiovisivi viene spesso effettuata con un collegamento ad un file esterno, ragion per cui è preferibile inviare questi file come allegati.
12 Art. 4, co. 3, d.P.C.m. 22.2.2013 in G.U. 21.5.2013: «Il documento informatico, sottoscritto con firma elettronica qualificata o firma digitale, non soddisfa il requisito di immodificabilità del documento previsto dall’art. 21, comma 2, del Codice, se contiene macroistruzioni, codici eseguibili o altri elementi, tali da attivare funzionalità che possano modificare gli atti, i fatti o i dati nello stesso rappresentati».
13 Per una disamina delle differenze del contenuto fra i due fascicoli sia consentito rinviare a Consolandi, E., Il fascicolo informatico, Libro dell’anno del Diritto 2015, Roma, 2015.