di Vincent Della Sala
Dopo essersi impantanata per quattro anni nella peggiore crisi economica del dopoguerra, l’Eu, assieme agli stati membri, ha dimostrato nel 2013 di voler andare oltre. Poiché il crollo imminente dell’euro, come anche il ritiro dalla moneta comune di alcuni stati, si è rivelato sempre meno probabile, grazie in gran parte alle azioni della Banca centrale europea (Ecb), era facile pensare che la politica dell’Eu stesse tornando alla normalità. Cercheremo di dimostrare che durante l’anno scorso si è segnalata una serie di nuove partenze per l’Eu, ma che l’ombra della crisi economica ha continuato a proiettarsi sulla vita delle istituzioni dell’Eu, rivelando quanto sia difficile estirparne le radici e quanto persistenti siano le conseguenze. L’economia europea ha stentato a trovare la via della crescita economica nel 2013. Alcuni paesi dell’eurozona, tra i quali l’Italia, sono ancora in recessione. Certo gli eventi drammatici scatenati dalla crisi nella seconda metà del 2011 sono sempre più lontani, ma l’economia europea continua a patire di un lungo periodo di stagnazione che potrebbe segnarne davvero il declino. Il 2013 è stato, quindi, un anno di segnali contrastanti sia nella politica interna dell’Eu, sia in politica estera.
Le istituzioni dell’Eu, vale a dire la Commissione, il Parlamento e la Ecb, hanno continuato a cercare un equilibrio tra la stabilizzazione delle finanze pubbliche, in particolare negli stati chiave come l’Italia e la Francia, e l’avvio di misure che avrebbero dovuto portare a una notevole e durevole crescita economica. La posizione della Commissione europea è rimasta costante: non vi è alcun conflitto tra questi due obiettivi, in quanto solo un ritorno a finanze pubbliche sane può assicurare una crescita a lungo termine. Rispondendo alle critiche alle misure di austerità, il commissario Olli Rehn ha insistito sul fatto che la modesta ripresa dello scorso anno è dovuta all’impegno assunto dagli stati membri di rispettare i livelli di disavanzo e alla vigilanza da parte della Commissione. La Commissione ha costantemente enfatizzato i dati che mostravano che i tassi di crescita più forti erano in quegli stati che avevano bassi livelli di disavanzo e di debito, come prova che le politiche di austerità stavano funzionando. Tuttavia, molti paesi erano preoccupati del fatto che il modesto ritorno alla crescita prevista per il 2014 avrebbe potuto influire ben poco sul pressante problema della disoccupazione.
I dati allarmanti sulla disoccupazione giovanile, in particolare, hanno accresciuto la consapevolezza che l’Europa deve fare qualcosa per promuovere la crescita e garantire che gli investimenti che i paesi membri hanno fatto sul loro capitale umano non producano soltanto una ‘generazione perduta’. Si è spesso ricordato che l’Europa deve evitare una ripetizione di quanto accaduto negli ultimi due decenni in Giappone: crescita anemica, deflazione, perdita di competitività. La Ecb ha inoltre segnalato che stagnazione e declino graduale erano minacce immediate che richiedevano risposte di politica monetaria, ma anche riforme strutturali da parte degli stati. Nella riunione del 7 novembre 2013, la Ecb ha sorpreso i mercati e anche alcuni paesi membri riducendo il tasso di prestito dallo 0,5% al minimo storico di 0,25%. Inoltre, il presidente della Banca, Mario Draghi, ha dichiarato che la Banca era disposta a prendere ulteriori misure se la riduzione del tasso di prestito si fosse rivelata insufficiente a rilanciare la crescita. Una serie di elementi ha portato la Banca a prendere questa decisione: l’inflazione non era all’orizzonte, ma la deflazione, che riflette una domanda interna depressa, costituiva una possibilità. In più la Federal Reserve ha sostenuto politiche aggressive per promuovere la crescita, indebolendo così il dollaro. Infine, le conseguenze politiche e sociali di una stagnazione prolungata potrebbero rivelarsi una sfida insormontabile per la sopravvivenza dell’euro. La decisione di adottare misure inedite non è stata condivisa all’unanimità in seno al consiglio direttivo della Ecb. Ancora più importante, gli strumenti della politica monetaria hanno mostrato alcuni limiti. Da parte loro, ai paesi dell’Eu, a cui ancora spettano decisioni importanti di politica macroeconomica e fiscale, sono demandate le decisioni che potranno sostenere la domanda in alcune aree dell’eurozona. Per questo l’attenzione si è concentrata sulle elezioni tedesche e sulle successive trattative tra i principali partiti in vista della nuova Große Koalition. Il dubbio era se il risultato delle urne avrebbe prodotto un cambiamento di rotta nella più grande economia europea. Il nuovo governo di larghe intese è impegnato a introdurre un salario minimo, che potrebbe contribuire ad aumentare la domanda interna e forse a incrementare i costi salariali in Germania. Si tratta di un inizio modesto, che secondo molti osservatori non sarebbe sufficiente per innescare una robusta ripresa.
Il 2013 ha registrato anche la realizzazione di elementi importanti del fiscal compact, il patto fiscale, in particolare quelli relativi alla vigilanza multilaterale delle politiche fiscali. I paesi dell’eurozona hanno dovuto presentare i loro bilanci alla Commissione alla fine di ottobre e poi discuterne in una riunione speciale in novembre. Hanno iniziato a realizzare ciò che avevano sottoscritto nel dicembre 2011. Il peso degli impegni del patto fiscale sta cominciando a farsi sentire nelle scelte di bilancio nazionali, soprattutto nei paesi che hanno un grande debito pubblico. L’Italia, per esempio, non deve soltanto rispettare la soglia del 3% sul deficit ed eventualmente ridurlo a un livello non superiore dello 0,5%, ma, in base alle disposizioni del fiscal compact, deve ridurre la parte del debito che è superiore al 60% del pil del 5% ogni anno. Con bassi livelli di crescita, questo significa dover trovare fino a 40 miliardi di euro nella legge di stabilità o con altre risorse, come la privatizzazione.
Oltre ai problemi strutturali ben documentati nell’ambito della governance economica, una delle questioni centrali riguarda lo stato delle banche in Europa. Il progresso verso un’unione bancaria si è rivelato lento, con la Germania ancora una volta contraria alla creazione di una unione vera e propria, che comprenda un meccanismo congiunto di risoluzione e l’istituzione di uno schema comune di garanzia dei depositi. L’accesso al credito, soprattutto di credito a prezzi accessibili, rimane difficile in molti paesi dell’eurozona, particolarmente in Italia. Uno dei principali motivi per cui le banche non concedono credito è che sono in una situazione precaria e hanno alti livelli di credito in sofferenza. La fragilità non è del tutto nota, motivo per cui la Banca centrale europea ha intrapreso la Asset Quality Review per valutare lo stato delle singole banche e le possibili soluzioni nella prima metà del 2014. Il ruolo della Ecb nella regolamentazione finanziaria è cresciuto in modo significativo: a partire dal novembre 2014 sarà il principale coordinatore del meccanismo unico di vigilanza. Per quanto questi sviluppi siano stati importanti, la questione su cosa fare con le banche che hanno bisogno di essere salvate o anche chiuse rimane sospesa. Ancora una volta, la Germania ha osteggiato con forza un fondo comune di risoluzione, perché potrebbe rappresentare una forma di trasferimento fiscale. La crisi, fra l’altro, ha portato a una chiusura in ambito nazionale del settore finanziario e ciò potrebbe avere un effetto a lungo termine sulla moneta unica e sul mercato interno. La speranza, per la moneta unica, era legata alla sua capacità di creare mercati finanziari più razionali ed efficienti, in modo da offrire a consumatori e produttori europei credito a prezzi competitivi. Gli effetti della crisi hanno cancellato quasi dieci anni di consolidamento a livello europeo. Resta da vedere se i passi, piccoli ma significativi, verso un’unione bancaria potranno ripristinare la fiducia e frenare la frammentazione.
Uno sviluppo rilevante di politica economica, solo indirettamente legato alla crisi economica, è legato all’accordo sul quadro finanziario pluriennale, più comunemente conosciuto come il bilancio europeo per il periodo 2014-20. Dopo una lunga e prolungata battaglia tra il Consiglio e il Parlamento europeo, è stato fissato un bilancio di 960 miliardi di euro, per contribuire alla crescita e promuovere l’innovazione. Molti parlamentari europei avrebbero preferito un impegno finanziario più sostanziale per promuovere la crescita economica. Ma la gravità della crisi economica e i limiti della spesa pubblica di molti stati hanno impedito che nel Consiglio si coagulasse l’impegno politico necessario per soddisfare le speranze e le aspettative della Commissione e del Parlamento. Viene facile pensare che la politica interna Eu sia assorbita quasi interamente da questioni economiche. In realtà la situazione è ben più complessa. L’Unione Europea ha appena affrontato il suo settimo allargamento con l’adesione della Croazia, ventottesimo stato membro. L’ingresso della Croazia è importante: testimonia la perdurante attrazione del progetto europeo e la sua capacità di contribuire alle transizioni democratiche ed economiche nei paesi con un recente passato segnato da autoritarismo e conflitti. Con la Croazia, si estendono anche le frontiere dell’Eu verso est, in aree strategicamente ed economicamente importanti. La posizione del Regno Unito nell’Unione occupa a sua volta un posto di rilievo nell’agenda politica di Londra. David Cameron ha dovuto fare i conti con le forze euroscettiche del suo partito, che patiscono la pressione elettorale proveniente dalla destra dello schieramento politico rappresentata da un partito nettamente anti-Eu, il United Kingdom Independence Party (Ukip).
L’ascesa dei partiti populisti in molte regioni d’Europa – confermato da numerosi sondaggi e soprattutto dai successi elettorali – provoca grande preoccupazione a Bruxelles e nelle capitali europee. Tanto più che la prospettiva di un Parlamento europeo condizionato da un gran numero di legislatori euroscettici e anti-Eu si profila come possibile. I leader politici nazionali che non hanno incolpato le politiche europee per le conseguenze della crisi economica ora faticano a trovare soluzioni alla crescente ondata populista. Pur avendo tentato di denunciare i pericoli per la democrazia e per la coesione sociale creati dai movimenti populisti di destra e sinistra, i partiti ‘moderati’ hanno cercato di contrastare la loro ascesa, adottando posizioni molto simili su argomenti come l’immigrazione. L’articolo di David Cameron sul Financial Times nel novembre 2013, in cui ha dichiarato di essere favorevole alle restrizioni alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Eu, come risposta al pesante flusso di lavoratori arrivati nel Regno Unito dopo l’allargamento del 2004, ha ricevuto grande attenzione. Alcuni l’hanno criticato come un tentativo di assecondare l’Ukip e gli euroscettici del suo partito. Tuttavia, Cameron ha ribadito le sue posizioni anche durante alcune visite presso capitali di altri paesi e con ciò ha dimostrato che, se pure il Regno Unito potrebbe essere un caso estremo, ci sono altri stati che tentano di contrastare il crescente disagio popolare contro l’Eu prendendo le distanze dalle sue politiche centrali.
Il tentativo di superare la crisi economica ha fatto sì che molte questioni al centro dell’agenda politica nell’ultimo decennio siano state rimesse in discussione. La questione dell’immigrazione ha assunto un’importanza e un’urgenza inedite, soprattutto dopo il tragico naufragio di un barcone al largo di Lampedusa il 3 ottobre 2013. Il governo italiano, con quello di altri stati in prima linea come Malta, ha sottolineato che il problema dei profughi e dell’immigrazione è europeo e dunque richiede una soluzione europea. Nonostante i tentativi da parte di Italia e Malta per elaborare una soluzione comune, l’Eu ha deciso solo di incrementare le risorse per Frontex, l’agenzia che aiuta gli stati a gestire la sicurezza dei confini.
Anche sui temi ambientali, altro punto caldo dell’agenda europea, ci sono stati pochi progressi. Sotto pressione tedesca, i ministri dell’ambiente hanno modificato le proposte della Commissione. Il Parlamento ha soltanto adottato standard di emissione ridotti per i veicoli che saranno introdotti nel 2020. Nonostante questo, l’Unione resta leader nella battaglia contro il cambiamento climatico. I gruppi ambientalisti hanno però criticato aspramente le misure e le hanno giudicate un passo indietro che potrebbe indebolire la posizione negoziale dell’Eu a livello di accordi internazionali. La crisi economica e lo sviluppo di fonti di energia non convenzionali, come il gas di scisto negli Stati Uniti e altrove, hanno cambiato i termini del dibattito, anche all’interno dell’Unione Europea.
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Senza dubbio, negli ultimi cinque anni la crisi economica ha danneggiato la posizione dell’EU nella politica internazionale. Le modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona, vale a dire la creazione di un corpo diplomatico e la posizione rafforzata dell’alto rappresentante per gli affari esteri e la sicurezza, sono entrate in vigore nello stesso momento in cui l’Unione si andava ripiegando su se stessa per risolvere i suoi problemi economici. Nonostante ciò, le sfide del 2013, che hanno portato la politica estera dell’Eu al centro di quella internazionale, sono state numerose e importanti e hanno riguardato Mali, Siria, Kosovo, Iran, Russia e alcuni paesi vicini.
L’anno non era iniziato bene per chi sperava che l’Eu assumesse il ruolo di attore centrale nella politica mondiale. A gennaio, il governo francese di François Hollande aveva cercato di organizzare un intervento unitario per contrastare i ribelli islamici che avevano destabilizzato l’ex colonia francese, il Mali. I tentativi del governo Hollande si sono arenati di fronte alla resistenza dei partner, in particolare della Germania, che si oppone a qualsiasi impegno di forze europee nei conflitti in corso. Il caso del Mali costituisce un precedente importante perché, secondo i francesi, l’intervento giovava tanto alla sicurezza europea quanto alle ragioni umanitarie. Se le forze islamiche avessero stabilito una base nel paese dell’Africa occidentale, l’intera regione avrebbe rischiato di trasformarsi in un rifugio sicuro per i gruppi che minacciano la sicurezza in Europa. Anche se i governi europei fossero stati d’accordo con questa valutazione, e alcuni di loro lo erano, l’Eu non aveva ancora sviluppato un’architettura istituzionale e una politica geostrategica tale da poter affrontare i problemi della sicurezza in modo sistematico. Il governo francese ha deciso di intervenire da solo. E l’iniziativa è stata ripetuta nel dicembre 2013, quando è stata organizzata una spedizione di oltre mille soldati per la Repubblica Centrafricana.
Il ruolo dell’Eu nei conflitti sta costituendo un problema anche in riferimento alla guerra civile in Siria. L’Eu si è sottratta a un coinvolgimento in un conflitto che riguarda non solo le crescenti tensioni tra sunniti e sciiti nella regione, ma rivela la più ampia lotta per l’egemonia regionale tra Iran, Arabia Saudita, Turchia, Egitto e, ovviamente, Israele. I punti di forza dell’Unione Europea in materia di politica estera, ossia la sua capacità di generare fiducia tra parti contendenti e aiutare a ricostruire le società al termine dei conflitti, possono ancora rivelarsi utili nella crisi siriana. Ma di fronte alla gravità e precarietà della situazione nel corso del 2013, questi strumenti si sono rivelati armi spuntate. Inoltre, i paesi dell’Eu sono rimasti divisi sulle possibili azioni. La Francia era pronta a intervenire militarmente in settembre per punire il regime di Assad, dopo l’accertamento dell’uso di armi chimiche; il governo Cameron era disposto a fare lo stesso, fino a quando un voto del parlamento britannico lo ha fermato. Altri stati, Italia e Germania in primis, e il presidente della Commissione, José Manuel Durão Barroso, si sono opposti a qualsiasi intervento militare e hanno preferito che la questione fosse affrontata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. In una crisi così grave, che rischiava di avere conseguenze geostrategiche e di sicurezza per l’Eu, l’Unione Europea è rimasta in gran parte spettatrice. Dieci anni dopo l’inizio della guerra in Iraq e due dopo l’intervento militare in Libia, l’Eu deve ancora sviluppare una chiara mappa dei suoi interessi strategici e una risposta formalizzata ai conflitti che, oltre a rivestire un’importanza strategica, scatenano anche una grave crisi umanitaria.
L’Unione Europea, d’altro canto, ha svolto un ruolo rilevante in uno degli eventi più importanti della regione: l’accordo con cui l’Iran ha accettato limiti al suo programma nucleare, raggiunto a Ginevra nel novembre 2013. L’accordo, che almeno per ora ha allontanato la prospettiva di un attacco militare da parte degli Stati Uniti, potrebbe segnare una svolta importante nelle relazioni dell’Iran con l’Occidente. I principali attori coinvolti nelle negoziazioni hanno elogiato il lavoro paziente e tenace dell’alta rappresentante Catherine Ashton. Alla Ashton viene riconosciuto il merito dell’accordo tra Stati Uniti e Iran, ma anche quello di aver persuaso la Francia, ferma su una più rigida opposizione a qualsiasi soluzione che non avesse imposto limiti più stringenti alle installazioni nucleari iraniane. L’accordo ha costituito la prova che, quando l’Eu ha obiettivi chiari e gli stati membri non hanno posizioni divergenti, la sua azione come mediatrice si rivela utile anche in questioni delicate come la proliferazione nucleare.
Un altro settore in cui l’Eu non è soltanto una mediatrice utile, ma anche una forza propulsiva è negli accordi commerciali internazionali. L’Unione ha sempre costituito il motore del commercio internazionale, spingendo per un regime di libero scambio globale governato da regole e istituzioni. L’Eu è stata il perno dell’accordo raggiunto a Bali che potrebbe dare una svolta all’Organizzazione mondiale del commercio. Inoltre, l’Eu è attiva sul fronte degli accordi commerciali bilaterali: con il Giappone, come con i vicini meridionali Marocco, Tunisia e Giordania. Dopo anni di trattative, il Canada e l’Unione Europea sono arrivati, nell’ottobre 2013, a definire i patterns di un accordo di libero scambio che include una vasta gamma di servizi e appalti pubblici. Potrebbe servire da modello per altri accordi, in particolare per quello che potrebbe definirsi dal negoziato avviato nel luglio 2013 con gli Stati Uniti: il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip). L’obiettivo è creare un’area di commercio e investimento di estensione inedita, sia per la dimensione delle economie coinvolte sia per il livello degli scambi.
L’alleanza con gli Stati Uniti rimane un pilastro della politica estera dell’Eu. Tuttavia, il rapporto continua a trasformarsi: non si può più dare per scontata una simmetria di interessi e obiettivi, che va invece costruita caso per caso. Le relazioni tra i due partner hanno subito un raffreddamento nel corso del 2013 dopo le rivelazioni sul cosiddetto ‘Datagate’. La maggior parte degli analisti in tema di intelligence non è stata sorpresa dalla notizia. Ma il caso è scoppiato in un momento delicato, soprattutto in Germania: nel bel mezzo di una campagna elettorale. L’alleanza transatlantica ha radici profonde ed è basata su una vasta gamma di interessi comuni che non sono stati toccati dallo scandalo. Tuttavia, l’atteggiamento degli Stati Uniti ha rivelato come l’Unione Europea non abbia necessariamente un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti. In più il sistema internazionale sta generando nuovi equilibri, nei quali il rapporto transatlantico deve trovare il suo spazio. Non è più una priorità della Casa Bianca.
Nei confronti dei suoi vicini l’Eu rimane invece un attore centrale ed è in questo campo che si collocano i suoi più grandi successi di politica estera, ma anche alcune delle sue più grandi sfide. Eppure sono passati meno di venti anni da quando le guerre nell’ex Iugoslavia e l’instabilità nei Balcani rivelavano l’incapacità dell’Unione Europea di porsi come catalizzatore della pace, della stabilità e delle transizioni democratiche. Le lezioni dei primi anni Novanta sono state utili. Hanno prodotto un meccanismo politico complesso che ancora opera nella regione e ha conseguito risultati importanti, anche se forse non del tutto soddisfacenti. Nell’aprile 2013, Serbia e Kosovo hanno firmato uno storico accordo, negoziato sotto la guida dell’alta rappresentante Ashton, che ha normalizzato le relazioni bilaterali. La prospettiva di entrare nell’Eu ha costituito un fattore determinante per spingere le due parti a trovare una soluzione. L’accesso della Croazia era particolarmente importante per stimolare il consenso della Serbia a un compromesso sul Kosovo. L’accordo non ha risolto la spinosa questione delle rivendicazioni di sovranità del Kosovo, ma ha affermato che l’approccio dell’Eu alla ricostruzione post-conflitto può produrre buoni risultati. La fiducia nel potere normativo dell’Eu è stata messa alla prova in un’altra sfida importante del 2013: l’approfondimento del partenariato orientale con gli ex stati sovietici attraverso una serie di accordi di associazione (Aa) che avrebbero dovuto portare Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia e Ucraina nella sfera di influenza dell’Eu. Era inevitabile che ogni tentativo di accrescere la propria influenza nella regione avrebbe suscitato l’opposizione della Russia. Gli stati membri del partenariato orientale, con l’eccezione della Bielorussia, si sono impegnati con l’Eu per firmare accordi di associazione. L’Unione ha sostenuto a lungo che le trattative non miravano a sfidare la tradizionale influenza della Russia nella regione. Ma ben difficilmente la Russia non avrebbe visto gli accordi come una minaccia. Gli Aa richiedono che gli stati intraprendano una vasta gamma di riforme per adeguare la loro legislazione alle norme Eu, iniziando così un processo di trasformazione che non soltanto dovrebbe estendere l’influenza comunitaria nella regione, ma condizionare le stesse società e il loro senso identitario.
Sotto la guida della presidenza lituana del Consiglio dei ministri, il vertice del partenariato orientale in programma per il 27 novembre 2013 doveva produrre la storica firma degli accordi di associazione. Già in settembre sono emerse notevoli difficoltà, quando l’Armenia ha annunciato che non avrebbe firmato un Aa alla riunione di novembre, ma ha al tempo stesso dichiarato di aver raggiunto un accordo con l’Eu in luglio. L’Azerbaigian ha poi dichiarato che non avrebbe firmato l’Aa, mentre la Georgia e la Moldavia sono rimaste ferme nel loro impegno a sottoscrivere e attuare un accordo globale e approfondito di libero scambio, principale strumento di Aa. Persi quattro dei sei membri del partenariato orientale, l’adesione dell’Ucraina, per la sua posizione strategica, le dimensioni geografiche e i legami storici con la Russia, è diventata fondamentale per il successo della politica dell’Eu nel vicinato orientale.
La strategia nel vicinato meridionale dell’Eu non sembra aver prodotto grandi successi nel 2013. Colta impreparata dalle Primavere arabe nel 2011, l’Unione Europea è apparsa altrettanto confusa su come affrontare la frenata delle transizioni democratiche in Africa settentrionale. L’Eu ha poche risorse concrete da offrire ai paesi che affrontano gravi crisi economiche, come l’Egitto. I paesi del Nord Africa hanno poche speranze di entrare nell’Eu. Perfino la firma di un Aa appare come un risultato lontano. Inoltre, gli strumenti di soft power sono progettati per produrre risultati nel lungo termine, ma sono forse meno ideali per adeguarsi ai rapidi mutamenti geostrategici e ai fluidi equilibri di potere della regione.
L’Unione Europea può comunque trarre qualche lezione dall’andamento delle relazioni con i suoi vicini orientali e meridionali nel 2013. La più importante è che, come le sollevazioni popolari di Kiev contro le decisioni antieuropee del governo dimostrano, l’Eu rimane la stella polare per chi cerca di promuovere transizioni democratiche e di creare economie di mercato. In secondo luogo, le tattiche dell’Eu sono state incoerenti, a volte imponendo standard democratici come base per una maggiore integrazione e a volte no. In terzo luogo, gli eventi nel vicinato hanno avviato un dibattito su come l’Unione possa diventare un attore più strategico nelle relazioni internazionali, definendo chiaramente i suoi obiettivi e facendo uso di una vasta gamma di strumenti per raggiungerli. Ciò segnerebbe un cambiamento radicale e necessario. Se l’Eu volesse rispondere alle richieste che emergono da alcuni settori della società civile, come quelle dei manifestanti in Kiev, dovrebbe dotarsi degli strumenti e degli obiettivi geostrategici in grado di contrastare il potere di attori come la Russia.
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Sarebbe difficile concludere che l’Eu abbia superato la crisi che ha condizionato la sua politica interna ed esterna negli ultimi cinque anni. La gamma di nuovi strumenti di governance economica che sono stati introdotti in questo periodo sta cominciando a produrre effetti, ma le conseguenze sono ancora incerte. Nel breve termine, va affrontata una serie di sfide economiche e politiche, a cominciare dagli alti livelli di disoccupazione, che monopolizzano l’agenda politica. La prospettiva di una reazione populista nelle elezioni del Parlamento europeo spinge i leader a prestare più attenzione ai costi sociali della crisi e ai loro possibili effetti sull’Eu. Inoltre, l’ombra della crisi e la perdita di fiducia nell’Eu condizionano il modo in cui si affrontano i problemi che richiedono risposte urgenti.
Tuttavia, la crisi economica sembra aver allentato la sua morsa, permettendo ad altre questioni di conquistare un posto di maggior rilievo nell’agenda comunitaria. Gli stati membri e le istituzioni europee non hanno smesso di occuparsi di problemi come l’immigrazione e il cambiamento climatico. Le soluzioni non sono sempre facilmente raggiungibili ma questo attiene alle normali dinamiche dell’Eu. Nelle relazioni internazionali, l’Eu si è rivelata un attore globale e regionale di importanza fondamentale, come si è visto nei negoziati di Ginevra, ma perfino nelle piazze di Kiev. La sfida sarà garantire che le esigenze e le necessità di un’Unione più coesa, coerente e potente siano soddisfatte, a fronte di una crescente indifferenza popolare nei confronti del progetto europeo.
Nell’aprile 2013, il presidente Barroso ha posto in primo piano il tema di una ‘nuova narrazione’ per l’Europa.
Il 2013 non ha visto un ampio dibattito per la creazione di un’unione fiscale, con l’introduzione di Eurobond o di qualche meccanismo per la gestione comune del debito pubblico. Tuttavia, una grande attenzione è stata dedicata all’organizzazione di un’unione bancaria. Uno degli obiettivi fondamentali è creare un mercato finanziario unico. Ma il fine ultimo è anche rompere il legame pericoloso tra banche deboli, in possesso di grandi quantità di debito sovrano di paesi come Italia e Spagna, e gli stati, costretti a porre rimedio a una loro potenziale crisi. Il paradosso del sistema attuale è, per esempio, che il governo italiano dovrebbe intervenire in caso di crisi delle sue grandi banche, che attualmente detengono oltre il 50% del debito pubblico nazionale. L’unione bancaria europea è fondata su tre pilastri: un meccanismo di vigilanza, un meccanismo di risoluzione dei problemi, un sistema di assicurazione dei depositi. Importanti poteri sono stati dati alla ECB perché assumesse funzioni di vigilanza che dovrebbero essere del tutto operative entro l’autunno 2014. C’è ancora molto lavoro da fare per rendere efficace un meccanismo che dovrebbe assicurare tutti i depositi a livello europeo. Il meccanismo unico di risoluzione ha attirato le maggiori attenzioni nel 2013, soprattutto dopo il mancato (per poco) collasso del sistema bancario di Cipro in marzo. Il Consiglio europeo di dicembre ha approvato un piano che porterà alla creazione di un unico meccanismo di risoluzione entro il 2025. Molti dettagli restano da chiarire. Gli stati membri continuano a rivestire la responsabilità primaria nella risoluzione dei problemi legati alle banche nazionali. Di fatto, dunque, il pericoloso legame tra banche a rischio e debito pubblico non è stato del tutto spezzato. Molti la considerano una vittoria tedesca: la Germania diffida di una centralizzazione europea dei poteri bancari. Tuttavia, si è stabilito che il Consiglio deciderà congiuntamente su come risolvere le eventuali crisi bancarie.
Il rapporto dell’Unione Europea con la Russia è forse tra i più complessi. Gli interessi comuni sono numerosi, dall’energia alla sicurezza. Ma, come è emerso già nel 2013, c’è ancora molta strada da percorrere per ottenere i livelli di fiducia e reciproca comprensione necessari per diventare partner strategici. Dal punto di vista dell’EU, la Russia deve ancora dimostrare la sua lealtà verso il sistema internazionale multilaterale, basato su un insieme di istituzioni, regole e norme ampiamente condivise, che non sono semplicemente il frutto dell’esercizio del potere politico e militare. La Russia vede l’EU come partner economico importante ma bloccato da istanze troppo ‘idealistiche’, sia nel suo approccio al sistema internazionale sia nell’impegno per la diversità e la tolleranza nella politica interna. Queste diverse visioni del mondo sono emerse nel corso del 2013. Il conflitto in Siria fornisce un utile esempio della diversità degli approcci e delle conseguenze per il sistema internazionale. Per la Russia, il regime di Assad è strategicamente importante per mantenere una presenza nella regione, arginare la diffusione del radicalismo islamico e raggiungere un equilibrio tra fazioni sunnite e sciite. Per l’EU, il regime ha violato il diritto internazionale. Ciò implica che debba essere fatto ogni sforzo per abbatterlo e per imporre la tutela dei diritti umani. Le diverse visioni si estendono anche alla politica interna. L’EU è sempre più critica verso l’approccio russo ai diritti umani, in particolare verso i lavoratori migranti e gli omosessuali. Il presidente Putin si è spesso espresso ironicamente in pubblico su temi come la promozione dei diritti nell’Europa occidentale. Una distanza che la crisi ucraina rende oggi ancora più incolmabile.
Le relazioni con l’Ucraina sono rappresentative delle sfide che l’EU deve affrontare con i paesi post-sovietici. Per gli stati che facevano parte dell’URSS, in particolare l’Ucraina, l’esperienza dei paesi ex comunisti già entrati nell’Unione è uno stimolo ad avvicinarsi all’Europa occidentale. Ma la loro storia e la posizione geostrategica li costringono a mantenere saldi rapporti con Mosca. La ‘rivoluzione arancione’ del 2004 in Ucraina ha costituito la prima stagione in cui una parte della società civile ha manifestato la sua voglia di democrazia e d’Europa. La possibilità di firmare un AA costituiva un’opportunità di riprendere la transizione democratica. Il governo ucraino aveva inizialmente annunciato di voler firmare un AA alla riunione di Vilnius. Restava aperta la questione della detenzione del leader dell’opposizione, Julija Tymošenko, ma l’aspettativa era che il presidente Janukovycˇ avrebbe trovato una soluzione. Tuttavia, ben più incalzanti erano le forti pressioni da parte della Russia, che aveva iniziato a imporre una serie di misure economiche in luglio, spingendo un’economia già debole verso la crisi. La Russia sta costruendo una propria associazione regionale con l’obiettivo di istituire un’Unione eurasiatica, e punta a mantenere la sua sfera di influenza sulle ex repubbliche sovietiche alle frontiere orientali dell’EU e in Asia centrale, e a rafforzare rapporti con la Cina e l’Iran. L’Ucraina è al centro della strategia del presidente Putin ed è poco probabile che sia in grado di sviluppare rapporti più stretti con l’Unione Europea senza dover pagare un prezzo a Mosca. Il governo ucraino ha cominciato a vacillare nelle settimane prima del Consiglio di Vilnius. I leader europei hanno visto questa mossa come una tattica negoziale per ottenere concessioni economiche più favorevoli e per distogliere l’attenzione dalla questione Tymošenko. Quando il governo ucraino ha dichiarato che non avrebbe firmato un AA a Vilnius, la politica comunitaria verso est è apparsa in crisi. Le violente manifestazioni di piazza di inizio 2014 hanno rimesso tutto in discussione, costringendo Janukovyc ˇ a lasciare il potere, aprendo una vera e propria crisi tra l’EU e la Russia.
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M. A. VACHUDOVA (2013) EU Leverage and National Interests in the Balkans: The Puzzles of Enlargement Ten Years On, ‹‹Journal of Common Market Studies››, 52, pp. 122-138, disponibile on line: http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/jcms.12081/full.
K. WOLCZUK (2009) Implementation without Coordination: The Impact of EU Conditionality on Ukraine under the European Neighbourhood Policy, ‹‹Europe-Asia Studies››, 61, 2 pp. 187-211.
Approfondimento
I programmi di coalizione in Germania hanno il merito di essere chiari. Non mancano le ambiguità costruttive, come le chiamano i banchieri centrali: frasi che permettono – se necessario – di rivedere le proprie posizioni e aggiustare il tiro. Eppure le quasi duecento pagine preparate dai socialdemocratici e dai cristiano-democratici in due mesi di trattative in vista della formazione di un nuovo governo di grande coalizione – il terzo esecutivo di questo tipo dal 1949 (dopo quelli del 1966-69 e del 2005-09) – rivelano quale sia la visione tedesca dell’Europa. Non c’è in questo momento nell’establishment politico tedesco la volontà o il desiderio di marciare spediti verso un’Europa più federale. Piuttosto, lo spirito è quello di ottenere un’Europa confederale, nella quale prevalga sempre il ruolo dei singoli governi nazionali. Non per altro, la Germania rifiuta ancora la mutualizzazione dei debiti pubblici, la prospettiva di una garanzia unica dei depositi bancari europei, la nascita in tempi rapidi di uno strumento finanziario federale con cui gestire le crisi creditizie. Ha chiesto e ottenuto che da Francoforte la vigilanza bancaria della Banca centrale europea (ECB) riguardi le grandi banche, mentre i piccoli istituti di credito rimarranno tendenzialmente sotto l’egida delle autorità nazionali. Lo stesso meccanismo unico di gestione delle crisi bancarie sta nascendo con un’impronta confederale più che realmente federale.
Molti osservatori puntano il dito contro una Germania egoista ed egemonica, colpevole di non aiutare sufficientemente i paesi più deboli della zona euro e di introdurre troppi ostacoli e intoppi tutte le volte che si tratta di mettere in comune le forze per uscire dalla crisi economica. Più in generale, c’è senz’altro da parte della Germania quella mancanza di fermezza istituzionale e di lungimiranza politica che la dovrebbe indurre a fare scelte coraggiose, trascinando con sé gli altri paesi europei verso un’Europa più coesa. In questo senso, la cancelliera Angela Merkel ha dimostrato di avere una visione troppo geopolitica dell’Unione Europea. Eppure, accusare il paese di essere diventato euroscettico e di avere atteggiamenti assertivi sarebbe un errore di analisi. Dopotutto, la forza della Germania non è anche forse il riflesso della debolezza dei suoi partner? E la lenta integrazione europea non è forse la conseguenza di un europeismo freddo, sempre più radicato anche in altri paesi? Secondo un sondaggio pubblicato alla fine del 2013 dal centro di ricerche londinese Opinium Research, il 55% dei tedeschi considera la presenza della Germania nell’Unione Europea una buona cosa (la percentuale dei francesi è appena del 36%). Alla domanda se la partecipazione del paese all’EU comporti più benefici o più svantaggi, il 35% dei tedeschi opta per i vantaggi; solo il 16% dei francesi faceva altrettanto. Dopo aver proposto in varie occasioni ma senza successo – forse anche perché l’iniziativa è stata presa troppo timidamente – di puntare su un’Unione più federale, associando una mutualizzazione dei debiti pubblici a una cessione di sovranità, la Germania si è richiusa pericolosamente su se stessa.
Preoccupata dall’evoluzione dell’Unione, a cui contribuisce paradossalmente anche la stessa strategia politica tedesca, la Repubblica Federale ha affidato un ruolo crescente nell’iter decisionale europeo alle proprie istituzioni nazionali. La Corte costituzionale di Karlsruhe è chiamata a valutare le principali decisioni europee. Il Bundestag a Berlino deve approvare volta per volta i pacchetti di aiuto finanziario ai paesi in difficoltà. La Bundesbank a Francoforte è una voce spesso critica della politica monetaria nel consiglio direttivo della Banca centrale europea. È facile attribuire il crescente controllo delle istituzioni tedesche sulla vita politica europea a una presunta volontà egemonica della Germania. In realtà, è il risultato di scelte europee controverse che, ad Amburgo o a Stoccarda, a Colonia e a Dresda, preoccupano il cittadino tedesco. La Germania aveva firmato il Trattato di Maastricht ormai vent’anni fa con l’impegno che non vi sarebbero stati salvataggi dei paesi partner e monetizzazioni dei debiti pubblici. Oggi questi due principi sono stati messi drammaticamente in dubbio dallo sconquasso finanziario, economico e debitorio, tanto da indurre la
Repubblica Federale a fare delle sue istituzioni di Karlsruhe, Berlino e Francoforte gli snodi essenziali della politica europea.
In questo contesto anche la politica economica dell’Unione continuerà nel futuro prevedibile a essere la somma di scelte nazionali, più che un volano continentale. In Germania, il programma di coalizione presentato alla fine del 2013 prevede un piano di investimenti infrastrutturali, l’adozione
di un pedaggio sulle autostrade, l’introduzione di un salario minimo e nuove misure per incentivare l’immigrazione (tra le altre cose consentendo agli stranieri diventati cittadini tedeschi di mantenere la doppia nazionalità). Il tentativo è anche di rafforzare la domanda interna, su cui pesano un’innata preoccupazione del futuro e il crescente invecchiamento della popolazione, così da aiutare le esportazioni dei paesi partner. Agli osservatori più critici e agli economisti più keynesiani, gli impegni del nuovo governo Merkel possono sembrare timidi e insufficienti per sostenere le economie nazionali del Sud Europa. È possibile, ma in un contesto confederale sembra essere oggi il massimo possibile.
di Beda Romano
Approfondimento
La storia dell’Unione Europea è segnata da momenti particolarmente critici, nei quali la necessità di ottenere risultati migliori ha imposto salti in avanti nell’attribuzione di poteri e competenze a Bruxelles. Nel 2014 un salto è più necessario che mai. In gioco c’è la moneta unica, ovvero ciò che avrebbe dovuto rappresentare il conseguimento più alto di 50 anni di integrazione, ma di cui la crisi economica ha mostrato tutte le debolezze. L’euro può esprimere appieno il suo potenziale solo se i paesi che lo adottano non si lasciano intimorire dalla prospettiva di una graduale unione politica, oltre che economica. Un salto di questo tipo è evidentemente più lungo di altri perché mette in discussione non solo poteri e competenze degli stati membri – come è stato finora –, ma la loro stessa sovranità. In passato questi scatti in avanti sono stati accompagnati da uno scarso, se non inesistente, coinvolgimento dei cittadini, stante un perdurante deficit democratico della costruzione europea. Nel caso del referendum sulla Costituzione europea, il ‘no’ degli elettori francesi e olandesi ebbe come risultato finale il sostanziale mantenimento dei contenuti e un mero cambiamento nominale (il Trattato di Lisbona). Anche i cittadini irlandesi sanno bene che i loro ‘no’ referendari si sono poi inevitabilmente trasformati in ‘sì’, non fosse altro perché sarebbero stati gli unici ‘no’ espliciti di (pochi) cittadini europei. Ma il salto che la crisi economica di oggi impone ha una portata talmente ampia che le scappatoie del passato non possono più essere usate. Stavolta il consenso diretto ed esplicito dei cittadini è necessario. Tutto ciò accade tuttavia in un momento in cui il sentimento euroscettico ha raggiunto una portata senza precedenti. La tendenza colpisce non solo per la sua dimensione quasi ‘paneuropea’, ma anche perché taglia trasversalmente il panorama politico, dalle formazioni di destra (dalle quali è partita) fino a quelle di sinistra estrema, coinvolgendo partiti di nuova formazione, ma anche tradizionali. Alcuni di quelli in prima linea in questo senso sono il Front National (Francia), il Partito per la libertà (PVV) in Olanda, il Partito della libertà austriaco (FPÖ), il Vlaams Belang fiammingo (Interesse fiammingo), il Partito democratico svedese, la Lega Nord in Italia, Fidesz e Jobbik in Ungheria. Ma istanze fortemente euroscettiche sono presenti anche nello UK Independence party (UKIP), Alternativa per la Germania, il Movimento 5 Stelle, il Partito dei finlandesi e in raggruppamenti più tradizionali (inclusa la componente bavarese dei cristiano-democratici tedeschi della cancelliera Angela Merkel). Inoltre va segnalato che in vista delle prossime elezioni parlamentari europee molte di queste formazioni tendono a estremizzare le posizioni, non solo perché la loro agenda politica fa leva sulle frustrazioni di settori della popolazione più colpiti dalla crisi (la cui responsabilità è genericamente attribuita all’EU), ma anche perché il sistema elettorale proporzionale, che in varie forme viene applicato nei paesi membri, favorisce partiti che altrimenti avrebbero difficoltà a conquistare una rappresentanza a livello nazionale (l’UKIP, per esempio, non ha seggi parlamentari).
Oltre che dai risultati elettorali, l’influenza di questi gruppi sul funzionamento dei processi decisionali di Bruxelles deriverà dalla loro volontà di agire attraverso un gruppo autonomo (potrebbero sorgere frizioni con il gruppo Europa della libertà e della democrazia, che oggi raccoglie formazioni come la Lega Nord, l’UKIP e il Partito dei finlandesi). Molto dipenderà anche dalla leadership dei personaggi politici di maggior spicco di queste formazioni, come Marine Le Pen e Geert Wilders.
In passato lo scarso coordinamento di questi partiti ha rappresentato un loro fondamentale elemento di debolezza. Ciò dipende anche dall’ambiguità ed eterogeneità delle posizioni che, anche all’interno di ciascun partito, variano dalla critica all’Europa così come si configura oggi, con relative proposte di riforma più o meno verosimili, fino alla condanna tout court del progetto d’integrazione.
Se vari sondaggi attribuiscono a questi partiti oltre il 25% dei voti, ciò che colpisce probabilmente in misura ancora maggiore è la crescente componente ‘eurocritica’ dei partiti tradizionali, che rende sempre più difficile la contrapposizione a quelli apertamente euroscettici. Per questo motivo, il processo di integrazione europea non può che ripartire dalla corretta informazione dei cittadini. Questo vuol dire che d’ora in avanti i leader europei dovrebbero comunicare adeguatamente e puntare su iniziative europee che producano effetti concreti sulla vita dei cittadini, a partire dalle questioni del lavoro e delle politiche di welfare. Prima ancora che la resistenza dei cittadini, andrebbe vinta la resistenza dei leader politici ad attribuire a Bruxelles successi che si vorrebbero nazionali.
di Antonio Villafranca